tag:blogger.com,1999:blog-34374984110392015842024-02-19T03:06:32.607+01:00Leggere con piacereCondividere il piacere della lettura, tenere memoria dei passaggi di testo in cui l’autore dà il meglio di sè o crea innovazioneAntonio De Bellishttp://www.blogger.com/profile/08589288385447295429noreply@blogger.comBlogger128125tag:blogger.com,1999:blog-3437498411039201584.post-30268252468679748852016-01-05T22:35:00.000+01:002019-06-09T16:03:05.504+02:00La ragazza del treno - Paula Hawkins<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEimZ2IdOOsHFQQq3tNc2AQKsxRzp5NNb39ydz4deE5tMezogNq8jcz8G-_mDqq1vFxijA3YJLWgDORPqumkXk4GVRVbr_HPYBBSV1U2pwI0aGZhOkf3rATLUoZd_50hgjL3cgoyCAydErg/s1600/La+ragazza+del+treno.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEimZ2IdOOsHFQQq3tNc2AQKsxRzp5NNb39ydz4deE5tMezogNq8jcz8G-_mDqq1vFxijA3YJLWgDORPqumkXk4GVRVbr_HPYBBSV1U2pwI0aGZhOkf3rATLUoZd_50hgjL3cgoyCAydErg/s200/La+ragazza+del+treno.jpg" width="130" /></a></div>
<div class="main2">
<h2 class="calibre13" id="calibre_pb_1">
</h2>
<h2 class="calibre13" id="calibre_pb_1">
</h2>
<div class="calibre11">
<b>Thriller originale per come è costruito perchè raccontato dai punti di vista delle 3 protagoniste. Le loro narrazioni si intrecciano e si integrano. Tutto si svolge in una linda e tranquilla cittadina ai margini di Londra dove La ragazza del treno è quella che all'inizio sembra l'unica fuori posto e border line: alcolizzata, in sovrappeso, sudicia, con frequenti amnesie, licenziata, depressa per non aver dato un figlio al marito che l'ha lasciata facendola sentire tremendamente in colpa. In realtà risulterà la migliore di tutti man mano che conosciamo gli altri personaggi che nascondono una meschinità abissale dietro la loro parvenza rispettabile. L'autrice non approfondisce più di tanto la psicologia dei personaggi (le altre due ragazze finiscono per assomigliarsi tantissimo) comunque il romanzo scorre bene verso un finale a sorpresa che però si intuisce superati i due terzi del libro. </b></div>
<div class="calibre11">
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Martedì 16 luglio 2013 Mattina</div>
<div class="calibre11">
<br /></div>
<div class="calibre11">
Sono sul treno delle 8.04, ma non vado a
Londra. Mi fermo a Witney, dove spero di ritrovare la memoria: una volta
arrivata in stazione, mi sarà tutto chiaro e ricorderò quello che è
successo. Non ci credo molto, ma non posso fare di più. Chiamare Tom è
fuori discussione. Mi vergogno come una ladra, e poi lui è stato
chiarissimo: non vuole più avere niente a che fare con me.</div>
<div class="calibre14">
Megan è scomparsa da più di sessanta ore e la
notizia è approdata alla stampa nazionale. Stamattina ne parlavano, tra
gli altri, anche il sito della <span class="all-small-caps">BBC</span> e del «MailOnline».</div>
<div class="calibre14">
Ho stampato gli articoli e li ho portati con me; li ho letti per ricostruire la vicenda.</div>
<div class="calibre14">
Sabato sera Scott e Megan hanno litigato: un
vicino ha sentito l’alterco. Scott ha ammesso la discussione e ha
dichiarato che pensava che la moglie fosse andata a dormire da un’amica,
Tara Epstein, che abita a Corly.</div>
<div class="calibre14">
Megan non è mai arrivata da Tara, che dice di
averla vista per l’ultima volta venerdì pomeriggio, alla lezione di
pilates. (Lo sapevo che era una tipa da pilates.) Secondo la signora
Epstein, «sembrava tranquilla, normale. Era di buon umore e parlava di
organizzare qualcosa di speciale per il suo trentesimo compleanno, il
mese prossimo».</div>
<div class="calibre14">
Un testimone ha visto Megan incamminarsi verso la stazione di Witney alle sette e un quarto di sabato sera.</div>
<div class="calibre14">
Nessun parente della donna vive in zona; i suoi genitori sono morti.</div>
<div class="calibre14">
È disoccupata. Dirigeva una piccola galleria
d’arte a Witney, ma ha chiuso l’attività nell’aprile dello scorso anno.
(Lo sapevo che lavorava nel mondo dell’arte.)</div>
<div class="calibre14">
Scott è un consulente informatico. (Non ci credo!)</div>
<div class="calibre14">
Sono sposati da tre anni; abitano in Blenheim Road dal gennaio del 2012.</div>
<div class="calibre14">
Secondo il «Daily Mail», la loro casa vale 400.000 sterline.</div>
<div class="calibre14">
Dopo aver letto le notizie, mi rendo conto che
la situazione non è facile per Scott, e non solo a causa del litigio. È
così che funziona: quando succede qualcosa di brutto a una donna, la
polizia sospetta subito del marito o del fidanzato. In questo caso, gli
inquirenti non sono a conoscenza di tutti i fatti. Si concentrano sul
marito, ma soltanto perché non sanno che c’è un altro uomo.</div>
<div class="calibre14">
Forse sono l’unica a essere al corrente della sua esistenza.</div>
<div class="calibre14">
Prendo un pezzo di carta nella borsa: è lo
scontrino di due bottiglie di vino. Scrivo la lista delle spiegazioni
più plausibili per la scomparsa di Megan Hipwell:</div>
<blockquote class="calibre17">
<div class="calibre18">
1. È scappata con l’amante, che chiameremo B.</div>
<div class="calibre18">
2. B le ha fatto del male.</div>
<div class="calibre18">
3. Scott le ha fatto del male.</div>
<div class="calibre18">
4. Ha lasciato il marito e se n’è andata a vivere da un’altra parte.</div>
<div class="calibre18">
5. Qualcuno le ha fatto del male, ma non è stato né Scott né B.</div>
</blockquote>
<div class="calibre14">
La prima spiegazione mi sembra molto probabile,
così come la quarta, perché Megan è una donna indipendente e testarda,
ne sono certa. Se davvero aveva un’altra relazione, forse ha avuto
bisogno di allontanarsi per qualche giorno, per chiarirsi le idee. La
quinta possibilità mi sembra poco realistica: non è così comune essere
assassinati da uno sconosciuto.</div>
<div class="calibre14">
La ferita alla testa mi fa male, e non posso
fare a meno di ripensare al litigio di sabato sera: l’ho visto, ma forse
l’ho immaginato, o soltanto sognato. Sollevo lo sguardo all’altezza
della casa di Megan e Scott. Sento il sangue pulsarmi nelle tempie. Sono
agitata e ho paura. Le finestre sembrano occhi spenti che riflettono la
luce del mattino.</div>
</div>
Antonio De Bellishttp://www.blogger.com/profile/08589288385447295429noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3437498411039201584.post-82634165519937242322016-01-01T23:14:00.002+01:002016-01-01T23:28:35.799+01:00Sopravvisuto - The Martian - Andy Weir<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgWoytiQSBgYOpuYunT4MsN752e6w4TeqAgIExZngof_K8gmBKREbPErJIlXOaE1F37oo1nAeshaHqIw9FI81qfDvJH3-JYxVtmNMOSiBtrnQdWh57sBgKzte3R6t-aeBoR7DIRd31RTyg/s1600/Sopravvisuto+-+the+martian.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgWoytiQSBgYOpuYunT4MsN752e6w4TeqAgIExZngof_K8gmBKREbPErJIlXOaE1F37oo1nAeshaHqIw9FI81qfDvJH3-JYxVtmNMOSiBtrnQdWh57sBgKzte3R6t-aeBoR7DIRd31RTyg/s200/Sopravvisuto+-+the+martian.jpg" width="130" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<b>A livello psicologico c'è un limite che spesso sperimentiamo nella vita di tutti i giorni e si chiama "fissità funzionale", cioè il rimanere fissati sulle funzionalità abituali di un oggetto e non riuscire a riconcettualizzarlo in modo diverso. Sarebbe sufficiente cambiare la nostra prospettiva, il nostro punto di vista e provare a pensare in maniera creativa e non convenzionale per trovare la giusta soluzione di un problema.<br />Ebbene il libro di Weir è praticamente un manuale del perfetto riutilizzatore creativo di ciò che è disponibile sulla base marziana per sopravvivere. <br />Nonostante quello che si possa pensare non è un libro di fantascienza perchè tutte le attività e le soluzioni descritte hanno una base scientifica e sono realizzabili. Non siamo ancora sbarcati su Marte ma le attrezzature e le competenze necessarie sono al momento disponibili: è un discorso di budget. La descrizione del pianeta rosso su atmosfera, suolo, paesaggi, satelliti permette di fare un viaggio (</b><b><b>al momento) </b>mentale fuori dal nostro pianeta. L'ironia del protagonista in parecchi passaggi rende più godibile il tutto.</b></div>
<br />
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Giornale di bordo: Sol 25<br />
<br />
Ricordate i vecchi quesiti di matematica che vi sottoponevano nell’ora di algebra? L’acqua che entra in una data quantità per unità di tempo ed esce a un’altra e dovete calcolare quando il recipiente sarà vuoto? Ebbene, questo è un concetto fondamentale per il progetto “Mark Watney non muore” al quale sto lavorando.<br />
Ho bisogno di creare calorie. E ne ho bisogno in quantità da durarmi per i 1387 sol fino all’arrivo di Ares 4. Se non vengo recuperato da Ares 4, sono morto comunque. Un sol dura 39 minuti più di un giorno terrestre, dunque corrisponde a 1425 giorni. Il mio obiettivo è questo: 1425 giorni di cibo.<br />
Ho una notevole scorta di multivitaminici, più del doppio di quanti me ne servano. E il contenuto proteico di ciascuna confezione alimentare è cinque volte il minimo indispensabile, dunque con un razionamento oculato dei miei pasti il mio fabbisogno proteico è coperto per almeno quattro anni. Quanto a nutrizione sono quindi più o meno sistemato. Mi servono solo le calorie.<br />
Ho bisogno di 1500 calorie ogni giorno. Per cominciare ho a disposizione 400 giorni di cibo. Dunque, quante calorie devo produrre al giorno durante l’intero periodo per rimanere in vita per circa 1425 giorni?<br />
Vi risparmio l’aritmetica. La risposta è circa 1100. Per sopravvivere fino a quando arriverà Ares 4 ho bisogno di ricavare dalla mia coltivazione 1100 calorie al giorno. Un po’ di più, per la precisione, perché siamo già a Sol 25 e ancora non ho seminato niente.<br />
Con i miei 62 metri quadrati di terreno coltivabile, posso ottenere 288 calorie al giorno. Dunque per sopravvivere ho bisogno di quadruplicare la mia produttività.<br />
Significa avere a disposizione una superficie più ampia e un quantitativo maggiore di acqua con cui idratare il terriccio. Meglio affrontare i problemi uno per volta.<br />
Quanto terreno coltivabile posso creare veramente?<br />
Lo Hab mi offre 92 metri quadrati. Diciamo che riesca a utilizzarli tutti.<br />
Ci sono anche cinque brande libere. Diciamo che metto terra anche su quelle. Sono un paio di metri quadrati ciascuna, per un supplemento totale di dieci. Siamo arrivati a 102.<br />
Ci sono anche tre tavoli da laboratorio, ciascuno di un paio di metri quadrati di superficie. Ne voglio conservare uno da usare per me e assegnare due alla mia causa. Sono altri 4 metri quadrati per un totale di 106.<br />
Ho due rover marziani. Sono pressurizzati in maniera che gli occupanti possano usarli senza indossare la tuta spaziale durante lunghi percorsi in superficie. Non c’è spazio utile all’interno da trasformare in terreno coltivabile e voglio comunque tenermeli per andare in giro. Però sono provvisti entrambi di una tenda a scatto.<br />
Usare tende a scatto come terreni da coltura presenta parecchi problemi, ma ciascuna offre 10 metri quadrati di pavimento. Posto che riesca a superare i problemi relativi, avrei a disposizione altri 20 metri quadrati e porterei l’estensione del mio campo a 126.<br />
126 metri quadrati di terreno coltivabile. Vale la pena lavorarci su. Ancora non ho l’acqua con cui inumidire tutto quel terreno, ma come ho detto, una cosa per volta.<br />
La prossima questione da considerare è a quale grado di produttività posso coltivare patate. Avevo basato le mie previsioni sui dati della produzione industriale di patate sulla Terra. Ma i produttori di patate non sono impegnati come me in una disperata gara di sopravvivenza. Posso aumentare la produttività?<br />
Per prima cosa posso dedicare attenzione a ogni singola pianta. Posso mondarle e proteggerne la salute e impedire che l’una interferisca con l’altra. In secondo luogo quando esce in superficie la pianta con i fiori, posso interrarla più in profondità, per poi piantare sopra di essa una pianta più giovane. Un simile procedimento non avrebbe senso per un normale produttore di patate, per il semplice fatto che loro lavorano su letteralmente milioni di piante.<br />
Per giunta questo modo di operare esaurisce il terreno. Un contadino che lo facesse trasformerebbe i suoi campi in uno sterile deserto in non più di dodici anni. Non sarebbe sostenibile. Ma a me non importa niente, io ho bisogno di sopravvivere solo per quattro.<br />
Con questa tattica calcolo di poter aumentare la mia produzione del 50 percento. E con i 126 metri quadrati di terreno coltivabile (un po’ più del doppio dei 62 che ho adesso) arrivo a più di 850 calorie al giorno.<br />
Questo è progresso concreto. Correrei ancora il rischio di morire di fame, ma rientrerei in un tasso accettabile di sopravvivenza. Potrei farcela arrivando quasi a morire di fame ma non del tutto. Potrei ridurre il mio consumo di calorie minimizzando il lavoro fisico. Potrei aumentare la temperatura dello Hab in modo che il mio corpo avrebbe bisogno di meno energia per mantenere a livello la propria. Potrei tagliarmi via un braccio e mangiarlo, aumentando la mia assunzione di calorie di prima qualità e riducendo il mio fabbisogno calorico generale.<br />
No, non proprio.<br />
Diciamo dunque che riesca a preparare tutto quel terreno coltivabile. Mi sembra che si possa fare. Dove trovo l’acqua? Per passare da 62 a 126 metri quadrati di terreno alto dieci centimetri ho bisogno di altri 6,4 metri cubi di terriccio (e vai di vanga, iu-huu!) e per renderli fertili ho bisogno di più di 250 litri d’acqua.<br />
I 50 litri che ho servono a me da bere se il depuratore si guasta. Dunque mi mancano 250 litri per raggiungere il mio obiettivo di 250 litri.<br />
Puah. Me ne vado a letto.</div>
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<br /></div>
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[...]</div>
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<br /></div>
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Giornale di bordo: Sol 30<br />
<br />
Per procurarmi l’acqua che mi serve ho un piano di una pericolosità che rasenta l’idiozia. E quando dico pericolosità, ragazzi, dico sul serio. Ma non ho molta scelta. Ho esaurito le idee e tra pochi giorni dovrò fare forzatamente una nuova doppia vangatura. Quando effettuerò quella finale, rivolterò le zolle su tutto il nuovo terriccio che ho portato dentro. Se prima non lo inumidisco, morirà.<br />
Qui su Marte non c’è molta acqua. C’è del ghiaccio ai poli, ma sono troppo distanti. Se voglio dell’acqua, dovrò produrla dal nulla. Per fortuna ho la ricetta: prendi dell’idrogeno, aggiungici dell’ossigeno, brucia.<br />
Prendiamoli uno per volta. Comincerò dall’ossigeno.<br />
Ho un buon quantitativo di O2, ma non abbastanza per ricavarne 250 litri d’acqua. La mia provvista completa è costituita da due serbatoi ad alta pressione a un’estremità dello Hab (più naturalmente l’aria dentro lo Hab stesso). Ciascun serbatoio contiene 25 litri di O2 liquido. Lo Hab li userebbe solo in un’emergenza; per mantenere a livello costante l’atmosfera c’è l’ossigenatore. La presenza dei serbatoi di O2 si spiega con la necessità di alimentare le tute spaziali e i rover.<br />
L’ossigeno di scorta sarebbe comunque sufficiente solo per 100 litri d’acqua (50 litri di O2 corrispondono a 100 litri di molecole con una O sola ciascuna). Significherebbe fine delle mie EVA e fine delle riserve di emergenza. E otterrei solo meno della metà dell’acqua che mi serve. Fuori questione.<br />
Ma su Marte l’ossigeno è più facile da trovare di quanto si pensi. L’atmosfera è al 95 percento CO2. E si dà il caso che io abbia a disposizione una macchina il cui unico scopo è liberare ossigeno dal CO2. Vai, l’ossigenatore!<br />
Un problema: l’atmosfera è molto rarefatta, meno dell’un percento della pressione che c’è sulla Terra. Perciò è difficile da raccogliere. Fare entrare l’aria da fuori è quasi impossibile. Lo scopo stesso dello Hab è impedire che una cosa del genere succeda. La minuscola quantità di atmosfera marziana che entra quando uso una camera d’equilibrio è risibile.<br />
Ed ecco dove interviene il generatore di propellente del MAV.<br />
I miei compagni si sono portati via il MAV settimane fa. Ma la parte inferiore è rimasta qui. La NASA non ha l’abitudine di mandare in orbita masse che non servono a niente. Quaggiù hanno lasciato la struttura per l’atterraggio, la rampa d’ingresso e il generatore di propellente. Ricordate come il MAV produceva il proprio propellente con l’aiuto dell’atmosfera marziana? Il primo passo è la raccolta di CO2 in un recipiente ad alta pressione. Una volta che avrò alimentato il generatore di propellente con l’energia dello Hab, avrò mezzo litro di CO2 all’ora, indefinitamente. Dopo dieci sol avrò raccolto 125 litri di CO2, che dopo essere passati per l’ossigenatore diventeranno 125 litri di O2.<br />
Quanto basta per fabbricare 250 litri d’acqua. Dunque ho un piano per l’ossigeno.<br />
L’idrogeno è un tantino più complicato.<br />
Ho preso in considerazione una rapina ai danni delle pile all’idrogeno, ma ne ho bisogno per avere energia di notte. Senza, farebbe troppo freddo. Io potrei coprirmi, ma il freddo ucciderebbe la mia coltivazione. E ogni pila ha comunque solo una piccola quantità di H2. Non vale proprio la pena sacrificare tanta utilità per un guadagno così misero. Se c’è un aspetto positivo nella mia situazione è che l’energia non è un problema. Non è il caso di rinunciarci.<br />
Dunque devo arrivarci per un’altra via.<br />
Parlo spesso del MAV. Ma adesso voglio parlare dell’MDV.<br />
Durante i più terribili ventitré minuti della mia vita, io e quattro dei miei compagni abbiamo cercato di non cacarci addosso mentre Martinez pilotava l’atterraggio dell’MDV. È stato più o meno come trovarsi dentro il cestello di un’asciugatrice.<br />
Dapprima ci siamo staccati da Hermes e abbiamo decelerato la nostra velocità orbitale per cominciare a cadere in modo adeguato. Tutto è andato liscio finché non siamo arrivati nell’atmosfera. Se credete che la turbolenza sia forte su un jet che viaggia a 720 chilometri orari, immaginatevi come può essere a 28.000 chilometri orari.<br />
Uno dopo l’altro si sono aperti automaticamente alcuni paracadute che hanno rallentato la nostra discesa, poi Martinez ci ha pilotati manualmente sul suolo usando i propulsori per regolare la velocità e controllare i nostri movimenti laterali. Aveva alle spalle anni di addestramento e ha fatto il suo lavoro straordinariamente bene. Il suo atterraggio ha superato ogni plausibile aspettativa, a soli nove metri dal bersaglio. Un successo che va tutto a credito di Martinez.<br />
Grazie, amico mio! Può darsi che tu mi abbia salvato la vita!<br />
Non per via dell’atterraggio perfetto, ma per aver lasciato indietro tutto quel propellente. Centinaia di litri di idrazina non utilizzata. Ogni molecola di idrazina contiene quattro atomi di idrogeno. Quindi ogni litro di idrazina ha abbastanza idrogeno per due litri di acqua.<br />
Oggi ho fatto una piccola EVA per controllare. Nei serbatoi dell’MDV sono rimasti 292 litri di propellente. Abbastanza per fabbricare quasi 600 litri d’acqua! Molto più di quella che mi serve!<br />
C’è solo un piccolo inconveniente: liberare idrogeno dall’idrazina è… be’, è il modo in cui funzionano i razzi. È una faccenda molto, molto calda. E pericolosa. Se lo facessi in un’atmosfera di ossigeno, l’idrogeno rovente appena liberato esploderebbe. Alla fine ci sarebbe un grosso quantitativo di H2O, ma io sarei troppo morto per rallegrarmene.<br />
Fondamentalmente l’idrazina è molto semplice. I tedeschi l’hanno usata già nella seconda guerra mondiale come carburante per i razzi di spinta ausiliaria di certi aerei da combattimento (e ogni tanto saltavano in aria insieme a essi).<br />
Basta versarla su un catalizzatore (che posso estrarre dal motore dell’MDV) e si scinderà in azoto e idrogeno. Vi risparmio la chimica, ma il risultato finale è che cinque molecole di idrazina diventano cinque molecole di innocuo N2 e dieci molecole di delizioso H2. Durante questo processo passa per una fase intermedia in cui diventa ammoniaca. La chimica, da quella stronza inetta che è, fa sì che parte dell’ammoniaca non reagisca con l’idrazina e rimanga quindi ammoniaca. Vi piace l’odore dell’ammoniaca? Be’, nella mia esistenza progressivamente sempre più infernale diventerà un elemento costante.<br />
La chimica è dalla mia. La domanda ora è: come faccio a ottenere che questa reazione avvenga lentamente e come faccio a raccogliere l’idrogeno? La risposta è: non lo so.<br />
Immagino che qualcosa mi verrà in mente. O morirò.</div>
<br />Antonio De Bellishttp://www.blogger.com/profile/08589288385447295429noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3437498411039201584.post-43746406607106294752015-08-23T14:39:00.002+02:002015-08-23T14:44:13.571+02:00Grey - E.L.James<div class="rmTopSpacer rmTop">
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<div class="ReadMsgFrom FloatLeft">
<b>Bella idea quella di scrivere lo stesso romanzo dal punto di vista dell'altro protagonista soprattutto se si tratta di un'anima nera, un sadico dominatore, maniaco del controllo. Non vedi l'ora di immergerti nella sua visione distorta della realtà, leggere le motivazioni dietro i suoi gesti, il perchè sia diventato così. O almeno queste erano le mie attese, peccato che il tutto si sia risolto in nulla, il libro è un'operazione commerciale pura e semplice peggiore del precedente. I pensieri di Christian sono banali e il suo alter ego, o vocina interiore, è ridicola: assomiglia al Goblin che parla al Willem Dafoe del primo <a href="http://www.amazon.it/gp/product/B00006684M/ref=as_li_qf_sp_asin_tl?ie=UTF8&camp=3370&creative=23322&creativeASIN=B00006684M&linkCode=as2&tag=clubdellinnov-21">Spiderman</a> e gli dice cosa deve fare<img alt="" border="0" src="http://ir-it.amazon-adsystem.com/e/ir?t=clubdellinnov-21&l=as2&o=29&a=B00006684M" height="1" style="border: none !important; margin: 0px !important;" width="1" />. </b><br />
<b>Ho in mente due grandi esempi scritti dal punto di vista di protagonisti negativi: uno è <a href="http://www.amazon.it/gp/product/014102349X/ref=as_li_qf_sp_asin_tl?ie=UTF8&camp=3370&creative=23322&creativeASIN=014102349X&linkCode=as2&tag=clubdellinnov-21">Lolita</a><img alt="" border="0" src="http://ir-it.amazon-adsystem.com/e/ir?t=clubdellinnov-21&l=as2&o=29&a=014102349X" height="1" style="border: none !important; margin: 0px !important;" width="1" /> del grande Nabokov e l'altro è <a href="http://www.amazon.it/gp/product/B00GH15YYI/ref=as_li_qf_sp_asin_tl?ie=UTF8&camp=3370&creative=23322&creativeASIN=B00GH15YYI&linkCode=as2&tag=clubdellinnov-21">Le Benevole</a><img alt="" border="0" src="http://ir-it.amazon-adsystem.com/e/ir?t=clubdellinnov-21&l=as2&o=29&a=B00GH15YYI" height="1" style="border: none !important; margin: 0px !important;" width="1" /> di Jonathan Littell. In entrambi i casi i protagonisti sembrano due persone reali perchè, deviazioni a parte, fanno valutazioni e riflessioni condivisibili da chiunque. Ed è quest'area grigia, questo sfumato tra bianco e nero a renderli a loro modo umani. Proprio ciò che non si trova in questo romanzo.</b>
<br />
<br /></div>
</div>
</div>
</div>
<div class="ClearBoth">
</div>
<div class="ClearBoth">
</div>
<div>
<span style="font-size: small;"><span style="font-family: Georgia,"Times New Roman",serif;">«La storia del
possesso è solo una questione di terminologia, e si riconduce sempre al
principio dell’obbedienza. Serve a metterti nel giusto stato mentale, a farti
capire quello che desidero. Devi sapere che non appena varchi la mia soglia per
essere la mia Sottomessa, io farò di te quello che voglio. Devi accettarlo, e
desiderarlo. Per questo devi fidarti di me. Ti scoperò in qualsiasi momento, in
qualsiasi modo, in qualsiasi luogo ne avrò voglia. Ti punirò quando mi
ostacolerai. Ti addestrerò a compiacermi.»</span></span><br />
<span style="font-size: small;"><span style="font-family: Georgia,"Times New Roman",serif;">[...]</span></span></div>
<div>
<span style="font-size: small;"><span style="font-family: Georgia,"Times New Roman",serif;">Passiamo al punto
successivo della sua lista di obiezioni: clausola 15. Respiro a fondo.
«Disciplina. C’è una linea molto sottile tra piacere e dolore, Anastasia. Sono
due facce della stessa medaglia, e uno non può esistere senza l’altro. Posso
mostrarti quanto può essere piacevole il dolore. Ora non mi credi, ma è questo
che intendo per fiducia. Ti farai male, ma niente che tu non riesca a
sopportare.» Non potrò sottolinearlo mai abbastanza. «Ancora una volta, è una
questione di fiducia. Ti fidi di me, Ana?»</span></span></div>
<div>
<span style="font-size: small;"><span style="font-family: Georgia,"Times New Roman",serif;">[...] </span></span></div>
<div>
<span style="font-size: small;"><span style="font-family: Georgia,"Times New Roman",serif;">«Se fossi la mia
Sottomessa, non dovresti pensarci. Sarebbe facile. Tutte quelle decisioni…
tutto lo sfiancante processo mentale che ci sta dietro. Tutte quelle domande:
“È la cosa giusta da fare? È bene che succeda qui? È bene che succeda adesso?”.
Non dovresti preoccuparti di nessun dettaglio. Spetterebbe tutto quanto a me,
come tuo Dominatore. E in questo preciso momento, so che tu mi vuoi,
Anastasia.»</span></span></div>
<div>
<span style="font-size: small;"><span style="font-family: Georgia,"Times New Roman",serif;">[...] </span></span></div>
<div>
<span style="font-size: small;"><span style="font-family: Georgia,"Times New Roman",serif;">Il suo sussulto è
musica per il mio membro. «Poi scoperemo» sussurro «e, se sei ancora sveglia,
ti darò qualche informazione sugli anni della mia infanzia. Va bene?»</span></span></div>
<div>
<span style="font-size: small;"><span style="font-family: Georgia,"Times New Roman",serif;">[...] </span></span></div>
<div>
<span style="font-size: small;"><span style="font-family: Georgia,"Times New Roman",serif;">«Voglio un bicchiere
d’acqua. Vai a prendermene uno, per favore. E quando torni, ti sculaccio.
Ricordatelo, Anastasia.</span></span></div>
<div>
<span style="font-size: small;"><span style="font-family: Georgia,"Times New Roman",serif;">[...] </span></span></div>
<div class="calibre12">
<span style="font-size: small;"><span style="font-family: Georgia,"Times New Roman",serif;">È stata una mattinata interessante. Abbiamo
lasciato Boeing Field alle 11.30 ora solare del Pacifico. Stephan vola
con il suo primo ufficiale, Jill Beighley. Stiamo per atterrare in
Georgia, quando sono le 19.30 ora solare degli Stati Uniti orientali.</span></span></div>
<div class="calibre13">
<span style="font-size: small;"><span style="font-family: Georgia,"Times New Roman",serif;">Bill è riuscito a organizzare una riunione con
l’Ente di riqualificazione delle aree industriali dismesse di Savannah
per domani, così potrei incontrarli per un drink stasera. Quindi, se
Anastasia è occupata a fare altro, o se non vuole vedermi, il viaggio
non sarà un completo spreco di tempo.</span></span></div>
<div class="calibre13">
<span style="font-size: small;"><span style="font-family: Georgia,"Times New Roman",serif;">“Sì, sì… raccóntatela giusta, Grey.”</span></span></div>
<div class="calibre13">
<span style="font-size: small;"><span style="font-family: Georgia,"Times New Roman",serif;">Taylor si è unito a me per un pranzo leggero e
adesso è intento a riordinare un mucchio di scartoffie, mentre io ho un
sacco di roba da leggere.</span></span></div>
<div class="calibre13">
<span style="font-size: small;"><span style="font-family: Georgia,"Times New Roman",serif;">Mi rimane ancora da risolvere una sola parte
dell’equazione: come fare per incontrare Ana. Vedrò come va una volta
arrivato a Savannah. Spero in qualche ispirazione durante il volo.</span></span></div>
<div class="calibre13">
<span style="font-size: small;"><span style="font-family: Georgia,"Times New Roman",serif;">Mi passo una mano tra i capelli, e per la prima volta dopo tanto tempo mi appoggio all’indietro e sonnecchio, mentre il <span class="all-small-caps">G550</span>
viaggia a velocità di crociera a 9000 metri, diretto all’aeroporto
internazionale Hilton Head di Savannah. Il ronzio dei motori è
rilassante, e io sono stanco, tanto stanco.</span></span></div>
<div class="calibre13">
<span style="font-size: small;"><span style="font-family: Georgia,"Times New Roman",serif;">“Devono essere gli incubi, Grey.”</span></span></div>
<div class="calibre13">
<span style="font-size: small;"><span style="font-family: Georgia,"Times New Roman",serif;">Non so perché sono peggiori, in questo momento. Chiudo gli occhi.</span></span></div>
Antonio De Bellishttp://www.blogger.com/profile/08589288385447295429noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3437498411039201584.post-12256095602876405332015-08-17T10:33:00.001+02:002015-08-17T10:40:13.134+02:0050 Sfumature di Grigio - E.L.James<!--[if gte mso 9]><xml>
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<br />
<div class="MsoNormal">
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</div>
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</div>
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</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgd-kSKnjiZ-u_lZpMf02edh-hQTAUVMS8GEhMn5csNUKciFULY_-ZggU10ut7uCLreOm8ftJHWAgrfcDqvikgKY09aTBnosPlsWcWgt37E1lTxSL1f9duYXMBbp_pQIXsgIJ-biQTUxVA/s1600/50_sfumature_di_grigio.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgd-kSKnjiZ-u_lZpMf02edh-hQTAUVMS8GEhMn5csNUKciFULY_-ZggU10ut7uCLreOm8ftJHWAgrfcDqvikgKY09aTBnosPlsWcWgt37E1lTxSL1f9duYXMBbp_pQIXsgIJ-biQTUxVA/s200/50_sfumature_di_grigio.jpg" width="142" /></a></div>
<b>Sono rimasto molto incuriosito dal successo della <a href="http://www.amazon.it/gp/search/ref=as_li_qf_sp_sr_tl?ie=UTF8&camp=3370&creative=23322&index=aps&keywords=cofanetto%2050%20sfumature&linkCode=ur2&tag=clubdellinnov-21" target="_blank">trilogia</a><img alt="" border="0" class="qnewzhlsfgpomxdawfdc ulrwtsexvyypvubhwzhc jpodxmtjxwvjbctzfhmm rlybendvquaaluodovlu" height="1" src="https://ir-it.amazon-adsystem.com/e/ir?t=clubdellinnov-21&l=ur2&o=29" style="border: none !important; margin: 0px !important;" width="1" /> che ha scalzato dalla vetta delle classifiche inglesi la J.K.Rowling e il suo Harry Potter. Le milioni di copie vendute a livello mondiale testimoniano un'attenzione per nulla virtuale che si è tramutata in guadagni stratosferici per l'autrice e tutta la macchina organizzativa che ne è alle spalle. Leggendo le critiche qua e là si nota che il pubblico dei lettori è praticamente diviso a metà tra gli entusiasti e i detrattori anche se tutti sono comunque concordi che il valore letterario è basso. Molti la ritengono un'operazione commerciale perfettamente riuscita. Ho letto il primo della serie proprio per farmene un'idea e ho intenzione di leggere <a href="http://www.amazon.it/gp/product/B00YZIN8C0/ref=as_li_qf_sp_asin_tl?ie=UTF8&camp=3370&creative=23322&creativeASIN=B00YZIN8C0&linkCode=as2&tag=clubdellinnov-21">Grey</a><img alt="" border="0" src="http://ir-it.amazon-adsystem.com/e/ir?t=clubdellinnov-21&l=as2&o=29&a=B00YZIN8C0" height="1" style="border: none !important; margin: 0px !important;" width="1" /> perchè è la stessa storia narrata dalla prospettiva dell'altro protagonista.
