Chiedi alla polvere, John Fante

>> martedì 29 dicembre 2009

Le storie d’amore più sofferte sono quelle in cui si incontrano persone enormemente diverse. Lui, scrittore squattrinato ma di gran potenziale successo, non riesce a capire come lei resti insensibile alle sue qualità e continui ad essere innamorata di un individuo mediocre che peraltro la rifiuta. La sofferenza per la meta irraggiungibile è la fonte di ispirazione per il meritato riscatto. Un amore per quanto sia grande non può bastare per due. E se tra due persone la scintilla non scatta subito bilaterale non scatta più, nonostante tutto l’impegno che una delle due possa metterci. E’ una legge universale e irreversibile: nel libro è ben evidente e la grande qualità dell’autore è quella di unire dolore, ironia e poesia nella descrizione di personaggi e situazioni.

Non rividi Camilla per una settimana. Nel frattempo ricevetti una lettera di Sammy che mi ringraziava delle correzioni. Sammy, il suo vero amore. Mi diede anche qualche consiglio su come trattare la piccola spick. Non era una cattiva ragazza, anzi quando si spegneva la luce era proprio bravina, ma sa qual è il suo guaio, signor Bandini? Il suo guaio è che lei non sa come prenderla. Lei è troppo gentile con quella ragazza. Lei non capisce le donne messicane. Non sono abituate a essere trattate come esseri umani. Se si è troppo gentili con loro, se ne approfittano.
(…)
Lei era come le notti calme e come gli alberi di eucalipto, le stelle del deserto, la terra e il cielo, e come la nebbia fuori, mentre io ero venuto lì con l’unico scopo di diventare uno scrittore, di arricchirmi, di farmi un nome e altre scemenze del genere. Lei era tanto più in gamba di me, tanto più onesta, che provai ribrezzo di me stesso e non riuscii a sostenere il suo sguardo.

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Fideg, Paolo Colagrande

>> sabato 26 dicembre 2009

Più che un romanzo è un collage di divagazioni che dovrebbero essere ironiche e umoristiche sulla letteratura e gli scrittori. L’obiettivo non mi sembra raggiunto: si ride poco e ci si annoia parecchio. Ogni tanto, comunque, c’è qualche idea interessante.

A proposito, il pirellone e le cotolette mi mettono il pessimismo, anche la scala e l’happy hour, per non parlare dei lunghi navigli e dell’amaro milano da bere, o della fabbrica del duomo che nella più recente rappresentazione onirica è una fabbrica di souvenir di plastica vinilica a forma di duomo di milano con su una madunina sempre di plastica vinilica però colorata d’oro che le dai due giri e suona il carillon, due maroni, dico io ad alta voce agli esponenti del partito dell’umorismo estetico, voi e la milano da bere e la fabbrica del duomo e gli stabilimenti industriali nei paesi tutti all’imperativo, carugate, bollate lambrate usmate cogliate segrate solbiate liscate cesate garbagnate novate vimercate limbiate carnate segagliate gavirate, almeno ci fosse anche riposate e piollate ma figurai se c’è.

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La ragazza dai capelli strani, David Foster Wallace

>> domenica 15 novembre 2009


E’ una raccolta di dieci racconti brevi con situazioni, dialoghi, considerazioni, personaggi fortemente eterogenei tra loro. Sono interessanti il racconto che dà il nome alla raccolta, per il linguaggio usato dal protagonista (parole e sintassi sono molto efficaci nel descrivere un mondo di sottocultura e bassezze morali) e “Piccoli animali senza espressione” per la critica al mezzo televisivo che trasuda come l’umidità da un muro pieno di muffa. In tanti altri casi però la scrittura rimane in superficie, non approfondisce e si ferma lasciando al lettore immaginare il resto. Forse è anche per il limite del racconto breve. La cosa che ho apprezzato più di tutto del libro è l’intervista finale all’autore che mi ha fatto nascere la curiosità di approfondire la sua opera.

Se uno scrittore si rassegna all’idea che il pubblico sia troppo stupido, ad aspettarlo ci sono due trappole. Una è la trappola dell’avanguardismo: si fa l’idea che sta scrivendo per altri scrittori, perciò non si preoccupa di rendersi accessibile o affrontare questioni di ampia rilevanza. Si preoccupa di far sì che ciò che scrive sia strutturalmente e tecnicamente all’avanguardia: involuto nei punti giusti, ricco di appropriati riferimenti intertestuali… L’opera deve sprizzare intelligenza. Ma all’autore non importa nulla se sta comunicando o meno con un lettore a cui freghi qualcosa di quella stretta allo stomaco che è poi il motivo principale per cui leggiamo. Sul fronte opposto ci sono opere volgari, ciniche, commerciali, realizzate secondo formule prestabilite - essenzialmente il corrispondente letterario della tv – che manipolano il lettore, che presentano materiale grottescamente semplificato con uno stile avvincente perché infantile. La cosa strana è che questi due fronti sono in lotta fra loro ma hanno un origine comune, che è il disprezzo per il lettore: l’idea che l’attuale emarginazione della letteratura sia colpa del lettore. Il progetto che vale la pena di portare avanti è invece quello di scrivere qualcosa che abbia in parte la ricchezza, la complessità, la difficoltà emotiva e intellettuale dell’avanguardia, qualcosa che spinga il lettore ad affrontare la realtà invece che ignorarla, ma che nel fare questo provochi anche piacere nella lettura. (…)
Se i lettori credono semplicemente che il mondo sia stupido, superficiale e cattivo, allora uno come Bret Easton Ellis può scrivere un romanzo cattivo, stupido e superficiale che diventa un ironico e tagliente ritratto della bruttura del mondo che ci circonda. Siamo d’accordo un po’ tutti che questi sono tempi bui, e stupidi, ma abbiamo davvero bisogno di opere letterarie che non facciano altro che mettere in scena che sia tutto buio e stupido? Nei tempi bui, quello che definisce una buona opera d’arte, mi sembra che sia la capacità di individuare e fare la respirazione bocca a bocca a quegli elementi di umanità e di magia che ancora sopravvivono ed emettono luce nonostante l’oscurità dei tempi. La buona letteratura può avere una visione del mondo cupa quanto vogliamo, ma troverà sempre un modo sia per raffigurare il mondo sia per mettere in luce la possibilità di abitarlo in maniera viva e umana.

Commeto del gruppo lettori
Dell’autore sono stati letti libri differenti e il lettori hanno espresso giudizi diversi e talvolta contrastanti. È stata apprezzata la sua capacità di analizzare e sviscerare i sentimenti con descrizioni minute in cui l’attimo si suddivide in mille frammenti. Tale modalità di narrare permette di cogliere tutte le sfumature della realtà che viene osservata da prospettive inusuali e con uno sguardo ironico e dissacrante Il linguaggio, non facile ma estremamente efficace e preciso, riesce a narrare, al limite dell’assurdo, situazioni realistiche e quotidiane della società americana con effetti che colpiscono nel profondo il lettore. È scrittura pura che per alcuni è risultata disturbante iperrealista, schizofrenica; il mondo rappresentato è decadente, senza speranza e senza prospettive, anche se l’autore attribuisce alla letteratura il compito di scuotere le menti per liberarle dalle ovvietà e dai soliti luoghi comuni con cui si è abituati a percepire la realtà e a giudicarla.
È un autore le cui parole troppo velenose ti massacrano il cervello, ma intrigante ad un punto tale da non riuscire a staccartene, forse è per questo che è diventato un autore cult per tanti giovani scrittori.

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Accabadora, Michela Murgia

>> mercoledì 11 novembre 2009


Libro molto poetico con una scrittura essenziale che coinvolge ed emoziona. E’ costruito su un messaggio fondamentale: la vita è così imprevedibile che ti può portare ad azioni che mai ti saresti sognato di fare.

Tu dalle guerre devi tornare, figlia mia. Non l’aveva mai chiamata così, e non lo fece mai più in quel modo. Ma a Maria quel piacere denso, così simile a un dolore in bocca, rimase impresso per molto tempo.

Niente a Soreni era sbeffeggiato e tenuto ai margini quanto uno stupido, perché se l’astuzia, la forza e l’intelligenza si potevano vincere ad armi pari, la stupidità non aveva peggior nemico di sé stessa, e la sua fondamentale imprevedibilità la rendeva pericolosa negli amici più ancora che nei nemici.