</b><br />
<b>Che dire di questo best seller? Se nel marketing tradizionale i fondamenti sono sintetizzabili in 4 P (Prezzo, prodotto, promozione, punto vendita) in questo prodotto letterario credo vadano inaugurate le 4 S come condizione sine qua non per raggiungere milioni di lettori.</b><br />
<b><br /></b>
<b>Semplicità</b><br />
<b>Il libro scorre benissimo e il linguaggio è estremamente lineare. La lettura si presta perfettamente a momenti di evasione e poco impegnativi (spiaggia)</b><br />
<b><br /></b>
<b>Semplicismo</b><br />
<b>In un mondo già di per sè complicato perchè complicarsi ulteriormente la vita? L'autrice usa temi collaudati oltremodo sperimentati (il principe azzurro, pretty woman,...). Non c'è introspezione psicologica dei personaggi e la superficialità regna ovunque. Tutto l'universo delle sensazioni che si provano quando si è innamorati è liquidato con "farfallio nella pancia". L'attrazione che lei prova per lui deriva dal fatto che è bello, bellissimo, la camicia scende bene sui fianchi, ... il tutto ripetuto fino alla noia. Lui invece è attratto da lei quando si morde il labbro. Magari l'intento dell'autrice era quello di dare un accenno e lasciare che il lettore immaginasse il resto. Da questo punto di vista è un libro fortemente creativo ;-)</b><br />
<b><br /></b>
<b>Sogni</b><br />
<b>Nei sogni succede di tutto e si è completamente svicolati da ciò che può essere umanamente credibile. Ed è così che in questa favola moderna i personaggi sono immaginari ben oltre quello che è il confine accettabile. Il tutto comunque in funzione di ciò che ognuno desidererebbe essere ed avere. Lui è la quintessenza dell'aspirazionale: giovane, bello, ricco (a 27 anni è proprietario di un impero con 40mila addetti che non ha ricevuto in eredità ma ha creato da solo), esperto guidatore di alianti ed elicotteri, profondo e raffinato conoscitore di musica classica, nonchè pianista provetto, dotato di tanto tempo libero, instancabile ed esperto amatore, generoso, premuroso, attento alle esigenze della sua compagna che ricopre di soprese e regali, leggermente tormentato, adottato, ha avuto un'infanzia difficile. Lei 21 anni, prossima alla laurea, semplice, un po' goffa e imbranata, arrossisce facilmente, illibata e poco esperta nelle relazioni con gli uomini ma intelligente ed arguta, capace di tener testa a lui e di farlo innamorare. Almeno è quello che crede lei: lui in più di un occasione indica il tipo di rapporto che desidera e le fa firmare un contratto in cui chiede, nero su bianco, la sua completa sottomissione.</b><br />
<b><br /></b>
<b>Sesso</b><br />
<b>E' la parte che ha alimentato il passaparola e ne ha decretato il successo planetario. A livello marketing sono stati molto bravi nel giocare sulla componente sadomasochistica creando un'attesa che porta a ben poca cosa: una stanza dedicata usata pochissimo e pratiche che si limitano alla legatura dei polsi e qualche sculacciata. La parte più furba è invece quella che ci si ritrova quando vengono descritti i rapporti tra i due e che evidenzia ciò che solletica il desiderio delle donne: tutte le operazioni preliminari che portano all'eccitazione prima di arrivare al dunque. A quale donna non piacerebbe essere amata così? E quante invece hanno a che fare con compagni frettolosi ed egoistici? In entrambi i casi il libro pesca in un bacino di utenza enorme.</b><br />
<b><br /></b>
<b>Al termine della lettura mi sono venute in mente altre due considerazioni:</b><br />
<b>alle donne piacciono i "cattivi". I bravi ragazzi sono noiosi, prevedibili, anonimi, non suscitano fantasie e hanno qualità irrilevanti per far nascere una passione;</b><br />
<b>alle donne piace soffrire: sono convinte di poter cambiare il loro partner (che come dicevamo prima è "cattivo") e in questo sono disponibili ad accettare ogni tipo di umiliazione. </b><br />
<br />
<br />
«Lei è molto giovane per aver creato un simile impero. A che cosa deve il suo successo?» Lo guardo: ha un sorriso tranquillo, ma sembra vagamente seccato. «Il mondo degli affari ruota intorno alle persone, Miss Steele, e io sono molto bravo a giudicarle. So come agiscono, che cosa le fa crescere e che cosa no, che cosa le stimola e come incentivarle. Mi avvalgo di una squadra eccezionale, che ricompenso bene.» Fa una pausa e mi fissa con i suoi occhi grigi. «Sono convinto che, per raggiungere il successo in qualsiasi settore, si debba diventare padroni di quel settore, conoscerlo da ogni punto di vista, nei minimi dettagli. Io lavoro sodo, molto sodo, per riuscirci. Prendo decisioni basate sulla logica e sui fatti. Ho un istinto naturale che mi porta a individuare e a far crescere un’idea buona e solida con gente valida. La morale è che è sempre una questione di gente valida». «Forse ha solo avuto fortuna.» La battuta non è sulla lista di Kate, ma il personaggio è troppo arrogante. Lui sbarra gli occhi, sorpreso. «Non mi sottometto alla fortuna o al caso, Miss Steele. Più mi impegno nel lavoro più sembro fortunato. È questione di avere le persone giuste nella propria squadra e di saperne guidare le energie al meglio. Mi pare che sia stato Harvey Firestone a dire: “La crescita e lo sviluppo delle persone è la vocazione più nobile della leadership”.» «Lei sembra un maniaco del controllo.» Le parole mi escono di bocca prima che riesca a fermarle. «Oh, io esercito il controllo su tutto, Miss Steele» dice, senza traccia di ironia. Lo guardo negli occhi, e lui regge il mio sguardo, impassibile. Il mio cuore accelera i battiti, e io arrossisco di nuovo. Perché quest’uomo ha un effetto così inquietante su di me? Sarà la sua bellezza travolgente? Il modo in cui mi fulmina con gli occhi? Il modo in cui si accarezza il labbro inferiore con il dito? Quanto vorrei che smettesse di farlo. «Inoltre, se nelle proprie fantasie segrete ci si convince di essere nati per dominare, si acquista un potere immenso» continua, con la voce vellutata. «Lei pensa di avere un potere immenso?» “Maniaco del controllo.” «Ho più di quarantamila persone alle mie dipendenze, Miss Steele. Questo mi dà un certo senso di responsabilità… di potere, se preferisce. Se io dovessi decidere che il settore delle telecomunicazioni non mi interessa più e che voglio vendere, ventimila persone faticherebbero a pagare il mutuo dopo un mese o poco più.» Lo guardo a bocca aperta. Sono sconcertata dalla sua mancanza di umiltà. «Non ha un consiglio di amministrazione a cui rispondere?» chiedo, disgustata. «La società è di mia proprietà. Non devo rispondere a nessun consiglio.» Alza un sopracciglio. Naturalmente avrei dovuto saperlo, se solo avessi fatto qualche ricerca. Ma, accidenti, è così arrogante! Cambio strategia. «E ha qualche interesse, al di fuori del lavoro?» «Ho interessi molto vari, Miss Steele.» L’ombra di un sorriso gli sfiora le labbra. «Molto vari.» Per qualche ragione, il suo sguardo penetrante mi confonde. Nei suoi occhi luccica un pensiero perverso. «Che cosa fa per rilassarsi?» «Rilassarmi?» Sorride, rivelando denti bianchissimi. Rimango senza fiato. È davvero bellissimo. Nessuno dovrebbe essere così attraente. «Be’, per “rilassarmi”, come dice lei, vado in barca, volo, pratico diversi sport.» Si muove sulla poltrona. «Sono molto ricco, Miss Steele, e ho passatempi costosi e impegnativi.» Lancio una rapida occhiata alle domande di Kate, ansiosa di cambiare argomento. «Lei investe nell’attività industriale. Perché, esattamente?» chiedo. Come mai quest’uomo mi mette così a disagio? «Mi piacciono le cose. Mi piace sapere come funzionano: quali sono i loro ingranaggi, come costruirle e smontarle. E ho una passione per le navi. Cosa posso dire?» «Sembra che sia il suo cuore a parlare, più che la logica e i fatti.» Lui storce la bocca e mi soppesa con lo sguardo. «È possibile. Anche se certe persone direbbero che ionon ho un cuore.»<br /><br />[…]<br /><br />Gli lancio un’occhiata di sottecchi mentre si mette in coda, in attesa di essere servito. Potrei stare tutto il giorno a guardarlo… È alto, slanciato, con le spalle forti… e il modo in cui i pantaloni gli cadono sui fianchi… Una o due volte si passa le dita tra i capelli, che adesso sono asciutti ma sempre scarmigliati. Mmh… quanto vorrei farlo io. Mi mordo il labbro e abbasso gli occhi, perché non mi piace la direzione che stanno prendendo i miei imprevedibili, imbarazzanti pensieri. «A cosa sta pensando?» Grey è accanto a me, e mi coglie di sorpresa. Divento paonazza. “Stavo pensando di accarezzare i tuoi capelli e mi chiedevo se al tatto fossero morbidi come sembrano.” Scuoto la testa. Lui ha portato un vassoio, che posa sul piccolo tavolo rotondo. Mi porge una tazza sul piattino, una piccola teiera e, a parte, un secondo piattino con una bustina di tè su cui c’è scritto TWININGS ENGLISH BREAKFAST: la mia marca preferita. Per sé ha preso una tazza di caffè macchiato con un grazioso motivo di foglie disegnato sul latte. Ha ordinato anche un muffin ai mirtilli. Dopo aver scostato il vassoio, si siede di fronte a me. Sembra così sicuro di sé, così tranquillo, così a suo agio nel proprio corpo, che mi fa invidia. Io sono maldestra e scoordinata, a stento capace di andare dal punto A al punto B senza cadere lunga distesa. «A cosa sta pensando?» ripete. «Questo è il mio tè preferito.» La mia voce è bassa, ansimante. Non riesco proprio a credere di essere seduta davanti a Christian Grey in una caffetteria di Portland. Capisce che gli sto nascondendo qualcosa. Immergo la bustina nella teiera e quasi subito la ripesco con il cucchiaino. Mentre la poso sul piatto, lui china la testa e mi guarda con aria interrogativa. «Mi piace che il tè sia leggero» mormoro a mo’ dispiegazione. <br /><br />[…]<br /><br />«Ha una fidanzata?» mi lascio sfuggire. Cavolo… “Non l’avrò detto a voce alta?” Lui mi guarda, con un mezzo sorriso. «No, Anastasia. Non sono un tipo da fidanzate» risponde sommessamente. Ah… “E questo cosa vorrebbe dire? Non è gay. Oh, forse sì… merda!” Deve avermi mentito durante l’intervista. Per un attimo, mi illudo che prosegua dando qualche spiegazione, qualche indizio per decifrare la sua criptica affermazione, invece no. Devo andarmene. Devo cercare di raccogliere le idee. Devo allontanarmi da lui. Faccio qualche passo precipitoso e inciampo in mezzo alla strada. «Maledizione, Ana!» urla Grey. Mi afferra così forte per la mano che gli vado a sbattere addosso, proprio mentre un ciclista in contromano ci supera in un lampo, mancandomi per un soffio. Succede tutto così in fretta… un attimo prima sto cadendo, l’attimo dopo mi ritrovo tra le sue braccia e lui mi stringe forte al petto. Respiro il suo profumo fresco e intenso. Odora di biancheria pulita e di qualche costoso sapone. È inebriante. «Tutto bene?» mormora. Con un braccio mi tiene stretta a sé, mentre con le dita dell’altra mano mi accarezza dolcemente il viso, tastandomi con delicatezza, esplorandomi. Con il pollice, mi sfiora il labbro inferiore, e sento il suo respiro spezzarsi. Mi sta guardando negli occhi, e io reggo il suo sguardo ardente per un attimo, o forse a lungo… ma alla fine, la mia attenzione è attratta dalla sua splendida bocca. “Oddio.” Per la prima volta in ventun anni, ho voglia di essere baciata. Ho voglia di sentire quella bocca sulla mia. <br />“Baciami, dannazione!” lo imploro, ma non riesco a muovermi. Sono paralizzata da un bisogno sconosciuto, completamente ammaliata. Sto fissando, ipnotizzata, la bocca perfettamente scolpita di Christian Grey, e lui mi guarda con gli occhi socchiusi, lo sguardo torbido. Ha un respiro più pesante del solito, mentre io ho smesso del tutto di respirare. “Sono tra le tue braccia. Baciami, ti prego.” Lui abbassa le palpebre, respira a fondo, e scuote piano la testa come in risposta alla mia muta richiesta. Quando riapre gli occhi, sembra avere una nuova, incrollabile convinzione. «Anastasia, dovresti stare alla larga da me. Non sono l’uomo per te» mormora, passando al tu. “Cosa? Perché mai dice una cosa del genere?” Semmai, dovrei essere io a giudicare. Lo guardo di traverso, confusa dal suo rifiuto. «Respira, Anastasia, respira. Adesso ti aiuto a rimetterti in sesto e ti lascio andare» dice piano, e si stacca con dolcezza. Una scarica di adrenalina mi ha attraversato il corpo, per lo scontro mancato con il ciclista o per l’inebriante vicinanza di Christian, lasciandomi debole e stordita. “No!” urla la mia vocina interiore quando lui si allontana, lasciandomi a secco. Mi tiene le mani sulle spalle, studiando le mie reazioni. E l’unica cosa a cui riesco a pensare è che volevo essere baciata, mi si leggeva in faccia, e lui non l’ha fatto. “Non mi vuole. Ho mandato a puttane il nostro appuntamento, non c’è dubbio.” «Ho capito» mormoro, recuperando la voce. «Grazie» sussurro umiliata. Come ho potuto fraintendere fino a questo punto quel che c’era tra noi? Devo andarmene subito. «Per cosa?» chiede, senza togliermi le mani dalle spalle. «Per avermi salvata» mormoro. «Quell’idiota stava andando contromano. Meno male che c’ero io. Mi vengono i brividi se penso a cosa poteva succederti. Vuoi entrare un attimo nell’hotel e sederti?» Lascia cadere le braccia lungo i fianchi, e io, in piedi di fronte a lui, mi sento una stupida. Scuoto la testa per schiarirmi le idee. Voglio solo andarmene. Tutte le mie vaghe, inespresse speranze sono state distrutte. Lui non mi vuole. “Cosa ti eri messa in testa?” mi rimprovero. “Cosa potrebbe volere da te uno come Christian Grey?” mi sbeffeggia la vocina interiore. Mi circondo con le braccia e mi giro verso la strada, notando con sollievo che è apparso il verde. Mi affretto ad attraversare, sapendo che Grey è dietro di me. Davanti all’hotel, mi giro un attimo verso di lui, ma non riesco a guardarlo negli occhi. «Grazie per il tè, e per le foto» mormoro. «Anastasia… io…» Si interrompe, e il suo tono angosciato reclama la mia attenzione, quindi, riluttante, lo guardo. Si sta ravviando i capelli, con uno sguardo triste. Sembra lacerato, frustrato, la sua espressione severa, il suo perfetto autocontrollo sono evaporati. «Cosa c’è, Christian?» sbotto irritata, dato che non completa la frase. Voglio solo andarmene via. Ho bisogno di portare lontano il mio fragile orgoglio ferito e trovare il modo di curarlo. «In bocca al lupo per gli esami» sussurra. “Come???!!!” È per questo che ha un’aria così desolata? È questa la grande frase d’addio? Un in bocca al lupo per gli esami? «Grazie.» Non riesco a mascherare una nota di sarcasmo. «Addio, Mr Grey.» Giro sui tacchi, meravigliata di non inciampare, e senza più voltarmi sparisco lungo il marciapiede, in direzione del parcheggio sotterraneo. Una volta al riparo del freddo, buio cemento del garage, con le sue squallide luci al neon, mi appoggio al muro e mi prendo la testa tra le mani. Che razza di idea mi ero fatta? Lacrime inopportune e irrefrenabili mi salgono agli occhi. “Perché sto piangendo?” Mi lascio scivolare a terra, furiosa con me stessa per questa reazione assurda. Mi rannicchio con le ginocchia al petto. Voglio diventare più piccola possibile. Forse così anche questo dolore assurdo diventerà più piccolo. Lascio che le mie irrazionali lacrime scorrano senza freno. Piango per aver perso una cosa che non ho mai avuto. “Che stupida.” Piango per ciò che non c’è mai stato… per le mie speranze e i miei sogni infranti, per le mie aspettative finite nel nulla. Non sono mai stata rifiutata in vita mia. Certo… ero sempre l’ultima scelta per la squadra di pallacanestro o di pallavolo, ma questo era comprensibile: correre e fare qualcos’altro in contemporanea, tipo far rimbalzare o lanciare una palla, non è pane per i miei denti. In campo sentimentale, però, non mi sono mai messa in gioco. Una vita di insicurezze… Sono troppo pallida, troppo magra, troppo trasandata, scoordinata, e la lista potrebbe continuare all’infinito. Quindi sono sempre stata io a respingere qualsiasi spasimante. C’era un tipo del corso di chimica che mi veniva dietro, ma nessuno ha mai suscitato il mio interesse… nessuno, a parte Christian Grey. Forse dovrei essere più gentile con Paul Clayton e José Rodriguez, anche se sono certa che nessuno dei due si è mai ritrovato a singhiozzare in un angolo buio. Forse ho solo bisogno di piangere un po’. <br />[…]<br />«Ho presentato domanda per alcuni stage. Sto aspettando la risposta.» «L’hai presentata anche alla mia azienda, come ti avevo suggerito?» “Certo che no.” «Mmh… no.» «Cosa c’è che non va nella mia azienda?» «Nella tua azienda o nel capo della tua azienda?» scherzo. «Mi prendi in giro, Miss Steele?» Piega la testa di lato. Mi sembra divertito, ma non ne sono sicura. Non riesco a guardarlo negli occhi quando usa quel tono di voce. «Vorrei essere io a mordere quel labbro» mormora con voce roca. Rimango senza fiato, del tutto inconsapevole del fatto che mi stavo mordendo il labbro inferiore. Credo che sia la cosa più erotica che mi abbiano mai detto… Il mio respiro si fa affannoso. Sono tutta un fremito, senza che lui mi abbia nemmeno toccata. Mi agito nervosamente sulla sedia e incrocio il suo sguardo penetrante. «Perché non lo fai?» lo sfido con calma. «Perché non ho intenzione di toccarti, Anastasia… non prima di aver avuto il tuo consenso scritto.» Le sue labbra accennano un sorriso. “Cosa?” «Che intendi dire?» «Esattamente quello che ho detto.» Sospira e scuote la testa, divertito, ma anche esasperato. «A che ora finisci di lavorare stasera?» <br />[…]<br />Ma quello che domina la stanza è un letto. È più grande di un matrimoniale, un modello a baldacchino con ornate colonnine rococò e la parte superiore piatta. Sembra risalire alla fine del Diciannovesimo secolo. Sotto il drappo vedo scintillare altre catene e manette. Non ci sono lenzuola… solo un materasso coperto di pelle rossa e cuscini di raso rosso ammucchiati su un lato. A qualche metro di distanza c’è un ampio divano Chesterfield rosso scuro, collocato al centro della stanza e rivolto verso il letto. Che strana disposizione… un divano rivolto verso il letto. Sorrido tra me e me: definisco strano proprio il divano, che in realtà è l’arredo più normale della stanza. Alzo gli occhi e guardo il soffitto. Ci sono moschettoni appesi dappertutto. Mi chiedo vagamente a cosa servano. La cosa curiosa è che tutto quel legno, le pareti scure, la luce soffusa e il cuoio rosso rendono la stanza quasi intima e romantica… So che è tutto tranne questo. È la versione di Christian dell’intimità e del romanticismo.<br />[…]<br />«Sono un Dominatore.» Il grigio dei suoi occhi è bruciante, intenso. «Cosa significa?» mormoro. «Significa che voglio che accetti di abbandonarti spontaneamente a me, in tutto.» Aggrotto la fronte, cercando di assimilare l’idea. «Perché dovrei fare una cosa del genere?» «Per compiacermi» mormora, inclinando la testa di lato, e vedo l’ombra di un sorriso. “Compiacerlo! Vuole che lo compiaccia!” Resto a bocca aperta. “Compiacere Christian Grey.” E in quel momento mi rendo conto che, sì, è proprio quello che voglio fare. Voglio che lui tragga un folle godimento da me. È una rivelazione. «In parole povere, voglio che tu desideri compiacermi» dice piano. La sua voce è ipnotica. «E come dovrei fare?» Ho la bocca secca, vorrei aver bevuto più vino. Okay, capisco la storia del voler essere compiaciuto, ma sono disorientata dallo scenario tipo boudoir elisabettiano/stanza delle torture. Sono sicura di voler conoscere la risposta? «Ho delle regole e voglio che tu le rispetti. Sono per il tuo bene, e per il mio piacere. Se le segui in modo soddisfacente, ti ricompenso. Se non lo fai, ti punisco, così imparerai» sussurra. Mentre lui parla, lancio un’occhiata alla rastrelliera delle verghe. «E tutto questo armamentario quando entra in gioco?» Faccio un cenno vago con la mano per indicare la stanza. «Rientra tutto nel pacchetto degli incentivi. Premi e punizioni.» «Quindi tu ti ecciti esercitando la tua volontà su di me.» «Si tratta di conquistare la tua fiducia e il tuo rispetto, in modo che tu mi consenta di esercitare la mia volontà su di te. Io traggo un grande piacere, addirittura gioia, direi, dalla tua sottomissione. Più tu ti sottometti, più la mia gioia aumenta: è un’equazione molto semplice.» «D’accordo, e io cosa ci guadagno?» Si stringe nelle spalle, con un’aria quasi di scuse. «Me» risponde semplicemente.<br />[…]<br />Mi fa cenno di sedermi su una sedia di cuoio davanti a lui e mi porge un foglio di carta. «Queste sono le regole. Possono essere soggette a cambiamenti. Costituiscono una parte del contratto, che ti darò. Leggile e discutiamone.» REGOLE Obbedienza La Sottomessa obbedirà a qualsiasi istruzione impartita dal Dominatore, immediatamente, senza riserve e con sollecitudine. La Sottomessa accetterà qualsiasi attività sessuale considerata appropriata e piacevole dal Dominatore, fatta eccezione per le attività considerate limiti assoluti (Appendice 2). Lo farà con zelo e senza esitazioni. Sonno La Sottomessa garantirà di dormire almeno sette ore per notte quando non è insieme al Dominatore. Alimentazione La Sottomessa mangerà regolarmente per mantenersi in forma e in salute, scegliendo da una lista prescritta di cibi (Appendice 4). La Sottomessa eviterà gli spuntini fuori pasto, a eccezione della frutta. Abbigliamento Per tutta la durata del contratto, la Sottomessa indosserà esclusivamente abiti approvati dal Dominatore. Il Dominatore fornirà un budget per l’abbigliamento della Sottomessa, che lei utilizzerà. Il Dominatore, quando lo riterrà opportuno, accompagnerà la Sottomessa ad acquistare i vestiti. Se il Dominatore lo desidera, la Sottomessa indosserà qualsiasi ornamento il Dominatore richieda, in presenza del Dominatore e in qualsiasi altra occasione il Dominatore ritenga opportuno. Esercizio fisico Il Dominatore fornirà alla Sottomessa un personal trainer quattro volte alla settimana in sessioni di un’ora da concordare tra il personal trainer e la Sottomessa. Il personal trainer riferirà al Dominatore i progressi della Sottomessa. Igiene personale / Bellezza La Sottomessa si terrà pulita e depilata con rasoio e/o ceretta in qualsiasi momento. La Sottomessa si recherà in un salone di bellezza a scelta del Dominatore nelle occasioni prescritte dal Dominatore, e si sottoporrà a qualsiasi trattamento il Dominatore ritenga opportuno. Sicurezza personale La Sottomessa eviterà di bere in eccesso, fumare, assumere droghe, o mettersi in pericolo senza motivo. Qualità personali La Sottomessa eviterà rapporti sessuali con persone che non siano il Dominatore. La Sottomessa si comporterà sempre in modo rispettoso e modesto. Deve riconoscere che il suo comportamento ha un riflesso diretto sul Dominatore. Sarà ritenuta responsabile di qualsiasi misfatto, trasgressione e comportamento scorretto commesso in assenza del Dominatore. La trasgressione di una qualsiasi delle regole precedenti provocherà un’immediata punizione, la cui natura sarà determinata dal Dominatore. “Mio Dio.” </div>
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[…]<br />La sua camera da letto è enorme. Le finestre si affacciano sui grattacieli illuminati di Seattle. Le pareti sono bianche e i mobili azzurro chiaro. Il gigantesco letto è ultramoderno, fatto di un rustico legno grigio, con le colonnine tutt’intorno, ma senza il baldacchino. Sulla parete che lo sovrasta c’è un impressionante dipinto del mare. Tremo come una foglia. Ci siamo. Finalmente, dopo tutto questo tempo, lo farò, e per di più con Christian Grey. Ho il respiro corto, e non riesco a togliergli gli occhi di dosso. Lui si slaccia l’orologio e lo appoggia su un cassettone, poi si toglie la giacca e la appende a una sedia. Addosso ha una camicia bianca di lino e i jeans. È bello da mozzare il fiato. Ha i capelli biondo scuro scarmigliati, la camicia aperta, gli occhi sfrontati e abbaglianti. Si toglie le Converse e si china per sfilarsi i calzini, uno alla volta. I piedi di Christian Grey… Dio mio… perché i piedi nudi sono così eccitanti? Posa lo sguardo su di me, con un’espressione dolce. <br />[…] <br />«Hai idea di quanto ti desidero, Ana Steele?» sussurra. Mi manca il respiro e non riesco a staccare gli occhi da lui. Mi sfiora piano la guancia, scendendo fino al mento. «Immagini quello che sto per farti?» aggiunge, accarezzandomi. I muscoli della parte più profonda e oscura di me fremono, provocandomi una sensazione deliziosa. È una fitta così intensa e soave che mi viene voglia di chiudere gli occhi, ma sono ipnotizzata dal suo sguardo fisso nel mio. Lui si china e mi bacia. Le sue labbra sono esigenti, lente, decise, e plasmano le mie. Comincia a sbottonarmi la camicia e intanto mi distribuisce baci leggeri come piume su uno zigomo, sul mento, agli angoli della bocca. Mi toglie piano la camicia, lasciandola cadere sul pavimento. Poi fa un passo indietro per ammirarmi. Indosso il reggiseno di merletto azzurro che mi calza a pennello. “Grazie al cielo.” «Oh, Ana» sussurra. «Hai una pelle bellissima, candida e perfetta. Voglio baciarne ogni centimetro.» “Oddio…” Perché ha detto che non è capace di fare l’amore? Sono pronta a fare tutto quello che vuole. Mi afferra la coda, la scioglie e trasale mentre i capelli mi cadono sulle spalle. «Adoro le brune» mormora, e mi infila le mani nei capelli, stringendomi i lati della testa. Il suo bacio è esigente, le sue labbra forzano le mie. Gemendo, cerco la sua lingua con la mia. Lui mi abbraccia e mi stringe a sé, con forza. Una delle sue mani rimane tra i miei capelli, mentre l’altra scende lungo la spina dorsale fino alla vita, e al sedere. Mi stringe le natiche con dolcezza. Mi attira contro i suoi fianchi, facendomi sentire la sua erezione, che preme lasciva contro di me. Gli ansimo in bocca. Stento a contenere il sentimento tumultuoso che mi travolge… o sono ormoni? Lo voglio da impazzire. Gli stringo le braccia, tastando i bicipiti. È sorprendentemente… muscoloso. Con esitazione, gli porto le mani al viso, tra i capelli. Sono così morbidi, indisciplinati. Glieli tiro con delicatezza, facendolo gemere. Mi spinge piano verso il letto. Penso che ora mi getterà sul materasso, ma non lo fa. Si stacca da me, e all’improvviso cade in ginocchio. Mi afferra i fianchi con entrambe le mani e mi passa la lingua sull’ombelico, poi si sposta dolcemente verso un’anca e quindi, facendosi strada attraverso il mio ventre, verso l’altra. «Ah» gemo. Vederlo in ginocchio davanti a me, sentire la sua bocca sulla mia pelle è una cosa così inattesa, così erotica. Ho ancora le mani tra i suoi capelli e li stringo con delicatezza, cercando di calmare il mio respiro affannoso. Lui mi guarda da sotto le ciglia lunghissime, e il grigio dei suoi occhi è ardente. Mi slaccia il bottone dei jeans, poi abbassa con calma la cerniera. Senza staccare gli occhi dai miei, sposta le mani sotto la cintura, sfiorandomi le natiche. Le sue mani scivolano lente sul mio sedere fino alle cosce, portandosi dietro i jeans. Non riesco a distogliere lo sguardo. Si ferma per passarsi la lingua sulle labbra, senza mai interrompere il contatto visivo. Si china in avanti e mi sfiora con il naso la sommità tra le cosce. Lo sento. Lì. «Hai un odore così buono» mormora chiudendo gli occhi, con uno sguardo di puro piacere, e quasi mi vengono le convulsioni. Allunga una mano e scosta la trapunta dal letto, poi mi adagia con dolcezza sul materasso. Sempre in ginocchio, mi afferra un piede e mi slaccia la scarpa, poi me la sfila, seguita dalla calza. Mi alzo sul gomito per osservarlo, ansimante di desiderio. Lui mi solleva il tallone e passa il pollice sul collo del piede. È quasi doloroso, ma il movimento mi si riverbera nell’inguine. Senza togliermi gli occhi di dosso, passa la lingua sul collo del piede, poi i denti. “Dio mio.” Gemo… Come posso sentirlo lì? Ricado sul letto, mugolando, e sento la sua risatina soffocata. </div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg2VUevXFHTUop25bij3Zc9tP0GW8u1frH2Tw9WygvOw9P8eSruoTgDs_D7C4mFITfRETUteyPO6iCJS1NkcT06N2eAvu1cXcnYwGx1dnhTE2ZMnTdxsOskd_bqliikBMZJ01nAHUR5lik/s1600/Kindle+Unlimited.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg2VUevXFHTUop25bij3Zc9tP0GW8u1frH2Tw9WygvOw9P8eSruoTgDs_D7C4mFITfRETUteyPO6iCJS1NkcT06N2eAvu1cXcnYwGx1dnhTE2ZMnTdxsOskd_bqliikBMZJ01nAHUR5lik/s200/Kindle+Unlimited.jpg" width="197" /></a></div>
<b>Dal 1 Luglio gli autori dei libri che hanno aderito alla modalità di lettura "Kindle Unlimited" (il consumatore paga un abbonamento di 9 euro al mese per leggere tutti i libri che vuole e in questo è costantemente monitorato a distanza sulle sue abitudini, 15.000 sono i libri in italiano e 700.000 in altre lingue che aderiscono a queto programma) non saranno più remunerati con una percentuale sulla vendita del libro ma sul numero effettivo delle pagine lette. Questo significa che se il libro non piace, è abbandonato dopo qualche pagina, l'autore non percepirà nulla. </b><br />
<b>Visto in prospettiva mi chiedo se questa modalità potrà influenzare la proposta creativa degli autori. </b><br />
<b>Sicuramente premierà coloro che saranno capaci di tenere incollato il lettore al libro, con frequenti colpi di scena, e quindi una certa modalità di scrittura e genere. </b><br />
<b>E gli altri? </b><br />
<b>Il libro più difficile che abbia mai letto è l "Ulisse” di James Joyce. Portarlo a termine non è una passeggiata ma alla fine non puoi non riconoscere che sia un capolavoro. Ci sarà spazio in futuro per autori simili?</b><br /><br />https://kdp.amazon.com/help?topicId=A156OS90J7RDN<br />
<br />
Kindle Unlimited Pages Read<br />Beginning July 1, 2015, we'll switch from paying Kindle Unlimited (KU) and Kindle Owners' Lending Library (KOLL) royalties based on qualified borrows, to paying based on the number of pages read. We're making this switch in response to great feedback we received from authors who asked us to better align payout with the length of books and how much customers read. Under the new payment method, you'll be paid for each page individual customers read of your book, the first time they read it.<br /><br />Royalty payments under the new program<br /><br />As with our current approach, we'll continue to set a KDP Select Global Fund each month. Under the new payment method, the amount an author earns will be determined by their share of total pages read instead of their share of total qualified borrows.<br /><br />Here are some examples of how it would work if the fund was $10M and 100,000,000 total pages were read in the month:<br /><br /> The author of a 100 page book that was borrowed and read completely 100 times would earn $1,000 ($10 million multiplied by 10,000 pages for this author divided by 100,000,000 total pages).<br /> <br /> The author of a 200 page book that was borrowed and read completely 100 times would earn $2,000 ($10 million multiplied by 20,000 pages for this author divided by 100,000,000 total pages).<br /> <br /> The author of a 200 page book that was borrowed 100 times but only read halfway through on average would earn $1,000 ($10 million multiplied by 10,000 pages for this author divided by 100,000,000 total pages).<br /><br />We will similarly change the way we pay KDP Select All-Star bonuses which will be awarded to authors and titles based on total KU and KOLL pages read.<br /><br />You can enroll in KDP Select at any time by visiting your Bookshelf. If you no longer want your book(s) to be included in KDP Select you may unenroll from the program by contacting us with the ASIN of the book you would like to remove.<br />Antonio De Bellishttp://www.blogger.com/profile/08589288385447295429noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3437498411039201584.post-33541256735193365942015-05-03T21:47:00.000+02:002015-05-03T21:47:42.950+02:00Il ladro di anime - Fitzek Sebastian<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgC2l4PrG2SQxvZq91-Y1_j8nfJzh2BUsvwN7An-e8RbZdSzrA37vsgMARN35Ty6iUluJHzlxU_PrIqk0l4Rat79AtaqZo7rP8xBRRE67BhdVWLBaZrIFyS6uqzwBvLT8QyQdXiNWV8zZM/s1600/Il+Ladro+di+Anime+-+Fitzek.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgC2l4PrG2SQxvZq91-Y1_j8nfJzh2BUsvwN7An-e8RbZdSzrA37vsgMARN35Ty6iUluJHzlxU_PrIqk0l4Rat79AtaqZo7rP8xBRRE67BhdVWLBaZrIFyS6uqzwBvLT8QyQdXiNWV8zZM/s1600/Il+Ladro+di+Anime+-+Fitzek.jpg" height="200" width="135" /></a><b>Per essere "Il thriller numero uno delle classifiche tedesche con oltre cinquecentomila copie vendute" inizio a preoccuparmi della piega che ha preso il gusto letterario di una nazione che è in cima alle classifiche mondiali per numero di lettori. <br />E' un romanzo pessimo, con una trama artificialmente complicata, personaggi poco credibili, quasi per nulla caratterizzati, nella maggior parte inutili alla storia se non per diventare vittime dello psicopatico assassino. Non c'è alcuna introspezione psicologica, nonostante il tutto ruoti sulla psiche degli attori. <br />Ho comunque imparato due cose:</b><br />
<ol>
<li><b>chi subisce una trachetomia (in questo caso autoinflitta con un coltello in gola) mantiene comunque una forza sovraumana che gli consente di lottare e di condizionare le vicende di una piccola comunità per ore;</b></li>
<li><b>idem chi a meno 20 gradi se ne va in giro con una magliettina e scalzo, tagliandosi adeguatamente i piedi con tutti i vetri che trova in giro riesce comunque a tener testa al primo di cui sopra</b></li>
</ol>
<br /><strong></strong>
In passato gli scienziati credevano che la trance ipnotica fosse uno stato assimilabile
al sonno fisiologico. Falso, è il contrario. (chiudendo gli occhi e alzando la voce) Il soggetto è sveglio, solo che la sua coscienza controllata è
limitata. Come nelle vittime. Come in Sophie. Capisci? Il Ladro di anime le
ha ipnotizzate. Anche se il nome mente, è la verità.<strong> </strong><br />
[...]<br />
Di solito
l'ipnosi medica è innocua. La cosa peggiore che può capitare è
la perdita della relazione ipnotica ... Cioè quando il terapeuta non
riesce più a comunicare con il soggetto, che non reagisce più
ai suoi ordini. Su questo hai ragione. Non si può fare altro che aspettare,
e prima o poi il paziente si sveglia. Ma parliamo di contrattempi involontari.
Danni causati dalla negligenza, piccoli incidenti durante numeri da baraccone,
quando la donna scelta tra il pubblico dovrebbe salire sul palco a quattro zampe
e cade nella buca dell'orchestra. Nessuno però ha mai verificato se è
possibile fare del male a qualcuno di proposito. Non capisci?