“Non dire mai: di quest’acqua io non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata".

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Canti del Caos, Antonio Moresco

>> giovedì 5 novembre 2009

Ci sono libri che dividono i lettori in due partiti ben distinti (i detrattori e gli entusiastici) che si contrappongono accanitamente. Mi è capitato di scegliere di leggere un libro (Caos Calmo) proprio spinto dalla curiosità di capire chi delle due fazioni numericamente equivalenti, avesse ragione. In quell’occasione sono stato fortunato perché il romanzo di Veronesi è a mio avviso uno dei più bei libri che siano stati scritti negli ultimi anni. Con lo stesso approccio mi sono avvicinato all’opera di Moresco ma in questo caso l’esito è stato diverso. E’ un romanzo che definirei “felliniano” se con questo aggettivo si può indicare qualcosa di onirico, sovrabbondante, eccessivo, spiazzante, iperbolico. Ma tutto sommato inconcludente, un puro esercizio di stile e alla fine noioso e inutile. In più di mille pagine si fa fatica a trovare qualcosa che meriti di essere trascritto.

“Il mio tempo è finito. E’ cominciato il mio” penso penserò un istante prima che penserà, nella luce nera che sarà, nel mio cervello seminale increato che sarà, un istante prima che sarà, che sorriderà, che sorriderà, che sorriderà, che nell’increato sorriderà.

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La rabbia giovane, Ross Raisin

>> domenica 13 settembre 2009


Il protagonista adolescente dovrebbe essere un bullo di paese ma sembra un agnellino al pari di quelli che aiuta a crescere nel gregge di cui si occupa. La descrizione sia dei personaggi che delle vicende è molto esile e dopo aver letto “La neve era sporca” di Simenon questo libro mi sembra dia una versione estremamente superficiale di un’adolescenza inquieta, scontrosa e deviata.

Entrai nel magazzino, dove avevamo appeso il vello degli agnelli morti – quattro, per il momento, che non era una perdita grave come in certi anni. Presi il più grande – 14, scritto sopra con l’inchiostro rosso – e trovai un paio di forbici. Quando tornai, lei era ancora seduta sulla balla, e l’agnello si era in qualche modo acquietato sul suo grembo. Mi sedetti ad una certa distanza da lei, perché temevo che trovasse ripugnante ricavare con le forbici dei buchi per le zampe nel vello dell’agnello morto, ma era così persa nei suoi pensieri che si accorse di quello che stavo facendo solo dopo qualche minuto.
Dovrà indossare questo, dissi, alzando la pelle. E’ il cappottino. Serve a far allattare gli orfani dalle pecore che hanno perso il loro agnello.
Non ne rimase molto colpita. E’ meglio, dissi. Sono bestie un po’ sceme, sai – l’odore farà credere alla pecora che sia il suo. E se qualcuno non lo adottasse, l’agnello morirebbe.

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Scandaloso omicidio a Istambul, Mehmet Somer

>> martedì 25 agosto 2009


Giallo ambientato in un giro di travestiti della città turca, in cui il protagonista diventa suo malgrado un investigatore che indaga sull’omicidio di un suo amico. E’ narrato con umorismo e ironia, peccato che la trama risulti molto esile e modi e costumi di Istambul rimangano molto sullo sfondo.

Se le avessi detto di parlare, non avrebbe parlato così tanto. Non appena ci accomodammo sulle poltrone coperte da copridivani stampati, divenne il portavoce del nostro trio. Gonul compose frasi scollegate su quanto fosse caldo, sul rischio di un nuovo terremoto a Istambul e, nel caso, su dove fosse l’epicentro e quale l’intensità, su come si giudicasse la qualità di un cocomero, su quale giocatore si sarebbe trasferito a quale squadra l’anno seguente, su come aggiungere un pizzico di cannella e uno di chiodi di garofano al caffè macinato in casa per garantirgli un aroma davvero speciale. Ascoltavo senza riuscire a dimenticare il cadavere al piano superiore.

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Il decano, Lars Gustafsson


Romanzo costruito sul rapporto tra un oscuro decano di un’università statunitense e un suo assistente professore, che narra le vicende ex post, attraverso un manoscritto ritrovato danneggiato in alcune sue parti. Thriller non molto consistente, è interessante per alcune descrizioni e considerazioni filosofiche.

Il nulla aveva in sé qualcosa di spaventoso, qualcosa che turbava e inquietava i miei giovani sensi. Discutevamo alcune delle difficoltà che gli antichi romani e altri popoli avevano avuto perché non avevano mai imparato ad usare lo zero, con l’insieme vuoto. E Ingram mi spiegava quale straordinario passo avanti nella comprensione delle relazioni matematiche si compì quando gli arabi alla fine arrivarono con il loro sifr, lo zero. Un segno che nell’arabo non aveva ancora l’aspetto di zero ma somigliava piuttosto a un uno, ma che a ben vedere era l’unica cosa non banale di tutta la matematica. Cosa c’era infatti di più banale di tutti quegli assiomi che trattavano solo di serie di numeri e di addizione e sottrazione e che, fatti i primi passi, sembravano creare un mondo intero?
Che si potesse ottenere così tanto con mezzi così esigui, quasi banali! Quanto più complicati della matematica non erano in realtà la poesia, la pittura, l’amore e l’odio: il ricco mondo dei sentimenti umani!
Tuttavia, continuava Ingram senza aspettare di sentire se lo seguivo (forse in effetti non era tanto a me che parlava), tuttavia non si dovrebbe dimenticare che anche la matematica ha una sua sfera di libertà, che anch’essa è creata, più che data.
Come sappiamo, per esempio che uno per uno fa uno? Dimmi, ragazzo, come facciamo a dimostrarlo?
Non lo so, rispondevo. Nella mia ingenuità. Dovrà pur esserci una prova?
Non lo possiamo dimostrare. Allora è un assioma? Esatto! E’ un assioma e come tale del tutto arbitrario. Che cosa credi che succeda se lo modifichiamo e invece ne introduciamo un altro: che uno per uno fa due? (…) tale assioma in realtà modificherebbe soltanto una cosa nel sistema numerico, ma di importanza fondamentale: la cosiddetta individuazione dei fattori primi di un numero. Questo fatto straordinario che un numero si poteva scomporre in un modo e uno soltanto nei suoi fattori primi, cosa che conferiva ai numeri una sorta di unicità, o di individualità si potrebbe addirittura dire, che li distingueva uno dall’altro in modo non permutabile. Ora andrebbe perduta, e i numeri annegherebbero per così dire nelle proprie ombre in una sorta di anonimo mormorio.

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Isola con fantasmi, John Banville

>> sabato 15 agosto 2009


E’ un romanzo di atmosfere, in cui non vi è azione o una trama ben definita. E’ costruito sul monologo di una voce narrante che rimane in incognito fino alla fine. Interessanti alcune considerazioni, tra cui in particolare quella sulla difficoltà di raffigurare la vera natura delle persone, solitamente celata dietro le “maschere” che indossano. In definitiva, però, il libro non mi ha entusiasmato.

Alcuni soggetti, mi spiegò, semplicemente non assomigliano a se stessi; timidezza, imbarazzo, insicurezza, qualcosa li spinge a indossare una maschera e a nascondersi dietro; assomigliano alle loro madri, ai loro fratelli, a perfetti estranei, addirittura, ma non a se stessi. Con queste persone il pittore deve navigare a vista, in attesa del momento opportuno in cui si rilassano e si dimenticano di sé abbastanza a lungo da essere se stesse. Il sindaco era uno di quelli. Se ne stava lì come una bertuccia impagliata, inespressivo, scialbo, ripiegato all’interno. Finchè una mattina il mio amico arrivò e lo trovò trasformato; non era più animato delle altre volte, ma di colpo alla fine la sua faccia si era aperta, la maschera era caduta, il suo carattere – violento, rapace, pavido, melanconico – leggibile in ogni ruga e neo e pelo mal rasato. Bene, il ritratto fu terminato in un ora – ed era maledettamente buono, oltretutto, stando al mio amico – però il sindaco stava sempre seduto lì, con lo sguardo fisso avanti in un’espressione pensierosa e vagamente perplessa. Voi sapete naturalmente cosa era successo, l’avete capito subito, vero? Il vecchio era morto, se n’era andato quietamente d’infarto qualche minuto prima che il pittore arrivasse.