(ridotto a un sussurro)<br />
Se qualcuno avesse sviluppato un metodo per provocare il coma vigile permanente,
un metodo che alla lunga può perfino avere effetti collaterali letali,
non lo leggeremmo certo sulle pubblicazioni specialistiche. Si tratterebbe di
un esperimento illegale sugli esseri umani. E temo sia esattamente quello che
sta. succedendo qui. In questa clinica. E noi siamo le cavie.<br />
[...] <strong> </strong><br />
<strong></strong>In seguito a sevizie fisiche e torture psicologiche,
in particolare infliggendo un forte shock, è possibile far cadere in
trance contro la loro volontà soggetti influenzabili e dominarne la coscienza
ricorrendo a sostanze capaci di provocare fenomeni allucinatori.Antonio De Bellishttp://www.blogger.com/profile/08589288385447295429noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3437498411039201584.post-22641299795084360242014-09-21T20:18:00.001+02:002014-09-26T22:59:36.494+02:00 Shantaram - Gregory David Roberts<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi4-ri6R9MYvQ8sTdf_J1VzswsY9RhTipn-bIbRWlv1SkNvwx_KLizbjdu0iY4kfl9DtRFRB4DGlkd0n4ClG5F_mmg7Hgx8PwRbEA-02C27xfLp5dx7HGd3ME3kqdlIaoaXEpg1aJXfdII/s1600/Shantaram.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi4-ri6R9MYvQ8sTdf_J1VzswsY9RhTipn-bIbRWlv1SkNvwx_KLizbjdu0iY4kfl9DtRFRB4DGlkd0n4ClG5F_mmg7Hgx8PwRbEA-02C27xfLp5dx7HGd3ME3kqdlIaoaXEpg1aJXfdII/s1600/Shantaram.jpg" height="200" width="135" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<b>Dopo più di un anno riprendo ad aggiornare il blog e lo faccio con questo libro <a href="http://www.amazon.it/gp/product/8854500577/ref=as_li_qf_sp_asin_tl?ie=UTF8&camp=3370&creative=23322&creativeASIN=8854500577&linkCode=as2&tag=clubdellinnov-21">Shantaram</a><img alt="" border="0" src="http://ir-it.amazon-adsystem.com/e/ir?t=clubdellinnov-21&l=as2&o=29&a=8854500577" height="1" style="border: none !important; margin: 0px !important;" width="1" />
consigliato da una cara amica. </b></div>
<div style="text-align: justify;">
<b>A differenza del passato in cui leggevo il libro e poi ne scrivevo una breve recensione riportando i passi che più mi piacevano, ora l'aggiornamento lo effettuerò come work in progress mentre leggo il libro. </b><br />
<b>Questo dovrebbe evitare la trappola in cui ero caduto: procastinare il lavoro per mancanza di tempo e latente pigrizia per poi non effettuarlo più. </b></div>
<div style="text-align: justify;">
<b>Iniziamo.</b></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Ho impiegato molto tempo e ho girato quasi tutto il mondo per imparare
quello che so dell'amore, del destino e delle scelte che si fanno nella
vita. Per capire l'essenziale, però, mi è bastato un istante, <span style="color: #0b5394;">mentre mi
torturavano legato a un muro. Fra le urla silenziose che mi squarciavano
la mente riuscii a comprendere che nonostante i ceppi e la devastazione
del mio corpo ero ancora libero: libero di odiare gli uomini che mi
stavano torturando oppure di perdonarli</span>. Non sembra granché, me ne rendo
conto. Ma quando non hai altro, stretto da una catena che ti morde la
carne, una libertà del genere rappresenta un universo sconfinato di
possibilità. E la scelta che fai, odio o perdono, può diventare la
storia della tua vita. <br />
<br />
Ma soprattutto Bombay era libera, e comunicava una sensazione di libertà esilarante. Dovunque guardassi percepivo quello spirito di libertà, e mi accorsi di esserne contagiato nel profondo. Il moto di vergogna che avevo provato vedendo per la prima volta gli slum e i mendicanti si dissolse quando compresi che quegli uomini e quelle donne erano liberi. Nessuno cacciava i mendicanti dalle strade. Nessuno sfrattava gli abitanti degli slum. Per quanto penose fossero le loro esistenze, erano liberi di viverle negli stessi giardini e negli stessi viali dei ricchi e dei potenti. Erano liberi. La città era libera.<br />
<br />
Ero un fuggiasco. Ero un ricercato, mi davano la caccia, avevo una taglia sulla testa, ma ero un passo avanti agli inseguitori. Ero libero. Quando sei in fuga ogni giorno rappresenta tutta la tua vita. Ogni minuto in libertà è una breve storia a lieto fine.<br />
<br />
Mi voltai per guardare il mio salvatore. Era la donna più bella che avessi mai visto. Snella, capelli neri sciolti sulle spalle, pelle candida. Non era alta, ma le spalle ampie, la schiena dritta e i piedi divaricati saldamente piantati a terra. I miei occhi si perdevano, nuotavano, fluttuavano liberi nella laguna scintillante del suo sguardo fermo e quieto. Erano occhi grandi, di una spettacolare sfumatura di verde, come quella degli alberi nei sogni più vividi. Verdi come il mare, se il mare fosse perfetto.<br />
Continuammo a fissarci per cinque lunghi secondi, mentre miriadi di mondi e vite parallele che avrebbero potuto essere e non saranno mai vorticavano intorno a noi. Alla fine parlò.<br />
«C'è mancato poco. Sei fortunato».<br />
«Sì», dissi sorridendo, «proprio così».<br />
<br />
La sua voce - modulata in quella lingua incomprensibile era straordinariamente profonda e sonora, e mi faceva venire la pelle d'oca. Suppongo che anche quel particolare avrebbe dovuto mettermi in guardia. "La voce", dicono i procacciatori di matrimoni afghani, "è più di metà dell'amore".<br />
<br />
Le antiche leggende sanscrite narrano di amori predestinati, di connessioni karmiche fra anime destinate a incontrarsi, urtarsi e incantarsi a vicenda. Le leggende dicono che l'amata si riconosce all'istante perché si ama ogni suo gesto, ogni suo pensiero, ogni movimento, ogni suono e ogni stato d'animo che balena nei suoi occhi. La riconosciamo dalle sue ali - ali che solo noi possiamo vedere - e dal fatto che lo struggimento per lei annienta ogni altro desiderio d'amore. Queste leggende avvertono anche che simili amori predestinati possono possedere e ossessionare una, e una sola, delle due anime che il destino ha fatto incontrare. Ma in un certo senso la saggezza è l'opposto dell'amore. L'amore sopravvive in noi proprio perché non è saggio.<br />
<br />
Il fato ha bisogno di complici, e le pietre sui muri del destino sono cementate da piccole e inconsapevoli complicità.<br />
<div>
</div>
</div>
<div style="text-align: justify;">
<div>
<br />
Infilai il piccolo involto - grande pressappoco come una scatola di
fiammiferi - in un lato della bocca, fra la guancia e i denti, come
avevo visto fare agli altri clienti. Dopo pochi secondi un'effusione
dolce e fragrante mi avvolse il palato Era un gusto acre e succulento, mielato e leggermente piccante a un
tempo. La foglia dell'involucro cominciò a dissolversi, e i pezzettini
duri e croccanti di noce di betel, datteri e cocco cominciarono a
turbinare fra i succhi zuccherini.<br />
<br />
Anand sapeva come noi che sei dollari non era una
cifra esagerata per tre forestieri. I proprietari degli alberghi
ricevevano quattro dollari per stanza. Quel paio di dollari in più era
il margine di guadagno giornaliero di Anand e dei suoi tre camerieri. Le
piccole vittorie degli stranieri costavano ad Anand il pane quotidiano,
e ai turisti la possibilità di avere Anand come amico.
<br />
<div class="calibre1">
La semplice e sorprendente verità sull'India e gli
indiani è che quando sei lì, e tratti con loro, il cuore ti guida sempre
più saggiamente della testa. Non c'è posto al mondo in cui questa
verità sia più evidente. </div>
<div class="calibre1">
<br /></div>
<div class="calibre1">
Il passato si riflette perennemente in due specchi: quello luminoso
delle parole pronunciate e delle azioni compiute e quello scuro, colmo
di tutte le cose che non abbiamo detto o fatto.<br />
<br />
<div class="calibre1">
Karla come amica se la cava discretamente, ma come nemica è
straordinaria. Quando giudichi il potere di una persona devi valutare le
sue capacità sia come amica sia come nemica. In questa città non esiste nessuno in grado di essere un nemico peggiore o più pericoloso di Karla». Mi fissò negli occhi, come se cercasse qualcosa. «Sai di che potere parlo, vero? Potere reale. Il
potere di far splendere gli uomini come stelle o di schiacciarli nella
polvere. Il potere dei segreti. Segreti terribili, terribili. Il potere
di vivere senza rimorsi. Lin, c'è qualcosa nella tua vita di cui ti
penti? Hai dei rimorsi?» «Sì, credo di sì...» «Certo che sì! Proprio come me, mi pento di cose che
ho fatto... e che non ho fatto. Invece Karla no. Per questo è come quei
pochi altri nella sala, quelli che hanno il potere vero. Il cuore di
Karla è uguale al loro, il nostro no.</div>
</div>
</div>
</div>
Antonio De Bellishttp://www.blogger.com/profile/08589288385447295429noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3437498411039201584.post-17028986488263659832013-05-26T06:54:00.000+02:002014-09-25T12:34:37.492+02:00Il giorno in cui decisi di diventare una persona migliore - Karen Duve<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjyMnfkfEf3hZ47wi8vVQjaXnFk9njPapGrvoZlsYWK8dOjHQBegO4c8B42CbazT_GWi5t2uTO6XSo3Mh_7md9o8c6rGMZeewjYxHC4NrDGjdyEzkKQSKIBAzDzc5kH1YP9m8WpLbG1434/s1600/Duve+-+Il+giorno+in+cui+decisi+di+diventare+una.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjyMnfkfEf3hZ47wi8vVQjaXnFk9njPapGrvoZlsYWK8dOjHQBegO4c8B42CbazT_GWi5t2uTO6XSo3Mh_7md9o8c6rGMZeewjYxHC4NrDGjdyEzkKQSKIBAzDzc5kH1YP9m8WpLbG1434/s200/Duve+-+Il+giorno+in+cui+decisi+di+diventare+una.jpg" height="200" width="119" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<b>La riunione del gruppo lettori si è tenuta questa volta in un luogo insolito: a tavola in un ristorante vegetariano/vegano. L'occasione è scaturita dal libro del mese <a href="http://www.amazon.it/gp/product/8854505498/ref=as_li_qf_sp_asin_tl?ie=UTF8&camp=3370&creative=23322&creativeASIN=8854505498&linkCode=as2&tag=clubdellinnov-21">Il giorno in cui decisi di diventare una persona migliore</a><img alt="" border="0" src="http://ir-it.amazon-adsystem.com/e/ir?t=clubdellinnov-21&l=as2&o=29&a=8854505498" height="1" style="border: none !important; margin: 0px !important;" width="1" />
che affronta il tema dell'alimentazione in modo esperenziale. L'autrice, infatti, seguendo un po' le orme del documentario <a href="http://www.amazon.it/gp/product/8807740109/ref=as_li_qf_sp_asin_tl?ie=UTF8&camp=3370&creative=23322&creativeASIN=8807740109&linkCode=as2&tag=clubdellinnov-21">Super size me</a><img alt="" border="0" src="http://ir-it.amazon-adsystem.com/e/ir?t=clubdellinnov-21&l=as2&o=29&a=8807740109" height="1" style="border: none !important; margin: 0px !important;" width="1" />
di qualche anno fa, decide di sperimentare su se stessa tre comportamenti alimentari differenti e di tenere quindi un diario su cui annotare sensazioni</b>, <b>valutazioni e conoscenze che acquisisce in questo cammino. </b></div>
<div style="text-align: justify;">
<b>Per due mesi sarà vegetariana, ponendo grande attenzione alla provenienza bio degli alimenti, per due mesi sarà vegana, sposando completamente la filosofia di rifiuto dello sfruttamento degli animali che consiste anche nel rinunciare a scarpe e vestiti in pelle, e per due mesi sarà fruttariana, la forma più integralista delle diete perchè il rispetto viene allargato ad ogni forma vivente comprese quindi le piante i cui frutti sono consumati quando questi cadono naturalmente senza causare loro danno o stress. Alla fine del percorso sarà più matura e in grado di fare una scelta alimentare più consapevole. </b></div>
<div style="text-align: justify;">
<b>Il libro mi è piaciuto per tutte le informazioni sulle pratiche alimentari alternative che hanno una motivazione etica ma anche salutistica</b>. <b>A rigurado è molto interessante l'approfondimento sulle modalità di produzione degli alimenti in cui viene affrontato il tema degli allevamenti intensivi, di come gli animali sono trattati prima che si compia il loro inevitabile destino. Immaginare migliaia di polli stipati in gabbie che non consentono loro di muoversi se non zampettare nel loro stesso sterco porta ad interrogarsi sulla provenienza e qualità di ciò che mangiamo. E nel nostro paese non vi è molta informazione a riguardo.</b></div>
<div style="text-align: justify;">
<b>Dopo la discussione sul libro, la cena: abbiamo assaggiato piatti vegetariani e vegani, mescolando portate dei due menù che il ristorante presentava giustamente distinti: crepes di erbe, polpette di fave novelle con contorno di verdure dell'orto (c'era anche il prezzemolo a foglia lunga) e maionese vegana, torta al rabarbaro. Tutto buono e gustoso anche se ciò nonostante molti di noi non riunceranno a carne e pesce :-)</b></div>
Antonio De Bellishttp://www.blogger.com/profile/08589288385447295429noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3437498411039201584.post-21279054467734374082013-04-20T12:34:00.002+02:002013-04-28T09:07:09.594+02:00[SONDAGGIO] - Quali sono i film più belli del libro da cui sono tratti<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgNNlrMRoe_96oE3eiqePaVcksedv8Td7IkDBQnyoKFcAGzZwT722VWD1F8LZdPCZUx_MVitQ1WoDjrt7wigaQgNUV2VWK85VgKFygdew2yomUb1SsJaCc2UxjgZPy2HkdwVnTSvFuxVOk/s1600/Libro_pellicola.jpg" imageanchor="1"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgNNlrMRoe_96oE3eiqePaVcksedv8Td7IkDBQnyoKFcAGzZwT722VWD1F8LZdPCZUx_MVitQ1WoDjrt7wigaQgNUV2VWK85VgKFygdew2yomUb1SsJaCc2UxjgZPy2HkdwVnTSvFuxVOk/s320/Libro_pellicola.jpg" /></a><iframe frameborder="0" height="500" marginheight="0" marginwidth="0" src="https://docs.google.com/forms/d/1D0QpwKTH9DNMUYTby-RZG2uE9agaBI1efF10PSRpe0w/viewform?embedded=true" width="460">Caricamento in corso...</iframe><br />
<br />
<br />
<b>Risultati aggiornati al 28 Aprile 2013</b><br />
<br />
Antonio <br />
Le ali della libertà <br />
Il miglio verde<br />
<br />
Salvo<br />
Io non ho paura<br />
<br />
Barbara<br />
Arancia meccanica<br />
<br />
Graziella<br />
Cronaca Familiare <br />
Il Gattopardo<br />
<br />
Michele<br />
Il Signore degli Anelli <br />
<br />
Simona<br />
Orgoglio e Pregiudizio (versione 1995)<br />
Chocolat <br />
<br />
Roberta<br />
Colazione da Tiffany<br />
Fight Club<br />
Espiazione<br />
Il Signore degli Anelli<br />
LA Confidential<br />
<br />
Paola<br />
Non ti muovere<br />
Come un uragano<br />
<br />
Daniele<br />
Chocolat<br />
Il miglio verde<br />
Il Gattopardo<br />
<br />
Irma<br />
La ragazza con l'orecchino di perlaAntonio De Bellishttp://www.blogger.com/profile/08589288385447295429noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3437498411039201584.post-78449797893868440572013-04-20T12:07:00.001+02:002013-04-20T12:07:51.726+02:00L'Ultimo ballo di Charlot - Fabio Stassi<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiIOQfZlQhQRr0biVzoLyGZSM-44BbVzXLhFkA1Nk_q_7tNSvfoZ0N8sxOYIlQ6HetAe-BgOIMwpkfxYWtDNykdBrgSYB01j4nyVvF88OT35x_sLx4NiDG3qVE9Aap0_G4bp6Avkfq9UkY/s1600/Stassi+-+ultimo+ballo+di+charlot.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiIOQfZlQhQRr0biVzoLyGZSM-44BbVzXLhFkA1Nk_q_7tNSvfoZ0N8sxOYIlQ6HetAe-BgOIMwpkfxYWtDNykdBrgSYB01j4nyVvF88OT35x_sLx4NiDG3qVE9Aap0_G4bp6Avkfq9UkY/s200/Stassi+-+ultimo+ballo+di+charlot.jpg" width="128" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<b>La serata che il gruppo lettori ha dedicato a <i>L'ultimo ballo di Charlot</i> è stata monopolizzata dalla discussione sui <a href="http://leggereconpiacere.blogspot.it/2013/03/sondaggio-i-5-piu-bei-libri-letti-nella.html" target="_blank">5 Libri più belli letti nella propria vita</a>. Ognuno di noi, spinto dalla curiosità ha chiesto informazioni su libri non conosciuti inseriti nella lista e ne è nato una vivace dibattito che ha portato a condividere ricordi, emozioni, conoscenze e da cui tutti siamo usciti più arricchiti. <br />Il libro di Stassi è quindi passato in secondo piano perchè ritenuto un po' leggero e non rispondente come biografia alla vita reale di Charlie Chaplin. <br />A me il libro è piaciuto per l'idea originale di far vivere la biografia del grande comico come se fosse una auto-biografia, con il racconto in prima persona, e per alcune storie-nella-storia che riporto di seguito (l'allenamento del pugile, l'annuncio di lavoro e il primo film, l'acrobata Estzer, la nascita del personaggio di Charlot,...), appassionanti e a tratti commuoventi.</b><br />
<br />
Per diventare l'attore che volevo essere, dovevo imparare a stare nella testa della gente, a cavarmela da solo, a guardare. A far nascere ogni movimento dall'osservazione della vita. Non ci sono scorciatoie. Se volevo essere credibile, dovevo restituire nella finzione ciò che in qualche modo era stato vero per me. I trucchi che conoscevo non servivano da questo lato dell'oceano.<br />
Fu quel giorno che diventai Charlot, the Tramp, il vagabondo con la bombetta e il bastone di bambù, e non nel magazzino di uno studio cinematografico, tre o quattro anni dopo. La tournée che feci allora in giro per l'America, nei miei abiti trasandati, non fu una capriola da un teatro all'altro, come ho sempre lasciato credere, ma un lungo viaggio solitario tra gente che campava d'espedienti o che non campava affatto, nel cuore di un'umanità stralunata, eccentrica e miserabile. La vita che vivevano gli altri attori, lontano da tutto, concentrati soltanto sulla loro professione, non m'interessava. In pochi mesi appresi una grande quantità di altri mestieri, oltre a quelli che avevo già imparato a Londra, e conobbi<br />
un numero imprecisato di situazioni e di temperamenti. Si può dire che feci scorta di idee per tutto il resto della mia carriera. La mia pelle acquisì più colori di una seppia o di un camaleonte. Fu l'apprendistato dei miei vent'anni e combaciò perfettamente con quello che avevo intrapreso durante l'infanzia.<br />
Prima che il cinema si mettesse di traverso sulla mia strada, o io sulla sua, non l'ho ancora capito bene, pensai anche di allevare maiali e produrre salsicce. Sfruttando la mia statura, lavorai come fantino in un paio di ippodromi del Texas e del New Mexico, raccolsi tulipani nelle ore di luce e boxai in almeno una decina di palestre degli stati del Sud, un'attività dura ma redditizia: mi pagavano per prendere pugni per tutto l'incontro e andare al tappeto solo all'ultima ripresa.<br />
Osservavo una dieta ferrea, viaggiavo in treno e mi lavavo molto, i denti soprattutto, per essere sempre fiero di ridere, anche se spesso cadevo preda di irragionevoli scoppi di collera e di malinconia. Quando capitava, ma solo l'ultima notte in cui dormivo in una città, giocavo a carte. La mia meta era la California. A Las Vegas provai persino a vendere aspirapolveri multiuso che si trasformavano in frullatori. Un mio brevetto. Mi presentavo sempre allo stesso modo, con il sorriso più largo e sfrontato che conoscevo: Buongiorno, dicevo, mi chiamo Charlie e ho un'idea che vi farà ricchi. Solo due immigrati tedeschi con un occhio strabico per uno e una piccola impresa di elettrodomestici mi proposero di produrre in serie il prototipo. Sono ancora convinto che se l'avessero fatto per davvero, il mio nome avrebbe sostituito per sempre quello di William Hoover, il re degli aspirapolveri.<br />
Nelle pause, suonavo il violino. Avevo riparato la tavola armonica con una colla da ciabattino simile ai mastici che usava mio nonno e montato le corde a rovescio, perché sono mancino; in ogni città che visitavo rubavo qualche segreto ai musicisti locali e lo ripetevo sullo strumento. Non ci crederai, Christopher, non ci credo neppure io, ormai, ma allora feci anche l'imbalsamatore, l'allenatore di pugili e il tipografo. </div>
<div style="text-align: justify;">
[...]</div>
<div style="text-align: justify;">
Mi trovo molto più a mio agio in una palestra che in una chiesa, signore, dissi, ed è per questo che sono entrato qua. Avevo la barba sfatta e la faccia stanca. Webster Duncan si strofinò una guancia con una mano stringendo la mascella. Da quant'è che non dormi? Non è facile dormire con lo stomaco vuoto: negli ultimi tre giorni non ho mangiato che una zuppa. Non mi stai prendendo in giro, vero? No, signore, sinora le ho detto solo la verità. Allora facciamo questo patto, noi due: io ti faccio portare un piatto di cavolo e manzo e ti lascio dormire nello spogliatoio, per stanotte. Tu domani ti lavi e togli il disturbo, d'accordo? D'accordo, dissi, sentendo un groppo di commozione stringermi la lingua.<br />
Passò un mese prima che mettessi un dito fuori da quella palestra. Webster mi prese come tuttofare e quando mi vide all'opera con i guantoni e un paio di scarpe leggere decise che avevo un mucchio di cose da insegnare ai suoi ragazzi.<br />
L'atleta più promettente che mi trovai tra i piedi fu un sedicenne con un pizzetto appena accennato sul mento e una cera pensierosa. Lo chiamavamo Balbetta Groogan, perché aveva un difetto di pronuncia e terminava a fatica una frase. Il suo fisico era del tutto inadatto per la boxe: le braccia corte, il torace stretto e le gambe più friabili di due grissini. Ma quando tirava di destro, gli potevi contare le vene gonfie sul collo magro. E un'occhiata gelida, dietro i pugni chiusi, che ti seccava le ossa, come se fosse stato assalito da una tristezza improvvisa e ora tutta questa tristezza volesse uscire dal suo corpo con una rabbia che non si poteva contenere. <br />
Aveva un debole per i passerotti. Non so come facesse a catturarli: con delle molliche di pane, credo. Quando entrava in palestra ne portava sempre qualcuno nelle tasche, che accarezzava con i pollici. Li consegnava a Webster con riluttanza, prima degli allenamenti. Apriva le sue grandi mani, ch'erano due bestie calde, e dentro ci dormivano questi uccellini, con la noce del collo rotta, come delle marionette di legno. I suoi incontri li avrebbe potuti vincere solo con gli occhi, pensai la prima volta che mi venne incontro sul ring, con la guardia alzata. Un terrore irragionevole si propagò nelle mie braccia e a distanza di così tanto tempo non saprei ancora spiegarne il motivo. Balbetta Groogan ti faceva prendere coscienza di tutti i tuoi limiti e del luogo in cui ti trovavi in quel momento, del poco che nella vita avevi combinato sino allora e del niente che avresti combinato dopo. Questo ti squagliava irreparabilmente il coraggio. Era una dote che hanno soltanto pochi pugili. La molla che li fa ballare su un tappetino di gomma è diversa dalla musica che muove tutti gli altri. Non si tratta né di soldi, né di vanagloria, come per molti campioni. Sono sentimenti difficili da nominare, una spinta che viene da una profondità remota e riguarda la sconfitta piuttosto che la vittoria. I tipi alla Balbetta Groogan sono rari come un'azalea in un campo di papaveri. Il pubblico li riconosce sempre e se ne innamora, perché vede la fragilità prima della loro forza, e ogni volta che vincono gli sembra di assistere a un miracolo, a una ribellione all'ordine naturale delle cose. È come nelle comiche. Ma alla lunga, e loro stessi lo sanno per primi, la fragilità che li modella riprende fatalmente il sopravvento. Allenarli non è facile. Serve molta attenzione: non valgono le regole comuni. Ci vuole qualcuno che gli insegni a prendersi cura di sé. Questo fu il mio compito, per qualche settimana. Insegnare a Balbetta Groogan a difendersi, soprattutto dal proprio sconforto. Mi diedi una disciplina anch'io: mangiavo pane integrale, dormivo le ore necessarie alla mia salute e tenevo i muscoli in esercizio. Per la prima volta nella vita, dovevo essere da esempio a qualcuno. Ma non avrei potuto convincere a lungo neppure il più sprovveduto di quei ragazzini senza sale che giravano in palestra con i miei trucchetti da gabbamondo.<br />
Webster Duncan apprezzava tuttavia il mio lavoro, perché era un uomo buono e aveva gli occhi di pane. Qualche volta veniva fuori dal suo ufficio per osservarci.<br />
Io obbligavo il nostro campione a boxare con un paio di zoccoli sulla sabbia e gli mostravo tutti i movimenti che avevo imparato con gli Eight Lancashire Lads. Una miniera di finte che avrebbero disorientato qualsiasi avversario. Mi divertivo a nascondermi dietro di lui e a ricopiare i suoi stessi passi. Roteavo le braccia, mi ci aggrappavo da dietro, lo colpivo a tradimento. Si fermavano anche gli altri atleti, e scoppiavano a ridere. Volevo che saltasse come le sillabe delle parole che gli singhiozzavano in bocca per insultarmi senza trovare la strada. Nessuno, dopo di lui, seppe ballare a quel modo sopra un ring e bisognò aspettare Cassius Clay per rivedere qualcosa di simile. Un vero sand dancer. Certo che hai dei metodi originali, commentava Webster esaminando tutti i dondolamenti di Balbetta.<br />
Sì, sapevo anche essere scorretto, se necessario. Prima che lo facesse qualcun altro, gli rovinai il profilo con un montante non annunciato e dopo lo mandai a piagnucolare davanti a uno specchio. Era quello che volevo: che sputasse la sua anima troppo giovane e delicata nel lavandino di uno spogliatoio e tornasse in palestra più nudo e sgualcito di un neonato. Non fare mai tramontare il sole dell'ira sul tuo orizzonte, gli dicevo, la rabbia è un dono.<br />
Per giorni interi, lo sfinii con la corda e le finte di spalla e lo mandai a correre per il quartiere. Presto cominciò a somigliare a un autentico boxeur, con la sella del naso marcata e gli zigomi sporgenti. In capo a tre settimane eravamo giunti a buon punto e Balbetta Groogan era quasi pronto per 1a benedizione della campanella, come si dice in gergo. Mancava solo qualche dettaglio. A un mese esatto dal giorno in cui vi ero entrato uscii da quella palestra per andare, insieme a Webster e alla nostra giovane promessa, a un match di esibizione di Jack Johnson, il figlio di schiavi più famoso del pianeta: un negro che ammirava Napoleone Bonaparte, amava l'opera italiana e quell'estate, alla quindicesima ripresa, di fronte a ventimila persone, aveva battuto quel latticino diJames J. Jeffries a Reno, in N evada. Anche il pugilato, a suo modo, era un circo di creature fuori misura, e come tutti i circhi richiamava sempre una gran folla. il cowboy di due metri che qualche anno dopo tolse a Johnson il titolo di campione del mondo avrebbe terminato la carriera al Wild West Show di Buffalo Bill. Ma quella sera sembrava che tutta San Francisco fosse venuta a rendere omaggio al gigante di Galveston.</div>
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[...]</div>
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Anche se mi ero licenziato dalla tipografia di Willie,decisi che non avrei smesso di coltivare la mia istruzione, che era ancora molto scarsa. Da quando non li facevo più, i libri iniziai a comprarli dai rigattieri. Ho avuto sempre un debole per le bancarelle piene di volumi ingialliti che odorano di cantina. Ora che conoscevo tutto il lavoro che c'era dietro, veder li abbandonati su un tavolaccio mi dava dolore, come un'ingiustizia. Sceglievo e mi facevo scegliere da quelli che costavano di meno - di solito vecchi trattati di filosofia o manuali di yoga - e li leggevo furiosamente, da capo a piedi, senza nessun ordine perché non avevo maestri. Lettere, dialoghi, frammenti, diari di seduttori ... I nomi di Epicuro, di Platone, Kierkegaard, Nietzsche mi divennero familiari come dei compagni di bevute. Molto più rapidamente di ogni previsione, però, spesi nei libri tutti i soldi che avevo guadagnato in quei mesi. Il giorno in cui avrei dovuto saldare l'affitto, in tasca mi erano rimasti soltanto dieci centesimi. Al signor Hood lasciai in pegno la valigia e tutte le mie cose, ma non il violino. Non so che farmene dei tuoi libri, mi disse. Ti do un giorno, altrimenti non rivedrai le tue mutande per il resto della vita. <br />
Me ne andai a camminare senza meta per Carson Street. Quando mi sentii stanco, mi fermai su una panchina e analizzai la situazione. Un filare di torce, tra gli alberi, illuminava una piazzetta. Tutti i tavolini dei ristoranti erano affollati. La gente sembrava felice. Chissà cosa voleva dire sedersi a un ristorante senza avere controllato prima, con cura, il prezzo di ogni piatto e stabilito quale si può ordinare e quale no, nella migliore delle ipotesi. Ogni voce di donna, ogni tintinnio di bicchiere, mi provocavano un rimpianto lancinante per tutto ciò che non avrei mai provato. Avevo di nuovo lo stomaco vuoto e stavo quasi per mettermi a piangere quando vicino a me si accomodò un negro. Una folata di vento gli sollevò i capelli bianchi come se fossero stati piume. Da un lato, gli mancava la metà di un orecchio. Tuo padre è contento di te, amico? disse. Mi vennero i brividi. Che diritto aveva quell'uomo di farmi una domanda simile? Non so nemmeno perché, ma gli risposi.<br />
Mio padre è morto, dissi. Il negro se ne restò in silenzio, ma non smise di fissarmi. Il suo fiato imperlava l'aria di alcol etilico e io non avevo mai visto degli occhi cosl gialli. Mi spazientii e gli diedi le spalle. Quell'ubriacone doveva essere stato mio padre in persona a mandarmelo, dall'inferno o da qualsiasi altro luogo fosse finito. Ma era improbabile: quando serviva, mio padre non c'era mai stato, e ora mia madre cuciva guanti in un manicomio, picchiava la gente e vedeva il Giordano scorrere sul pavimento ...<br />
Il negro continuò a studiarmi. Ero già in piedi quando mi fermò con un braccio. Aspetta, amico, voglio farti un regalo. Oggi deve essere il tuo giorno fortunato, prendi questo. Tirò fuori dalla tasca un biglietto tutto sgualcito, lo stirò con due dita, poi me lo diede. Era un ritaglio di giornale, che si leggeva appena. Un'offerta di lavoro. Il negro lanciò intorno a sé una sonora risata. Guardai meglio. La Levy Fritz Mutoscope Company, c'era scritto su quel brandello di carta, cercava uno scrittore di didascalie. Mai letta un'inserzione più bizzarra di quella, da quando spulciavo gli avvisi economici. Se avessi la tua età, mi precipiterei. Io sono troppo vecchio per loro, ma tu no. Devi solo stare attento. Lo vedi questo orecchio mozzo? È stata una tigre a strapparmi la parte che mi manca. È un miracolo che mi abbia lasciato vivo. Stavo perdendo il mio tempo: quell'uomo era pazzo. È successo quando lavoravo al circo Barnum & Bailey, come domatore. Dei circhi non ti puoi fidare, prima o poi ti strappano il cuore. A me è andata bene. Ma il cinematografo è il circo più grande che sia mai esistito, ci succhierà a tutti l'anima. Okay, dissi, ora torna a casa, a dormire. La gente come me non ce l'ha una casa. Cercai i miei ultimi dieci centesimi nella giacca, ma inutilmente. Mi dispiace, mi devono essere caduti in un buco della tasca. Il negro alzò le spalle. Gli presi la mano e gli chiusi la moneta nel pugno. Scherzavo: sono tutto ciò che ho, dissi.<br />
Anch'io, adesso. Ci mettemmo a ridere, come due bambini. Un'ultima cosa, prima che te ne vai. Non fidarti di quello che si dice in giro: il cinema non possono averlo inventato i bianchi. Lo so, amico. I denti gli scintillarono. Bene, disse. Ricordati che tutte le coincidenze hanno un'anima. Non lo scorderò. Mi strinse il braccio e i suoi grandi occhi gialli mi seguirono fino alla fine della strada. Era il mio ultimo nichelino e ci avevo comprato l'annuncio di un giornale che suonava come un biglietto della lotteria.<br />
CERCASI SCRITTORE DI DIDASCALIE<br />
PER IL CINEMATOGRAFO<br />
LEVY FRITZ MUTOSCOPE COMPANY<br />
TAMARIND AVENUE<br />
Lo levai dalla tasca e rilessi il nome della società che offriva quello strano lavoro e l'indirizzo. Tamarind Avenue. Beh, per quella sera non avevo niente in programma, tanto valeva dirigersi da quella parte. Naturalmente, la sede della Levy Fritz Mutoscope Company si trovava dall'altro lato della città e Los Angeles, già allora, era una città troppo grande anche per delle gambe allenate come le mie. Ci impiegai quasi tre ore e non l'avrei mai trovata se una comitiva di irlandesi non mi avesse scortato per un suburbio di case basse e grigie, cantando a squarciagola una ballata che aveva a che fare con l'indipendenza della loro isola e il Regno Unito. Fossi stato inglese, mi disse uno, non saresti tornato indietro, stasera.<br />
Lo salutai con le poche parole francesi che conoscevo. Tamarind Avenue non aveva niente di esotico o di tropicale. Odorava solo di morchia e di campagna, di buio pesto. Ne percorsi un tratto, attraverso una nebbiolina umida che mi bagnava il naso. I muscoli mi pesavano come se fossero stati di calcestruzzo, ma di tanto in tanto si aprivano nel cielo piccoli bagliori luminosi che mi distraevano.</div>
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[...]</div>
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Per riassumere una scena con una sola frase, bisogna essere veloci, asciutti, dissi, il pubblico deve capire con un'occhiata cosa è accaduto o sta per accadere, dove si svolge l'azione e quali sono i rapporti tra i personaggi. Molto è affidato al regista e agli attori, ma buona parte del successo di un film dipende anche da questi dettagli.<br />
Andavo a braccio, sperando che quel mestiere fosse talmente nuovo che nessuno sapesse ancora in cosa consisteva. Ma era come pattinare sul ghiaccio. E poi non credevo affatto che la pantomima avesse bisogno di istruzioni. La pantomima è una danza. Avrei dovuto propormi come attore, ma il ricordo del fiasco di New York ancora mi bruciava la pianta dei piedi come un ferro da stiro pieno di ruggine. Ho licenziato il tuo predecessore, disse Mister Fritz, perché aveva commesso degli errori di grammatica al primo quadro. Nessuno di noi se ne era accorto, presi da tutto il resto. La gente ha cominciato a ridere e non ha più smesso. Doveva essere un film serio: è diventato una comica. Con la grammatica come te la cavi? Benone, Mister Fritz, ho corretto bozze in una tipografia e la letteratura è sempre stata la mia passione. Non sciupiamo altro tempo, allora. Abbiamo in progetto un film tratto da Dickens. David Coppeifield. Conosci la storia? A menadito.<br />
Saresti in grado di cominciare a lavorarci sopra? La mia idea è di partire dalle didascalie, questa volta.<br />
Il primo passo è mio? Potrebbe. Non risposi subito. Non volevo fargli capire quanto mi interessasse quel lavoro. Ma a Mister Fritz serviva qualcosa di più di un semplice scrittore di cartelloni, voleva solo pagarlo poco. Puntuale arrivò la sua proposta. Sedici dollari la settimana ti vanno bene? Sono venuto in California perché sarà qui che il cinematografo metterà le sue radici. Ma a sedici dollari la settimana per me non verrà su nessun raccolto. Sei un tipo intraprendente, Chas. Nelle questioni finanziarie lo sono sempre stato. Quanto vuoi? Venticinque dollari e comincio subito. Gli altri se la prenderanno se ti pagherò cosi tanto. In fondo, nemmeno ti conosciamo. E allora lei mi assuma a sedici dollari, con un mese d'anticipo. Ma alla consegna del suo Copperfield mi aumenta lo stipendio a venticinque. Mister Fritz si appoggiò allo schienale. Credetti che la sedia sarebbe crollata da un momento all'altro. Le sue scarpe nere e lucide da uomo d'affari scricchiolarono. <br />
D'accordo, disse. Mi alzai e mi esibii nel migliore inchino di cui fossi capace.<br />