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Mia sorella è una foca monaca, Christian Frascella

>> mercoledì 12 agosto 2009


Il libro scorre via molto facilmente merito di una storia semplice e di dialoghi molto ben fatti, disseminato di battute divertenti ma anche di spunti di riflessione. E’ il passaggio dall’adolescenza all’età adulta di uno sbruffone intelligente che cresce commettendo gli errori e subendone fino in fondo le conseguenze. Superficiale la descrizione dei personaggi (più che altro bersaglio di battute dell’io narrante del protagonista). Non si capisce come mai Lei si innamora di Lui. Molto interessante, e quasi un documento sociologico, la descrizione dell’ambiente, delle relazioni e del lavoro in fabbrica.

“A proposito del bacio… Volevo dirti che mi dispiace se t’ha dato tanto fastidio. E che mi piaci. Mi piaci molto, okay? Parecchio” Tentai di assumere un’aria più serena, mentre il cuore mi rombava nelle orecchie. “E non ho resistito”.
Sono certo di averla vista arrossire per un attimo. Ma poi parlò con lo stesso tono di prima. “Anche tu un po’ mi piaci. Non so come mai, però è così”. Stavo per saltarle addosso quando lei aggiunse: “ma sei solo un ragazzino. Un immaturo. E patetico, anche. Come se il mondo ti dovesse qualcosa. Come se tutti ti dovessero qualcosa”. Scosse il capo. “E non sei ancora pronto per capire che non è così”.
Mi sentii morire. Il sangue ghiacciato nel forno di luglio. Ora non ero più nessun attore in nessunissimo film. Proprio non mi veniva. Ero solo me stesso e non era poi così bello, essere solo se stessi in quel momento.
“Cerca di non combinare più tanti casini”, disse, cercando e trovando la mia mano. “E stammi bene”.
Ci fu quella stretta, che non concludeva niente perché niente era mai iniziato, e che nulla anticipava, perché tutto era già finito.
Pensai di dire “posso cambiare”, oppure “dammi tempo”, ma quelle erano frasi da ex, così non dissi niente. Lei spense la sigaretta, fece un ultimo cenno di saluto e rientrò.
Io me ne andai come le altre volte, con la sola differenza che, a un certo punto, mi fermai appoggiando la testa e un braccio al muro, e rimasi così per un po’, pensieroso, a guardare l’asfalto sotto il sole, fino a che consumai tutti i pensieri possibili, e me ne tornai a casa.

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I figli della mezzanotte, Salman Rushdie

>> domenica 9 agosto 2009



Nel libro l’autore intreccia la storia del protagonista (uno dei mille nati alla mezzanotte della proclamazione dell’indipendenza dell’India nel 1947) con le vicende politiche di India e Pakistan che risulterebbero essere influenzate proprio dai poteri particolari di cui è dotato (la capacità di leggere nelle menti umane). I piani narrativi, il presente e il passato, l’io narrante e la terza persona si intrecciano in un insieme che necessita una lettura attenta. Eccessivamente verboso e prolisso, è interessante per alcune descrizioni (quella del sogno sulla morte incute veramente paura) e considerazioni sulla vita.

La realtà è un fatto di prospettive; quanto più te ne allontani, tanto più il passato ti pare concreto e plausibile – ma come ti avvicini al presente, esso ti sembra inevitabilmente sempre più incredibile. Immaginate di trovarvi in un grande cinema, seduti all’inizio in una delle ultime file, e poi di venire avanti a poco a poco, una fila dopo l’altra, fino quasi a premere il naso contro lo schermo. A poco a poco i volti dei divi si dissolvono in una grana danzante; i più piccoli particolari assumono proporzioni grottesche; l’illusione svanisce – o meglio, risulta evidente che è proprio l’illusione la realtà.

La verità della memoria, perché la memoria ha una sua verità particolare. Seleziona, elimina, modifica, esagera, minimizza, glorifica e anche diffama; ma alla fine crea una propria realtà, una propria versione eterogenea ma di solito coerente, degli eventi e nessun essere umano sano di mente si fida mai della versione di qualcun altro più che della propria.

Nessun colore tranne il verde e il nero i muri sono verdi il cielo è nero (non c’è tetto) le stelle sono verdi la Vedova è verde ma i sui capelli sono neri come il nero. La Vedova siede su un’altissima sedia, la sedia è verde il fondo è nero i capelli della Vedova hanno la scriminatura in mezzo è verde sulla sinistra e nera sulla destra. Alta come il cielo la sedia è verde il fondo è nero il braccio della Vedova è lungo come la morte la sua pelle è verde le sue unghie sono lunghe e aguzze e nere. Tra i muri i bambini verdi i muri sono verdi il braccio della Vedova cala serpeggiando il serpente è verde i bambini strillano le unghie sono nere graffiano il braccio della Vedova è alla loro caccia i bambini scappano e strillano la mano della vedova si arriccia intorno a loro verde e nera. Ora ad uno ad uno gli mmff dei bambini vengono soffocati la mano della vedova sta sollevando uno ad uno i bambini verdi il loro sangue è nero liberato da unghie taglienti schizza nero sui muri (verdi) mentre ad uno ad uno la mano arricciata solleva i bambini in alto sino al cielo il cielo è nero non ci sono stelle la Vedova ride la sua lingua è verde ma vedete i suoi denti sono neri. E i bambini strapazzati a metà nelle mani della Vedova che arrotolando arrotolando mezzi bambini li arrotola in tanti palline le palline sono verdi la notte è nera. E le palline volano nella notte tra i muri i bambini strillano mentre ad uno ad uno la mano della Vedova.

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Il fabbricante di eco, Richard Powers

>> lunedì 27 luglio 2009


La storia del fratello che in seguito ad un incidente d’auto riconosce tutti fuorché la sorella è sufficientemente inquietante e originale. L’autore è bravo a descrivere personaggi e situazioni attorno ad un disturbo psichico che porta il protagonista ad immaginare un enorme complotto ai suoi danni in cui la sostituzione della sorella con una persona che l’assomiglia ne è la prova fondamentale. Tirando le somme però, il libro non mi ha entusiasmato. Ho avuto l’impressione che l’attenzione quasi maniacale che lo scrittore ha posto nel descrivere il profilo psicologico dei personaggi, le loro reazioni e i retroscena dei comportamenti, abbia fatto perdere ai personaggi stessi l’anima. Le storie che si intrecciano risultano poco coinvolgenti ed emozionanti. Fa eccezione la vicenda del neuroscienziato ultracinquantenne Weber che, chiamato a supporto per la soluzione del caso e l’individuazione della cura, finirà per mettere in discussione la sua consolidata vita affettiva.

Il tempo non ti invecchia; i ricordi si.
Si, il rallentamento del fisico, il graduale esaurimento dei neurotrasmettitori del piacere li aveva raffreddati. Ma anche qualcos’altro: si finisce per assomigliare a ciò che si ama. Dopo tutti quegli anni lui e la moglie si somigliavano tanto da annullare l’estraneità che stimola il desiderio. (…)
“Di norma ho un atteggiamento conservatore quando si tratta di sostanze così forti. Ogni lancio dei dadi neurochimici è un azzardo. Non ho nemmeno un debole per gli inibitori del riassorbimento della serotonina, se non come ultima spiaggia.
“Ah, si?. Si vede che non soffri di depressione”. Weber non era più tanto sicuro. “La metà delle persone che reagisce al trattamento reagisce anche al placebo. Stando a certi studi, un quarto d’ora di ginnastica e venti minuti di lettura al giorno hanno lo stesso effetto sulla depressione della maggior parte dei farmaci più diffusi”. (…)
La sera stessa del rientro aveva raccontato a Silvie perché si fosse precipitato a casa. Dire tutto: il loro contratto matrimoniale fin dall’inizio e, per salvare quanto c’era di reale con quella donna realissima, Weber non poteva certo nascondersi ora. Aveva sempre creduto nell’”albero avvelenato” di Blake: seppellisci una fantasia se vuoi coltivarla. Uccidila esponendola all’area aperta.
L’aria fredda di Long Island non uccise la sua fantasia. Semmai raccontare la sua orribile scoperta alla moglie la sera del rientro a casa uccise qualcos’altro. (…)
Weber capì la verità: desiderava Barbara Gillespie. Ma perché? L’atteggiamento assunto da quella donna non aveva senso. Nella sua vita era andato storto qualcosa, come in quella di Weber. Lei viveva già nel vuoto a cui lui stava accedendo.