La biblioteca di Los Angeles aveva delle larghe tende azzurre. La sala di lettura, a forma di emiciclo, ricordava un teatro. Io sedevo sempre allo stesso posto, nel tavolo sotto la prima finestra, e cercavo di inventarmi un metodo di lavoro. Avevo chiesto tutto quello che possedevano su Dickens e David Copperfield e una bibliotecaria a cui piaceva sentirmi parlare di Londra nelle ore del pranzo mi lasciava portare in albergo un libro per notte, all'insaputa dei colleghi.<br />
Tornai al Las Alamitos Hotel ma solo per ritirare le mie mutande e saldare il conto. La faccia del signor Hood non la volevo più vedere. Trovai una stanza a poco prezzo a Bunker Hill e la presi per un mese. Meglio essere cauti e non offendere la buona sorte. Di notte, la coperta puzzava un poco di ammoniaca, ma per qualche giorno quello fu per me il letto più comodo del mondo. Per il momento, con i soldi dell'anticipo non ebbi più problemi a salire su un autobus. Lasciavo i decini liberi di navigare nella tasca e sentirli sbattere tra loro quando camminavo mi rendeva allegro. Mi ero comprato naturalmente della biancheria, e una giacca lunga usata con i polsini e il collo di velluto verde perché la mia era troppo lisa e non si adattava più al nuovo lavoro. L'avevo strappata per qualche dollaro a un rigattiere di Hancock Park, attenendone uno sconto<br />
purché ascoltassi alcune sue poesie. Mi era parso un patto ragionevole. Da pochi giorni anche per me le parole avevano<br />
un prezzo. Gli proposi di invertire qualche aggettivo e cambiare i titoli. N e fu così contento che mi scalò un altro mezzo dollaro dal costo della giacca. Il tempo in biblioteca passava veloce. Il problema era la sera, in camera. In una sola settimana avevo riletto per intero il romanzo e imparato a memoria buona parte dell'ultimo capitolo. Dopo cena lo recitavo alla moglie del mio albergatore, una donnina con le orecchie accartocciate che piegava sempre la testa da un lato, ma non avevo nessuna idea su quale fosse la cosa giusta da fare. Acquistai due piccoli quaderni e scelsi di tentare due strade diverse. Sul primo quaderno cominciai a scriverei di tutto, disordinatamente: il nome dei personaggi, il colore dei loro capelli, la data di nascita, gli aggettivi che Dickens usava più spesso e le frasi che mi erano piaciute. Il secondo quaderno lo lasciai invece bianco, per il testo definitivo. Man mano che uno si riempiva, l'altro restava comunque vuoto, e io mi innervosivo due volte: perché sul primo scrivevo troppo e sul secondo non scrivevo affatto. Mi ero ripromesso di compendiare novecento pagine in dieci quadri. Poche lettere su uno sfondo nero. Sapevo quali sarebbero state le prime. C'era una volta ... tutte le storie cominciano così, non si rischia di sbagliare. Ma poi? Mi affidai all'istinto. Decisi che dovevo isolare gli oggetti che apparivano nel libro e che si sarebbero potuti riprodurre nei capannoni di Mister Fritz. <br />
I libri sono sempre pieni di cose, ma per estrarle bisogna trattare ogni capitolo come se fosse uno scantinato o un solaio, con i cimeli di famiglia, gli arnesi abbandonati e quelli che si continuano ancora a usare. Persi due giorni, ma alla fine avevo steso una lista lunga quattro pagine. La rilessi. In cima avevo segnato queste due parole:<br />
BARCA CAPOVOLTA<br />
Era la casa del fratello di zia Peggy, la governante di Copperfield. Un barcone rovesciato sulla spiaggia e usato come alloggio. L'unico luogo felice di tutta la storia. Pensai che doveva esserci una relazione tra quella felicità e il fatto che la casa fosse sottosopra. E che la gente l'avrebbe capita. Avevo la mia prima didascalia:<br />
C'era una volta<br />
una barca capovolta ...<br />
Faceva anche rima. Tre giorni più tardi, salivo le scale dello studio di Mister Fritz. Lui era in piedi alla finestra e guardava fuori. Gli edifici cadenti della periferia. E i depositi di legname che circondavano i suoi studi. Cominciò a parlare senza nemmeno voltarsi. Bisogna essere dei pazzi per credere che si possa fare dei soldi con un lenzuolo bianco appeso a un muro. In molti ci stanno riuscendo, Mister Fritz. Lo so. Ma siamo perseguitati dalla malasorte, Chas. Ieri l'attore principale del nostro prossimo film è caduto da una scala e si è rotto una gamba. Il suo contratto prevedeva un'assicurazione contro gli infortuni. Riceverà il suo stipendio per altri due mesi, ma intanto il film resterà fermo. Era il progetto su cui contavo di più. Un piccolo ragno nero attraversò il suo tavolo. Le ho portato quello che mi ha chiesto, Mister Fritz. Lascia tutto sulla scrivania, disse lui. Si tratta soltanto di due pagine. Le ho battute su una macchina da scrivere a gettone della biblioteca di Los Angeles. Due pagine ? Ti pago sedici dollari la settimana soltanto per due pagine?<br />
Se fossi riuscito a ridurlo a una pagina avrebbe dovuto pagarmi molto di più, Mister Fritz. Non lo sa che ci vuole più tempo a scrivere una lettera breve piuttosto che una lunga? Ti ho già detto, Chas, che sei un grande impertinente. La natura mi ha fatto abbastanza basso perché non debba mettermi in ginocchio davanti a nessuno. Mister Fritz si mise a ridere. Doveva essere la prima balsamica risata di quella mattina di cielo cupo. Hai ragione, scusa, mi girava male. Il vecchio mi aveva chiesto scusa. Avrebbe potuto licenziarmi per la mia alzata di scudi, e invece mi aveva chiesto scusa. Domani cominceremo a girare il tuo film, Chas. Non potrei sopportare la voce di mia madre cbe ripete: te l'avevo detto, piccolo Abraham, il cinematografo è un giocattolo cbe si romperà presto.<br />
Il ragno si calò da una zampa del tavolo. Ti do due settimane e l'aumento cbe mi avevi chiesto. Per cosa, Mister Fritz?<br />
Che diamine: per girarlo, Chas. Non mi hai detto che hai lavorato come aiutoregista a Chicago? Beh, questa è la tua occasione. Non è quello che vogliono tutti in questo paese? Hai abbastanza carattere per riuscirei. Non serve altro a un regista. Maledissi la mia lingua, molto più lunga di me. Sapevo a malapena indicare Chicago sulla carta geografica.<br />
Intende dire che dovrei essere io ... ? Non conosci il proverbio? Per quanto tu ti nasconda, il destino ti trova sempre. Te lo sarai girato questo film nella testa, in questi giorni. Il mondo si era rovesciato, come la barca di David Copperfield.<br />
Ma ... gli attori? Non li pago certo per assistere alla convalescenza di un loro collega. Userai la troupe che è rimasta bloccata, ma dovrai impiegarci al massimo due settimane, non un giorno di più. Mettiti subito al lavoro. Vai da Henry e chiedigli tutto quello che ti serve. Te lo darà. Quel posto era infestato di pazzi impastati di pazzia, pensai, o di disperati, se si affidavano a uno sconosciuto trovato a dormire per terra, una mattina, davanti al cancello del loro manicomio. Vado a conoscere la squadra, dissi con decisione. Ma la voce mi uscì rauca e incerta. Mister Fritz mi augurò buon lavoro.<br />
[...]<br />
The Ballad of the Upside Down House è un cortometraggio fuori dal comune. Ci racconta la vera storia di David Copperfield e non la favola zuccherata che tutti conosciamo. Ogni scena è al tempo stesso intensamente visionaria e dolorosamente realistica. I personaggi di Dickens rivivono con una forza sconosciuta il loro destino e il film acquista, fotogramma dopo fotogramma, dignità e bellezza. Tutti gli occhi degli spettatori presenti all'Empire Theatre sono rimasti fissi sullo schermo fino all'ultimo quadro, alternando il divertimento alla commozione. Dopo un lungo silenzio dovuto alla sorpresa e al coinvolgimento è scoppiato nella sala un applauso spontaneo e interminabile. Siamo sicuri che alcuni episodi resteranno impressi nella memoria di questa nuova arte che inizia soltanto adesso a scoprire le sue straordinarie possibilità espressive. La lunga sequenza che descrive la morte del padre di Copperfield prima della sua nascita è un'innovativa intrusione della fantasia del regista sul canovaccio romanzesco. E così anche la scena nella quale l'usuraio Uriah Heep sfida ai dadi tutti gli uomini del suo quartiere e luciferinamente gli vince l'anima. Oppure quella in cui una donna dai lunghi capelli corvini somministra una cura di sanguisughe al piccolo David durante un attacco di febbre o il viaggio lungo una cupa campagna inglese verso Dover su un calesse ... il film soddisfa le migliori aspettative e incontrerà di sicuro il favore del pubblico e dei critici. Possiamo già affermare che il giovane regista di questa malinconica ma anche spassosissima Ballata si impone come una delle più talentuose promesse del cinema americano al pari di David Wark Griffith. Segnatevi il suo nome. Il produttore mi ha detto che si chiama Chas Chaplin. Per il futuro, potete tranquillamente scommettere su di lui.</div>
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[...]<br />
Sapevo anche che non avevi mai scritto una sceneggiatura né una didascalia in vita tua ...<br />
E allora perché, Mister Fritz?<br />
Perché? Non lo so, è stata una scommessa. Chiamalo fiuto per gli affari. Eri l'unico che aveva abbastanza fegato<br />
per andare fino in fondo e tornare indietro con i miei sogni intatti. Hai un mucchio di idee in quella testa, e la cosa che apprezzo di più in un uomo è l'inventiva. Ma sapevo anche che a cinque anni eri salito su un palcoscenico, e che avevi lavorato in un circo ... Questo è il tuo nuovo contratto: dodici cortometraggi fino alla fine del prossimo anno. Dovrai solo controllare la tua immaginazione, il resto è fatto.<br />
Non la pensava così, la prima volta che ha visto il film. <br />
Ho avuto paura.<br />
Non conosco ancora il mestiere, Mister Fritz.<br />
Sei tu ad avere paura adesso.<br />
Quant'è lo stipendio?<br />
Ti do un aumento di dieci dollari a settimana.<br />
Venti.<br />
Non se ne parla.<br />
Neppure per me. Arrivederci, Mister Fritz.<br />
Dodici, non uno di più.<br />
Diciotto, non uno di meno.<br />
Ci mettemmo d'accordo su quattordici. In un mese,<br />
il mio bilancio era passato da dieci centesimi alla vertiginosa cifra di trentanove dollari la settimana. Fuori Henry e Ricardo mi aspettavano. Un sorriso fiorì a entrambi sulla bocca come un'orchidea. </div>
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[...]<br />
Alcuni insetti si posarono sulle radici della quercia. Quella giornata prendeva una musica triste, che non mi piaceva. Poi Makrouhie fece una cosa strana. Inarcò lentamente la schiena, per quello che l'età le consentiva, e lasciò cadere il bastone a terra. I primi tempi lo facevo sempre, disse rimettendosi diritta con fatica. Venivo ogni settimana e le portavo un<br />
bastone. Se la settimana dopo non lo trovavo più, ne portavo un altro, e dopo un altro ancora. Per un anno, non gliene feci mai mancare uno. Pensavo che le sarebbe servito, perché nessuno sa quanto si deve camminare nella morte. E lei aveva una gamba inutile.<br />
La nostalgia macchiava la voce di Makrouhie allo stesso modo in cui la vecchiaia le aveva guastato il volto. Di colpo mi sentii esausto. TI mio viaggio finiva lì, in quel campo, intorno a quella pietra ricoperta d'erba. Makrouhie continuò a parlare, ma non l'ascoltavo più. All'inizio nessuno a Yo-Town ha creduto alla sua storia. La credevamo pazza. Come si può credere a una zoppa che arriva in un paese e con poche parole sbagliate dice di essere un'acrobata? Si misero a ridere tutti. Non l'ascoltavo più, e non ne avevo voglia. Provavo solo un gran vuoto allo stomaco, più che sul pallone aerostatico, il giorno prima. Ma ci sapeva fare coi fiori. Per quello aveva talento. Li legava insieme con rapidi movimenti sicuri, glielo aveva insegnato sua nonna. Nessuno, a Yo-Town, ha mai confezionato un mazzo di rose o un'orchidea meglio di lei. Me ne accorsi e le suggerii di aprire un negozietto di fiori a South Avenue insieme alla mia amica Viola, che era cieca e non sapeva come tirare avanti. Eszter disse: una zoppa e una cieca, va bene. Non ci avrebbe scommesso nessuno, ma l'idea funzionò.<br />
Ormai la voce di Makrouhie la registravo solo involontariamente. Una sera mi chiese di accompagnarla. Andammo in riva al fiume, lei sempre con il suo passo stentato, incerto. C'era una bella luna, che illuminava la campagna. Sull'argine si sciolse i capelli. Erano rossi come le foglie di questi alberi. Lunghi. Mi lanciò il suo bastone. Non se ne era separata mai, fino ad allora, almeno davanti a me. Rimase su una gamba sola, come una cicogna. E ora guarda, disse. Prima cominciò a volteggiare, facendo leva soltanto sulle braccia e sull'unica gamba, ruote, salti, capriole, poi si tuffò nell'aria e per pochi minuti si trasformò in un pesce che guizzava sulla superficie delle cose, un essere senza peso che danzava sulla luce e attraversava le ombre, era tutto quello che non ti aspettavi di vedere, un'anomalia, una disubbidienza, la nota più alta di un violino, l'orgoglio di chi torna a essere se stesso da un'altra parte del mondo, su un altro fiume, a migliaia di chilometri dal luogo dove è nato, e questo lo capivo, lo sentivo sulla pelle, e avrei voluto scendere su quella riva e mettermi a saltare anch'io, con la stessa improvvisa e benedetta leggerezza, ma i miei piedi sono sempre stati pesanti, e le mie gambe non valevano neppure mezza delle sue. Non ho mai imparato ad ammaestrare le storture, i danni, il rimpianto, il fiato mi incatenava al luogo da cui osservavo quella scena, ma la sua ribellione mi faceva bene, un po' di quella gioia mi ricadeva addosso come una medicina, strappava le funi che ci legano a terra. Poi Eszter riunì i capelli con un nastro e riprese il suo passo intermittente e le sue sembianze di sempre.<br />
[...]<br />
L'indomani mi ritrovai di fronte a un uomo con due lunghi drappi neri al posto delle sopracciglia, la mascella squadrata e la bocca carnosa. Nessuna cultura, ma un entusiasmo trascinante e irresistibile per tutto quello che gli piaceva. Sei troppo giovane per il cinema, mi disse Sennett la prima volta che ci parlai. Posso invecchiare quanto vuole, risposi. La battuta gli piacque. Mi diede una sonora manata sulle spalle e mi ingaggiò per un periodo di prova.<br />
Quel pomeriggio di pioggia del 19I4 in cui cercavo nello spogliatoio maschile della Keystone un costume per una scena che stavamo girando, tenevo bene a mente quello che mi aveva detto Fred Karno, che in tutte le storie ci vuole un pizzico di malinconia. Per me non era difficile trovarla: la portavo già negli occhi, nelle mani, nel sangue. A sentire le donne, avevo un poco di tristezza anche negli inguini, ma questo finiva sempre per affascinarle. Pensai che se avessi potuto metteme un briciolo in una comica, forse avrei potuto sedurre chiunque. Era il comune senso delle proporzioni che dovevo stravolgere.<br />
Scelsi così un paio di calzoni sformati, mi abbottonai a fatica un gilè e una giacca troppo stretti e calzai due scarpe enormi e logore. Mi guardai allo specchio. Non mi ero mai sentito così a mio agio. Il mio vestito era una disubbidienza. Ci aggiunsi una bombetta, un bastone, una cravatta a farfalla. Mancava solo un ultimo dettaglio: mi agitai i capelli e mi incollai sotto al naso un paio di baffetti neri e per la prima volta seppi qual era la mia faccia.<br />
Quando uscii dalla baracca del trucco e mi avvicinai alla cinepresa con questo costume miserabile, mi bastò muovermi di fronte a quella volpe di Mack Sennett come se avessi avuto i pidocchi sotto le ascelle. Sennett cominciò a ridere in una maniera così esagerata e nervosa che gli venne la tosse, gli uscirono le lacrime e per poco non si soffocò. Lo tenevo in pugno. Gli mulinai il bastone sotto il naso come mi aveva insegnato Marceline e corsi via con i piedi piatti e l'aria impacciata, imitando l'anda tura di un vecchio cocchiere londinese che insieme a mia madre spiavamo tutte le sere dalla nostra soffitta di Pownall Terrace. Avevo l'impressione di pattinare su una gamba sola o di stare in verticale sull'orlo del Gran Canyon. Arricciai i baffi e strizzai gli occhi a tutte le signore presenti, ma mi tremavano le mani. Per dieci minuti non feci altro che inciampare seguendo la scia di ogni gonna che passasse, poi entrai con l'aria di un miliardario in vacanza in un set che riproduceva la hall di un albergo, ma di nascosto rubai una caramella a un bambino, mi attaccai a una boccetta d'alcol e chiesi scusa a una sputacchiera per averla urtata ... Quando finii a gambe levate per terra dopo avere preso un cane per la coda non rideva più soltanto Sennett, ma anche i macchinisti, le donne delle pulizie, i manovali, le comparse. Non ridevano di quello che accadeva, per quanto potesse essere buffo o comico, ridevano di me, delle conseguenze che ogni cosa che capitava aveva sul mio volto, della mia spaventosa inconciliabilità con il mondo, perché non dipende dal costume se si è davvero ridicoli.<br />
Continuarono a ridere per anni, senza potersi fermare, e io firmai un contratto dopo l'altro, fino ad arrivare a essere l'attore più pagato di tutti i tempi: 670.000 dollari l'anno, più di 10.000 la settimana. Non passò molto che ebbi così tanti soldi da costruire i miei studios e i miei teatri di posa a sole due miglia da quelli di Mister Fritz, in un lotto di cinque acri di alberi d' arancio. Acquistai pure una Locomobile azzurra, dai copertoni bianchi, e assoldai un autista giapponese di nome Kono. Le sere in cui osservavo dai marciapiedi i ristoranti a Carson Street erano lontani anni luce; adesso potevo pranzare tutti i giorni da Armstrong Carlton, da Musso o dovunque avessi voluto a Hollywood Boulevard. Salmone, aringhe affumicate, cuore di pecora o pasticcio di fegato. Da quel momento in poi il cinematografo assorbì ogni mia energia. Avevo la pazienza di un asino. Ero capace di ripetere fino a cento volte la stessa scena e certe sere dovevano mettermi a letto ancora truccato, perché non avrei smesso mai. Per tenermi in forma, mi allenavo in palestra o in piscina prima di cena, e di giorno andavo dal pedicure, perché ho sempre provato per le mie mani e i miei piedi una grande devozione. Ormai avevo imparato a rispettare rigidamente gli orari, non giocavo mai a carte, bevevo appena un bicchierino di porto, di tanto in tanto, ma solo perché i miei nuovi colleghi non pensassero che fossi un monaco astemio e serio come avevano creduto gli attori della compagnia di Karno.<br />
[...]<br />
Arléquìn?<br />
Qui tutti lo credono un po' tocco, ma gli consentono di dipingere e di parlare da solo. È un suo parente?<br />
No, dissi a fatica. Una volta ho lavorato con lui, ma ero un bambino.<br />
Gli farà piacere rìvederla, ma non ci stia troppo a lungo.<br />
D'accordo.<br />
E non sì impressioni.<br />
Ho già visto altre persone nel suo stato.<br />
A volte stringe i pugni, come se gli facessero male le mani, poi si getta nel letto e prende a tremare.<br />
È per questo che non termina i suoi disegni?<br />
Non lo so. A me piace credere che la sua sia una guerra personale contro tutte le cose che sono perfette<br />
e poi si guastano. È per questo che disegna cavalli a due zampe, e uomini con un occhio solo, e soldati senza un braccio ...<br />
Forse ha ragione, sarebbe stato meglio se si fosse venuti al mondo già storti dall'inizio.<br />
Già.<br />
Imparare a perdere la perfezione è troppo crudele e ìnseguirla per tutta la vita un gesto inutile e superbo.<br />
Sembra un verso di Shakespeare.<br />
Non mi ricordo più a chi appartiene.<br />
[...]<br />
Poi lentamente le ruote di ferro cominciarono a girare. Una di seguito all'altra.<br />
Tetén tetén.<br />
Tetén tetén.<br />
Non terminarono tre giri che io sapevo la mia destinazione.<br />
A Sacramento avrei comprato un altro biglietto per la First Transcontinental Railroad.<br />
Tetén tetén.<br />
Fino a Omaha.<br />
Tetén tetén.<br />
E dopo a Youngstown.<br />
Tetén tetén, tetén tetén, tetén tetén.<br />
Il treno ormai correva in mezzo alla campagna piena di brina.<br />
Youngstown. Di colpo, sentii le mani di Naima che curavano i lividi di tutti quegli anni e mi insultai in ogni lingua che conoscevo per la mia ottusità. Se da qualche parte del mondo avevo un appuntamento con qualcuno, era con lei. Mi sentii come prima di girare la scena chiave di un film, con la stessa elettricità addosso per averla solo immaginata, quella scena ... Dall'agitazione, cominciai a ridere senza potermi frenare. Un signore mi cedette il posto e si allontanò velocemente, temendo di dover viaggiare accanto a uno squilibrato che rideva come Chaplin.<br />
Youngstown mi accolse una settimana dopo con il suo solito aspetto incurante. Le case avevano lo stesso colore della prima volta, bianche e rugginose, il tram sferragliava sempre nel mezzo della strada principale, occupata da molte più autovetture ai bordi dei marciapiedi, e il cartello che dava il benvenuto sbatteva ancora al vento, ma con gli angoli di legno smagliati, come un messaggio passato di moda. Non so cosa mi aspettassi, ma tutto era in movimento per proprio conto e si mostrava indifferente al mio ritorno. Solo la panchina dove mi ero già seduto una volta aveva l'aria di una vedova che mi aspettava nella piazza alberata. Mi ci accomodai pesantemente. Con una certa soddisfazione osservai la sede della DOLLAR BANK che non mi scherniva più con gli enormi caratteri della sua insegna in cima al palazzo di fronte. Ora le mie tasche erano piene di dollari, eppure non ero felice. Percorrere la distanza da quella panchina fino al negozio di fiori di Viola e di Eszter mi costò una grande fatica. Le gambe mi pesavano più del piombo ed ebbi paura di essere divenuto come il personaggio di una favola che mi leggeva sempre mia madre: solo una creatura più leggera di una piuma avrebbe potuto salvarmi. Imboccai South Avenue sopraffatto dalla stanchezza e mi fermai davanti al negozio, ma dall'altro lato della strada.<br />
Naima era in piedi. Potevo vederla, oltre la vetrina. Parlava con una cliente, una donna alta, dal viso allungato, che dava l'idea di non avere tempo. Le mostrava i fiori, le consigliava quali scegliere. Sollevò un mazzo di gardenie e mi accorsi soltanto allora di quanta delicatezza fosse capace ogni suo gesto. Trattava con rispetto tutte le cose, come se tutte le cose ne avessero bisogno, e restituiva importanza e dignità al mondo, con la sua cura discreta. Come avevo fatto a non capirlo prima? Era lei tutto quello che restava di Eszter. L'acrobata doveva averle insegnato ogni segreto, come a una figlia. Tutti i suoi trucchi da equilibrista, il mistero della sua leggerezza. Fui di colpo sicuro che se lo avesse voluto, Naima sarebbe stata in grado di esibirsi su quello stesso marciapiede in una serie mozzafiato di salti mortali. I capelli li teneva legati in una coda sulle spalle e i denti bianchi le illuminavano ogni espressione del viso. Indirizzò gli occhi verso di me, con uno sguardo che mi penetrò in ogni fibra, si spinse dentro ai miei capelli arruffati, alle mie piccole gambe nervose, nelle pieghe della mia giacca scucita, e di colpo ebbi pena di me, di come dovevo apparirle, di quello che ero e di quello che sarei stato. Della mia infelicità, nonostante il successo planetario. Mi augurai che non si ricordasse. Ma con terrore la vidi posare con calma le gardenie, liquidare con gentilezza la donna alta, uscire dal negozio e venirmi incontro. Si avvicinò lentamente, poi mi prese la mano e la tenne a lungo tra le sue. <br />
... Tu?<br />
Non ci fu bisogno di dire altro, per quella mattina. Quando la accompagnai a casa e lei rigirò la chiave nella serratura, mi stupii che non ci fosse nessuno, dentro. Devi promettermi una cosa, Charlie, mi disse Naima. Finché sarai qui, non mi farai nessuna domanda. Come vuoi. È un patto, allora? È un patto. Naima mi guidò oltre il vestibolo, attraverso il salottino dove ero stato accolto la prima volta, fino alla stanzetta che mi aveva ospitato pet quasi un mese. Indovinai il letto e l'armadio, e la finestra, dietro la tenda. N aima si girò dalla mia parte e mi diede una carezza sul viso. Credo fosse la prima v eta carezza che ricevevo da una donna da molto tempo. Divetsa da quelle di tutte le altre ragazze che avevo incontrato in quegli anni. Qualcosa si sciolse dentro di me, come una noce di ghiaccio. Rimasi Il in piedi, stordito dal buio e dal calore della sua mano in mezzo a tutto quel silenzio. Ti ricordi quanto eri malconcio quando ti portarono qui, quel giorno? Per la vetità, non mi ricordo molto. Chi lo avrebbe detto, allora: il più sconosciuto attore del mondo ... Eri tutto tumefatto, il viso ti era diventato grande quanto una zucca, gli occhi neri, i capelli impiastricciati, ma facevi ridere anche così.<br />
[...]<br />
Feci un passo avanti. Lessi il nome di Makrouhie Dolmayan, nata a Hrazdan nel 1831 e morta a Youngstown nel 1916. Poi quello di Viola Baldwin: Chicago, 1848 Yo-Town, 1917. La stele di Eszter Neumann era a pochi metri di distanza.<br />
All'ora del tramonto, e nei giorni di sole, l'ombra di quella quercia le abbraccia tutte e tre, disse Naima. Il<br />
custode di questo luogo è stato molto gentile e mi ha concesso di seppellirle vicine. Com'è successo?<br />
Sono rotolate via una dietro l'altra, nel giro di pochi mesi, vinte da una malattia silenziosa e senza sintomi. Le ho viste sciogliersi giorno dopo giorno, consumarsi come due candele. Sono morte allo stesso modo: prima se ne sono andate le loro parole, poi tutto il calore che avevano nel corpo. Dai piedi, dalle gambe, dalle mani. Solo la pelle intorno al cuore è rimasta ancora calda, e gli occhi sbarrati, per catturare quel poco che si può ancora catturare della luce. Anche quelli di mia madre, che erano ciechi. Alla fine è rimasto solo il loro respiro. Per ore. Un fischio forte come una protesta, poi semplicemente un soffio. Finché non sono cadute nell'inesistenza. Come quando ci si immerge nell'acqua e si va sotto. Mia madre ha avuto una contrazione finale e ha teso le sue dita in un ultimo saluto. Chinai gli occhi, per pudore.<br />
Che si possa smettere di colpo di vedersi, di parlare, di toccarsi, e che quest'assenza durerà per sempre, continuò Naima, è una cosa incomprensibile. Quasi ogni giorno, a casa, mi ritrovo a conversare con una sedia vuota. <br />
Mi dispiace, Naima. Avevo molte cose da chiedere a entrambe, me ne rendo conto solo adesso. Mia madre diceva che qualsiasi domanda le avessi fatto, la tua risposta ero io, e che un giorno lo avresti scoperto.<br />
[...]<br />
Caro Christopher, che il desiderio fosse il tema della vita l'ho fatto dire anche all'ultimo clown che ho interpretato. Ma lo pensava pure Monsieur Verdoux, una delle maschere più sfuggenti che rubai alla cronaca, un tipo che aveva l'abitudine di bruciare le vecchie signore che sposava nella stufa della cucina e che portò alle estreme conseguenze la logica omicida del capitalismo. Semplicemente, senza desiderio non c'è mai stata vita per me. Ti diranno che sono i traumi del sesso a incidere la personalità. Non gli dare retta: il sesso è una malattia solo per i borghesi. Il vero trauma è la miseria, credimi. Da giovane, mi ero ripromesso di avere una ragazza per ogni lettera dell'alfabeto inglese. Agnes, Barbara, Carole, Dorothy ...<br />
L'amore sarebbe stato il mio dizionario. Da quel momento in poi non c'è .mai stata una donna di cui non mi sia chiesto se mi sarebbe piaciuto o no baciare. È una domanda .che continuo a farmi anche ora, non te la prendere, non per questo voglio meno bene a tua madre. Eppure, da qualche tempo, mi ritrovo spesso a pensare che sia sempre il desiderio di qualcuno o di qualcosa a originare tutta la stupidità, la volgarità, la crudeltà e l'infantilismo degli esseri umani. Il desiderio mi ha reso tante volte ridicolo non solo agli occhi del mondo ma anche ai miei, mi ha fatto diventare sordo, e idiota, mi ha messo in pericolo. Come ha scritto un poeta, sono arrivato al punto di desiderare di non desiderare più niente. Vorrei metterri sull'avviso, ma è inutile. L'ipocrisia vuole che non se ne parli, ma è la forza più potente che esiste e nessuno ne è al riparo, a nessuna età. I tuoi I 5 anni valgono i miei; ho solo il vantaggio dell'esperienza, ma sono vulnerabile quanto te. Le cose stanno così. Sei ancora un ragazzo, Christopher, e ti innamorerai molte volte, e anche tu dovrai inventarti l'imperfezione di qualche equilibrio. Io, tutta questa esuberanza, tutto questo vivere, insieme alla mia disperata timidezza, alla fine li ho riversati nel cinema, e il cinema mi ha salvato.<br />
La prima volta che gabbai la Vecchia, Christopher, sei anni fa, fu la più difficile. Era venuta a prendermi, come sapevo dal 1910, ma trovò Charlot a riceverla. Uno Charlot di ottantadue anni, con una nuvola di capelli sulla testa e una geografia di rughe intorno ai baffi. Agitai il bastoncino e sollevai la bombetta in segno di saluto. Poi iniziai a girare in tondo per la stanza, con il mio passo di sempre, da pinguino, i piedi larghi e le scarpe fuori misura. Replicai tutte le mie antiche gag e trovate, anche se era una vita che non le facevo più. Ma la Vecchia se ne restò gelida a osservarmi e riprovai il panico che mi aveva preso la prima volta che andai in scena a New York, insieme a Stan Laurei, quando il Nuovo Mondo ci battezzò con un fiasco. Mi sforzai di fare delle facce buffe, ma mi veniva da piangere, perché non ti avrei visto crescere, Christopher, i baffi posticci mi si staccarono dallé labbra e mi caddero per terra, e quando mi chinai per raccoglierli gli acciacchi dell'età mi misero definitivamente al tappeto. Restai lì, con la schiena a metà, incapace di raddrizzarmi, vinto, decrepito e dolorante. Fu in quel momento che la Vecchia cominciò a ridere, come Mack Sennett negli studi della Keystone, come qualsiasi altro mi abbia visto all'opera nei miei giorni di grazia. Non è certo una signora apatica, bisogna riconoscerlo: il suo lavoro lo ha sempre svolto con un certo entusiasmo. Ah, Ah! Fai ancora ridere, Chaplin, mi disse con la sua voce cavernosa, ti do un altro anno, te lo sei guadagnato: ci vediamo il prossimo Natale. E sparì dalla mia poltrona. Mi ci vollero parecchi impacchi d'acqua calda e una pomata al pino mugo per rimettermi dal mio mal di schiena, ma ero ancora vivo. <br />
Da allora, approfittai di ogni pretesto che mi offriva la vecchiaia: l'abbassamento della vista, la perdita della memoria, il rimpianto della giovinezza. La mia stessa condizione mi offriva un repertorio inesauribile di soluzioni. Il trucco è sempre lo stesso: fare in modo che qualcosa vada storto e che il mondo appaia rovesciato, sottosopra. Il meccanismo della comicità è un meccanismo sovversivo. Se un gigante cerca in ogni modo di aprire una porta e non ci riesce, ma subito dopo la porta si apre a un gatto, a un bambino, a un povero vagabondo o a un vecchio senza nessuno sforzo, noi ridiamo. Perché è tutto il contrario di quanto accade nella vita. La comicità è una capriola, un uomo che si rialza dopo un capitombolo o un altro che sta sul punto di cadere ma non cade mai. La comicità è mancina come me, Christopher. Irride i ricchi, rimette le cose a posto, ripara le ingiustizie. Come diceva Frank Capra, chiude le porte ai prepotenti e le fa aprire ai deboli e agli indifesi, anche se solo per il lampo di un sorriso. È quest'incredulità che ci riempie gli occhi di lacrime. Sin dall'inizio, da quando cantai la canzone di Jack Jones al posto di mia madre, suscitare il riso e le lacrime è stata la mia infantile protesta contro la miseria, la malattia e il disprezzo, e il mio rifiuto dell'odio e di tutte le forme sbagliate che finiscono per governare le relazioni umane. È stupefacente, a pensarci, quanto sia facile a contagiarsi l'allegria e quanto triste e malato sia invece il mondo.<br />
Ogni Natale, fino a questo, sono riuscito a strappare alla Vecchia almeno una risata e a salvarmi. Ma stasera fallirò, Christopher. Proprio stasera che mi sento terribilmente a posto e Ìni sembra di essere tornato agli splendori di un tempo. Sono sicuro che sarò capace di una gag perfetta, al primo ciak, come neppure nei film migliori. Non c'è ancora nessuno che sa fare l'ubriaco meglio eli me. Mi fumerò per l'ultima volta un fiammifero al posto della sigaretta. Ma la Vecchia non riderà, me lo sento. La gente non ama la perfezione, e io non posso migliorare più di così.<br />
Domani ti porteranno nella mia stanza, e mi vedrai lì steso su un letto. Quando mi condussero da mio padre, all'ospedale di St. Thomas, scappai via, ma ero più piccolo di te, e avevo di fronte un estraneo. La pietà per lui mi sarebbe venuta dopo, quando ebbi anch'io paura di perdere tutto. Mia madre, invece, l'accompagnai quasi per mano. L'avevano ricoverata per un'infezione, solo qualche mese dopo la prima proiezione del Circo. L'ultimo giorno la sentii rivolgere un complimento a un'infermiera, per una collana di perline di vetro e di legno che aveva al collo. Le promisi che sarebbe guarita e la feci ridere per ore. Ma di notte lei si mise a sedere sul letto e mi disse Aiutami, Charlie. Sul certificato scrissi che era nata un anno dopo di quello reale perché potesse barare anche nell'aldilà. Lo so, tutto questo è troppo sentimentale. <i>Mala musica</i> avrebbe detto il mio amico Picasso. Ma è la mia musica, Christopher, e non posso più cambiarla. Non ho scritto più di dodici lettere in tutta la mia vita, ma ho avuto il tempo per questa, e mi basta. La Vecchia è già arrivata. È qui davanti, nella poltrona sotto la finestra, mi aspetta. Sa che non esco da questa villa da due mesi, da quando ti ho portato a vedere l'inconfonclibile tendone del circo Knie, a ottobre. Tra poco verrete a chiamarmi, tu, e tua madre, e i tuoi fratelli e nipoti, per la cena, ma io sarò già a spasso con lei, sulla luce indecente della Luna o chissà dove. Ma non stare in pena per me, non ho paura. Mi sono sempre sentito sull'orlo eli un trasloco. Siamo ai titoli eli coda, caro Christopher, e non posso che esserti grato per la tua funambolica pazienza se hai resistito sin qui a tutte queste chiacchiere. Per una volta non sono stato fedele al mio principio che ogni storia dovrebbe essere come un albero che si scuote e tutto quello che non serve si fa cadere a terra, lasciando solo l'essenziale. Questa lettera non è un film, e io volevo che sapessi tutto, anche le cose superflue, perché non mi ricordo più dove ho nascosto la verità. Sarebbe bello dissolversi con un ultimo abracadabra. Su un'aeronave, un treno o una mongolfiera. Ma in fondo sono contento di andarmene a cavalcioni solo delle mie parole. Dicono che l'universo sia nato da una grande e incomprensibile esplosione. Secondo me, deve essere successo sulla pista di un circo. Una donna volteggiava in aria e un uomo ne catturò il movimento in una scatola magica, e lo riprodusse all'infinito, fino a popolare di ombre la terra, e a riempirla di segatura, di risate, di lacrime. Non può che essere andata così, Christopher, perché solo nel disordine dell'amore ogni acrobazia è possibile.</div>
Antonio De Bellishttp://www.blogger.com/profile/08589288385447295429noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-3437498411039201584.post-58473044818453484492013-03-30T19:38:00.001+01:002013-04-19T17:57:16.779+02:00[SONDAGGIO] - I 5 più bei libri letti nella propria vita<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEixnQatWUdB_5yCv1v0k-G4zbwBDMJwZwm3oWnK8Lp4YmZIJdWfhF4wIwYr_uh_aeKTviDI7aHxEZv92wBVzH-iAmtI8TNhfJv0Douuvm6Sb4vPPVcKFtDIqNIgAgXfH7bn_gxhRq4TqSs/s1600/Sondaggio.jpg" imageanchor="1"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEixnQatWUdB_5yCv1v0k-G4zbwBDMJwZwm3oWnK8Lp4YmZIJdWfhF4wIwYr_uh_aeKTviDI7aHxEZv92wBVzH-iAmtI8TNhfJv0Douuvm6Sb4vPPVcKFtDIqNIgAgXfH7bn_gxhRq4TqSs/s320/Sondaggio.jpg" /></a><iframe frameborder="0" height="500" marginheight="0" marginwidth="0" src="https://docs.google.com/forms/d/1j6pfYXZjBqENVXQfqydWcLR_6agGqj2M6swRQDXCsy8/viewform?embedded=true" width="460">Caricamento in corso.. </iframe> <br />
<br />
<b>Primi Risultati</b><br />
<u>Aggiornamento al 19 Aprile 2013</u><br />
<br />
Antonio<br />
Le Benevole (Jonathan Littell);<br />
L'Isola sotto il Mare (Isabel Allende);<br />
Una Fortuna Pericolosa (Ken Follett);<br />
Timeline (Micheal Crichton);<br />
Mucchio d'ossa (Stephen King)"<br />
<br />
Barbara<br />
<span data-ft="{"tn":"K"}" id=".reactRoot[3].[1][2][1]{comment428523987238891_2597389}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2]"><span class="UFICommentBody" id=".reactRoot[3].[1][2][1]{comment428523987238891_2597389}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2].0"><span id=".reactRoot[3].[1][2][1]{comment428523987238891_2597389}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2].0.[0]">la
" trilogia " di Italo Calvino (Il barone rampante, Il cavaliere
inesistente, Il visconte dimezzato); </span></span></span><br />
<span data-ft="{"tn":"K"}" id=".reactRoot[3].[1][2][1]{comment428523987238891_2597389}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2]"><span class="UFICommentBody" id=".reactRoot[3].[1][2][1]{comment428523987238891_2597389}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2].0"><span id=".reactRoot[3].[1][2][1]{comment428523987238891_2597389}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2].0.[0]">Vita di Galileo di B. Brecht; </span></span></span><br />
<span data-ft="{"tn":"K"}" id=".reactRoot[3].[1][2][1]{comment428523987238891_2597389}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2]"><span class="UFICommentBody" id=".reactRoot[3].[1][2][1]{comment428523987238891_2597389}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2].0"><span id=".reactRoot[3].[1][2][1]{comment428523987238891_2597389}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2].0.[0]">Non
lasciarmi di Kazuo Ishiguro; </span></span></span><br />
<span data-ft="{"tn":"K"}" id=".reactRoot[3].[1][2][1]{comment428523987238891_2597389}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2]"><span class="UFICommentBody" id=".reactRoot[3].[1][2][1]{comment428523987238891_2597389}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2].0"><span id=".reactRoot[3].[1][2][1]{comment428523987238891_2597389}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2].0.[0]">Antologia di Spoon River di Edgar Lee
Masters; </span></span></span><br />
<span data-ft="{"tn":"K"}" id=".reactRoot[3].[1][2][1]{comment428523987238891_2597389}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2]"><span class="UFICommentBody" id=".reactRoot[3].[1][2][1]{comment428523987238891_2597389}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2].0"><span id=".reactRoot[3].[1][2][1]{comment428523987238891_2597389}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2].0.[0]">Revolutionary Road di Yates.</span></span></span><br />
<br />
Anonimo<br />
L'insostenibile leggerezza dell'essere di Kundera"<br />
<br />
Daniela<br />
Anonima viennese. Il diario di una giovinetta<br />
Emilio Lussu. Un anno sull'altipiano<br />
Joseph Roth. La marcia di Radetzky<br />
Pamela Moore. Cioccolata a colazione<br />
Carlo Lucarelli. L'ottava vibrazione"<br />
<br />
Francesca<br />
Venuto al mondo (Margaret Mazzantini)<br />
A un cerbiatto somiglia il mio amore (David Grossman)<br />
Un uomo (Oriana Fallaci) <br />
I pilastri della terra (Ken Follet) <br />
Due di due (Andrea De Carlo)"<br />
<br />
Nella<br />
Il nome della rosa (Umberto Eco), <br />
L'insostenibile leggerezza dell'essere (m. Kundera), <br />
Un uomo (O. Fallaci), <br />
Il cacciatore di aquiloni (K. Hosseini), <br />
L'armata perduta (V. M. Manfredi)"<br />
<br />
Sonia<br />
Ti prendo e ti porto via di Niccolò Ammaniti<br />
Le ceneri di Angela di Frank McCourt<br />
Non avevo capito niente di Diego De Silva<br />
Venuto al mondo di Margaret Mazzantini<br />
Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon"<br />
<br />
Sonja<br />
Due di due – Andrea De Carlo<br />
Non ti muovere – Margaret Mazzantini<br />
La versione di Barney – Mordecai Richler<br />
L’eleganza del riccio – Muriel Barbery<br />
L’insostenibile leggerezza dell’essere – Milan Kundera"<br />
<br />
Lucia <br />
Stoner di John E Williams <br />
L'altra Grace di Margaret Atwood <br />
Follia di Patrick McGrath <br />
La cena di Herman Koch<br />
La parte dell'altro di Eric-Emmanuel Schmitt<br />
<br />
Tommaso<br />
Nick Hornby: Febbre a 90°<br />
Irvine Welsh: Colla<br />
Keno Don Rosa: la storia di Paperon de' Paperoni<br />
Marcus Du Sautoy: L'enigma dei numeri primi<br />
Fedrico Buffa: Black Jesus<br />
<br />
Eliana<br />
Il Giardino dei Finzi- Contini/ Bassani Giorgio<br />
La Nausea/Jean Paul Sartre<br />
Nessuno al mio fianco / Gordimer Nadine<br />
Medea/ Wolf Christa<br />
Il Maestro e Margherita / Bulgakov, Mihail Afanas'evic "<br />
<br />
Fabio<br />
Colazione da Tiffany - Truman Capote<br />
L'Immoralista - André Gide<br />
I Pitard - Georges Simenon<br />
La Neve dell'Ammiraglio - Alvaro Mutis<br />
Diario del 71 e 72 - Eugenio Montale<br />
<br />
Luca<br />
Le affinità elettive - Goethe<br />
Gli anni della nostalgia - Kenzaburo Oe<br />
Scritti corsari - P.P. Pasolini<br />
La Caverna - Saramago<br />
Alice nel paese delle meraviglie - Carroll<br />
<br />
Daniela <br />
Non avevo capito niente (Diego de Silva)<br />
In viaggio contromano (Michael Zadoorian)<br />
La bambina prodigio (Nikita Lalwani)<br />
Stoner (John Williams )<br />
La valle delle donne lupo (Laura Pariani)<br />
<br />
<span class="userContent">Graziella</span><br />
<span class="userContent">Collodi, Pinocchio</span><br />
<span class="userContent">Calvino, Il barone rampante</span><br />
<span class="userContent">Manzoni, I promessi sposi</span><br />
<span class="userContent">Yehoshua, Viaggio alla fine del millennio</span><br />
<span class="userContent">Garcia Marquez, Cronaca di una morte annunciata</span> <br />
<br />
Maria<br />
<span data-ft="{"tn":"K"}" id=".reactRoot[137].[1][2][1]{comment135742793274924_137675503081653}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2]"><span class="UFICommentBody" id=".reactRoot[137].[1][2][1]{comment135742793274924_137675503081653}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2].0"><span id=".reactRoot[137].[1][2][1]{comment135742793274924_137675503081653}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2].0.[2]">Il grande mare dei Sargassi (Jean Rhys)</span></span></span><br />
<span data-ft="{"tn":"K"}" id=".reactRoot[137].[1][2][1]{comment135742793274924_137675503081653}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2]"><span class="UFICommentBody" id=".reactRoot[137].[1][2][1]{comment135742793274924_137675503081653}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2].0"><span id=".reactRoot[137].[1][2][1]{comment135742793274924_137675503081653}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2].0.[2]"> </span><span id=".reactRoot[137].[1][2][1]{comment135742793274924_137675503081653}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2].0.[4]">Il partigiano Johnny (Beppe Fenoglio)</span></span></span><br />
<span data-ft="{"tn":"K"}" id=".reactRoot[137].[1][2][1]{comment135742793274924_137675503081653}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2]"><span class="UFICommentBody" id=".reactRoot[137].[1][2][1]{comment135742793274924_137675503081653}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2].0"><span id=".reactRoot[137].[1][2][1]{comment135742793274924_137675503081653}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2].0.[4]"> </span><span id=".reactRoot[137].[1][2][1]{comment135742793274924_137675503081653}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2].0.[6]">La luna e i falò (Cesare Pavese)</span></span></span><br />
<span data-ft="{"tn":"K"}" id=".reactRoot[137].[1][2][1]{comment135742793274924_137675503081653}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2]"><span class="UFICommentBody" id=".reactRoot[137].[1][2][1]{comment135742793274924_137675503081653}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2].0"><span id=".reactRoot[137].[1][2][1]{comment135742793274924_137675503081653}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2].0.[6]"> </span><span id=".reactRoot[137].[1][2][1]{comment135742793274924_137675503081653}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2].0.[8]">La vita agra (Luciano Bianciardi)</span></span></span><br />
<span data-ft="{"tn":"K"}" id=".reactRoot[137].[1][2][1]{comment135742793274924_137675503081653}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2]"><span class="UFICommentBody" id=".reactRoot[137].[1][2][1]{comment135742793274924_137675503081653}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2].0"><span id=".reactRoot[137].[1][2][1]{comment135742793274924_137675503081653}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2].0.[8]"> </span><span id=".reactRoot[137].[1][2][1]{comment135742793274924_137675503081653}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2].0.[10]">Ritratto dell'artista da giovane (James Joyce)</span></span></span><br />
<br />
<span data-ft="{"tn":"K"}" id=".reactRoot[137].[1][2][1]{comment135742793274924_137675503081653}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2]"><span class="UFICommentBody" id=".reactRoot[137].[1][2][1]{comment135742793274924_137675503081653}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2].0"><span id=".reactRoot[137].[1][2][1]{comment135742793274924_137675503081653}.0.[1].0.[1].0.[0].[0][2].0.[10]">Maura </span></span></span><br />
Irene Nemirovsky IL BALLO<br />
Benedetta Cibrario ROSSOVERMIGLIO<br />
Lidia Ravera ETERNA RAGAZZA<br />
Christa Wolf MEDEA<br />
Laura Pariani LA VALLE DELLE DONNE LUPOAntonio De Bellishttp://www.blogger.com/profile/08589288385447295429noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-3437498411039201584.post-23280231101788005772013-03-29T18:38:00.001+01:002013-03-29T18:47:44.866+01:00La valle delle donne lupo - Laura Pariani<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgdEVdt3Ds36PG7667xRWyxvLOJi4cCPCvnSln8aAYzgBE_sLou8a4aCviaB7jLL30mbZsCDZ8yOvwTnJRpbxWPM9jxjbLc1d9e8JB-pIspDsCSfNQUOsMGDDrmGy5SnqeDZQaugZWR89M/s1600/Laura+Pariani+-+La+valle+delle+donne+lupo.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgdEVdt3Ds36PG7667xRWyxvLOJi4cCPCvnSln8aAYzgBE_sLou8a4aCviaB7jLL30mbZsCDZ8yOvwTnJRpbxWPM9jxjbLc1d9e8JB-pIspDsCSfNQUOsMGDDrmGy5SnqeDZQaugZWR89M/s200/Laura+Pariani+-+La+valle+delle+donne+lupo.jpg" width="126" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<b>Il libro che il Circolo Lettori ha discusso ieri sera ha incontrato un apprezzamento unanime. Il romanzo trae ispirazione dai racconti tramandati oralmente dagli anziani delle alte valli piemontesi registrati dall'</b><b><b>autrice</b> su nastro nel corso degli anni. La scrittura è molto particolare perchè unisce l'italiano al dialetto italianizzato. La storia della protagonista, ormai anziana, emerge poco per volta nell'intervista che questa concede ad una giornalista con la quale ripercorre, </b><b><b>dall'adolescenza ai giorni nostri,</b> le sue vicende e quelle della sua famiglia e delle persone del piccolo paese in cui vive. Lo sfondo è quello epico e leggendario delle valli ma l'umanità che le abita non ha nulla di bucolico e idiliaco, anzi. Sin dalle prime pagine si delinea il ritratto di una società rude, opprimente, fortemente maschilista. Il ruolo della donna è quello della serva silente su cui sfogare ogni genere di impulso. Peggior sorte è destinata alle "balenghe", quelle che uniscono alla sventura di essere nate donne un comportamento fuori dagli standard che si può manifestare con la testa un po' per aria o con un timido desiderio di emancipazione. Nel migliore dei casi queste sono mandate al riformatorio, nel peggiore all'ospedale psichiatrico o trucidate. Molto bella a riguardo la storia di Anna che riporto integralmente di seguito.</b><br />
<b>Il pessimismo è assoluto e tutto il romanzo è permeato da dolore, freddo, violenza e solitudine. L'uomo è più cattivo del più cattivo degli animali che per antonomasia è il lupo e che viene a sua volta riabilitato da un originale processo di straniamento che lo accomuna alle balenghe e al loro</b><b><b> tragico destino</b>.</b><br />
<b> </b></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
Nel maggio successivo alla morte della Tilde, la Grisa scappa per la prima volta. Il cancello dell’orto è rimasto socchiuso: un vecchio sportellino cigolante che non serra bene. La bambina – che va per i tre anni – si inoltra a passettini incerti nel prato deserto, puntando poi dritto verso il bosco. Chi lo sa cosa l’attrae? Forse il canto di un uccello, un battere d’ala di farfalla, il muschio verde e cedevole, il balenio di una pietra sotto un raggio di sole che filtra tra i rami, una pigna che cade pesante per terra; o magari l’ombra della Tildina che le è sembrato vedere muoversi tra i rovi... Un passo dietro l’altro, sempre piú nel folto.</div>
<div style="text-align: justify;">
La sera, quando il Biâs e la Terésia chiamano per la cena, della piccolina non c’è traccia. Frugano tutti gli angoli della casa, sotto i letti, negli armadi, nel grotto che funge da cantina. Madonna Santa, non c’è. Le voci scannarozzate echeggiano per la valle, con angoscia crescente:</div>
<div style="text-align: justify;">
«Grisa, dove sei?»</div>
<div style="text-align: justify;">
Di corsa i quattro becchini si portano di casolare in casolare, fino al Paese Piccolo. Niente di niente. Tornano indietro col fiatone. In coro, con la paura del peggio in fondo al cuore, spolmonandosi:</div>
<div style="text-align: justify;">
«Griiisa! Griiisaaaa!»</div>
<div style="text-align: justify;">
I richiami si perdono tra i burroni scoscesi della riàle, da balma a balma. Nessuna risposta. Solo il lamento dei primi uccelli notturni e la voce bassa dell’acqua che corre nel buio dei prati. Piú tardi, con alcune lanterne, si addentrano nel bosco. Il bagliore rosso dei lumini rischiara il volto chiuso dei tronchi, il groviglio minaccioso delle rame, le erbe gravi di rugiada. Una civetta piange: uccello che porta male. Quella notte si sente l’ululato di un lupo, vicino vicino. Il Biâs rabbrividisce, la Terésia caragna.</div>
<div style="text-align: justify;">
Qualche mese dopo, il miracolo: dei cacciatori trovano sotto una balma, nei pressi della cascata, l’ingresso di una caverna nascosto da un macchione di lamponi. Con una torcia fanno lume e vedono un paio di lupacchini che mostrano i denti e spalancano degli occhi verdegialli al raggio di luce e alle grida di sorpresa. Gli uomini li tirano fuori: uno è proprio un lupatto, l’altro è la Grisa. Deve essersi amicata alla caverna e alla nuova famiglia lupa, perché fa un verso che non è umano:</div>
<div style="text-align: justify;">
«Uuuuuuuuh».</div>
<div style="text-align: justify;">
In paese è festa grande. La piccola sta bene, sana e robusta piú di prima, tranne per il fatto che non parla, neanche quelle brevi frasi ingarbugliate come tutti i piccinàja della sua età, che prima di scomparire sapeva pronunciare. Quando ci si rivolge a lei, si limita a scuotere la testa bionda in segno di no. A niente valgono implorazioni carezze bomboni; menochemài le botte. Guarda sopà e somà come le fossero estranei. In casa striscia le mani lungo le pareti, quasi cercasse una sensazione di fresco, oppure sta cucciata vicino alla porta; raccoglie ossi dal cesto della spazzatura, li nasconde sotto il letto, quando nessuno la guarda se li rigira tra le mani, si direbbe che li stia contando. Poi, appena le danno il permesso di uscire, corre al gabbiotto dove hanno rinchiuso il lupatto catturato insieme a lei, infila le mani nei buchi della rete e il suo antico compagno di caverna le lecca le dita, quasi con tenerezza, fissandola con le iridi giallastre. Se poi qualcuno la stacca di lí a viva forza, apre la bocca in uno strano verso di denti digrignati, i capelli le si rizzano per il nervoso, le braccia si irrigidiscono e diventano gelide. Però la notte, ogni volta che il lupatto rinchiuso prende a ululare, la Grisa balza a sedere sul letto, le orecchie tese; allora una specie di sorriso le rischiara il viso attento e ulula di rimando:</div>
<div style="text-align: justify;">
«Uuuuuuuuh».</div>
<div style="text-align: justify;">
Naturalmente viene chiamato il medico che scuote la testa senza sapere che fare. Si chiede il parere della biszía Ginòria, una carampàna lamentosa che non esce di casa da piú di quarant’anni, ovverossía da quando il sò Lipèt scomparve in una battuta di caccia al lupo, lasciandola in patema a occhieggiare invano il suo ritorno. La vecchia sospirosa dà il suo parere invocando a testimone la santa Verità: che si tratta di opera del diavolo Tartàifel; che non c’è niente come i lupi per trasmettere alle persone la loro dannazione bestiale; che i lupi portan tríboli a crepacuore, come ben dimostra la scomparsa del pòer Lipèt.</div>
<div style="text-align: justify;">
Un mattino d’inverno trovano il lupatto morto, rattrappito in un
cantone. Il Biâs lo estrae dal gabbiotto e lo getta sul letamaio. Quando
la Grisa ne scopre il corpo freddo e rigido, si siede vicino a lui e lo
struca forte a sé, quasi per trasmettergli un poco del sò calore,
grattandogli insistentemente la testa tra gli orecchi e mugolando di
tenerezza. Poi, stupita e spaventata del silenzio dell’amico e del fatto
che non le faccia festa, corre dai grandi, gli occhi gonfi di lagrime,
Uuuuuuuuh, li trascina fino al luogo dove la bestia giace immobile.</div>
<div style="text-align: justify;">
E sopà:</div>
<div style="text-align: justify;">
«È morto, non toccarlo. Appena ho tempo, lo scuoierò e poi tomà ti farà un bel paio di pantofoline».</div>
<div style="text-align: justify;">
Ma la Grisa, desolata, continua a ululare. La sgridano. Va a
rannicchiarsi in un angolo, sconcertata. Tira fuori da un nascondiglio
che nessuno conosceva una grande quantità di ossi e si mette a lisciarli
carezzandoli uno per uno. Pare che la cosa la quieti, anzi si
addormenta stringendo al petto il suo tesoretto. Si sveglia che è quasi
buio, si dirige a passetti verso il letamaio, ma la bestia non c’è piú.
La cerca ovunque senza trovarla, urla con voce spezzata:</div>
<div style="text-align: justify;">
«Uuuuuuuuh».</div>
<div style="text-align: justify;">
Naturalmente il Biâs va su tutte le furie:</div>
<div style="text-align: justify;">
«Múccala di far versi, era solo una bestia, un lupo... Deograzie
che è morto, e tu sei ’na cristiana. Piantala di comportarti come
un’insensata!»</div>
<div style="text-align: justify;">
La trascina nella stanza da letto e, patàf patàfa, la batte con
rabbia per farla smettere. La debole lampadina sul comodino illumina il
viso paonazzo della piccola, la bocca urlante. D’un tratto la Fenísia
che, rintanata in un cantone, ha seguito la scena tremando, fa un
fischio per richiamare l’attenzione della cuginetta. Le strizza l’occhio
con complicità, poi alza le mani: le basta un semplice movimento delle
dita, ed ecco che l’ombra disegna sul soffitto la testa di un lupo che
muove le orecchie aprendo e chiudendo la bocca. A quella magia la
piccola Grisa smette di gridare, si infila il pollice in bocca e si
lascia mettere a letto senza ulteriori proteste. Succhiandosi il dito,
lo sguardo fisso al soffitto dove la testa del lupo continua a
ingrandirsi e rimpicciolirsi, si addormenta.</div>
<div style="text-align: justify;">
La Terésia partorisce un’altra bambina a cui viene dato il nome di
Tilde: vive solo poche ore. Il trambusto che ne deriva sembra calmare
per un attimo la Grisa: diviene piuttosto taciturna, neanche una parola o
un piccolo guizzo di riso. Un paio di settimane piú tardi cerca
nuovamente di scappare e prendere la strada del bosco, finché sopà la
lega con una catena al cancello del cimitero, perché non si perda
un’altra volta. Quando il Biâs fa scattare la serratura del lucchetto,
la Terésia scoppia a caragnare. Ma lui la zittisce:</div>
<div style="text-align: justify;">
«Quando non c’è rimedio, la carezza fa piú male che bene».</div>
<div style="text-align: justify;">
Parole che ripete continuamente, quasi voglia convincere
soprattutto se stesso; come se temesse che un cedimento di fronte alle
lagrime della moglie possa portare altri guai e dolori.</div>
<div style="text-align: justify;">
In genere la piccola se ne sta ingrugnita dove le si dice di
mettersi, e con torpidi movimenti delle dita rigira il sò mucchietto di
ossi, studiandoli e odorandoli. Alla Fenísia la cosa sembra divertente:
le piacerebbe tanto imitare la cugina, ma ha paura di finire alla catena
pure lei; tanto piú che in casa tutti insistono:</div>
<div style="text-align: justify;">
«Mi raccomando, da’ il buon esempio alla Grisa! Non scalciare, non
gridare, non fare la pazza come lei! Vedi bene che fastidi ci dà quella
là con il suo brutto vizio di urlare come una lupa. Invece tu sei una
brava fiòla, ormai quasi una donnina...»</div>
<div style="text-align: justify;">
Eccosí, anche se a lingua legata, la Fenísia impara a rispondere
sí: che ubbidirà prontamente, che non si butterà per terra a sguignire
di dolore, che sarà composta, che non avrà «brutti vizi». </div>
<div style="text-align: justify;">
[...]</div>
<div style="text-align: justify;">
Un mattino di marzo, la Fenísia viene mandata in busca della Grisa,
perché non la trovano da nessuna parte. La ragazza cerca la cugina nel
cimitero tra le lapidi. La scorge nell’orto, imbambolata a fissare un
folto di alberi di mele. Chiama, ma l’altra non risponde. La Fenísia si
avvicina indispettita. Solo allora si accorge che il melo piú vecchio ha
un ramo innaturalmente piegato, e non è per il peso della fioritura.
C’è una figura bianca che pende dal ramo. Una donna con un lungo
camicione: i piedi nudi sono leggermente sollevati da terra, come fosse
una fata capace di levitare.</div>
<div style="text-align: justify;">
Le ci vuole un po’ a capire che è la Terésia che si è impiccata.</div>
<div style="text-align: justify;">
Il curato ha parole tremende contro la Terésia. La ribellione di
una sposa, anche nel caso di una convivenza trista, è per lui
inammissibile. Pazienza e mansuetudine sono virtú che sbandiera
crudamente nella predica della domenica successiva:</div>
<div style="text-align: justify;">
«C’era un uomo che aveva l’indole e l’aspetto di una fiera
selvaggia: una malattia che pativa da gran tempo lo metteva in uno stato
perenne di furore. Vero cuore di ferro che respingeva con ferocia la
moglie che gli si faceva dappresso per portargli del conforto o una
vivanda delicata. Invasato da furia, afferrava i piatti che la moglie
gli porgeva e glieli sbatteva in faccia villanamente. A ogni atto
brutale, la donna chinava il capo e si ritirava offrendo la sua pena a
Domineddio... Questa è la vera sposa cristiana: paziente, sottomessa,
lavoriera, che si lascia mansuetamente mettere in croce. Guai alla donna
che si fa prendere dalla collera, che getta fiamme dagli occhi! Il
barometro del suo cuore segna cattivo tempo, la disobbedienza coniugale
discende sempre piú in basso e l’ultimo grado di abbassamento è la
tempesta: perdita di ogni divozione, ferali proponimenti... Non c’è
bisogno che l’indetti io: sapete tutti che non si potrà darle sepoltura
al cimitero».</div>
<div style="text-align: justify;">
La pazienza è una virtú che non è mai abbondata in casa della
Fenísia, ma adesso il Biâs col suo viso legnoso, fermo in una smorfia di
disgusto, fa veramente paura. Sulla fronte la cicatrice della lontana
ferita di guerra gli diventa viola quando va in furia, proprio lí, dove
sotto non ha piú l’osso ma una placca di metallo, che gli hanno messo i
dottori. Si impizza per una malòmbra, a volte per dargli fastidio basta
un colpo d’unghia sull’orlo di un bicchiere.</div>
<div style="text-align: justify;">
Una sera la Grisa, stanca dei maltratti che dopo la morte della
Terésia si sono moltiplicati, riprova a scappare da casa. Sopà la
riacciuffa sulla strada che scende in città: la agguanta per i capelli
in cima alla testa e la trascina indietro. La ragazzina si dibatte,
digrigna i denti dalla rabbia.</div>
<div style="text-align: justify;">
Il Biâs perde la sintèresi:</div>
<div style="text-align: justify;">
«Ah sí? Vuoi mordermi? Tu con me non ce ne puoi. Non ti rendi conto
che ti posso piegare come voglio, ché sono io quello che comanda!»</div>
<div style="text-align: justify;">
Fa pena la Grisa tenuta per i capelli. La Malvina – che da quando
la Terésia è morta viene spesso al cimitero a dare una mano nei lavori –
implora il Biâs:</div>
<div style="text-align: justify;">
«Per l’amor di Dio, lasciatela stare, non è cosí che si fa con una creatura...»</div>
<div style="text-align: justify;">
E lui:</div>
<div style="text-align: justify;">
«Macché creatura. Questa l’è una lupa. E coi lupi di carezze e zuccherini non c’è di bisogno».</div>
<div style="text-align: justify;">
Sostiene che occorre levarle il brutto vizio di ribellarsi, che lui
alla fine saprà farla rigare dritto. I padri comandano e i bocia devono
obbedire. Il padre insegna. Il figlio impara.</div>
<div style="text-align: justify;">
[...]</div>
<div style="text-align: justify;">
Al filo della mezzanotte di San Giovanni, come tutte le nubili della
valle, la Fenísia riempie una scodella d’acqua e la lascia fino all’alba
sul davanzale, dopo averci versato dentro una chiara d’uovo, perché si
rapprenda con la rugiada. Il pronostico sembra buono. I benís vengono
dunque distribuiti. Lei prepara il buché, la velettina blu, il vestito
da festa col collo abbottonato alto; lui compra gli ori. Allo sposalizio
le parole di don Adolfo la inquietano – «Prometti di onorare tuo
marito...» – ché quella parola «onorare» è uguale a quella che il
parroco precedente tirava fuori per reclamare l’obbedienza a un padre
che picchia senza amore.</div>
<div style="text-align: justify;">
Finita la funzione, si dà il via a una pacciatòria memorabile,
tanto che alla fine della soarè le comari raccontano ridendo l’antica
favola degli sposi che passarono la prima notte a fare una tale
spropter-màgnam di confetti, che dovettero tornare a casa dai parenti a
farsi curare con una purga l’infesciatura dei sò visceri.</div>
<div style="text-align: justify;">
Il Billio compra un casale fuori dal Paese Piccolo: con tutte le
comodità, dal bagno alla televisione. Il luogo è piuttosto isolato ma va
ben cosí, sostiene il barba «Didòn»: ché la Fenísia non è remissiva né
di primo pelo, epperciò la convivenza con la cognata Dolinda avrebbe
portato complicazioni: chi vuol viver e stare sano, dai parenti stia
lontano. Eppoi il casale è in un’ottima posizione: nonostante la valle
sia stretta e piuttosto buia, lassòpra batte il sole per parecchie ore;
in piú non c’è vento, la casa è protetta da una balma; senza contare che
si gode la vista della riàle d’acqua schiumosa e gagliarda che scompare
in forre nere, per poi riapparire trasparente tra colonnate di larici.</div>
<div style="text-align: justify;">
Da vecchia la Fenísia tornerà spesso col pensiero alle speranze di
quei mesi. Ché la vita spillícchia le carte poco a poco, per cui spesso è
impossibile vedere il marcio all’inizio: ogni rapporto nelle prime fasi
ha un aspetto attraente, quando il pomo offre la sua buccia di bei
colori, addormentando i presentimenti, finché una poracrista si brusca
il proprio pelo.</div>
<div style="text-align: justify;">
I proverbi dicono che per conoscere un uomo, bisogna mangiarci
insieme uno staio di sale; e, d’altra parte, che il male non vien mai
tanto tardi, che non sia troppo presto... La Fenísia è spaventata dalla
meschinità del Billio e dalle sue insistenze a farsi intestare la dote
di lei; ma soprattutto dalla grossolana brutalità dei suoi rapporti
sessuali e dalla volgarità con cui la prende in giro per la sua ritrosia
a letto: lui sí che ha visto il mondo, ché le donne in Germania sono
vere femmine babiloniche e mica fanno storie a calarsi le mutande per
lasciarsi speronare, eppoi la danno cosí cosà... Questi modi suscitano
nella Fenísia una progressiva ripugnanza nei confronti del marito. È una
lenta guerra che si va manmano inasprendo, perché lei rifiuta di
fingere quell’espressione di grata beatitudine a cui il maschio nella sò
boria quasi sempre crede, anche se è malrecitata. Di rimbalzo, lui
passa sempre piú tempo fuori: la casa sembra gli serva solo per il
rifocillo quando la sera torna dal lavoro eppoi via, al bar a giocare a
soldi, purtroppo senza la protezione di san Macario. Lei resta sola in
casa davanti al televisore: per compagnia, le inchieste del commissario
Maigret e le sventure di David Copperfield.</div>
<div style="text-align: justify;">
La Fenísia si spaventa trovando in un cassetto del Billio un
pacchetto di polvere bianca. Bicarbonato, sostiene lui. Ma, all’odore,
lei sospetta ben altro. Per precauzione rispolvera i contravveleni della
nonna e sta in campana.</div>
<div style="text-align: justify;">
Perché l’ha sposato? Per cercare di avere una vita diversa, col
desiderio di non svegliarsi piú nel cuore della notte con la voce della
Ghitín che le sussurra nell’orecchio: «Questo è un segreto da non dire a
nessuno»; con la voce della Grisa che le singhiozza nell’orecchio:
«Questo è un segreto da non dire a nessuno»; con la voce del parroco che
le tuona all’orecchio: «Bisogna onorare il padre»; come se onorare
fosse importante, la sola salvezza, come se la vita diventasse meno
triste per il fatto di onorare. Lei che per tutta l’infanzia avrebbe
avuto voglia di chiedere al curato: «Perché onorare chi batte la propria
figlia?...» Somà e sonònna non le avevano mai chiesto di onorarla.</div>
<div style="text-align: justify;">
In paese si mormora che il «Pal-de-fèr» ronzi da mesi intorno alla
Cít, che ha ventun anni; lui dimostra una cera da galletto, la voglia
visibilmente in punta. Una volta che la Fenísia scende dal tabacchino
per compere, la Centina la prende da parte e, facendo finta di
spurinarla – «poverina qui», «poverina là» – ma bagnandosi il savoiardo
nelle disgrazie dell’altra, le spiattella la schifenza dell’adulterio
senza usare lunghi giri di perifrasi. La Fenísia si sente mancare il
fiato: gambe di pezza, nebbia in testa. Cerca comunque di dominare il
tremito mordendosi le labbra.</div>
<div style="text-align: justify;">
Si ritrova poco dopo a camminare verso casa, come lottando con
un’aria che si è fatta cosí spessa da mozzarle il respiro. La gola le
brucia, la lingua impastata. Un po’ d’acqua, per carità. I piedi la
portano automaticamente verso un fontanino, ma quest’estate è secco, ne
sgorga solo un filino d’acqua, i sassi quasi asciutti. Nessun sollievo.
Perfino il pianto non viene, neanche una lagrima da bere.</div>
<div style="text-align: justify;">
Chi sa come ritrova l’uscio di casa. Si siede in cucina. Le solite
vocine: «Non urlare! Non scalciare! Fa’ la brava...» Le ci vuole un po’
per sciogliersi in uno squasso di pianto. Negli occhi gli oggetti della
cucina spallidiscono, tremano. Piangere, urlare, scalciare: oh, come le
fa bene sta caragnata. S’è alzato il vento, alle finestre le tende
prendono a muoversi debolmente: un piccolo sollievo dopo la gran sudata
del ritorno a casa. La Fenísia sospirando si impone di affrontare con
durezza il marito, appena rientrerà: gli chiederà conto. Si sdraia
sull’alto lettone matrimoniale, rigida, a occhi sbarrati.</div>
<div style="text-align: justify;">
Le marcolfe linguacciute hanno di nuovo su che ricamare finezze da
trobàr cortés: il Billio è scappato con la Cít. Carezzandosi gli orecchi
con grande mormorazione di lingua e dardeggiando sguardate d’intesa, la
Centina «Portapía» sentenzia:</div>
<div style="text-align: justify;">
«Si vede che lui per la Fenísia non provava piú niente, ché l’amore
all’inizio fa passare il tempo e poi il tempo fa passare l’amore. Eh,
verità verissima, certi uomini di donne non ne hanno mai a basta: piú di
Maometto hanno bisogno di averne. Mica come il pòer Dionigi che la
femmina non gli tira la sò maschilità, e lo posso ben dire io perché
all’ora di scegliere un pasticcino dal cabarè sul bancone del bar,
slunga la mano solo per la dolcería a forma tubolare».</div>
<div style="text-align: justify;">
Le sorelle Ferretto rivangano maliziosamente la storia scabrosa con
la Grisa e la triste nomea di settespiriti che grava sulla malarazza
della Malvina:</div>
<div style="text-align: justify;">
«C’era da aspettarselo: di pelo rosso non è buono neanche il
capretto, figurarsi una donna; tanto piú con quegli anni tra i barabítt
che ha alle spalle. Lui alla fine ha afferrato l’antifona e se l’è
squagliata».</div>
<div style="text-align: justify;">
E, visto che nessuno vede la Fenísia piangere, la Dolinda «Senzatètt» commenta:</div>
<div style="text-align: justify;">
«Ha il cuore di pietra. L’avevo detto io che pelo rosso, cattiva lana».</div>
<div class="indent" style="text-align: justify;">
Vero, la Fenísia non piange, chiusa com’è in un
pensiero fisso: che basta un niente, e le sicurezze che una persona si
costruisce faticosamente si sgretolano come farina che si perde da un
sacco bucato. Alle linguesporche non risponde. Per non fare il loro
gioco, l’unica linea di condotta possibile le pare il continuare nel
solito atteggiamento cortese, come se nulla fosse accaduto. Ché le
comari gongolerebbero a vederla ferita.</div>
<div style="text-align: justify;">
Le viene la notte una penosa sensazione allo sterno, stretto come
in una morsa. Rabbrividisce perché comincia a vedersi doppia, un’altra
con la sua stessa voce. La sera, spente le luci, rimane a parlare tra
sé. Ma non è piú il gioco della Fenísia bambina, quella prima del
«collegio», che aveva vicino la Grisa che l’ascoltava. Non è neppure la
Fenísia tornata al paese dopo la reclusione, sempre all’erta sul
chi-va-là. Adesso c’è un’altra Fenísia ancora, che si osserva dal di
fuori, come se nella stanza ci fossero veramente due persone: una
sbandata in lunghi conversari verso l’altralèi invisibile che ascolta.