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Baciami ancora forestiero, Pedro Lemebel

>> domenica 12 luglio 2009


E’ una raccolta di impressioni, immagini, evocazioni di eventi autobiografici. Merita per alcuni passaggi in cui il linguaggio sembra uno slalom tra parole che in maniera inaspettata e stupefacente trovano il loro posto perfetto una dietro l’altra. E a tratti la prosa si trasformano in poesia.

Come se fosse in potere di una certa lama suddividere in una geometria di solchi i profili innevati delle Ande. Una sorta di autopsia della cordigliera, la spartizione dell’innocente nave spaccio carica di nevodollari, spedita dal narcotraffico presso la nostra costa. Il nostro mare che placido si lascia penetrare dal rigor mortis della dea bianca. La cocaina è una dama di ghiaccio con guanti di seta e cucchiano d’argento, fedele accompagnatrice dei caporioni internazionali che a Santiago non trovano la suite con eliporto, jacuzzi, palme di giada, pavimenti di madreperla e un brunetto d’ebano (con brufoli) per divorargli il pisello.
Cose così, eccentricità e fantasie di leopardo, richiamano l’attenzione in questo Paese abituato alla sciatteria stropicciata dei vestiti americani e al Taiwan fosforescente dei mercati delle pulci. Tutt’al più, un’orchidea sintetica sulla falda del ragazzo under, che scivolò sul raso bianco delle sue notti trafficanti a piazza Italia. (…)
La dea non ha etica, il suo itinerario è demarcato dall’andirivieni del potere. Una banconota in dollari la può trasportare sotto la spallina di un’uniforme militare, come nel fazzoletto che adorna il vestito di un parlamentare, che si spara la sua sniffata in un angolo del Congresso, per reggere i faticosi dibattiti delle leggi antidroga. La dea non ha neppure un cuore, il suo bacio è uno sfregamento nasalesu labbra di marmo. Giusto l’impulso di un secondo in cui la polvere ti dà l’amaro in bocca e tutto ricomincia, addio alla stanchezza della veglia. Come se un corpo di scorta ti sostituisse nell’elettricità dello sballo. (…)
Domani è sempre un altro giorno, un grande abisso di nessuno stimolo. Una nausea pallida che corona il crollo del tirar mattina. Perché la cartina umettata e perfetta non regge più l’identità fittizia che brillava ieri notte sulla striscia di gesso divisa tra amici. Non c’è spinello che tenga per superare il disgusto di vivere dipendenti da una felicità in grammi, una felicità sgocciolata dalla pioggia dell’arcobaleno traditore. Fuori, la città alimenta la depressione con la sua aria di piombo. La città si innalza in torri d’alluminio e alberghi stellati per la fantasia del passante, che osserva a bocca aperta il cielo frantumato negli specchi delle camere vuote. (…)
Alla fine, la visita della dama bianca lascia sempre un eccesso di disgrazia, soprattutto in questa democrazia, che è una tortilla del piacere neoliberale cucinata sulle braci minoritarie. Insomma, nevica solo nei quartieri alti e i fiocchi sporadici che cadono in periferia massacrano gli uccellini.

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La voce della notte, Rafik Schami

>> domenica 28 giugno 2009


Libro deludente e noioso. Le storie riportate sono esili, fine a se stesse e con morale a tratti inesistente; i personaggi sono poco caratterizzati. Il libro non sarebbe utile neanche se letto ai bambini. Sono rari i momenti che riescono a distogliere dalla monotonia della narrazione.

C’era una volta un contadino che si chiamava Hammad. Un giorno l’uomo più in vista del villaggio annunciò il matrimonio della figlia e decise di organizzare grandi festeggiamenti che dovevano durare sette giorni e sette notti. Tutto il villaggio e anche i contadini dei dintorni sarebbero stati suoi ospiti e la festa si annunciava meravigliosa. La prima sera furono serviti carne di agnello, riso, fagioli e insalata di cavolo a volontà. Gli ospiti, naturalmente, fecero grande onore alla tavola. Soprattutto Hammad che era povero in canna: non ci crederete ma in meno di due ore aveva spolverato un vassoio di riso, un pezzo di arrosto gigante e tanta insalata. A notte fonda Hammad cominciò a sentirsi male. Aveva la pancia piena d’aria e pensò che la cosa migliore era andare fuori a scoreggiare all’aperto, per liberarsi. Ma mentre si alzava da tavola gli scappò una scoreggia, proprio nel momento in cui il poeta del villaggio stava decantando la bellezza della sposa: “Il tuo respiro è dolce e profumato come il fiore di gelsomino” dicevano i suoi versi. Gli ospiti scoppiarono in una grande risata e il padrone di casa, vale a dire il padre della sposa, fulminò il povero Hammad con lo sguardo.

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Chesil Beach, Ian McEwan

>> domenica 21 giugno 2009


I sentimenti dei due giovani coniugi alla loro prima notte di nozze sono descritti con una profondità unica. E soprattutto è analizzato molto bene il conflitto che deciderà del loro futuro. Il messaggio è universale. A tutti sarà capitato di amare una persona e affrontare un litigio che può distruggere in breve un legame pazientemente costruito nel tempo. Solo con la maturità e la pazienza che gli anni e l’esperienza portano, si può avere la capacità di mettere da parte il proprio orgoglio, ripercorrere i propri passi, decidere lucidamente se il legame è realmente importante e comportarsi di conseguenza.

La collera di lui sdoganò la sua e all’improvviso Florence credette di aver capito la natura del loro problema: erano troppo educati, repressi, timorosi, si affrontavano sempre in punta di piedi, sottovoce, rimandando, assentendo. Si conoscevano pochissimo, e non avrebbero fatto grandi progressi in tal senso data l’imbottitura di premuroso silenzio con cui smussavano le rispettive identità, bendandosi gli occhi e impantanandosi sempre di più. Avevano avuto il terrore di contraddirsi e adesso la rabbia di Edward la faceva sentire libera. Voleva ferirlo, infliggergli un castigo al solo scopo di manifestare la propria differenza. Quell’impulso, quasi un fremito devastatore, le era talmente sconosciuto da coglierla del tutto priva di difese.
(…)
Ecco come il corso di tutta una vita può dipendere … dal non fare qualcosa. A Chesil Beach Edward avrebbe potuto richiamare Florence, o seguirla. Non sapeva, e nemmeno avrebbe voluto scoprilo, che correndo lontano, sicura, nella sua disperazione, di essere sul punto di perderlo, Florence non si era mai sentita tanto innamorata e sgomenta, e che il suono della sua voce l’avrebbe raggiunta come una salvezza, che si sarebbe senz’altro voltata.

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Cecità, Josè Saramago


Se si può parlare di innovazione nella scrittura questo romanzo ne è un esempio importante. L’uso della punteggiatura è molto particolare: i dialoghi non sono introdotti dai due punti e non ci sono le virgolette a racchiudere le frasi che invece sono separate solo da una virgola, seguita da una parola che inizia con una lettera maiuscola ad indicare il cambio di voce. Sono completamente assenti i punti interrogativi. Il tutto sembra un flusso di coscienza e la lettura, faticosa all’inizio, diventa più agevole man mano che ci si abitua. La trama è angosciante, claustrofobica e unisce al miglior romanzo dell’orrore lo spessore di considerazioni sulle miserie di un’umanità che se, oltre la vista, perde il senso di solidarietà, precipita verso l’abisso.