Sta per caso diventando matta come sò cugina? A volte si chiede se è
cosí che la morte fa luce nella testa della gente.</div>
<div style="text-align: justify;">
Il pensiero della fine solitaria della Ghitín le spírita nella
mente. Madre... Non riesce a ricostruirne l’immagine, non la vede, non
sa cercarla, non ha mai imparato a cercarla. Si sente i piedi impigliati
nelle radici del sò sangue in lutto, ma non conosce la strada per
andare avanti. Se somà venisse a illuminarla...</div>
<div style="text-align: justify;">
Durante uno dei suoi vagabondaggi inquieti si ritrova in un prato
fiorito di aconito blu. «Cappucci di monaco» li chiamano qui in valle.
La Malvina raccomandava di tenersene lontani: è una specie di arsenico
vegetale; se si viene a contatto con la pianta, bisogna lavarsi
accuratamente le mani prima di toccare qualsiasi cibo. La Fenísia quasi
senza pensarci affonda le dita nella terra, ne carezza la radice
grumosa, quasi tastasse l’uovo a una gallina. Basterebbe metterla in
bocca, masticarla: tempo un minuto e la sarebbe finita.</div>
<div style="text-align: justify;">
Spesso si ferma alla cappelletta che sta ai margini del prato delle
Balenghe: ché se tutti hanno dimenticato le donne senza nome che stanno
sepolte quassòpra, non cosí la Madonna, che femmina era pure lei e di
incomprensioni ne sapeva qualcosa. Chissà chi eresse la cappellina
proprio qui? quale mano pietosa, quale sfantasía di pincisanti ambulante
concepí questa rozza immagine? Ha la testa un po’ piegata su una
spalla, sta Madre Santa, una spada infilzata nel cuore, la bocca severa
su cui si intravede la compassione: col volto solido delle donne di
questa valle, che lavorano duro cominciando la sò giornata al barlume
della stella boàra.</div>
<div style="text-align: justify;">
Alla mente della Fenísia riaffiora la preghiera accoracuore che per tutta l’infanzia ha sentito ripetere da sonònna Malvina:</div>
<div style="text-align: justify;">
«Per quel dolore amarissimo che quasi vi ridusse alle agonie, o
Inconsolabile, quando doveste rendere a Nicodemo l’unico oggetto dei
vostri amori...»</div>
<div style="text-align: justify;">
[...]</div>
<div style="text-align: justify;">
«Fenísia, non le fa impressione avere sulla porta di casa l’immagine del Giorno del Giudizio?»</div>
<div class="indent" style="text-align: justify;">
No, non le ha mai dato fastidio sto affresco. Qui
lei è sempre stata nel suo naturale. Eppoi ha mai pensato che il mondo
dei morti fosse cosí. Per lei, morte significa ossa bianche, polvere,
vialetti ordinati, il cipresso che vigila. È il mondo dei vivi che è
terribile. Comunque di questo lavoro hanno campato tutti i suoi, per
generazioni. E lei lo stesso, finché è durato il Paese Piccolo.</div>
<div style="text-align: justify;">
Se non le pare insolito questo lavoro per una donna? Chi lo sa.
Tutti i mestieri dan da mangiare. La vita è fatta di tante cose che non
si scelgono. Il padre, la madre, uno se li sceglie? Il posto dove uno
nasce? Eccosí succede per il mestiere. Mica uno può cambiare. Sarebbe
bella che il destino fosse come un paio di braghe che, se ti van corte o
strette, ne puoi mettere delle altre. Comunque lei trova che il lavoro
del becchino sia molto vario: si tratta mica solo di scavare le fosse o
di curare le tombe; prima i morti vanno ripuliti e vestiti. Quella è la
parte piú delicata del lavoro. La Fenísia si è abituata a seguire sopà
nelle case in lutto. Mal sottile, cancrene, infarti, piaghe non hanno
avuto segreti per lei. Ha imparato osservando sopà nella preparazione
dei corpi da chiudere nella bara. L’anticamera del nulla le è diventato
familiare.</div>
<div style="text-align: justify;">
Nella lavatura dei cadaveri, che ha eseguito per anni, lei non ha
mai provato schifo, anche quando si macchiava le sottane nere coi loro
umori putridi: macchie grasse, come i succhi marci della frutta quando
casca a terra per la sò maduranza. Sopà le raccomandava continuamente di
non dimenticare di lavarsi le mani quando aveva finito, soprattutto se i
parenti del morto le offrivano da mangiare, come si usava da queste
parti.</div>
<div style="text-align: justify;">
Cosa provava? Cosa vuole che provasse? Quante domande curiose fa
sta sciura milanese. Chiaro che certe cose la Fenísia non può contarle
per filo e per segno. Come si fa a spiegare quel che si sente lavando i
cadaveri e preparandoli per la cassa? Come si fa a raccontare quel
momento in cui il corpo già rigido pare tremare sotto le dita, come se
avesse un ultimo soprassalto di vita?... L’importante comunque è, mentre
si compone il corpo nella cassa, continuare a ripetere il nome del
morto. È l’usanza. Primo, perché i non-piú-vivi non devono aver
l’impressione di traversare la grande frontiera da soli; secondo, perché
il morto se lo ricordi eternamente, nel caso che qualcuno dall’altra
parte glielo domandi. Eggià. La sola cosa che l’ha sempre inquietata era
lo sguardo vuoto dei cadaveri: quell’enormità di nulla che vi
intravedeva a dispetto dei ricami di parole – la resurrezione di Lazzaro
e il destino di luce che ci attende – distillati dal curato durante i
funerali. Quella consolazione promessa che invita alla pazienza, perché
verrà il giorno che le lagrime si asciugheranno: ball de Pèder gall...
Comunque sopà le ha insegnato a non tirarsi mai indietro, ché pulire i
morti l’è la carità piú granda. Lui si disperava solo del fatto di non
aver potuto accomodare nella bara il sò povero fratello, il Martino.
Disperso in guerra, nell’inferno gelato della ritirata di Russia, tra
genti che lo consideravano un nemico e di sicuro non hanno provato
nessuna pietà. Una morte senza funerali, senza lagrime, senza preghiere.
Perché Domineddio non ha previsto neanche un briciolo di compassione
per chi muore da nemico. Lasciato a marcire senza neppure una pietra che
gridi al mondo il sò nome. Ché dopo la guerra sono venuti al paese a
mettere un cippo a tutti i poveri pistapàuta caduti. E c’eran dei
politiconi, di quelli che si vedeva che paciottavano alla benbene. E
nella spatafiàda che han propinato alla gente, patapín e patapàn, uno ha
detto che quelli come il Martino avevano dato la propria vita in
sacrificio contro la barbarie russa. Ma si capiva, tutti i presenti
capivano, che la barbarie erano loro, con le loro mani guantate, i loro
visi ben sbarbati, la boria delle scarpe belle lustre. Ah, la Fenísia
proprio ne ha piònda di quella gentaglia lí...</div>
<div style="text-align: justify;">
Purtroppo cosí va il mondo: chi le fa piú sporche, è bravo. Ci sono
tombe ingiustamente dimenticate e tombe ingiustamente onorate. Lei si
ricorda che tutti gli anni, nell’anniversario della morte di un gran
malamènti, un porco carognone, la sua lapide si copriva di fiori. Che
vergogna. E lei non parla soltanto di quelli della valle: tutto il mondo
è paese e, in materia di forca, tanto strozza la seta che la canapa.
Mascalzoni, intrallazzisti, sautabànchi capaci di ogni tipo di discorso a
trucco, rimangono nel ricordo della gente; e nessuno se ne sdegna.
Invece per i poveretti, nisba: neanche un fiore, un cero. Esiste forse
la tomba dell’inventore del pane? Quella dell’uomo che ha costruito la
prima sedia o il catino? Eppure sarebbero da riverire, ché son loro i
veri benefattori del mondo.</div>
<div class="indent" style="text-align: justify;">
«...»</div>
<div class="indent" style="text-align: justify;">
Il destino taglia i fili quando vuole. Un cacciatore
risparmia le bestie piccole, il pescatore ributta in acqua il pesce che
non ha ancora compiuto il suo ciclo. Ma quel che trova nella sua rete,
il destino se lo tiene senza misericordia. Ma il tremendo è che a volte
gioca al gatto col topo. La sciura ha mai visto un gatto quando ha a
portata di zampa la sò preda e sa che non può sfuggirgli? I baffi gli
vibrano di soddisfazione, come se pregustasse già il sapore della
plücca, di quel bomboncino di carne fresca, senza ancora sfoderare le
unghiette dallo sciampíno di velluto, ma con i nervi e muscoli ben tesi,
la coda che cerca il punto di appoggio perché tutto il corpo prenda lo
slancio e salti... Cosí fa il destino.</div>
<div class="indent" style="text-align: justify;">
«Fa una certa impressione sentirla parlare in questo modo, Fenísia. Come se non ci fossero consolazione o giustizia possibili».</div>
<div class="indent" style="text-align: justify;">
Uno prende la purga e l’altro va di corpo: questa è
la prima regola della vita. Quanti vanno alla forca che non ne han né
mal né colpa. Cosí va il mondo. Si fa per la meglio; alla peggio ci
siamo. Si vive da ottenebrati. Quel che i tuoi occhi non stanno vedendo
oggi può darsi che dovrai soffrirlo come colpa posdomani. Per non
sbagliare non bisognava nascere.</div>
<div class="indent" style="text-align: justify;">
[...] </div>
<div style="text-align: justify;">
L’estate è smeraldo: boschi, lucertole, perfino le pietre sono verdi.
Anche la casa sembra invasa da una luminosità di quel colore: sarà per
il profumo della menta e della camomilla appese in fasci alle travi.
L’acqua bevuta dalla secchia col mestolo di ferro lega gradevolmente i
denti e sa di radici profonde.</div>
<div style="text-align: justify;">
Seduta sulla panca addossata al muretto del cimitero, la Grisa ascolta la Fenísia che chiacchiera rivangando la comune infanzia:</div>
<div style="text-align: justify;">
«Perché i padri picchiano le figlie e si giustificano che è per il
loro bene, per punire il loro “brutto vizio”, e che da grandi le figlie
intenderanno? Ma intendere cosa?... Perché le botte e le cinghiate? E
alla fin fine cos’era sto brutto vizio?»</div>
<div style="text-align: justify;">
Il fischio di un uccello chiama la pioggia. La Fenísia continua dandosi da sé una risposta:</div>
<div style="text-align: justify;">
«Era semplicemente che, quand’una nasce, la famiglia è già pronta
con uno stampino, come quello delle torte. Ma evidentemente qualche
bambina ha una forma che non si adatta allo stampo. Per questo la
pestano cosí tanto: perché non si rassegna, non si arrende».</div>
<div style="text-align: justify;">
[...]</div>
<div style="text-align: justify;">
La Fenísia ha già coperto il mucchio di ricci con la sabbia: cosí le
castagne resteranno fresche fino a primavera. Ora sta preparando la
riserva di legna per l’inverno: da dietro casa si alza il rumore secco
del mazzuolo quando viene battuto sul cuneo.</div>
<div style="text-align: justify;">
Lavora da sola, perché la Grisa ha da fare nel capanno degli
attrezzi, affianco alla legnaia, dove ha installato una specie di
laboratorio. È sempre stata brava a riparare un contatto elettrico
saltato dopo un cortocircuito, con l’aiuto di un temperino sa rimettere
in moto un meccanismo che si è fermato; ma adesso l’impegno che le
prende quasi interamente la giornata è la costruzione di strani
apparati. Si tratta di «macchine» – cosí le chiama la Grisa –
dall’utilità fantastica. C’è presèmpio, la macchina «per far passare la
paura»: un’armatura di plastica e legno, a cui sono legati vari fili
elettrici, con due fori per le mani a cui sono applicati i meccanismi di
un paio di macinini a manovella. Oppure quella «per non far volar via
le parole e i pensieri»: una specie di passamontagna di lamiera da
infilarsi intorno al capo. Ché la Grisa è molto preoccupata della
possibilità che qualcuno le entri nella testa e la derubi dei propri
pensieri; sostiene che le parole scendono dal cervello fin giú nella
bocca ma che, nel momento in cui arrivano alla lingua, un non meglio
specificato «nemico» le prosciuga. La sua speranza è di riuscire a
fabbricarsi una testa nuova.</div>
<div style="text-align: justify;">
Adesso, infagottata in una vecchia tuta maschile da lavoro con
ampie tasche laterali gonfie di attrezzi, la Grisa è tutta intenta alla
costruzione di un grosso cubo in legno di ciliegio a cui vuole applicare
un motorino: l’ha chiamato la macchina «per fabbricare tempeste».</div>
<div style="text-align: justify;">
Alla Fenísia gli apparati della cugina fanno una strana
impressione: tra l’addobbo di un albero di Natale e un’armatura degna
dell’armata Brancaleone. Comunque non le spiace che la Grisa quasi non
l’aiuti nei lavori di casa, anzi la asseconda: è convinta che se una ha
passato piú di trent’anni all’inferno ha ben diritto di tornare bambina.
Certe sere, quando la chiama per la cena, la vede venir fuori dal
capanno degli attrezzi, con la faccia arrossata, tutta un sudore.</div>
<div style="text-align: justify;">
La Fenísia borbotta inquieta:</div>
<div style="text-align: justify;">
«Perché affannarsi cosí tanto? Che fretta c’è?»</div>
<div style="text-align: justify;">
L’altra ride e scuote la testa. La Fenísia corre a prepararle una maglia asciutta e una tazza di latte caldo.</div>
<div style="text-align: justify;">
Nel laboratorio il notes della Grisa si va riempiendo della sua
magra grafia: per lo piú sono progetti di «macchine», tracciati con
inchiostro blu, un po’ sbavato; ma soprattutto schegge di pensieri o
ricordi. Pagine di frasi misteriose:</div>
<div style="text-align: justify;">
«Un’altra volta è entrato nonsoché nel dito. La Cosa può
nascondersi anche in una roba piccolissima. Nella gola, nel petto, nella
pancia».</div>
<div style="text-align: justify;">
«Quando non ci sono morti sul soffitto, si può fare il giro della stanza».</div>
<div style="text-align: justify;">
«Se le parole non scappano dalla bocca, la Cosa non le può mangiare».</div>
<div style="text-align: justify;">
Prima di dormire, davanti alla stufa accesa, una tazza fumante di
decotto. Il profumo del genepí si spande per la stanza: scalda forte e
fa bene.</div>
<div style="text-align: justify;">
La Fenísia ha preso l’abitudine di leggere alla cugina qualche
pagina a voce alta. Dei pochi libri che stanno in casa, il preferito è
la Bibbia: un vecchio volume con severe illustrazioni: Caino il
peccatore, che si guarda alle spalle; l’arca di Noè carica di animali;
la moglie di Lot trasformata in statua di sale; la caduta delle mura di
Gerico al suono delle trombe; la bellissima Ester in ginocchio davanti
al re; la magica scritta «Mane, Tekel, Fares» sul muro del palazzo del
re ingiusto; Giuditta nella tenda di Oloferne... La Grisa ha preso la
solita pastiglia e ha un’aria rilassata, ché via via che la medicina fa
effetto, il diavolío di pensieri dolorosi che spesso la prendono alla
sera si attenua: come alle fiere di paese quando, dopo un giro vorticoso
di manovella, la ruota della fortuna coi bigliettini dei premi prende a
rallentare. Nella testa le immagini traballano e frenano la corsa, il
soffitto si fa sempre piú lontano, l’aria si addensa.</div>
<div style="text-align: justify;">
La Fenísia alza gli occhi dal libro. La luna piena imbianca il cimitero. I fiori di ghiaccio brillano sui vetri. Dice:</div>
<div style="text-align: justify;">
«Che luce, là fuori. Non sembra neppure notte».</div>
<div style="text-align: justify;">
Poi zittisce, accorgendosi che l’altra si è addormentata sul divano
in un sonno tranquillo, il braccio destro piegato sotto la nuca.</div>
<div style="text-align: justify;">
Sul notes la Grisa stasera ha scritto:</div>
<div style="text-align: justify;">
«Gesú stava nel cortile del Tempio. Vennero gli scribi farisei a
portargli una donna. Dissero: Guarda, Figlio dell’Uomo, questa è una
pazza. La Legge dice che quelle come lei vanno rapate.</div>
<div style="text-align: justify;">
E lui si mette a scrivere con un dito nella polvere.</div>
<div style="text-align: justify;">
Allora quelli dàgli a insistere: Cosa fai di bello, Figlio dell’Uomo, cosa ci dici di bello?</div>
<div style="text-align: justify;">
Amen».</div>
<div style="text-align: justify;">
[...]</div>
<div class="indent" style="text-align: justify;">
«Allora torniamo a quel prato delle Balenghe».</div>
<div class="indent" style="text-align: justify;">
Per lei è un luogo di storie. Non sue, sia chiaro.
Narrazioni che lei ha sentito da bambina nelle stalle, quando le vecchie
filavano in circolo. Storie di fatica, di patate da cavare con le mani
sgrabelate, di lupe che urlano di fame, di figli ingrati, di gente
capace di accoltellarsi per una fascina di legna. Lei ne ha sentite
tante, ma proprio tante. Eh, il sangue di una vecchia la sa lunga.</div>
<div style="text-align: justify;">
Perché il prato si chiama cosí? Ste Balenghe chi erano? Donne che
vivevano da sole. Donne che, secondo la comunità, avevano qualcosa di
strano: albine, presèmpio, o gobbe o strabiche o mancine... Insomma, che
avevano caratteristiche fuori dal comune oppure che soffrivano del
morbo della malinconia. Ognuna balenga per il sò particolare motivo. La
sciura vuole sentirne una?</div>
<div style="text-align: justify;">
C’era l’Anna. Balenga, le dicevano tutti: balenga, perché non
sapeva neppure dire quante paia fanno tre mosche. Innocente, forse cosí
l’avrebbero chiamata se fosse vissuta in un altro posto. Ma qui in valle
la gente è di legno. Nuca dura e mano quadra. Lo scherno come regola.
Ché, a contarla intera, la pecca dell’Anna era semplicemente il fatto
che fin dalla nascita non parlava né sentiva. Viveva in un mondo tutto
suo, vuoto di suoni: ci volavano le nuvole, i falchi, le foglie portate
dal vento; scendeva a valle la riàle, verdeggiavano i prati a ogni
primavera, veniva la tormenta di neve alla sò stagione; ma tutto per lei
succedeva in silenzio.</div>
<div style="text-align: justify;">
Innocente: non aveva conosciuto l’uomo, non doveva niente a uno
sposo, come le altre femmine; mai la cannetta della schiena le si era
piegata in una riverenza davanti a un maschio per cui spazzare, cucire,
fare ordine, dare conforto. Ma non offendeva nessuno, anzi sorrideva
sempre. Per tutta risposta, la gente le faceva intorto prendendola in
giro: ché gli asini non conoscono i confetti. Per i giovanotti poi era
uno spasso: le gridavano dietro le frasi piú sconce. Perfino i bambini
usavano canzonarla. Ma lei sempre a rispondere solo con gli occhi di un
verde sabbioso che non sapeva il rancore; la bocca infantile, con una
piega agli angoli, che pareva tremare di continuo, non si capiva se di
riso o di pianto.</div>
<div style="text-align: justify;">
L’unica parente era una zia che abitava in un villaggetto all’altro
capo della valle. Una brava donna di nome Gnetta. L’Anna saliva a
trovarla una volta al mese, a portarle i suoi sospiri; restava là un
paio di giorni, poi tornava giú a riprendere il suo lavoro di
canestraia. Chi le voleva bene veramente era un canlupo nero che la
seguiva dovunque andasse.</div>
<div style="text-align: justify;">
Si combatteva a quel tempo là. Ché di guerre ce n’è sempre una, con
un prete pronto a benedire le bandiere: non fu mai altrimenti né mai
sarà. Con i montagnini che non ce ne possono: ché, vinca l’uno o
l’altro, sempre di padroni si tratta, che ci fan da giudice, ci guardano
come fossimo ladri e non ci lascian altro che grattarci con comodo i
maroni, con rispetto parlando. Insomma era una di quelle guerre che
venivano da lontano, di là dalle montagne. La valle era, come adesso, di
difficile accesso, ma delle soldataglie erano riuscite comunque a
arrivarci. Lungo il sentiero che da un paesino all’altro procede lungo
la scarpata, si snodavano in fila, con vociare e grida, il cacafuoco
sottobraccio, lo staffile al fianco. Lo sa Dio cosa cercavano: ché tra
le nostre montagne non c’è niente che possa far gola, qui è un posto di
vita accontentata, mica come a Milano dove anche i moroni fanno uva.</div>
<div style="text-align: justify;">
Gli invasori guardavano con aria superba le donne e i vecchi
inginocchiati nella polvere. Avevano lineamenti differenti dai nostri,
una voce sprezzosa: entravano nei villaggi, facevano suonare le campane e
pretendevano ruote di pane, brente di vino, rosticciana d’agnello. Chi
non donava veniva ammazzato, stalle e ovili bruciati: la vita dei
paesani valeva quanto una foglia che si può accartocciare tra le dita.
Le donne, che in un colpo solo perdevano la roba i mariti e l’onore, si
rotolavano per terra dalla disperazione, mordendosi le mani. La paura
prendeva tutti alle busecche appena sentivano avvicinarsi un drappello
di quei plúfferi. Tutti meno l’Anna, ché il silenzio in cui viveva la
chiudeva come in una fortezza. Era la sua fortuna: ché se c’è anche un
Signúr dei ciucchi, ci sarà bene anche quello dei lucchi.</div>
<div style="text-align: justify;">
Era novembre. Già fioccava a pelo di gatto. Una coltre di neve
soffice copriva il sentiero, mentre lei saliva a trovare la zia. Un
silenzio piú vasto del solito. Le faceva piacere camminare nella
caligine del mattino. In un varco di nebbia ogni tanto occhieggiava il
lumino lontano dell’ultimo villaggio della valle. Il canlupo sempre
dietro a lei.</div>
<div style="text-align: justify;">
Dapprima vide il campanile, alto sopra i boschi. Poi la casa, un
po’ discosta dalle altre. Salí i gradini della scaletta di pietra,
bussò. Le aprí una donna sconosciuta che le spiattellò in faccia:</div>
<div style="text-align: justify;">
«Tua zia l’è morta e sepolta da due settimane».</div>
<div style="text-align: justify;">
La ragazza però non intese; anzi, cominciò a far la riverenza, come
per ringraziare. Finché si ritrovò seduta sui gradini, con le braccia
intorno al collo del canlupo. La porta chiusa sprangata; di fianco a lei
stava una cassetta di sbarlafusi appartenuta alla vecchia Gnetta: tutta
la sua eredità. Quando finalmente intese, scese stranita gli scalini
insieme alla bestia.</div>
<div style="text-align: justify;">
Corse col canlupo attraverso la neve profonda. Solo quando fu in
mezzo al bosco, si acquietò. In pace, mentre il suo silenzio interno si
fondeva col bianco della neve. Il canlupo le leccò le mani per
compatirla. Camminò in fretta, la bestia sempre trotterellando al suo
fianco e ficcando il naso tra i cespugli carichi di neve. Il pomeriggio
intorno a lei era tranquillo.</div>
<div style="text-align: justify;">
Giunse in vista del Paese Piccolo, il cammino le aveva messo una
gran fame. Incrociò un ragazzo che, aggrottando le sopracciglia, le
gridò qualcosa che però lei non capí. Avanti, avanti, un passo dietro
l’altro, affondando nella neve. Sul motto che dominava il gruppo di case
che si stringevano intorno alla chiesa, si fermò presa da un’insolita
paura. In basso, vicino ai fienili del Rosualdo, dove fin dai tempi di
Adamo si tenevano le riunioni, si affollava la gente: pugni rabbiosi si
sollevavano sopra le teste e gli stivali dei pastori calpestavano un
picia-pucia di neve e fango; il vapore denso delle respirazioni
aleggiava sulla folla. Dal lato opposto stava un gruppo di soldati
stranieri; due di loro tenevano per le braccia l’Emiliona, la locandiera
del paese.</div>
<div style="text-align: justify;">
Era successo che un soldato l’aveva accusata di avergli ripulito le tasche. La gente gridava:</div>
<div style="text-align: justify;">
«Confessa, troia! Sempre hai venduto la micca scrocca, ma derubare un soldato è davvero troppo!»</div>
<div style="text-align: justify;">
L’Emiliona confessò cupamente che sí era colpevole, sputando sulla neve il sangue delle bastonate ricevute.</div>
<div style="text-align: justify;">
«Ammazzarla, ci vuole, quella figlia di cagna», urlavano le donne,
che ce l’avevano con lei perché oltre al vino l’Emiliona vendeva ai loro
mariti anche altri favori di porcheria di cui la decenza è solita
tacere.</div>
<div style="text-align: justify;">
Comparve il Rosualdo. Era il capo della comunità: ché, siccome
avareggiava alla grande, possedeva le stalle e gli ovili di mezza valle.
Tagliò il frastuono con la mano orizzontale e tutti si tacitarono di
colpo. Alto una testa piú degli altri e forte come un toro; ma piú che
altro tutti lo temevano per la lingua tagliente e il cuore di sasso. Un
uomo senza angelo custode: gli altri, come acqua li beveva, come erba li
calpestava; ché chi fa e guasta diventa maestro. Disse:</div>
<div style="text-align: justify;">
«Ammazzarla non se ne parla nemmeno. Primo, perché penso che
l’Emiliona abbia imparato l’antifona e non ripeterà piú quello che ha
fatto; secondo, non ci conviene consegnarla a questi soldati: in fondo
qui in valle fa il suo bel servizio».</div>
<div style="text-align: justify;">
Poi, infilando tre volte l’indice destro nella sinistra chiusa a
pugno, fece un gesto sconcio. Quindi riprese fiato guardando verso il
motto da dove in quel momento l’Anna scendeva verso il villaggio. La
seguí per un attimo a occhi socchiusi, mentre sul viso gli si disegnava
una smorfia volpina; poi continuò:</div>
<div style="text-align: justify;">
«Comunque son d’accordo con voi che non si può lasciare passare
liscia una faccenda simile: ogni delitto va punito severamente e, per
distogliere la gente cattiva dall’idea di ripetere un furto, non c’è che
la morte. Il peccato si uccide insieme al peccatore: come esempio e
perpetuo timore di chi ci voglia riprovare».</div>
<div style="text-align: justify;">
Tutti intorno a lui assentirono con la testa, nella maggiore sospensione.</div>
<div style="text-align: justify;">
«Tanto piú che bisogna dare soddisfazione agli offesi»,</div>
<div style="text-align: justify;">
aggiunse il Rosualdo, accennando ai soldati foresti che formavano un cerchio intorno a loro. Poi proseguí:</div>
<div style="text-align: justify;">
«C’è però da considerare un altro lato della questione: di puttane
ne abbiamo una sola, mentre di pecoraie o canestraie ne abbiamo tante. È
piú facile per questo scopo rinunziare a una di loro piuttosto che
all’Emiliona».</div>
<div style="text-align: justify;">
Nel dire questo additò l’Anna che aveva ormai raggiunto il gruppo. E rise:</div>
<div style="text-align: justify;">
«Batt i pàgn, fœra la stría...»</div>
<div style="text-align: justify;">
Lo pensarono tutti: era orfana, disgraziata, buona soltanto da fà
la zuppa. Nessuno l’avrebbe pianta. Non ci voleva la zingara per
indovinarle la sorte.</div>
<div style="text-align: justify;">
Detto fatto, tutti si adeguarono al parere del Rosualdo. A nessuno
venne in mente di discutere la sua proposta: era la colpevole che ci
voleva, perché la comunità aveva bisogno della sua colpa.</div>
<div style="text-align: justify;">
Giusto in quel momento l’Anna era arrivata allo spiazzo davanti ai
fienili, dove la gente stava radunata. La ragazza si accorse che tutti
la guardavano truci. Sorrise voltandosi a dritta e a manca, ma i visi di
tutti continuarono a fissarla allo stesso modo.</div>
<div style="text-align: justify;">
Il Rosualdo le puntò l’indice contro:</div>
<div style="text-align: justify;">
«Rassègnati, tanto non puoi farci niente lo stesso».</div>
<div style="text-align: justify;">
E tutti fecero coro.</div>
<div style="text-align: justify;">
Però lei non sentiva. Si meravigliò delle braccia tese da tutte le
parti a brancicarla per le vesti. Cercò di serrarsi nel suo scialletto,
ma glielo strapparono via. Si agitò senza comprendere, mentre la folla
la trascinava fuori dal villaggio. Il canlupo abbaiava, rizzando il
pelo; lo presero a pedate.</div>
<div style="text-align: justify;">
L’Anna vedeva le bocche che si aprivano in smorfie paurose e
orrende; si lasciava trascinare con impaccio. Camminarono nella neve
intatta dell’ultimo prato prima del burrone. Davanti i bambini curiosi,
dietro i vecchi zoppicando sul bastone. I soldati foresti seguivano a
breve distanza il gruppo di paesani vocianti e osservavano la scena,
impassibili.</div>
<div style="text-align: justify;">
La spinsero sotto il noce. Siccome il canlupo le girava intorno
spaventato, lei si chinò a carezzargli il capo. Era l’ultimo prato prima
dell’orrido. Veniva sera, il cielo fiammeggiava rosso. L’Anna aspirò
l’aria fredda, sentí la neve bruciarle le caviglie ché nel camminare, a
furia di spintoni, aveva perduto le zoccole. Sentiva l’odore dei fiati
intorno a lei, acidi di vino rabbia e paura. Il sorriso le si spense in
bocca quando incontrò lo sguardo del Rosualdo. Chi sa se comprese il suo
destino. Giunse le mani, intorno a lei il silenzio era totale, puro
come il bianco della valle.</div>
<div style="text-align: justify;">
I paesani la circondavano con il braccio alzato, una pietra in
ciascun pugno. A lei parve un cerchio di mostri. Il primo sasso la colpí
alla spalla e ruzzolò pesantemente ai suoi piedi. Volse gli occhi
increduli a chi aveva tirato. Si accorse che il canlupo aveva il pelo
ritto, slungò il braccio per raggiungerlo. Poi non guardò piú. Cadde.
Morse la neve, ci affondò il viso. Il sangue si raffreddò in fretta
sull’erba gelata. Presto ci fu un cumulo di pietre sopra il cadavere. Un
grande mucchio, quasi che tutta la comunità volesse assicurarsi che il
suo corpo non potesse scapparsene via e svanire nel crepuscolo del
mondo.</div>
<div style="text-align: justify;">
Il cielo si scuriva; si accesero le torce. Una vecchia appese a un
ramo del noce lo scialletto nero che aveva strappato alla ragazza. Dal
bosco, dove il canlupo era fuggito quando la sassaiola era cominciata,
si levò un ululato minaccioso, che fece rizzare i capelli a tutti. Le
donne si segnarono, una vecchia disse:</div>
<div style="text-align: justify;">
«Il sangue chiama il cielo».</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<br />Antonio De Bellishttp://www.blogger.com/profile/08589288385447295429noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3437498411039201584.post-27497952293218825622013-03-24T22:08:00.000+01:002013-03-24T22:18:54.597+01:00Mondo senza fine - Ken Follett<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj2nl2h9WEjIFH7uP1O0DfVSy-v1ZD4CzYp_3F9x03W6r_ZYNGt5bu4q4JFu6uHoz24Ds2ENsr0jF_NmDHfc_PDNc0FC-OiM1sGz10pSXjYcVML32KvR_hGZhdvTFOEzG04rK2tjvnK3rI/s1600/Ken+Follet+-+mondo+senza+fine.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj2nl2h9WEjIFH7uP1O0DfVSy-v1ZD4CzYp_3F9x03W6r_ZYNGt5bu4q4JFu6uHoz24Ds2ENsr0jF_NmDHfc_PDNc0FC-OiM1sGz10pSXjYcVML32KvR_hGZhdvTFOEzG04rK2tjvnK3rI/s200/Ken+Follet+-+mondo+senza+fine.jpg" width="131" /></a></div>
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjGuOZfLKwyvEuPwnpQ5JZoiPuoevZbi4AcVVvEXWAdTGzfPkprzLX2SNK1H4X112vI8m8aImdVV8n1ku26Y2KvyBkJuhfHKnij-YDWEJNljRWnwjf4Io9_yRdK8kebc9E0AMVLzW5Pjr8/s1600/Ken+Follet+-+mondo+senza+fine.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><br /></a>
<br />
<div style="text-align: justify;">
<b>Il libro più corposo di Ken Follett (nella sua edizione standard supera le 1.300 pagine) è sicuramente uno dei suoi migliori. Siamo allo stesso livello dei Pilastri della Terra (da molti ritenuto il suo capolavoro anche se io continuo a preferire l'inarrivabile Una Fortuna Pericolosa), di cui ne è idealmente il seguito anche se si svolge due secoli dopo e i collegamenti tra i personaggi e le vicende delle due opere sono quasi inesistenti. </b></div>
<div style="text-align: justify;">
<b>Tre a mio avviso le qualità principali: </b></div>
<div style="text-align: justify;">
<b>- una scrittura di altissimo livello, spesso curda ed estremamente realistica, che rende comunque il tutto scorrevole, avvincente e godibile fino all'ultima pagina; </b></div>
<div style="text-align: justify;">
<b>- una ricostruzione storica che approfondisce aspetti poco noti del periodo medievale (le corporazioni e le loro modalità di funzionamento, la medicina e la cura dei malati, l'atmosfera apocalittica durante la Peste Nera del 1348, le atrocità commesse dagli inglesi in territorio francese durante la guerra dei cent'anni, le deficienze tattiche e comportamentali dei francesi nella battaglia di Crecy che portarono all'annientamento della loro cavalleria nonostante la schiacciante superiorità numerica rispetto agli avversari);</b></div>
<div style="text-align: justify;">
<b>- la creazione di personaggi indimenticabili che si staccano dalle pagine del libro e sembrano vivere di vita propria tanto sono credibili nei loro pregi, difetti e debolezze. Sia i "buoni" che i "cattivi" hanno caratteristiche ambivalenti che li rendono umani in cui ogni lettore può riconoscere tratti di se stesso, modalità decisionali, incertezze, timori. Molti scrittori contemporanei dovrebbero prendere esempio.</b></div>
<div style="text-align: justify;">
<b>Le parti che ho più apprezzato riguardano le alchimie manipolatorie per esercitare il potere messe in pista dal priore Godwyn (da manuale la sua elezione a priore) e le strategie attuate da Gwenda per riscattare la sua vita di donna povera, sfortunata e brutta. Gwenda al pari se non più della sua amica Caris (che nasce comunque in una famiglia privilegiata), incarna la donna moderna che con una straordinaria forza di volontà riesce a farsi valere in un mondo governato da bieche regole maschili.</b></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Si bloccò davanti alla camera in cui si trovavano Richard e Margery. «Seguimi dentro» sussurrò a Philemon. «Non fare e non dire nulla, ed esci quando esco io.»<br />
Philemon posò la scopa.<br />
«No, portala.»<br />
«D'accordo.»<br />
Godwyn spalancò la porta ed entrò a grandi passi. «Voglio che questa camera sia pulita da cima a fondo» disse ad alta voce. «Spazza ogni angolo e... oh, chiedo scusa! Credevo non ci fosse nessuno!»<br />
Nell'arco di tempo impiegato da Godwyn e Philemon per correre dal dormitorio all'ospitale, gli amanti si erano dati da fare: Richard stava sopra Margery, con la lunga veste talare sollevata intorno alla vita. Le belle gambe bianche di lei erano sollevate in aria contro i fianchi del vescovo. L'atteggiamento era inequivocabile.<br />
Richard cessò di spingere e guardò Godwyn con espressione di rabbiosa frustrazione e al contempo di colpevole timore. Margery lanciò un urlo di orrore e fissò Godwyn con occhi pieni di paura.<br />
Il sacrista protrasse il momento. «Vescovo Richard!» esclamò, fingendosi sbalordito. Voleva che Richard sapesse senza ombra di dubbio di essere stato riconosciuto. «Ma come... E Margery?» Diede a vedere di comprendere solo allora. «Perdonatemi!» Girò sui tacchi. Poi, rivolto a Philemon, aggiunse: «Fuori! Vai via subito!». Philemon si affrettò a uscire, sempre con la scopa in mano.<br />
Godwyn lo seguì, ma sulla soglia si voltò indietro per accertarsi che Richard lo vedesse bene. I due amanti erano rimasti raggelati nella loro posizione, stretti nell'atto sessuale, ma la loro espressione era cambiata. La mano di Margery era volata alla bocca nel gesto tipico di chi è colto in flagrante. Richard stava freneticamente cercando una via d'uscita. Voleva dire qualcosa, ma non trovava le parole. Godwyn decise di risparmiare loro ulteriore imbarazzo: in fondo aveva fatto tutto quello che gli serviva.<br />
Mentre stava per chiudere la porta alle sue spalle, si bloccò sgomento. Una donna stava salendo le scale. Fu assalito dal panico. Era Philippa, la moglie dell'altro figlio del conte.<br />
Comprese all'istante che il segreto avrebbe perso valore se condiviso con altri. Doveva avvertire Richard. «Lady Philippa!» esclamò ad alta voce. «Benvenuta al priorato di Kingsbridge!»<br />
Dall'interno provenne un trambusto concitato. Con la coda dell'occhio Godwyn vide che Richard balzava in piedi.<br />
Per fortuna, Philippa si fermò a parlargli. «Forse mi puoi aiutare.»<br />
"Dalla sua posizione, non vede dentro la stanza" pensò Godwyn.<br />
«Ho perduto un bracciale; non vale granché, è di legno intagliato, ma mi piace molto.»<br />
«Che peccato» fece Godwyn in tono partecipe. «Chiederò ai frati e alle suore di cercarlo.»<br />
«Io non l'ho visto» disse Philemon.<br />
«Forse vi è scivolato dal polso» suggerì Godwyn.<br />
Lei corrugò la fronte. «La cosa strana è che da quando sono qui non l'ho mai messo. Appena arrivata l'ho tolto e l'ho posato sul tavolo, e adesso non lo trovo più.»<br />
«Forse è rotolato in un angolo buio. Lo cercherà il nostro Philemon. È lui a pulire le camere degli ospiti.»<br />
Philippa squadrò il giovane. «Sì, ti ho incontrato mentre uscivo, più o meno un'ora fa. Non lo hai visto mentre pulivi?»<br />
«Non ho fatto in tempo a spazzare, perché la signorina Margery è entrata proprio quando stavo per cominciare.»<br />
Intervenne Godwyn. «Philemon è tornato adesso per pulire la vostra camera, ma la signorina Margery è...» Lanciò un'occhiata nella stanza. «... In preghiera» concluse. Margery era chinata sull'inginocchiatoio con gli occhi chiusi. Godwyn si augurò che stesse chiedendo perdono per il suo peccato. Richard, dietro di lei con le mani giunte, a capo chino, muoveva le labbra in un mormorio indistinto.<br />
Godwyn si spostò di lato per fare entrare Philippa. Lei rivolse al cognato un'occhiata sospettosa. «Salve, Richard. Non è da te pregare nei giorni feriali.»<br />
Lui portò le dita alle labbra come a zittirla, e indicò Margery sull'inginocchiatoio.<br />
«Margery può pregare quanto le pare» ribatté Philippa seccamente «ma questa è la camera delle donne, e quindi devi andartene.»<br />
Richard nascose il suo sollievo e uscì lasciando sole le due donne.<br />
Lui e Godwyn si trovarono faccia a faccia nell'ingresso. Il sacrista si rese conto che il vescovo esitava sulla strategia da adottare. Probabilmente l'istinto gli suggeriva di dire: "Come osi irrompere in una stanza senza bussare?" ma era così palesemente in torto che gliene mancava il coraggio. D'altronde, non poteva certo scongiurare Godwyn di tenere per sé quel che aveva visto, perché sarebbe stato come ammettere di essere in suo potere. Fu un momento di doloroso imbarazzo.<br />
Poiché Richard esitava, fu Godwyn a parlare. «Nessuno lo verrà a sapere da me.»<br />
Il vescovo parve sollevato, poi guardò Philemon. «E lui?»<br />
«Desidera farsi frate e sta imparando la virtù dell'obbedienza.»<br />
«Ti sono debitore.»<br />
«Bisogna confessare i propri peccati, non quelli degli altri.»<br />
«Comunque, ti sono grato, fratello...»<br />
«Godwyn, il sacrista. Sono il nipote del priore Anthony.» Era meglio mettere in chiaro che con le sue parentele influenti avrebbe potuto procurargli guai seri. </div>
<div style="text-align: justify;">
[...]</div>
<div style="text-align: justify;">
Joby chiamò la figlia con un cenno della mano. «Ho trovato una mucca.»<br />
Gwenda si avvicinò per osservarla: sui due anni, magra e bizzosa, sembrava però sana. «Mi pare che vada benissimo» commentò lei.<br />
«Lui è Sim Chapman, l'ambulante.» Il padre indicò col pollice la tunica gialla. Gli ambulanti andavano di villaggio in villaggio a vendere piccoli oggetti utili come aghi, fermagli, specchi e pettini. Forse la mucca era rubata, ma al padre non importava, se il prezzo era buono.<br />
«Come ti sei procurato il denaro?» domandò Gwenda.<br />
«In realtà, non la pago» rispose il padre con aria evasiva.<br />
Gwenda si era aspettata che avesse qualcosa in mente. «E allora?»<br />
«Più che altro è un baratto.»<br />
«Cosa gli dai in cambio della mucca?»<br />
«Te.»<br />
«Non dire sciocchezze.» Ma in quell'istante sentì un cappio scenderle sulla testa e stringersi attorno al corpo fino a bloccarle le braccia lungo i fianchi.<br />
Rimase sconcertata. Una cosa del genere non poteva succedere. Cercò di divincolarsi, ma Sim tirò più forte la fune.<br />
«Su, non fare tante storie» le disse il padre.<br />
Lei non riusciva a credere che parlasse sul serio. «Ma cosa ti salta in mente?» domandò incredula. «Sei pazzo, non puoi vendermi!»<br />
«A Sim serve una donna, e a me una mucca» disse il padre. «Semplicissimo.»<br />
Sim parlò per la prima volta. «È piuttosto brutta, tua figlia.»<br />
«Ma è ridicolo!» esclamò Gwenda.<br />
Sim le sorrise. «Gwenda, non preoccuparti. Sarò buono con te, se ti comporterai bene e farai quello che ti dico.»<br />
Gwenda capì che non era uno scherzo: quei due erano decisi a procedere allo scambio. Il timore che ciò potesse veramente accadere la trafisse come una lama gelida.<br />
«Questo gioco è durato fin troppo» intervenne Caris, la voce chiara e forte. «Liberatela subito.»<br />
Sim non si lasciò intimorire dal tono perentorio. «E tu chi sei, per dare ordini?»<br />
«Mio padre è castaldo della corporazione parrocchiale.»<br />
«Ma tu no e, se anche lo fossi, non avresti alcuna autorità su di me o sul mio amico Joby.»<br />
«Non si può barattare una ragazza con una mucca.»<br />
«Perché no?» chiese Sim. «La mucca è mia, e la ragazza è sua figlia.»<br />
La discussione animata attrasse l'attenzione dei passanti, che si fermarono a guardare la ragazza legata con la fune. «Cosa succede?» chiese qualcuno.<br />
«Ha barattato la figlia con una mucca» rispose un altro.<br />
Gwenda scorse un'espressione di panico sul volto del padre: evidentemente rimpiangeva di non aver fatto lo scambio in un vicolo tranquillo. Ma non era tanto acuto da prevedere la reazione della gente. Gwenda si rese conto che i passanti potevano essere la sua unica speranza.<br />
Caris fece un cenno con la mano a un monaco che stava uscendo dai cancelli del priorato. «Frate Godwyn!» chiamò. «Vieni a risolvere questa controversia, per favore.» Guardò Sim con aria di trionfo. «Il priorato ha giurisdizione su tutti gli scambi che si concludono alla fiera della lana» disse. «Frate Godwyn è il sacrista. Penso che dobbiate accettare la sua autorità.»<br />
«Salve, cugina Caris. Cosa succede?» si informò Godwyn.<br />
Sim emise un grugnito di disappunto. «Tuo cugino, eh?»<br />
Godwyn gli lanciò un'occhiata gelida. «Qualunque sia l'oggetto del contendere, come uomo di Dio cercherò di giudicare con equità... Potete fare affidamento su di me, spero.»<br />
«Siamo ben felici di sentirlo, signore» replicò Sim, d'un tratto ossequioso.<br />
Joby fu altrettanto viscido. «Io ti conosco, fratello: mio figlio Philemon ti è molto affezionato. Per lui tu sei la gentilezza in persona.»<br />
«Va bene, basta così» disse Godwyn. «Cosa succede?»<br />
«Questo tipo, Joby, vuole barattare Gwenda con una mucca. Digli che non può» spiegò Caris.<br />
«È mia figlia, signore, ha diciotto anni e non è ancora sposata; dal momento che è mia, fa quello che voglio io» ribatté Joby.<br />
«Ciò nonostante, vendere i propri figli mi pare una pratica vergognosa» commentò Godwyn.<br />
Joby assunse un'aria patetica. «Non lo farei, signore, ma a casa ho altri tre figli. Sono un bracciante, non possiedo terra e d'inverno non riesco a sfamarli senza una mucca. Quella che avevamo è morta.»<br />
Dalla folla che si radunava sempre più numerosa si levò un mormorio di solidarietà. Tutti conoscevano la rigidità dell'inverno e a quali estremi rimedi talvolta si doveva ricorrere per provvedere alla famiglia. Gwenda cominciò a disperare.<br />
«Tu puoi anche considerarlo vergognoso, frate Godwyn, ma è peccato?» Sim parlò come se conoscesse già la risposta, e Gwenda pensò che probabilmente non era la prima volta che si trovava coinvolto in una disputa del genere.<br />
Con ovvia riluttanza, Godwyn rispose: «Sembra proprio che la Bibbia autorizzi la vendita di una figlia come schiava. Libro dell'Esodo, capitolo ventuno».<br />
«Bene, hai visto!» esclamò Joby. «È una legge cristiana.»<br />
Caris era fuori di sé. «Il Libro dell'Esodo!» disse sprezzante.<br />
«Noi non siamo figli di Israele» si intromise una donna tra la folla. Piccola e massiccia, aveva un mento prominente che le conferiva un'aria determinata. Era sicura di sé, nonostante fosse vestita poveramente. Gwenda la riconobbe: era Madge, la moglie di Mark Webber. «Non ci sono più schiavi, al giorno d'oggi» aggiunse la donna.<br />
«Allora cosa mi dici degli apprendisti che non vengono pagati e possono essere picchiati dal loro padrone? O delle suore e dei monaci novizi? O di quelli che sgobbano nei palazzi dei nobili in cambio di vitto e alloggio?» ribatté Sim.<br />
«Magari la loro vita è dura, però non possono essere venduti e comprati. Vero, frate Godwyn?» insistette Madge.<br />
«Non intendo dire che questo baratto sia legittimo» rispose Godwyn. «A Oxford ho studiato medicina, non legge. Però, dalle Sacre Scritture e dagli insegnamenti della Chiesa non risulta che questi uomini stiano commettendo peccato.» Guardò Caris stringendosi nelle spalle. «Mi dispiace, cugina.»<br />
Madge Webber incrociò le braccia sul petto. «Bene, ambulante, come hai intenzione di far uscire la ragazza dalla città?»<br />
«Legata a una fune. Nello stesso modo in cui ho fatto entrare la mucca.»<br />
«Ah, ma prima non sei stato costretto a far passare la mucca davanti a me e a queste persone.»<br />
Il cuore di Gwenda ebbe un sussulto di speranza. Non sapeva quanti fra gli astanti fossero dalla sua parte ma, se si fosse arrivati alle mani, molto probabilmente sarebbero stati con Madge, che era una della città, mentre Sim era forestiero.<br />
«Ho già avuto a che fare con donne ostinate» disse Sim con una smorfia «e non sono mai state un grosso problema.»<br />
Madge posò la mano sulla fune. «Forse ti è andata bene.»<br />
Lui le strappò la fune. «Non toccare la mia proprietà e non ti succederà niente.»<br />
Madge posò provocatoriamente la mano sulla spalla di Gwenda.<br />
Sim le allungò uno spintone e lei indietreggiò barcollando, ma dalla folla si alzò un mormorio di protesta.<br />
«Non lo faresti se conoscessi suo marito» affermò qualcuno.<br />
Seguì uno scroscio di risate. Gwenda pensò a Mark, il marito di Madge, il gigante buono. Se solo si fosse fatto vedere!<br />
Invece arrivò John il conestabile. Un naso molto sensibile all'odore di guai lo portava verso ogni assembramento nel momento stesso in cui si formava. «Niente spintoni, qui» disse. «Stai creando guai, ambulante?»<br />
Gwenda ricominciò a sperare. I venditori ambulanti godevano di una pessima reputazione e il conestabile aveva subito supposto che fosse Sim la causa del trambusto.<br />
Sim ritornò ossequioso, cosa che sapeva fare più in fretta che cambiare cappello. «Chiedo scusa, mastro conestabile, ma quando un uomo paga il prezzo pattuito per un acquisto, gli si deve permettere di uscire da Kingsbridge con la propria mercanzia intatta.»<br />
«Certamente.» John non poté fare a meno di confermarlo. La fama di una città sede di mercato si basava sulla correttezza negli affari. «Ma cos'hai comprato?»<br />
«Questa ragazza.»<br />
«Ah.» John parve pensieroso. «Chi l'ha venduta?»<br />
«Io» disse Joby. «Sono il padre.»<br />
«E questa donna dal mento sporgente vuole impedirmi di portare via la ragazza» continuò Sim.<br />
«Infatti» disse Madge. «Perché né io né nessun altro qui abbiamo mai sentito che al mercato di Kingsbridge si può vendere o comprare una donna.»<br />
«Un uomo può fare del proprio figlio ciò che vuole.» Joby si guardò intorno in cerca di consenso. «C'è qualcuno che non è d'accordo?»<br />
Gwenda sapeva che nessuno l'avrebbe contraddetto. Alcuni trattavano i figli con gentilezza, altri con durezza, ma tutti concordavano sul fatto che un padre avesse potere assoluto sulla propria prole. Gwenda sbottò rabbiosa: «Se aveste un padre come lui non ve ne stareste qui muti come pesci. Quanti di voi sono stati venduti dai genitori? Quanti di voi da bambini sono stati costretti a rubare perché potevano infilare facilmente le loro piccole mani nelle borse della gente?».<br />
Joby cominciava a preoccuparsi. «Sta farneticando, mastro conestabile» protestò. «Nessuno dei miei figli ha mai rubato.»<br />
«Non importa» disse John. «Ascoltatemi tutti. Prenderò una decisione, e quelli che non sono d'accordo potranno andare a lamentarsi dal priore. Se vedo spintoni, o qualsiasi altro comportamento violento, arresto tutti i responsabili. Spero di essere stato chiaro.»<br />
Si guardò attorno con aria bellicosa. Tutti tacquero, impazienti di conoscere la sua decisione.<br />
«Non vedo motivo di ritenere illegittimo questo baratto, pertanto Sim l'ambulante è autorizzato ad andarsene con la ragazza» concluse.<br />
«Te lo dicevo anch'io, non...»<br />
«Chiudi quella boccaccia, Joby, sciocco che non sei altro» lo interruppe il conestabile. «Sim, vattene, e in fretta. Madge, se alzi un dito ti metto ai ceppi, e neppure tuo marito mi fermerà. E tu, Caris, non dire una parola, per favore: se vuoi, lamentati con tuo padre.»<br />
John non aveva ancora finito di parlare che Sim diede uno strattone alla fune. Gwenda fece un balzo in avanti e piantò il piede per non cadere; poi, mezzo incespicando e mezzo correndo, si avviò lungo la strada. Con la coda dell'occhio vide Caris al suo fianco. Un attimo dopo l'amica fu fermata da John il conestabile; non fece in tempo a protestare che scomparve dalla visuale di Gwenda.<br />
Sim camminava veloce per la strada fangosa tirando la fune e mantenendo Gwenda sempre in equilibrio precario. Mentre si avvicinavano al ponte, lei cominciò a disperare. Fece uno scatto all'indietro, ma lui rispose con un forte strattone che la fece cadere nel fango. Le braccia erano ancora legate, quindi non poté proteggersi con le mani. Cadde in avanti, il petto e la faccia nella melma. A quel punto rinunciò a opporre qualsiasi resistenza e tentò in tutti i modi di rimettersi in piedi. Imbrigliata come un animale, dolente, terrorizzata e coperta di fango fetido, attraversò il ponte e seguì barcollando il suo nuovo padrone lungo la strada che portava alla foresta.<br />
Sim l'ambulante condusse Gwenda attraverso i sobborghi di Newtown fino a un crocevia chiamato "incrocio del Patibolo", dove venivano impiccati i criminali. Poi prese verso sud, in direzione di Wigleigh. Si assicurò la fune al polso per impedire alla ragazza di fuggire, qualora si fosse distratto. Skip li seguiva, ma Sim gli lanciò addosso dei sassi e quando uno lo colpì al naso il cane di Gwenda si ritirò con la coda tra le zampe.<br />
Dopo parecchie miglia, quando il sole cominciava a calare, Sim svoltò nella foresta. Gwenda non aveva colto alcun segnale indicatore lungo la strada, ma le sembrò che Sim avesse scelto con attenzione: percorso qualche centinaio di passi tra gli alberi, infatti, arrivarono a un sentiero. Abbassando lo sguardo, Gwenda scorse sul terreno piccole impronte nitide di decine di zoccoli e si rese conto che era una pista dei cervi. Portava sicuramente all'acqua, pensò. E in effetti arrivarono a un piccolo ruscello, ai lati del quale la vegetazione era stata calpestata.<br />
Sim si inginocchiò, riempì di acqua pulita le mani e si abbeverò. Poi, per liberare quelle di Gwenda, le spostò la fune intorno al collo e la condusse all'acqua.<br />
Lei si lavò le mani nel ruscello e bevve avidamente.<br />
«Lavati la faccia» ordinò lui. «Sei già abbastanza brutta di tuo.»<br />
Gwenda fece come le era stato ordinato, domandandosi stancamente perché gli importasse del suo aspetto.<br />
Proseguirono lungo il sentiero che continuava dal lato opposto della pozza. Gwenda era una ragazza robusta, in grado di camminare una giornata intera, ma sconfitta, infelice e terrorizzata com'era si sentiva esausta. Una volta giunti a destinazione, probabilmente l'attendeva un destino assai triste, ma ciò nonostante non vedeva l'ora di arrivare per potersi sedere.<br />
Si stava facendo buio. La pista dei cervi si insinuava tra gli alberi per un miglio, poi terminava ai piedi di una collina. Sim si fermò accanto a una quercia imponente e lanciò un breve fischio.<br />
Qualche attimo dopo, dalla semioscurità della foresta si materializzò una figura. «Tutto bene, Sim.»<br />
«Tutto bene, Jed.»<br />
«Cos'hai lì, una crostata di frutta?»<br />
«Puoi averne una fetta, Jed, come gli altri, solo se hai una moneta da sei penny.»<br />
Gwenda si rese conto del piano di Sim. L'avrebbe fatta prostituire. Quel pensiero fu un colpo duro: la ragazza vacillò e cadde sulle ginocchia.<br />
«Sei penny, eh?» La ragazza percepì eccitazione nella voce di Jed, che peraltro le sembrava lontana. «Quanti anni ha?»<br />
«Il padre sostiene che ne ha sedici, ma io credo che sia vicina ai diciotto.» Sim diede uno strattone alla fune. «Alzati, tu, vacca pigra, non siamo ancora arrivati.»<br />
Gwenda si alzò. "Ecco perché ha voluto che mi lavassi la faccia" pensò e, per qualche ragione, quella consapevolezza la fece piangere.<br />
Disperata, avanzò incespicando sulle orme di Sim finché giunsero a una radura, al centro della quale c'era un falò. Attraverso le lacrime, intravide quindici o venti persone sdraiate lungo i bordi, la maggior parte delle quali avvolte in coperte o mantelli. Quasi tutti quelli che la guardavano alla luce del fuoco erano maschi, però scorse anche il volto bianco di una donna, con l'espressione dura ma il mento delicato, che le lanciò una rapida occhiata per poi scomparire nuovamente nel suo giaciglio di stracci. Un barile di vino capovolto e tazze di legno sparpagliate ovunque erano ciò che restava di un'ubriacatura generale.<br />
Gwenda capì che Sim l'aveva condotta in un covo di fuorilegge.<br />
Gemette. A quanti di loro avrebbe dovuto cedere?<br />
Nel momento in cui si pose la domanda conosceva già la risposta: a tutti.<br />
Sim la trascinò dalla parte opposta della radura, verso un uomo che sedeva con la schiena appoggiata a un albero. «Tutto bene, Tam» disse Sim.<br />
Gwenda capì subito chi era quell'uomo: Tam il latitante, il fuorilegge più famoso della contea. Aveva un bel viso, benché arrossato dal bere. Dicevano che fosse di nobili origini, ma era una leggenda popolare che riguardava tutti i banditi famosi. Osservandolo, Gwenda si sorprese della sua giovane età: non doveva avere più di venticinque anni. D'altronde, uccidere un fuorilegge non era un crimine, per cui, con tutta probabilità, pochi arrivavano alla vecchiaia.<br />
«Tutto bene, Sim» gli fece eco Tam.<br />
«Ho barattato la mucca di Alwyn con una ragazza.»<br />
«Bravo.» Tam aveva la voce leggermente impastata.<br />
«Faremo pagare sei penny a tutti, ma ovviamente per te sarà un omaggio. Immagino ti farà piacere essere il primo.»<br />
Tam scrutò attentamente Gwenda, gli occhi iniettati di sangue. Forse era perché lei se lo augurava con tutte le forze, ma credette di scorgere una punta di pietà nel suo sguardo. «No, grazie, Sim» disse il fuorilegge. «Comincia pure tu e fai divertire i ragazzi, anche se forse dovrai aspettare fino a domani. Abbiamo intercettato un barile di buon vino che due monaci stavano portando a Kingsbridge, e adesso sono quasi tutti ubriachi fradici.»<br />
Il cuore di Gwenda ebbe un sussulto di speranza. Forse la tortura sarebbe stata rimandata.<br />
«Devo sentire Alwyn» disse Sim dubbioso. «Grazie, Tam.» Se ne andò tirandosi dietro Gwenda.<br />
Poco più avanti, un uomo dalle spalle larghe tentava di mettersi in piedi. «Tutto bene, Alwyn» disse Sim. Sembrava che i fuorilegge usassero quella frase come forma di saluto e anche come parola d'ordine.<br />
Alwyn era nella fase irritabile della sbornia. «Cos'hai lì?»<br />
«Una fresca pollastrella.»<br />
Alwyn afferrò il mento di Gwenda, stringendolo con forza ingiustificata, e la costrinse a voltare il viso verso il fuoco. Lei dovette guardarlo negli occhi. Era giovane, come Tam il latitante, e con la stessa aria malsana di chi conduce una vita dissoluta. L'alito gli puzzava di vino. «Cristo, ne hai portata una brutta.»<br />
Una volta tanto, Gwenda fu felice di essere ritenuta tale: forse Alwyn non avrebbe fatto niente con lei.<br />
«Ho preso quel che potevo» replicò Sim stizzito. «Se quell'uomo aveva una figlia bella, non me la cedeva in cambio di una mucca, no? Anzi, la faceva sposare al figlio di un ricco mercante di lana.»<br />
Al pensiero del padre, Gwenda si adirò: lui doveva sicuramente sapere, o almeno sospettare, ciò che sarebbe accaduto. Come aveva potuto farle una cosa del genere?<br />
«Va bene, va bene, non importa» tagliò corto Alwyn. «Con solo due donne nel gruppo, quasi tutti i ragazzi stanno morendo dalla voglia.»<br />
«Tam ha detto che dovremmo aspettare fino a domani, perché stanotte sono troppo ubriachi; comunque sta a te decidere.»<br />
«Tam ha ragione. La metà di loro dorme già.»<br />
La paura di Gwenda diminuì un poco. Durante la notte poteva succedere di tutto.<br />
«Bene» disse Sim. «Anch'io sono stanco morto.» Guardò Gwenda. «Sdraiati, tu.» Non la chiamava mai per nome.<br />
Lei si stese e Sim le legò insieme i piedi e poi le mani dietro la schiena, quindi lui e Alwyn si sistemarono di fianco alla ragazza, uno per parte, e si addormentarono dopo pochi istanti.<br />
Gwenda era esausta, ma non pensava assolutamente a dormire. Con i polsi legati dietro la schiena, tutte le posizioni erano dolorose. Cercò di muoverli dentro la fune, ma Sim l'aveva stretta saldamente e annodata bene. Il risultato fu che si procurò un'escoriazione, e la fune le bruciò la carne viva.<br />
La disperazione si trasformò in impotenza rabbiosa, e Gwenda immaginò la vendetta sui suoi aguzzini: li avrebbe presi a frustate mentre loro si facevano piccoli davanti a lei. Vane fantasie. Volse la mente a concrete ipotesi di fuga.<br />
Prima di tutto doveva farsi slegare, dopodiché sarebbe scappata. Le sarebbe bastato assicurarsi di non essere seguita e catturata di nuovo.<br />
Sembrava impossibile.<br />
<br />
12<br />
<br />
Gwenda si svegliò infreddolita. Era piena estate, ma l'aria era fresca e addosso non aveva altro che il vestito leggero. Il cielo stava schiarendo dal nero al grigio. Diede un'occhiata alla radura circostante immersa nella debole luce: non si muoveva nessuno.<br />
Aveva bisogno di orinare. Pensò di farlo lì e di inzupparsi il vestito. Se questo la rendeva disgustosa, tanto meglio. Ma accantonò subito l'idea: avrebbe significato arrendersi, e non era quello che voleva.<br />
Che fare?<br />
Alwyn dormiva accanto a lei, il lungo pugnale nel fodero ancora assicurato alla cintura, e questo le fece balenare l'idea. Non era sicura di avere il fegato per realizzare il piano che stava prendendo forma nella sua mente, tuttavia ignorò la paura: doveva tentare.<br />
Aveva le caviglie legate, però riusciva a muovere le gambe. Diede un calcio ad Alwyn, che parve non accorgersene. Tirò un altro calcio, e lui si scosse. La terza volta si mise a sedere. «Sei stata tu?» chiese confuso.<br />
«Devo orinare.»<br />
«Non nella radura. È una regola di Tam: venti passi per pisciare, cinquanta per cacare.»<br />
«Allora anche i fuorilegge seguono delle regole.»<br />
Lui la fissò interdetto senza cogliere l'ironia. Non era intelligente, si rese conto Gwenda, e questo le sarebbe tornato utile, però era forte e cattivo. Doveva fare molta attenzione.<br />
«Legata in questo modo non posso andare da nessuna parte.»<br />
Lui grugnì, ma le slegò le caviglie.<br />
La prima parte del piano aveva funzionato, eppure Gwenda si sentì ancor più spaventata.<br />
Faticò a mettersi in piedi. Le dolevano i muscoli delle gambe per non averle mai potute muovere durante la notte. Fece un passo, vacillò e cadde. «È troppo difficile con le mani legate.»<br />
Lui la ignorò.<br />
La seconda parte del piano non aveva funzionato.<br />
Doveva tentare di nuovo.<br />
Si alzò e si infilò tra gli alberi. Alwyn, alle sue spalle, contava i passi sulle dita. Arrivato a dieci, ricominciò. Quando finì le dita la seconda volta, disse: «Lì va bene».<br />
Lei lo guardò desolata. «Non posso alzare il vestito.»<br />
Ci sarebbe cascato?<br />
La fissò senza dire una parola. Le sembrava di sentire gli ingranaggi del cervello dell'uomo che si muovevano con il rumore dei mulini a vento. Alwyn avrebbe potuto tenerle sollevato il vestito mentre lei orinava, ma questo era ciò che facevano le madri con i bambini piccoli e per lui sarebbe stato umiliante. Oppure avrebbe potuto slegarle la corda attorno ai polsi. Con mani e piedi liberi, Gwenda se la sarebbe data a gambe. Ma era piccola, stanca e con i muscoli intorpiditi: era impossibile che corresse più veloce di un uomo con gambe lunghe e muscolose. Probabilmente lui stava pensando che liberarla non avrebbe rappresentato un rischio.<br />
Slegò la corda che le stringeva i polsi.<br />
Gwenda distolse lo sguardo per nascondere l'espressione trionfante e si massaggiò le braccia per riattivare la circolazione. Avrebbe voluto cavargli gli occhi, invece gli sorrise il più dolcemente possibile. «Grazie» disse, come se le avesse fatto una gentilezza.<br />
Lui rimase a guardarla muto, in attesa.<br />
Gwenda si aspettava che l'uomo guardasse altrove mentre lei sollevava la gonna e si accucciava, invece continuò a fissarla con insistenza. Decisa a non mostrarsi imbarazzata nel fare una cosa naturale, lo ignorò. Alwyn schiuse la bocca e a lei parve che avesse il respiro concitato.<br />
A quel punto l'aspettava la parte più difficile del piano.<br />
Si alzò lentamente, permettendogli di darle una bella occhiata prima di far ricadere il vestito. Lui si leccò le labbra. Lei capì di averlo in pugno.<br />
Gwenda gli si avvicinò. «Vuoi essere il mio protettore?» chiese con una voce da bambina che non le apparteneva.<br />
Alwyn non si mostrò sospettoso. Senza parlare le afferrò il seno con la mano ruvida e lo strizzò.<br />
Lei rimase senza fiato per il dolore. «Non così forte!» Gli prese la mano tra le sue. «Con più delicatezza.» Se la portò contro il seno sfregando il capezzolo, che si inturgidì. «È più bello se fai piano.»<br />
L'uomo grugnì, ma continuò ad accarezzarla dolcemente. Poi con la mano sinistra le afferrò lo scollo del vestito e con la destra estrasse il pugnale. Era lungo un piede e appuntito; la lama brillava per la recente affilatura: era ovvio che voleva tagliarle il vestito. Non andava bene, perché sarebbe rimasta nuda.<br />
Gwenda gli strinse leggermente il polso e lo trattenne per un momento. «Non c'è bisogno di usare il coltello. Guarda.» Fece un passo indietro, sciolse la cintura e con un movimento rapido si sfilò il vestito dalla testa. Era il suo unico indumento.<br />
Lo distese per terra e vi si sdraiò sopra, quindi abbozzò un sorriso, che probabilmente assomigliava di più a un'orrenda smorfia. Poi aprì le gambe.<br />
Lui esitò solo un attimo.<br />
Il pugnale nella mano destra, si calò i mutandoni e si inginocchiò tra le sue cosce. Le puntò la lama contro il viso. «Se fai la furba, ti affetto la guancia.»<br />
«Non ce ne sarà bisogno» lo ammonì lei, cercando disperatamente di pensare alle parole che un uomo del genere avrebbe voluto sentire da una donna. «Mio grande e forte protettore.»<br />
Lui non reagì. Si sdraiò sopra di lei, spingendo alla cieca.<br />
«Non così in fretta» disse Gwenda serrando i denti per il dolore provocato da quei movimenti maldestri. Allungò la mano per guidarlo dentro di sé, poi con uno scatto alzò le gambe per facilitargli il compito.<br />
Lui si sollevò spostando tutto il peso sulle braccia. Posò il pugnale sull'erba accanto alla testa di lei, la palma destra sull'impugnatura. In attesa del momento propizio, Gwenda lo assecondò, fingendo disponibilità, mentre lui si muoveva gemendo, e, con gli occhi fissi sul suo viso, si impose di non spostare lo sguardo sul pugnale. Era terrorizzata e disgustata, ma una piccola parte della sua mente rimaneva lucida e calma.<br />
L'uomo, sempre sollevato sulle braccia tese, chiuse le palpebre alzando la testa come un animale che annusi la brezza. Gwenda azzardò un'occhiata al pugnale: la mano di lui si era spostata leggermente e copriva solo in parte l'impugnatura. Avrebbe potuto afferrarlo, ma quanto veloce sarebbe stata la reazione di Alwyn?<br />
Lo guardò di nuovo in faccia. Era concentrato, la bocca distorta in una smorfia. Accelerò le spinte e lei lo assecondò.<br />
Con sgomento, sentì un calore diffondersi nei lombi. Era disgustata di se stessa. L'uomo era un fuorilegge, un assassino, poco più che una bestia, intenzionato a farla prostituire per sei penny. Lei stava agendo così per salvarsi la vita, non certo per divertimento! Eppure si sentì improvvisamente bagnata. Lui accelerò il movimento.<br />
Gwenda sentì che l'uomo stava per raggiungere il piacere. "Ora o mai più" pensò. Quando Alwyn emise un lamento e sembrò abbandonarsi, lei entrò in azione.<br />