Il cieco gridò, Tutti calmi e zitti, se qualcuno si azzarda ad alzare la voce, faccio fuoco, chi capita capita, poi non vi lamentate. I ciechi non si mossero. Quello della pistola continuò, E’ detto e non si torna indietro, da oggi in poi saremo noi a gestire il cibo, siete tutti avvisati, e che a nessuno venga in mente di andarlo a cercare fuori, metteremo dei sorveglianti a questo ingresso, subirete le conseguenze di qualsiasi tentativo di contravvenire agli ordini, adesso il cibo si vende, chi vuol mangiare paga (…) Ogni camerata nominerà due responsabili, questi saranno incaricati di raccogliere le cose di valore, tutte, di qualsiasi tipo, soldi, gioielli, anelli, bracciali, orecchini, orologi, quello che avete, e porteranno tutto nella terza camerata del lato sinistro, cioè dove siamo noi, (…)
Trascorsa una settimana, i ciechi malvagi mandarono a dire che volevano donne. Così, semplicemente, Portateci delle donne. Questa inattesa ancorché non del tutto insolita pretesa causò l’indignazione che è facile immaginare, (…) Se non ci portate delle donne, non mangiate. Umiliati, gli emissari ritornarono nella camerata con l’ordine, O ci andate, o non ci danno da mangiare. Le donne sole, quelle che non avevano un compagno, o per lo meno non lo avevano fisso, protestarono immediatamente, non erano disposte a pagare il cibo degli uomini altrui con quello che avevano tra le gambe, una ebbe persino l’audacia di dire, dimenticando il rispetto dovuto al proprio sesso, Io sono padronissima di andarci, ma quanto guadagno è per me, e se mi va ci resto pure a vivere, così mi garantisco letto e piatto.

Molto belle e originali le similitudini usate dall’autore

Più in là, molto lentamente, appoggiandosi sui gomiti, il ladro della macchina sollevò il busto. Non sentiva la gamba, c’era solo il dolore, il resto non gli apparteneva più. L’articolazione del ginocchio si era irrigidita. Rotolò con il corpo dalla parte della gamba sana, che lasciò pendere fuori dal letto, poi, tenendosi la coscia con le mani, tentò di spostare la gamba ferita nello stesso senso. Come un branco di lupi improvvisamente risvegliati, i dolori accorsero da tutte le direzioni per rientrare subito dopo nel lugubre cratere cui si alimentavano.

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Il battello bianco, Tschingis Aitmatov


E’ una fiaba che cela tra le righe un pessimismo assoluto: non c’è scampo e speranza in un contesto di autorità e oppressione. La figura più emblematica è quella del nonno che prima alimenta i sogni del bambino e poi contribuisce a distruggerli. E questo perché non sa opporsi alle imposizioni e vessazioni di cui continuerà ad essere vittima per sempre. L’uccisione dei cervi spezza con crudele realismo l’incantesimo della fiaba.

Il bambino restò pietrificato, invaso dal gelo, quando, ai piedi del muro della rimessa, scorse una testa di cervo con le sue corna. Rotolata nella polvere, la testa recisa era impregnata di nere macchie di sangue. Faceva pensare a uno di quei corpi di cui ci si sbarazza per non ingombrare la strada. Vicino alla testa erano sparse quattro zampe, con i loro zoccoli, recise al ginocchio. (…)
Le corna resistevano. Staccarle non era così semplice. Ormai completamente sbronzo, Orozkul tirava fendenti a sproposito, e questo lo faceva imbestialire. Dal ceppo, la testa rotolò a terra. Orozkul continuò a colpirla. Rimbalzava qua e là, e lui la inseguiva a colpi di scure. A ogni colpo il bambino sussultava, indietreggiando involontariamente, senza tuttavia riuscire a staccarsi da lì. Come in un incubo, era inchiodato a terra da una forza angosciosa e incomprensibile; restava immobile stupito, stupito che l’occhio vitreo e fisso di Madre cerva dalle ramose corna non si riparasse dalla scure, che le sue palpebre non battessero, non si chiudessero dallo spavento. Da un pezzo, ormai, la testa rotolava nel fango e nella polvere, ma l’occhio rimaneva limpido, sembrava ancora contemplare il mondo con lo stupore raggelato e muto nel quale l’aveva sorpreso la morte. Il bambino temeva che Orozkul la colpisse appunto negli occhi. (…)
Il cranio scricchiolava, schegge d’osso volavano da ogni parte. Un breve grido sfuggì dalle labbra del bambino quando la scure andò a colpire un occhio, con un taglio obliquo. Un liquido scuro e vischioso schizzò dall’orbita sfondata. L’occhio era morto, scomparso, svuotato.

Commento del gruppo lettori
Libro molto lirico e commovente che può essere letto come una fiaba, anche se molto triste, con un finale non certo consolatorio. Nei protagonisti, il nonno e il genero, si scontrano due mondi contrapposti: da una parte il mondo della tradizione che ha alle spalle cultura rispetto e poesia, dall’altra quello brutale che si basa su un potere che è predominio e prevaricazione, e che ha cancellato le proprie radici e la propria storia.
Il libro si può leggere anche come una denuncia politica del potere sovietico in una sperduta provincia russa, in cui domina la corruzione e l’omertà, e in cui l’ideologia si è svuotata di ogni significato per lasciare spazio alla pura burocrazia e all’individualismo dei più forti.. Il genero parla con un linguaggio rozzo e il bambino e il nonno un linguaggio mitico poetico L’uccisione dei cervi è l’epilogo del mondo antico: il bambino che ha subito ingiustizie e violenze, non riesce ad accettare l’uccisione degli innocenti che è per lui l’ingiustizia radicale.

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La solitudine dei numeri primi, Paolo Giordano

>> domenica 14 giugno 2009


I personaggi mi sono sembrati poco credibili, soprattutto Mattia con il suo universo di solitudine che dura decenni, senza una crepa, senza una modifica al suo modo di essere e di relazionarsi agli altri, nonostante il mondo attorno a lui cambi e si renda conto che almeno Alice continui a volergli bene. Il libro comunque è scritto bene, ha ritmo e merita per alcune considerazioni che fanno riflettere, come quella seguente sull’amore non corrisposto.

Mattia. Ecco. Ci pensava spesso. Di nuovo. Era come un’altra delle sue malattie, dalla quale non voleva veramente guarire. Ci si può ammalare anche solo di un ricordo e lei era ammalata di quel pomeriggio nella macchina, di fronte al parco, quando con il proprio viso aveva coperto il suo per togliergli da davanti il luogo di quell’orrore.
Poteva sforzarsi, ma di tutti gli anni passati insieme a Fabio non riusciva ad estrarre neppure un’immagine che le schiacciasse il cuore così forte, che avesse la stessa impetuosa violenza nei colori e che lei riuscisse ancora a sentire sulla pelle e alla radice dei capelli e tra le gambe. E’ vero, c’era stata quella volta a cena da Riccardo e sua moglie, in cui aveva riso e bevuto molto e mentre aiutava Alessandra a lavare i piatti, si era tagliata il polpastrello del pollice con un bicchiere, che le era andato in frantumi tra le mani, e lasciandolo cadere aveva detto ahi. Non l’aveva detto forte, l’aveva appena sussurrato, ma Fabio aveva sentito ed era accorso. Le aveva esaminato il pollice sotto la luce, chinandosi se l’era avvicinato alle labbra e aveva succhiato un po’ del sangue, per farlo smettere, come se fosse stato il suo. Con il pollice in bocca l’aveva guardata dal basso, con quegli occhi trasparenti che Alice non sapeva sostenere. Poi aveva chiuso la ferita nella sua mano e aveva baciato Alice sulla bocca. Lei aveva sentito nella sua saliva il sapore del proprio sangue e si era immaginata che fosse circolato in tutto il corpo di suo marito per tornare di nuovo a lei, pulito, come in una dialisi.
C’era stato quella volta e ce n’erano state infinite altre, che Alice non ricordava più, perché l’amore di chi non amiamo si deposita sulla superficie e da lì evapora in fretta.

Commento del gruppo lettori
I lettori hanno espresso pareri contrastanti. Secondo alcuni il romanzo inquadra con molto realismo le situazioni di disagio di tanti giovani d’oggi che hanno perso la capacità di esprimere sentimenti e emozioni. Le loro vicende di solitudine e di dolore trascorrono nel silenzio delle famiglie e della società in cui vivono. È stata giudicata originale la scelta dell’autore di trasformare l’esperienza dei due protagonisti in situazioni matematiche. Per altri il romanzo è stato poco coinvolgente con trovate scontate e situazioni non vere e molto costruite, gratuitamente triste. È assente ogni tentativo di ribellione. La scrittura è stata considerata retorica con un uso eccessivo della similitudine; a volte piatta e banale.

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Il codice dell'anima, James Hillman

>> sabato 13 giugno 2009


Nel Il codice dell'anima. Carattere, vocazione, destino la tesi dell’autore è che ciascuno di noi ha una vocazione interiore, un talento, che lo rende unico e potenzialmente una persona di successo. Questa vocazione è “il qualcosa in più” che spezza il binomio ereditarietà-ambiente come spiegazione dei comportamenti e della storia di ognuno di noi. Se fossimo infatti il solo frutto del patrimonio genetico trasmessoci dai nostri genitori, delle influenze positive o negative delle persone che ci circondano, degli eventi che ci accadono, saremmo delle vittime, senza alcuna voce in capitolo, invischiati in un destino che altri ci hanno scritto addosso. La nostra vocazione, se individuata e opportunamente assecondata, può farci fare il salto di qualità.

Tutti, presto o tardi, abbiamo avuto la sensazione che qualcosa ci chiamasse a percorrere una certa strada. Alcuni di noi questo qualcosa lo ricordano come un momento preciso dell’infanzia, quando un bisogno pressante e improvviso, una fascinazione, un curioso insieme di circostanze, ci ha colpiti con la forza di un’annunciazione.
(…)
Esiste un motivo per cui la mia persona, che è unica e irripetibile, è al mondo, esistono cose alle quali mi devo dedicare al di là del quotidiano e che al quotidiano conferiscono la sua ragion d’essere.
(…)
Dobbiamo prestare particolare attenzione all’infanzia, per cogliere i primi segni della vocazione all’opera, per afferrare le sue intenzioni e non bloccargli la strada. Una vocazione può essere rimandata, elusa, a tratti perduta di vista. Oppure può possederci totalmente. Non importa: alla fine verrà fuori.
(…)
Il mito platonico della discesa dice che l’anima discende in quattro modi: il corpo, i genitori, il luogo, le condizioni esterne. Possiamo prenderli come istruzioni per completare l’immagine che ci siamo portati con noi al nostro arrivo. Il corpo: discendere, cioè crescere, significa ubbidire alla legge di gravità, assecondare la curva discendente che accompagna l’invecchiamento (Josephine Baker incominciò a dire che aveva sessantaquattro anni quando ancora ne aveva dieci in meno; si vestiva con indumenti usati e aveva smesso di nascondere la calvizie). Secondo: accettare di essere un membro della tua famiglia, di far parte del tuo albero genealogico così com’è, con i suoi rami contorti e i suoi rami marci. Terzo: abitare in un luogo che sia adatto alla tua anima e che ti leghi a sé con doveri ed usanze. Infine restituire con gesti che dichiarino il tuo pieno attaccamento a questo mondo, le cose che l’ambiente ti ha dato.
(…)
Il più delle volte l’angelo non chiama a gran voce, si limita a dirigere la lenta e silenziosa rivelazione del carattere.
(…)
Io sono il mestiere che faccio e se faccio un mestiere mediocre, come tagliare bistecche in un supermercato, quello non è avere una vocazione. Il carattere non è quello che faccio, ma il modo come lo faccio.

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Il passato è una terra straniera, Gianrico Carofiglio

>> giovedì 4 giugno 2009


La storia è ben costruita, i personaggi sono credibili, le considerazioni (come quella che allego sulla manipolazione) interessanti, tuttavia come negli altri suoi romanzi c’è qualcosa che manca e che rende impari il confronto con i suoi colleghi di genere più blasonati. Probabilmente manca il ritmo, la capacità di tenere incollato il lettore.

Manipolare le carte, manipolare gli oggetti sono cose che vanno molto al di là del semplice gesto di destrezza. La vera abilità del prestigiatore consiste nella capacità di influenzare le menti. E fare un gioco di prestigio riuscito significa creare una realtà. Una realtà alternativa dove sei tu a stabilire le regole. (…) Se qualcuno dice che la vita non è una continua sequenza di manipolazioni, o è un bugiardo o è un cretino. La vera differenza non è fra manipolare e non manipolare. La differenza è tra manipolare consapevolmente e manipolare inconsapevolmente. Pensa ad un tizio sposato da poco. Una sera torna a casa e dice alla moglie di essere stato invitato ad una rimpatriata di vecchi amici. Le dispiace se lui esce? No, se lui ne ha voglia, dice lei dopo una breve esitazione, con una faccia che esprime il contrario di quello che ha detto a parole. Se non vuoi rimango a casa, replica lui. No, no, vai pure, ripete lei a parole. La sua faccia però dice: è chiaro che non ti importa di me se vuoi uscire da solo. Lui allora è a disagio, perché riceve due messaggi contraddittori, e si innervosisce. Insiste a dire che non è indispensabile e che può rimanere a casa; e lei insite a dire, a parole, che può andare. Alla fine lui, sentendosi in colpa, decide di non uscire. Non potrà accusarla di averlo costretto, perché lei gli ha detto che se voleva, poteva uscire. Non potrà lamentarsi perché è stato lui a decidere di non uscire. E questo lo farà sentire a disagio. Lei lo ha manipolato, ma nessuno dei due lo sa a livello cosciente. (…)
I giochi di prestigio, o il barare alle carte, sono una metafora della realtà quotidiana, dei rapporti tra le persone. (…) Le intenzioni vere sono diverse da quelle dichiarate.

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Né qui né altrove una notte a Bari, Gianrico Carofiglio

>> martedì 2 giugno 2009


Difficilmente riusciamo ad accorgerci di un momento felice mentre lo stiamo vivendo. Ricorriamo spesso ai ricordi (e ai rimpianti). Una rimpatriata di amici che non si vedevano da anni è l’occasione per rivivere momenti passati e ripercorrere con la memoria luoghi che con il tempo hanno cambiato usi e destinazioni. Il libro sarebbe stato nostalgicamente superficiale se un finale inaspettato non ci ricordasse che dietro l’apparenza spesso si nascondono conflitti irrisolti o eventi dolorosi. Per chi è originario di Bari (e magari ha lasciato la città da anni) il valore dell’opera raddoppia perché si rivedono i luoghi e i riti e si fissano i punti dell’identità collettiva: alla focaccia e ai mitili crudi, aggiungerei gli allievi, la zampina, i panzerotti.

La focaccia barese si prepara mescolando farina di grano tenero, sale, lievito e acqua. Ne deriva un impasto liquido che si versa in una teglia rotonda, si condisce con olio, pomodori freschi, olive e poi si cuoce nel forno a legna. Proprio perché l’impasto è liquido, i pezzi di pomodoro e le olive sprofondano nella pasta, creando e riempiendo dei piccoli crateri morbidi che diventano le parti più buone della focaccia. Si mangia calda ma non bollente, avvolta in un pezzo di carta da panificio, uscendo da scuola, al mare, per cena o anche per pranzo (…) la vera focaccia è quella con pomodori, olive, bordi bruciacchiati e basta. Va accompagnata, possibilmente, da una bella bottiglia di birra molto fredda. Se poi uno ha proprio voglia di un’incursione nell’alta cucina, il piacere supremo è la focaccia calda farcita con fette sottilissime di mortadella. La mortadella tagliata sottile, al contatto con la mollica calda e fragrante, sprigiona un profumo che fa impazzire le ghiandole salivari. A differenza di molte cose buone, che sono scarse e spesso costose, la focaccia, a Bari, si trova ovunque ci sia un panificio. Cioè ovunque, e tutti se la possono comprare. La focaccia a Bari è una metafora dell’uguaglianza e uno dei pochi simboli (fra questi, degni di nota anche le cozze crude), in cui i baresi riconoscono la loro identità collettiva.

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L’Alchimista, Paulo Coelho

>> venerdì 29 maggio 2009


E’ un libro che fa riflettere su se stessi, su quali sono i propri valori e sulla strada che si decide (o meno) di seguire nella vita. Fa riflettere su cosa ci hanno trasmesso i nostri genitori. Fa riflettere sulla cultura e sulla competenza che abbiamo raggiunto nella vita e se questa è sufficiente a far felici noi stessi e gli altri attorno a noi. Fa riflettere su ciò che ci manca.

La Madonna, con il Bambino Gesù fra le braccia, aveva deciso di scendere in Terra per visitare un monastero. Orgogliosi, tutti i monaci si misero in una lunga fila, presentandosi ciascuno davanti alla Vergine per renderle omaggio. Uno declamò alcune poesie, un altro le mostrò le miniature che aveva preparato per la Bibbia e un terzo recitò i nomi di tutti i santi. E così via, un monaco dopo l’altro, tutti resero omaggio alla Madonna e al Bambino.
All’ultimo posto della fila ne rimase uno, il monaco più umile del convento, che non aveva mai studiato i sacri testi dell’epoca. I suoi genitori erano persone semplici, che lavoravano in un vecchio circo dei dintorni, e gli avevano insegnato soltanto a far volteggiare le palline in aria.
Quando giunse il suo turno, gli altri monaci volevano concludere l’omaggio perché il povero acrobata non aveva nulla di importante da dire e avrebbe potuto sminuire l’immagine del convento. Ma anche lui, nel profondo del proprio cuore, sentiva un bisogno immenso di offrire qualcosa a Gesù e alla Vergine.
Pieno di vergogna, sentendosi oggetto degli sguardi di riprovazione dei confratelli, tirò fuori dalla tasca alcune arance e cominciò a farle volteggiare: perché era l’unica cosa che egli sapesse fare. Fu solo in quell’istante che Gesù Bambino sorrise e cominciò a battere le mani in braccio alla Madonna. E fu verso quel monaco che la Vergine tese le braccia, lasciandogli tenere un po’ il bambinello.

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Il Deserto dei Tartari, Dino Buzzati

>> lunedì 11 maggio 2009




L'inesorabile passare del tempo che segna il passaggio dalla giovinezza all'età matura sono tra le pagine più belle e commoventi che abbia mai letto. Meritano di essere riportate integralmente.

Proprio quella notte cominciava per lui l'irreparabile fuga del tempo. Fino allora egli era avanzato per la spensierata età della prima giovinezza, una strada che da bambini sembra infinita, dove gli anni scorrono lenti e con passo lieve, così che nessuno nota la loro partenza. Si cammina placidamente, guardandosi con curiosità attorno, non c'è proprio bisogno di affrettarsi, nessuno preme di dietro e nessuno ci aspetta, anche i compagni procedono senza pensieri, fermandosi spesso a scherzare. Dalle case, sulle porte, la gente grande saluta benigna, e fa cenno indicando l'orizzonte con sorrisi di intesa; così il cuore comincia a battere per eroici e teneri desideri, si assapora la vigilia delle cose meravigliose che si attendono più avanti; ancora non si vedono, no, ma è certo, assolutamente certo che un giorno ci arriveremo. Ancora molto? No, basta attraversare quel fiume laggiù in fondo, oltrepassare quelle verdi colline. O non si è per caso già arrivati? Non sono forse questi alberi, questi prati, questa bianca casa quello che cercavamo? Per qualche istante si ha l'impressione di sì e ci si vorrebbe fermare. Poi si sente dire che il meglio è più avanti e si riprende senza affanno la strada. Così si continua il cammino in una attesa fiduciosa e le giornate sono lunghe e tranquille, il sole risplende alto nel cielo e sembra non abbia mai voglia di calare al tramonto. Ma a un certo punto, quasi istintivamente, ci si volta indietro e si vede che un cancello è stato sprangato alle spalle nostre, chiudendo la via del ritorno. Allora si sente che qualche cosa è cambiato, il sole non sembra più immobile ma si sposta rapidamente, ahimè, non si fa tempo a fissarlo che già precipita verso il confine dell'orizzonte, ci si accorge che le nubi non ristagnano più nei golfi azzurri del cielo ma fuggono accavallandosi l'una sull' altra, tanto è il loro affanno; si capisce che il tempo passa e che la strada un giorno dovrà pur finire. Chiudono a un certo punto alle nostre spalle un pesante cancello, lo rinserrano con velocità fulminea e non si fa tempo a tornare. Ma Giovanni Drogo in quel momento dormiva ignaro e sorrideva nel sonno come fanno i bambini. Passeranno dei giorni prima che Drogo capisca ciò che è successo. Sarà allora come un risveglio. Si guarderà attorno incredulo; poi sentirà un trepestio di passi sopraggiungenti alle spalle, vedrà la gente, risvegliatasi prima di lui, che corre affannosa e lo sorpassa per arrivare in anticipo. Sentirà il battito del tempo scandire avidamente la vita. Non più alle finestre si affacceranno ridenti figure, ma volti immobili e indifferenti. E se lui domanderà quanta strada rimane, loro faranno si ancora cenno all'orizzonte, ma senza alcuna bontà e letizia. Intanto i compagni si perderanno di vista, qualcuno rimane indietro sfinito, un altro è fuggito innanzi, oramai non è più che un minuscolo punto all'orizzonte. Dietro quel fiume -dirà la gente -ancora dieci chilometri e sarai arrivato. Invece non è mai finita, le giornate si fanno sempre più brevi, i compagni di viaggio più radi, alle finestre stanno apatiche figure pallide che scuotono il capo.Fino a che Drogo rimarrà completamente solo e all'orizzonte ecco la striscia di uno smisurato mare immobile, colore di piombo. Oramai sarà stanco, le case lungo la via avranno quasi tutte le finestre chiuse e le rare persone visibili gli risponderanno con un gesto sconsolato: il buono era indietro, molto indietro e lui ci è passato davanti senza sapere. Oh, è troppo tardi ormai per ritornare, dietro a lui si amplia il rombo della moltitudine che lo segue, sospinta dalla stessa illusione, ma ancora invisibile sulla bianca strada deserta.Giovanni Drogo adesso dorme nell'interno della terza ridotta. Egli sogna e sorride. Per le ultime volte vengono a lui nella notte le dolci immagini di un mondo completamente felice. Guai se potesse vedere se stesso, come sarà un giorno, là dove la strada finisce, fermo sulla riva del mare di piombo, sotto un cielo grigio e uniforme e intorno nè una casa né un uomo né un albero, neanche un filo d'erba, tutto così da immemorabile tempo.

Commento del Gruppo Lettori
Per alcuni è stata la riscoperta di un libro già letto che è apparso diverso in base all’esperienza e all’età. Sempre valido anche ai nostri giorni il messaggio, in quanto non si riesce a vivere l’oggi, perché sempre orientati verso il futuro. Un libro dunque molto amato, da rileggere, aspettando di avere la vita alle spalle, perché solo a questo punto ci si rende conto che si è trascorso gran parte del proprio tempo nell’attesa di un cambiamento che dovrebbe arrivare dall’esterno. Infatti il protagonista che struttura la propria vita come un insieme di riti quotidiani, di abitudini accolte con piacere, mantiene il proprio equilibrio nella monotonia di questa ritualità. Un adattamento che però nel lettore provoca angoscia per l’assenza di ogni prospettiva. Il senso di solitudine di insensatezza e di vuoto sono espressi con un linguaggio raffinato a tratti arcaico, ma molto efficace nello scavare nell’animo umano, evidenziandone grandezze, limiti e quotidiane cattiverie

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Qualcuno con cui correre, David Grossman

Bella la descrizione della storia d’amore tra i due ragazzi. Delicata e non scontata.
Provava una sensazione nuova, sconcertante, strana. Come se qualcuno si fosse intrufolato nella sua anima e avesse cominciato vertiginosamente ad arredarla, a spostare tavoli pesanti, a buttare fuori armadi vecchi e pieni di muffa, a introdurre mobili leggeri e flessibili, di bambù.

Commento del Gruppo Lettori

I lettori si sono divisi: alcuni hanno considerato Grossman un grande scrittore, molto delicato e profondo nella descrizione dei sentimenti. Solo in apparenza il libro sembra un romanzo per ragazzi, in realtà è molto introspettivo e pur avendo la struttura tipica del romanzo d’avventura per adolescenti, affronta molte situazioni tipiche del mondo dell’adolescenza (rapporto con i genitori, la droga, le scelte trasgressive, ma anche gli ideali, i sogni) con una scrittura molto raffinata e complessa. Molto appassionante è stata la trasformazione del protagonista Assaf che nel corso della vicenda ha preso coscienza di sé e del senso da dare alla sua vita. L’autore fa intravedere, attraverso i cambiamenti dei due protagonisti, la possibilità di un nuovo umanesimo, che costruisca nuovi rapporti basati sull’empatia e sulla sincerità.
Secondo altri la vicenda risulta artificiosa e poco credibile nella narrazione delle situazioni in cui si trovano i due ragazzi e nella presentazione di alcuni personaggi, di cui si fatica ad attribuire un ruolo determinato e coerente (come per esempio il personaggio di suor Teodora). Il romanzo è apparso esagerato nella descrizione dei sentimenti e nella narrazione prolissa ed eccessiva; la lettura è quindi risultata monotona e priva di stimolo.

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Le Correzioni, Jonathan Franzen

Appartengo ai fan del libro perché secondo me è un quadro iperrealista della realtà contemporanea. I personaggi sono descritti così bene che sembrano vivi ed è impossibile non scorgere in atteggiamenti, modi di pensare e comportamenti, qualcosa di molto vicino a noi che ha riguardato noi stessi o amici, parenti, conoscenti. E’ un libro che nel bene e nel male non lascia indifferenti.
Riporto l’”interrogatorio” che la madre Enid effettua alla fidanzata del figlio. L’ambivalenza tra le domande e il relativo sottinteso, fa emergere la caratterizzazione fondamentale di Enid, molto attenta all’aspetto esteriore della vita come se questo fosse sufficiente a determinare la felicità delle persone a lei più care.

- Abiti in città? – disse Enid (non convivi con nostro figlio, vero?) –
- E lavori in città anche tu? (quanto guadagni? Non appartieni ad una famiglia aliena, snob della costa orientale?)
- Sei cresciuta qui? (o vieni da uno stato al di là degli Appalachi, dove la gente è cordiale, pratica e presumibilmente non ebrea?)
- Oh, e la tua famiglia è ancora nell’Ohio (O forse i tuoi genitori hanno compiuto la scelta moderna e moralmente discutibile di divorziare?)
- Hai fratelli o sorelle (Sei una figlia unica viziata o una cattolica con miriadi di fratelli?)
Commento del Gruppo Lettori
La storia risulta interessante, ma la lettura per molti è stata angosciante e in qualche punto addirittura sconvolgente, soprattutto quando viene narrata la situazione dei due genitori anziani e descritta in modo impietoso ironico e a volte grottesco la vecchiaia. I personaggi, presentati in modo molto accurato e profondo, sono molto reali , tanto che la storia, pur ambientata negli Stati Uniti, diventa uno spaccato di vita attuale non solo americana. La società rappresentata, nella codificazione dei comportamenti sociali e nell’ipocrisia istituzionalizzata, è rigida senza fantasia, senza anima, e rivela l’assenza di una vera cultura. Ad alcuni lettori la scrittura è risultata noiosa, eccessivamente prolissa nella narrazione delle vicende che a volte costituivano una storia a sé stante. L’iperrealismo , spesso efficace, è stato giudicato a tratti volgare, arido e impietoso. Delle due generazioni presenti nella storia, sono i figli a fare la figura peggiore, perché, una volta usciti di casa, si lasciano andare ad una vita senza regole e senza valori, dove manca ogni rielaborazione delle proprie esperienze. Questo libro, giudicato molto complesso nella struttura narrativa, si è rivelato come un romanzo di denuncia sociale, per cui alla fine ci si chiede cosa siano e dove siano andate a finire nel paese della democrazia libertà, democrazia e cultura.

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Via Katalin, Magda Szabò

>> lunedì 4 maggio 2009


La molla che ha fatto scattare il tutto (tra cui la creazione di un blog personale) è il libro Via Katalin di Magda Szabò. Ed in particolare le prime due pagine, che meritano l’acquisto del libro per la lucida, dolente, poetica visione della vecchiaia. Le riporto integralmente.

Diventare vecchi è un processo diverso da come lo rappresentano gli scrittori, e somiglia poco anche alle descrizioni della scienza medica. Nessuna opera letteraria, né tanto meno un medico, avevano preparato gli abitanti di Via Katalin al particolare nitore che l’invecchiare avrebbe portato nella buia galleria percorsa quasi inconsapevolmente nei primi decenni delle loro vite, né all’ordine che avrebbe messo tra i loro ricordi e le loro paure, o al modo in cui avrebbe modificato i loro giudizi e la loro scala di valori. Avevano capito di dover mettere in conto alcuni cambiamenti biologici, perché il corpo aveva cominciato un lavoro di demolizione che avrebbe concluso con la stessa precisione e lo stesso impegno con cui si era preparato alla strada da compiere fin dall’istante del loro concepimento; avevano anche accettato il fatto che il loro aspetto sarebbe cambiato, i sensi si sarebbero indeboliti, i gusti ed eventualmente anche le abitudini o i bisogni si sarebbero adeguati alle variazioni del fisico, rendendoli più voraci o più frugali, più timorosi o forse più suscettibili; e sapevano persino che la regolarità di funzioni come il sonno o la digestione, che quando erano giovani sembravano scontate quanto l’esistere stesso, sarebbero diventate problematiche. Nessuno aveva spiegato loro che la fine della giovinezza è terribile non tanto perché sottrae qualcosa, quanto piuttosto perché lo apporta. E quel qualcosa non è saggezza, né serenità, né lucidità, né pace. E’ la consapevolezza che il Tutto si è dissolto. All’improvviso si accorsero che l’invecchiare aveva disgregato quel passato che negli anni dell’infanzia e della giovinezza consideravano così compatto e solido: il Tutto era caduto a pezzi e, anche se non mancava nulla, perché quei frammenti contenevano ogni cosa successa fino a quel giorno, niente era più come prima. Lo spazio era diviso in luoghi, il tempo in momenti, gli eventi in episodi, e gli abitanti di Via Katalin avevano infine capito che nelle loro intere vite soltanto un paio di luoghi, un paio di momenti e alcuni episodi contavano davvero. Il resto era stato un semplice riempitivo nelle loro fragili esistenze, come i trucioli che si versano nelle casse prima di un lungo viaggio per impedire al contenuto di rompersi. Ormai sapevano che la differenza tra i morti e i vivi è solo qualitativa, non conta granchè, e sapevano anche che a ciascuno tocca un solo essere umano da invocare nell’istante della morte.

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Inizio

Leggere libri è un’operazione lenta, impegnativa, solitaria e forse un po’ fuori moda.
Ho iniziato quando avevo 10 anni con l’enciclopedia Conoscere, 22 volumi semplici nel linguaggio e magnificamente illustrati. La usavo per le ricerche scolastiche ma anche per il solo piacere di sfogliarla. Un’estate, poco prima che lo zio che ce l’aveva prestata se la riprendesse per utilizzarla con i figli, l’ho letta tutta, dalla prima all’ultima pagina. E’ stato il libro più lungo che abbia mai letto.
Da allora ne sono seguiti tanti altri, di tutti i generi e degli autori più disparati. Tutti accomunati dal piacere fisico che mi suscitavano per le vite che riuscivo a conoscere, per le situazioni e le emozioni che sperimentavo, per le conoscenze che acquisivo. Per i successivi dieci anni sono stato un lettore assiduo. Con l’inizio dell’Università e il successivo lavoro, la lettura è diventata sempre più funzionale e i libri si sono via via diradati e, ahimè, azzerati.
Nel 2007 la svolta. Spinto dalla ricerca di quel piacere perduto ho ripreso a leggere e a tenere traccia dei libri che leggevo, conservando le parti (testi, frasi, pagine) che mi lasciavano qualcosa. Qualche mese fa ho iniziato a partecipare al gruppo lettori che ruota attorno alla biblioteca comunale ed è stata un’esperienza nuova e interessante perché la discussione sul libro del mese completa la fruizione di un’opera arricchendola di punti di vista diversi, di interpretazioni inaspettate, di dettagli trascurati. E poi il confronto con gli altri fa scaturire nuove proposte di lettura nella maniera a me più congeniale. Leggere è impegnativo e il tempo è limitato. Proprio per questo risulta essenziale che la scelta sia oculata. Nella scelta di un libro non mi interessa la trama che anzi cerco di evitare di leggere per non farmi influenzare e per non perdere il piacere di scoprirla parola per parola. Mi interessa il consiglio dell’altro, il sapere che quel libro gli è piaciuto, gli ha procurato delle emozioni e quali. Le emozioni, più delle note di copertina, possono avvicinare ad un testo sconosciuto e se l’autore è bravo, la trama diventa solo un pretesto.
L’attuale stadio della mia evoluzione di lettore è quello in cui desidero condividere i testi che leggo presentandoli come causa di un cambiamento (il mio) in termini di nuovi punti di vista, originali sintesi del significato della vita, prospettive inaspettate.
L’obiettivo è duplice: allargare la base di discussione e confronto, tenere memoria dei passaggi di testo in cui l’autore infonde l’anima del suo messaggio.

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Lettura di Sciascia in biblioteca

5 Marzo ore 20,30, Biblioteca Castiglione delle Stiviere

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