Gli sfilò rapidamente il pugnale da sotto la mano. Non vi fu alcun mu-tamento nell'espressione estatica di lui: non si era accorto di nulla. Terro-rizzata che Alwyn capisse quello che lei stava facendo e la fermasse all'ultimo istante, con uno scatto non esitò a sferrargli una coltellata dal basso. Lui avvertì il colpo e spalancò gli occhi: sul volto, si dipinsero sconcerto e paura. Gwenda lo colpì selvaggiamente conficcandogli la lama in gola, appena sotto la mandibola, poi imprecò nel rendersi conto di avere mancato le parti vitali del collo, la trachea e la vena giugulare. Lui ruggì di rabbia e di dolore, ma Gwenda comprese di non averlo neutralizzato: non era mai stata tanto vicina alla morte.<br />
Agì d'istinto, senza riflettere. Col braccio sinistro gli diede un colpo all'interno del gomito, che cedette. Preso alla sprovvista, Alwyn si abbatté su di lei. Gwenda spinse a fondo il pugnale che, con il peso dell'uomo, penetrò nella testa da sotto il mento. Mentre la lama si conficcava, dalla bocca uscì un fiotto di sangue che le schizzò in faccia. Di riflesso lei distolse il viso, ma continuò a spingere il pugnale. Per un attimo la lama fece resistenza, poi scivolò finché uno dei bulbi oculari sembrò esplodere e la punta uscì dall'orbita con uno schizzo di sangue misto a materia cerebrale. L'uomo crollò inerte su di lei, morto. O quasi. Il peso del corpo abbandonato le tolse il respiro: era come essere incastrati sotto un albero caduto. Per un attimo Gwenda fu incapace di muoversi.<br />
Inorridita, lo sentì eiaculare dentro di sé.<br />
Era annientata da un terrore irrazionale: lui era più spaventoso così di quando l'aveva minacciata con il pugnale. In preda al panico, riuscì a sgusciargli da sotto.<br />
Scattò in piedi tremante, con il respiro affannoso, il sangue sul seno, il seme tra le cosce. Lanciò un'occhiata timorosa verso l'accampamento dei banditi. Qualcuno era sveglio e aveva sentito Alwyn urlare oppure, se dormiva, era stato destato dal rumore?<br />
Gwenda si infilò il vestito e allacciò la cintura, con appesi la borsa e il coltellino che usava soprattutto per mangiare. Non osava quasi staccare lo sguardo da Alwyn, terrorizzata che potesse essere ancora vivo. Sapeva che avrebbe dovuto finirlo, ma gliene mancava il coraggio. Un rumore proveniente dalla radura la fece trasalire. Doveva allontanarsi in fretta. Si guardò intorno per orientarsi, poi puntò verso la strada. </div>
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[...] </div>
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Dopo il primo giorno, Annet smise di portare il pranzo al fidanzato, così Gwenda preparava da mangiare per lei e Wulfric, usando ciò che c'era nella sua dispensa: pane, birra, uova, maiale, cipolline e barbabietole. Il ragazzo accettò il cambiamento senza commentare.<br />
Gwenda conservava ancora la pozione d'amore. Teneva la boccetta di terracotta in una borsina di pelle che portava legata intorno al collo, nascosta fra i seni. Avrebbe potuto versare la pozione nella birra di Wulfric ogni volta che pranzavano insieme, ma i suoi effetti sarebbero cominciati nei campi in pieno giorno e lei non avrebbe potuto approfittarne.<br />
La sera Wulfric andava a casa di Perkin a mangiare con Annet e i suoi familiari, lasciando Gwenda da sola. Spesso tornava incupito, ma non le diceva niente e quindi lei dava per scontato che avesse messo a tacere le obiezioni della promessa sposa. Siccome Wulfric andava subito a letto, senza mangiare né bere nulla, Gwenda non poteva dargli la pozione.<br />
Il sabato dopo la fuga di Gram, Gwenda preparò per cena verdure bollite e maiale salato. Wulfric aveva in casa provviste sufficienti a sfamare quattro adulti e quindi il cibo non mancava mai. La sera era fresca, benché ormai fosse luglio, e dopo mangiato la ragazza mise un altro ceppo nel camino e si sedette a guardarlo bruciare pensando alla vita semplice e tranquilla che aveva vissuto fino a poche settimane prima, stupita di come tutto fosse poi crollato improvvisamente come il ponte di Kingsbridge.<br />
Quando sentì aprirsi la porta, pensò che Wulfric fosse di ritorno. In genere, quando arrivava, scambiavano qualche parola, poi lui andava a dormire e lei si ritirava nella stalla. Alzò gli occhi trepidante, aspettandosi di vedere il bel viso dell'amato. Invece rimase di sasso.<br />
Sulla porta non c'era Wulfric, bensì suo padre.<br />
Era insieme a uno sconosciuto dall'aria feroce.<br />
Gwenda trasalì, spaventata. «Che cosa volete?»<br />
Skip cominciò ad abbaiare, ma poi si ritrasse di fronte a Joby, impaurito.<br />
«Bambina mia, non devi aver paura. Sono il tuo papà.»<br />
A Gwenda tornarono alla mente i vaghi avvertimenti che le aveva fatto sua madre in chiesa. «Chi è costui?» chiese, indicando l'altro uomo.<br />
«Jonah di Abingdon, un mercante di pelli.»<br />
Poteva anche essere un mercante di Abingdon, pensò Gwenda, ma aveva gli stivali consunti, gli abiti lerci e non doveva vedere un barbiere da anni.<br />
Mostrando più coraggio di quel che in realtà avesse, intimò loro: «Andatevene».<br />
«Ti avevo avvertito che è un po' ribelle» disse Joby a Jonah. «Ma è una brava ragazza. Ed è anche forte.»<br />
Jonah aprì bocca per la prima volta. «Non è un problema» replicò. Si leccò le labbra e squadrò la ragazza da capo a piedi. Gwenda rimpianse di avere addosso soltanto un vestito di lana leggera. «Ne ho domate parecchie, in vita mia» aggiunse l'uomo.<br />
Gwenda era certa che suo padre l'avesse venduta di nuovo, come aveva minacciato di fare. Lei aveva pensato che andandosene di casa sarebbe stata al sicuro e che gli abitanti del villaggio l'avrebbero difesa, invece... Era buio, nessuno si sarebbe accorto di nulla fino al mattino e a quel punto lei ormai sarebbe stata lontana.<br />
Non l'avrebbe aiutata nessuno, però lei avrebbe cercato comunque di difendersi.<br />
Si guardò intorno disperata, alla ricerca di un'arma. Il ceppo che aveva aggiunto al fuoco poco prima stava già bruciando a un'estremità, ma era lungo e anche abbastanza comodo da afferrare. Gwenda si chinò velocemente e lo prese.<br />
«Non fare così» disse Joby. «Non vorrai fare del male al tuo papà, vero?» Fece un passo verso di lei.<br />
Gwenda si sentì invadere dall'ira: come osava parlarle in quel modo visto che stava cercando di venderla? Tutt'a un tratto, le venne una gran voglia di fargli del male. Urlando di rabbia, gli si lanciò contro con il ceppo ardente in mano.<br />
Joby fece un salto all'indietro, lei però continuò ad avvicinarsi minacciosa, in preda a una terribile collera. Skip abbaiava furioso. Joby alzò le mani per proteggersi, ma Gwenda riuscì lo stesso a colpirlo al volto. Il padre lanciò un urlo di dolore. La sua barba prese fuoco mandando un nauseante odore di bruciato.<br />
Gwenda si sentì afferrare da dietro: era Jonah che cercava di bloccarla. Lasciò cadere il ceppo e la paglia per terra si incendiò all'istante. Skip, che aveva il terrore delle fiamme, scappò subito fuori. Gwenda cercava di divincolarsi, ma Jonah era più forte di lei e la sollevò da terra.<br />
Sulla soglia apparve un'ombra. Gwenda la vide solo un istante prima che scomparisse. Poi Jonah la scaraventò a terra e lei perse i sensi.<br />
Quando tornò in sé, vide che Jonah era chino su di lei e le stava legando i polsi con una corda.<br />
L'ombra sulla porta riapparve e Gwenda riconobbe Wulfric, che aveva in mano un grosso secchio di legno. Rapido, lo svuotò sulla paglia, spegnendo le fiamme, quindi lo abbatté sulla testa di Jonah, in ginocchio accanto a Gwenda.<br />
Libera dalla sua stretta, lei si sciolse rapidamente i legacci. Wulfric colpì di nuovo Jonah, ancora più forte, e questa volta l'uomo chiuse gli occhi e crollò per terra.<br />
Premendosi la manica sulla barba, Joby era riuscito a spegnere le fiamme e gemeva di dolore, accovacciato sul pavimento.<br />
Wulfric afferrò Jonah per la tunica e lo sollevò, ancora privo di sensi. «Chi è costui?»<br />
«Si chiama Jonah. Mio padre voleva vendermi a lui.»<br />
Wulfric lo prese per la cintola e lo scaraventò fuori dalla porta.<br />
Joby continuava a lamentarsi per il dolore. «Aiutatemi, ho la faccia bruciata.»<br />
«Aiutarti?» disse Wulfric. «Dai fuoco alla mia casa, aggredisci la mia bracciante e poi mi chiedi aiuto? Vattene subito!»<br />
Joby si alzò in piedi gemendo e uscì barcollando. Gwenda non sentiva alcuna compassione per lui: si accorse che il poco affetto che provava ancora per suo padre si era spento definitivamente quella sera. Sperava che non le avrebbe mai più rivolto la parola.<br />
In quel momento arrivò Perkin, con una candela in mano. «Che cosa succede?» domandò. «Mi è sembrato di sentire delle grida.» Gwenda vide che dietro di lui c'era Annet.<br />
«Joby è venuto qui con un altro furfante» spiegò Wulfric. «Hanno cercato di portare via Gwenda.»<br />
Perkin sbuffò. «Vedo che il problema è stato risolto.»<br />
«Già, senza troppa fatica.» Wulfric si rese conto di avere ancora il secchio in mano e lo posò.<br />
«Ti sei fatto male?» gli chiese Annet.<br />
«No.»<br />
«Hai bisogno di qualcosa?»<br />
«Voglio solo andare a dormire.»<br />
Perkin e Annet capirono il messaggio e si congedarono. Sembrava che nessun altro avesse sentito niente.<br />
Wulfric chiuse la porta e guardò Gwenda al bagliore del fuoco nel camino. «Come ti senti?»<br />
«Un po' scossa.» Si sedette sulla panca e appoggiò i gomiti sul tavolo.<br />
Wulfric si avvicinò alla credenza. «Bevi un po' di vino, ti farà bene.» Posò sul tavolo una botticella e prese due tazze dallo scaffale.<br />
Gwenda si riscosse: forse era arrivato il momento di usare la pozione. Cercò di riflettere. Doveva agire in fretta.<br />
Wulfric versò il vino nelle tazze e andò a rimettere la botticella nella credenza.<br />
Gwenda aveva soltanto un attimo a disposizione. Mentre lui le voltava le spalle, estrasse la boccetta dalla borsina che teneva al collo, la stappò con mano tremante e ne versò il contenuto in una tazza.<br />
Wulfric si voltò mentre Gwenda stava rimettendo via la boccetta. Lei finse di aggiustarsi la veste, ma Wulfric non aveva notato nulla di strano. Si sedette di fronte a lei.<br />
Gwenda alzò la tazza per brindare. «Mi hai salvato la vita» disse. «Grazie.»<br />
«Ti tremano le mani» osservò lui. «Sei ancora sconvolta.»<br />
Bevvero entrambi.<br />
Gwenda si chiese quanto tempo avrebbe impiegato la pozione per fare effetto.<br />
Wulfric disse: «Anche tu mi hai salvato la vita, aiutandomi nei campi. Grazie».<br />
Bevvero di nuovo.<br />
«Non so che cosa sia peggio» rifletté Gwenda a voce alta. «Se avere un padre come il mio o non averlo per niente.»<br />
«Mi dispiace per te» disse Wulfric pensoso. «Almeno io ho un buon ricordo dei miei genitori.» Svuotò d'un fiato la sua tazza. «Non bevo quasi mai vino, perché mi intorpidisce. Ma questo è buonissimo.»<br />
Gwenda lo osservò attentamente. Mattie la guaritrice l'aveva avvisata che sarebbe diventato languido. Di certo Wulfric la stava guardando come se la vedesse per la prima volta.<br />
Dopo un momento, le sussurrò: «Hai davvero un bel viso, sai? Molto dolce».<br />
Per sedurlo, Gwenda adesso avrebbe dovuto fare ricorso alla propria femminilità, ma si accorse con sgomento che non sapeva da che parte cominciare. Certe donne, come Annet, erano brave a farsi corteggiare, ma lei non era abituata a sorridere con aria civettuola e a sbattere le ciglia... Si sarebbe sentita una stupida. «Sei gentile» gli disse, cercando di prendere tempo. «Ma nei tuoi occhi non vedo soltanto gentilezza.»<br />
«E cos'altro vedi?»<br />
«Forza. Quella che non viene dai muscoli, ma dalla determinazione.»<br />
«Stasera mi sento forte, è vero.» Wulfric sorrise. «Dici che nessun uomo può zappare venti acri, ma io sento che potrei farcela, stanotte.»<br />
Gwenda posò la mano su quella di lui, appoggiata al tavolo. «Riposati, piuttosto» gli disse. «Per zappare c'è sempre tempo.»<br />
Lui osservò le dita minute. «Guarda, abbiamo la pelle così diversa!» disse, come se fosse una cosa straordinaria. «La tua è più scura.»<br />
«Abbiamo anche gli occhi e i capelli diversi, non solo la pelle. Chissà come sarebbero i nostri figli...»<br />
Wulfric sorrise, al pensiero. Poi però cambiò espressione, come se lei avesse detto qualcosa che non andava, e si fece serio. Gwenda avrebbe forse potuto ridere di quel brusco cambiamento, se non l'avesse turbata tanto. «Non avremo figli insieme» disse lui in tono solenne. E ritrasse la mano.<br />
«Cambiamo discorso» mormorò lei, disperata.<br />
«Non pensi mai a come sarebbe bello se...» Wulfric lasciò la frase a metà.<br />
«Se cosa?» domandò lei.<br />
«Se il mondo fosse diverso.»<br />
Gwenda si alzò e si andò a sedere accanto a lui. «Desiderarlo non basta» gli disse. «Siamo soli, è notte: possiamo fare ciò che vogliamo.» Lo guardò negli occhi. «Tutto ciò che vogliamo.»<br />
Wulfric la fissò intensamente e lei si accorse che la desiderava. C'era voluta una pozione perché accadesse, ma la sua passione era sincera. In quel momento, l'unica cosa al mondo che gli importava era fare l'amore con lei.<br />
Tuttavia, non osava fare la prima mossa.<br />
Gwenda gli prese la mano e, senza che lui opponesse resistenza, se l'avvicinò alle labbra. Accarezzando le dita ruvide e forti, si premette la palma contro la bocca, la baciò e poi la sfiorò appena con la punta della lingua. Quindi se la posò sul seno.<br />
Wulfric glielo accarezzò, ansimando. Gwenda inclinò la testa all'indietro, invitandolo a baciarla.<br />
Ma Wulfric rimase immobile.<br />
Allora lei si alzò in piedi e si sfilò la veste da sopra la testa, lasciandola cadere a terra e rimanendo nuda davanti a lui. Wulfric la guardò con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata, come se avesse appena assistito a un miracolo.<br />
Gwenda gli prese di nuovo la mano e, questa volta, se la avvicinò al ventre, posandosela sul triangolo di peli fra le cosce. Era così bagnata che il dito di Wulfric scivolò dentro di lei, facendola gemere di piacere.<br />
Ma Wulfric non stava facendo niente di propria iniziativa, paralizzato dall'indecisione. La desiderava, ma pensava ancora ad Annet. Gwenda avrebbe potuto muoverlo come un burattino per tutta la notte e fare l'amore con il suo corpo inerte, ma non sarebbe servito a niente. Bisognava che lui lo volesse.<br />
Si chinò, sempre tenendo la sua mano fra le cosce, e gli disse: «Baciami». Avvicinò la bocca alle sue labbra. «Ti prego.» Era a un soffio da lui, ma non voleva avvicinarsi di più: doveva essere lui a colmare quell'ultima distanza.<br />
Tutt'a un tratto, Wulfric si mosse.<br />
Ritrasse la mano, voltò la testa dall'altra parte e si alzò in piedi. «Non va bene» disse.<br />
E Gwenda capì che aveva perso.<br />
Le si riempirono gli occhi di lacrime. Raccolse la veste e si coprì.<br />
«Mi dispiace» mormorò Wulfric. «Non avrei dovuto fare queste cose. Ti ho ingannato, sono stato crudele.»<br />
"Non è vero" pensò lei. "Sono stata io a ingannarti. Io sono stata crudele. Tu, invece, sei forte, fedele e leale. Sei troppo buono per me."<br />
Lo pensò, ma non disse niente.<br />
Lui cercava di non guardarla. «Meglio che tu torni nella stalla» le sussurrò. «Dormiamoci su. Domattina non ci sentiremo più così, spero. Tutto tornerà come prima.»<br />
Gwenda corse via dalla porta sul retro, senza neppure infilarsi la veste. La luna brillava in cielo, ma in giro non c'era nessuno e, comunque, non le importava. Nel giro di pochi secondi era nella stalla.<br />
In fondo alla costruzione di legno c'era un soppalco con il fieno pulito. Era lì che lei dormiva la notte. Vi salì e si gettò sulla paglia a piangere, delusa e piena di vergogna, troppo disperata per sentire la paglia che le pungeva la pelle nuda.<br />
Quando alla fine si calmò, si alzò, si rivestì e si mise una coperta sulle spalle. In quel momento sentì un rumore di passi e guardò da una fessura nel graticcio.<br />
La luna era quasi piena, la notte chiara. Fuori della stalla c'era Wulfric. A un certo punto, lo vide andare verso la porta e le balzò il cuore in gola: forse aveva cambiato idea! Ma poi lui esitò e tornò indietro verso casa. Prima di entrarvi, però, si voltò di nuovo e ritornò sui suoi passi.<br />
Gwenda, con il cuore che batteva all'impazzata, lo osservò andare avanti e indietro, indeciso, ma non si mosse: aveva fatto tutto il possibile per incoraggiarlo, adesso toccava a lui.<br />
Wulfric, alla fine, si fermò davanti alla porta sul retro, illuminato dalla luna. Gwenda lo vide, di profilo, portarsi la mano ai mutandoni e capì che cosa stava per fare, avendo spiato diverse volte il fratello maggiore. Lo sentì gemere, mentre compiva quel gesto che imitava l'amplesso, e lo guardò sgomenta sprecare il suo desiderio, temendo che le si sarebbe spezzato il cuore. </div>
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[...]</div>
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«Dov'è mio nipote Saul?» domandò, vedendo entrare Godwyn.<br />
«È rimasto al convento di St John, mio signore. Gli ho portato il vostro messaggio...»<br />
«Messaggio? Era un ordine!»<br />
Lady Philippa, accanto al letto, gli sussurrò: «Non agitarti. Sai che ti fa male».<br />
«Frate Saul ha semplicemente detto di non potere accettare la nomina» spiegò Godwyn.<br />
«E perché diavolo non può?»<br />
«Ha riflettuto e pregato...»<br />
«Certo che ha pregato: non è questo che fanno i monaci? Che motivi ha addotto per contraddire il mio volere?»<br />
«Non si sente all'altezza di un incarico tanto difficile.»<br />
«Sciocchezze. Perché mai sarebbe difficile? Non gli ho chiesto di guidare mille cavalieri in battaglia, ma solo di far cantare inni a un po' di monaci alle giuste ore del giorno.»<br />
Era una sciocchezza, e Godwyn si limitò a chinare il capo senza ribattere.<br />
Il tono del conte cambiò di colpo. «Adesso ho capito chi sei. Sei il figlio di Petranilla, vero?»<br />
«Sì, mio signore.» "Quella Petranilla che hai piantato in asso" pensò Godwyn.<br />
«Era una donna astuta e immagino che tu non sia da meno. Come faccio a sapere che non hai convinto Saul a non accettare? Tu vuoi che diventi priore Thomas Langley, dico bene?»<br />
"Ho piani ben più ambiziosi, sciocco che non sei altro" disse fra sé Godwyn e poi, a voce alta: «Saul mi ha chiesto che cosa potreste volere voi in cambio della sua nomina».<br />
«Ah, ecco. E tu che cosa gli hai risposto?»<br />
«Che vi aspettate che vi presti ascolto, in quanto siete un conte, suo zio e suo sostenitore.»<br />
«E lui è stato troppo cocciuto per accettarlo, presumo. Va bene, ho capito, nominerò quel grassone di un frate. Adesso vattene.»<br />
Godwyn dovette stare attento a non mostrare quanto fosse contento. Chinò la testa e uscì. La penultima fase del suo piano aveva funzionato alla perfezione. Il conte Roland non sospettava minimamente di essere stato raggirato.<br />
Adesso occorreva passare alla fase finale.<br />
Uscì dall'ospitale ed entrò nel chiostro. Era l'ora dedicata allo studio, prima della funzione di sesta, a mezzogiorno, e quasi tutti i monaci erano intenti a leggere, ad ascoltare le letture degli altri o a meditare.<br />
Godwyn vide Theodoric, il suo giovane alleato, e lo chiamò a sé con un cenno del capo. A voce bassissima gli disse: «Il conte Roland nominerà frate Murdo. Vuole che diventi lui priore».<br />
Theodoric rimase sbigottito. «Che cosa?» esclamò ad alta voce.<br />
«Sst.»<br />
«Ma è impossibile!»<br />
«Lo so.»<br />
«Nessuno voterà per lui.»<br />
«Per questo sono soddisfatto.»<br />
Theodoric finalmente capì. «Ah, be'... certo! Dunque per noi è una buona notizia.»<br />
Godwyn si domandò come mai gli toccasse sempre spiegare certe cose anche ai più intelligenti. Sembrava che nessuno, a parte lui e sua madre, sapesse vedere oltre la superficie delle cose. «Spargi la voce in giro, senza farti vedere troppo indignato. Si arrabbieranno anche senza incoraggiamento.»<br />
«Devo dire che è una svolta positiva per Thomas?»<br />
«No di certo.»<br />
«Va bene» assentì Theodoric. «Capisco.»<br />
Evidentemente non aveva capito nulla, invece, ma Godwyn era sicuro che avrebbe comunque seguito le sue istruzioni.<br />
Si congedò da lui e andò a cercare Philemon. Lo trovò che spazzava il refettorio. «Sai dov'è Murdo?» gli chiese.<br />
«Sarà in cucina.»<br />
«Vallo a cercare e dagli appuntamento nella casa del priore all'ora di sesta, quando tutti saranno in chiesa a pregare. Non voglio che vi vedano insieme.»<br />
«D'accordo. Che cosa gli devo dire?»<br />
«Prima di tutto, digli: "Frate Murdo, nessuno deve sapere quel che vi rivelerò". È chiaro?»<br />
«"Nessuno deve sapere quel che vi rivelerò." Sì, va bene.»<br />
«Poi fagli vedere l'atto della regina. Ti ricordi dov'è, vero? Nella camera da letto, dietro l'inginocchiatoio, c'è un baule con dentro una borsa rossiccia.»<br />
«È tutto?»<br />
«Fagli notare che le terre che Thomas ha portato al priorato in origine appartenevano alla regina Isabella e che questo fatto è rimasto segreto per dieci anni.»<br />
Philemon sembrava confuso. «Ma noi non sappiamo che cosa stia nascondendo Thomas.»<br />
«No, ma c'è sempre un motivo per tenere un segreto.»<br />
«Non pensi che Murdo userà queste informazioni contro di lui?»<br />
«Certamente.»<br />
«Che cosa farà?»<br />
«Non lo so ma, qualsiasi cosa faccia, sono certo che andrà a scapito di Thomas.»<br />
Philemon aggrottò la fronte. «Pensavo che noi fossimo dalla sua parte.»<br />
Godwyn sorrise. «Questo è ciò che pensano tutti.»<br />
Suonò la campana per la preghiera di mezzogiorno.<br />
Philemon andò a cercare Murdo e Godwyn si unì agli altri monaci in chiesa. Unendosi al coro, recitò: «Signore, vieni in mio aiuto, Signore, affrettati ad aiutarmi» con insolito fervore. Nonostante si fosse mostrato sicuro di sé in presenza di Philemon, sapeva infatti di correre un grosso rischio. Aveva puntato tutto sul segreto di Thomas, ma non sapeva come sarebbe andata a finire.<br />
Il suo piano aveva funzionato: i monaci sembravano agitatissimi. Inquieti, parlottavano fra loro, tanto che Carlus dovette richiamarli due volte durante i Salmi. Provavano antipatia per i frati minori in generale, che si credevano superiori perché non avevano possedimenti terreni e poi vivevano alle spalle degli altri, ma soprattutto per Murdo, che era pomposo, ubriacone e arrogante. Avrebbero votato chiunque, pur di non avere lui come priore.<br />
Uscendo dalla chiesa dopo la funzione, Simeon disse a Godwyn: «Non possiamo far eleggere frate Murdo».<br />
«Sono d'accordo con te.»<br />
«Carlus e io abbiamo deciso di non proporre un altro nome: se sembreremo divisi, il conte imporrà il suo candidato. Appoggeremo Thomas, dunque. Se dimenticheremo le nostre differenze, mostrandoci uniti, il conte farà più fatica a opporsi a noi.»<br />
Godwyn si fermò e lo guardò negli occhi. «Grazie, fratello» disse, sforzandosi di apparire umile e di nascondere la contentezza.<br />
«È per il bene del priorato.»<br />
«Lo so. Dimostri comunque grande generosità di spirito.»<br />
Simeon annuì e si allontanò.<br />
Godwyn sentì di essere vicino alla vittoria.<br />
I frati si riunirono in refettorio per il pranzo. C'era anche Murdo, che spesso e volentieri mancava alle funzioni, però mai ai pasti. I monasteri, in genere accoglievano alla loro mensa chiunque si presentasse, monaco o frate minore che fosse. Ma nessuno ne approfittava quanto Murdo. Godwyn lo osservava: pareva eccitato, come se non vedesse l'ora di rivelare il segreto appena appreso. Si trattenne per tutta la durata del pasto, tuttavia, e rimase zitto ad ascoltare il novizio che leggeva.<br />
Il brano di quel giorno era la storia di Susanna e i perfidi anziani. Godwyn disapprovava che venisse letta in una comunità votata al celibato, in quanto troppo sensuale. Quel giorno, però, i tentativi di due vecchi lascivi di ricattare una donna affinché si concedesse loro non attirarono più di tanto l'attenzione dei presenti, che continuavano a borbottare e a guardare Murdo in tralice.<br />
Quando il pasto fu terminato, e il profeta Daniele ebbe dimostrato l'innocenza di Susanna sottolineando le incongruenze fra il racconto dei due uomini, interrogati separatamente, i monaci si apprestarono a lasciare il refettorio.<br />
In quel momento, Murdo si rivolse al matricularius. «Quando arrivasti qui, frate Thomas, mi risulta che fossi ferito. Una ferita di spada, se ben ricordo.»<br />
Lo disse a voce abbastanza alta perché tutti lo sentissero. I monaci si fermarono ad ascoltare.<br />
Thomas lo guardò, impassibile. «Sì, è così.»<br />
«Quella ferita ti causò poi la perdita del braccio sinistro. Mi chiedo: ti venne inferta mentre eri al servizio della regina Isabella?»<br />
Thomas impallidì. «Sono in questo monastero da dieci anni. La mia vita precedente è dimenticata.»<br />
Murdo continuò imperterrito. «Te lo chiedo per via delle terre che portasti al priorato quando vi entrasti. Cinquecento acri, nei pressi di un fiorente villaggio vicino a Norfolk: Lynn, dove vive la regina.»<br />
Godwyn intervenne, fingendosi indignato. «Che cosa può sapere un forestiero delle nostre proprietà?»<br />
«Ho letto i documenti» disse Murdo. «Queste non sono cose segrete.»<br />
Godwyn guardò Carlus e Simeon, che erano seduti vicini e avevano l'aria sgomenta. Essendo vicepriore e tesoriere, erano al corrente di tutto. Probabilmente si chiedevano come avesse fatto Murdo a trovare l'atto. Simeon aprì la bocca per parlare.<br />
Murdo lo precedette. «O, per lo meno, non dovrebbero esserlo.»<br />
Simeon chiuse di nuovo la bocca. Se avesse chiesto a Murdo come aveva fatto a scoprirlo, gli altri avrebbero potuto domandare a lui come mai l'aveva tenuto segreto.<br />
Murdo continuò: «Le terre di Lynn vennero donate al priorato da...». Fece una pausa, per aumentare la curiosità di tutti. «... dalla regina Isabella.»<br />
Godwyn si guardò intorno. I monaci erano tutti costernati, a parte Carlus e Simeon, i cui volti sembravano scolpiti nella pietra.<br />
Frate Murdo si protese in avanti, il prezzemolo dello stufato che aveva mangiato a pranzo incastrato fra i denti, e, in tono aggressivo, si rivolse ancora a Thomas: «Te lo chiedo un'altra volta: quella ferita ti venne inferta mentre eri al servizio della regina Isabella?».<br />
«Tutti sanno che prima di farmi monaco ero un cavaliere. Combattevo in battaglia e uccidevo i nemici» rispose Thomas. «Ho confessato i miei peccati e sono stato assolto.»<br />
«Un monaco può lasciarsi alle spalle il proprio passato, ma il priore di Kingsbridge porta fardelli ben più onerosi: deve rendere conto di chi ha ucciso e per quale motivo, e soprattutto delle ricompense ricevute per il sangue versato.»<br />
Thomas lo fissò senza ribattere. Pareva turbato, in preda a forti emozioni. Godwyn cercò di indovinare quali fossero. Thomas non sembrava afflitto da senso di colpa o imbarazzo: qualsiasi fosse il suo segreto, non lo riteneva vergognoso. Non era neppure rabbia, quella che lo animava. Il tono petulante di Murdo avrebbe provocato una reazione violenta in molti, ma non in lui. No, quella che Thomas sembrava provare era un'emozione diversa, più fredda dell'imbarazzo e meno focosa della rabbia. Paura, ecco cos'era! Thomas aveva paura. Di Murdo? Godwyn non lo credeva proprio. Il matricularius temeva piuttosto che a causa di Murdo potesse succedere qualcosa, che la rivelazione del suo segreto avesse conseguenze nefaste.<br />
Murdo insistette: «Se non rispondi qui, adesso, dovrai risponderne in altra sede».<br />
La buona riuscita del piano di Godwyn richiedeva che a quel punto Thomas cedesse, ma il sacrista non era affatto sicuro che l'avrebbe fatto. Il matricularius era tenace: in quei dieci anni aveva dimostrato di avere un carattere riservato, paziente e incrollabile. Quando Godwyn gli aveva chiesto di candidarsi per la carica di priore, doveva aver pensato che ormai il suo passato fosse stato dimenticato. Invece ora capiva che non era così. Quale sarebbe stata la sua reazione? Avrebbe ammesso il proprio errore e si sarebbe ritirato in buon'ordine, oppure avrebbe mostrato i denti e cercato di raggiungere comunque il proprio obiettivo? Godwyn si morse un labbro, ansioso.<br />
Alla fine, Thomas dichiarò: «Penso che tu abbia ragione: se non rispondo adesso, dovrò farlo in un'altra sede. Credo che ti adopereresti in qualunque modo, per quanto pericoloso e poco fraterno, perché succedesse».<br />
«Stai forse insinuando...»<br />
«Basta così!» esclamò Thomas, alzandosi di colpo in piedi.<br />
Murdo trasalì. La stazza di Thomas, il suo fisico da soldato e il tono di voce deciso lo fecero rimanere, per una volta, senza parole.<br />
«Non ho mai dato risposta alle domande sul mio passato» disse Thomas, abbassando di nuovo la voce. Tutti stavano zitti ad ascoltare. «E mai lo farò.» Puntando il dito contro Murdo, aggiunse: «Ma questo verme mi ha fatto capire che, se diventassi priore, certe domande mi verrebbero ripetute fino alla nausea. Un monaco può tenere per sé il proprio passato, un priore no. Ora lo capisco. Un priore può avere nemici e i segreti lo indeboliscono. E, se il suo capo è debole, anche l'istituzione ne risente. Sarei dovuto giungere da solo alle conclusioni cui mi ha portato la malvagità di frate Murdo, e cioè che un uomo che non vuole dare spiegazioni sul proprio passato non può essere eletto priore. Pertanto...»<br />
Il giovane Theodoric esclamò: «No!».<br />
«Ritiro la mia candidatura.»<br />
Godwyn tirò un sospiro di sollievo: aveva raggiunto il proprio obiettivo.<br />
Thomas si sedette. Murdo aveva l'aria soddisfatta e gli altri cercavano di parlare tutti insieme.<br />
Carlus batté il pugno sul tavolo e a poco a poco nella sala tornò il silenzio. «Frate Murdo» gli disse «non avendo tu il diritto di votare all'elezione, ti chiedo di lasciarci soli.»<br />
Murdo si avviò lentamente, con espressione trionfante.<br />
Non appena se ne fu andato, Carlus aggiunse: «È una tragedia! Murdo rimane l'unico candidato!».<br />
«Non dovremmo permettere a Thomas di ritirarsi» suggerì Theodoric.<br />
«Lo ha già fatto!»<br />
«Cerchiamo un altro candidato» propose Simeon.<br />
«Giusto» approvò Carlus. «Propongo Simeon.»<br />
«No!» si oppose Theodoric.<br />
«Posso dire una cosa?» intervenne Simeon. «Dobbiamo scegliere chi fra di noi ha più probabilità di essere votato da tutti i confratelli, e io non sono adatto perché credo di non godere dell'appoggio dei più giovani. Il nuovo candidato deve avere il favore di tutti.»<br />
Si voltò verso Godwyn.<br />
«Sì!» esclamò Theodoric. «Godwyn!»<br />
I giovani lanciarono urla esultanti, i più anziani fecero una faccia rassegnata. Godwyn scosse la testa, come se non volesse rispondere. Ma i monaci iniziarono a battere le palme sul tavolo e a scandire il suo nome: «God-wyn! God-wyn!».<br />
Alla fine, Godwyn si alzò. Era euforico, ma cercò di non farsene accorgere. Alzò le mani per zittire le grida. Non appena ci fu silenzio, disse in tono modesto, a voce bassissima: «Obbedisco al volere dei miei confratelli».<br />
Nel refettorio scrosciò un applauso.<br />
[...]</div>
<div style="text-align: justify;">
Il convento sembrava deserto, ma la cosa non la sorprese: era un piccolo istituto in un villaggio e non ci si poteva aspettare che fosse sempre vivace e indaffarato come il grande priorato di Kingsbridge. Eppure a quell'ora, in cui solitamente veniva preparato il pasto serale, avrebbe dovuto esserci una spirale di fumo che usciva dal camino della cucina. Procedendo, però, Caris notò altri segnali inquietanti e si sentì a poco a poco invadere dallo sgomento.<br />
Il primo edificio, che pareva una chiesa, non aveva più il tetto. Le finestre erano cavità vuote, senza né imposte né vetri. I muri erano in parte anneriti, come se fossero affumicati.<br />
C'era un gran silenzio: niente campane, niente grida degli stallieri o degli sguatteri. Caris, profondamente scoraggiata, rallentò l'andatura e si rese conto che il luogo era disabitato e che, come ogni altro edificio del villaggio, era stato dato alle fiamme. La maggior parte delle mura di pietra era ancora in piedi, ma le travi del tetto erano crollate, le porte e gli altri infissi di legno erano stati bruciati e le finestre di vetro erano esplose per il calore.<br />
Mair esclamò, incredula: «Hanno incendiato il convento?».<br />
Caris era altrettanto scioccata. Aveva creduto che gli eserciti invasori rispettassero sempre gli edifici religiosi. Era una regola ferrea, almeno così si diceva. Un comandante non avrebbe esitato a mettere a morte il soldato che avesse violato un luogo sacro. Era una verità che lei non aveva mai messo in discussione. «Alla faccia della cavalleria» disse.<br />
Smontarono di sella e, muovendosi con cautela per evitare le travi carbonizzate e le macerie, giunsero agli alloggi delle monache. Mentre si avvicinavano alla porta della cucina, Mair lanciò un grido e disse: «Oh, mio Dio, cos'è quella?».<br />
Caris conosceva già la risposta. «È una suora morta.» Aveva il corpo nudo e i capelli corti. Il cadavere era in qualche modo sfuggito al fuoco. La donna era morta da circa una settimana. Gli uccelli le avevano divorato gli occhi e qualche altro animale le aveva scarnificato parte del volto. Inoltre, qualcuno le aveva asportato i seni con un coltello.<br />
Mair, sconvolta, chiese: «E sono stati gli inglesi a fare questo?».<br />
«Di certo non i francesi.»<br />
«Nelle nostre truppe ci sono anche soldati stranieri, giusto? Gallesi, germani e altri. Forse sono stati loro.»<br />
«Sono tutti agli ordini del nostro re» rispose Caris, in tono di secca condanna. «E stato lui a condurli qui. Ciò che hanno fatto è una sua responsabilità.»<br />
Rimasero entrambe a contemplare quello spettacolo ripugnante. A un tratto, un topo uscì dalla bocca del cadavere. Mair gridò e si voltò.<br />
Caris l'abbracciò. «Calmati» le disse con fermezza, ma le accarezzò la schiena per consolarla. «Su» disse dopo un attimo. «Andiamocene da qui.»<br />
[...] </div>
<div style="text-align: justify;">
L'acquazzone fu violento ma breve e, quando smise di piovere, Ralph guardò verso la valle e vide, con un fremito di paura, che il nemico era arrivato.<br />
Gli inglesi si erano fermati su un crinale che andava da sudovest a nordest. Alle loro spalle, verso nordovest, c'era una foresta. Di fronte e su entrambi i lati le colline digradavano in un pendio. Il fianco destro del loro schieramento sovrastava la cittadina di CrécyenPonthieu, annidata nella valle del fiume Maye.<br />
I francesi stavano arrivando da sud.<br />
Ralph era sul fianco destro, con gli uomini del conte Roland, agli ordini del giovane principe di Galles. Avevano adattato la formazione a erpice che si era dimostrata tanto efficace contro gli scozzesi. A sinistra e a destra c'erano gli arcieri, schierati a triangolo, come i due denti di un erpice. Tra i denti, piuttosto indietro, c'erano armigeri e cavalieri, questi ultimi a piedi. Era un'innovazione radicale, a cui molti cavalieri facevano ancora resistenza: amavano i loro cavalli e a piedi si sentivano vulnerabili. Ma il re era stato irremovibile: tutti a piedi. Sul terreno di fronte ai cavalieri, gli uomini avevano scavato delle trappole, buche quadrate larghe e profonde un piede, per far inciampare i destrieri dei francesi.<br />
Alla destra di Ralph, al bordo dell'altura, c'era una novità: tre nuove macchine chiamate "bombarde", o "cannoni", che usavano polvere esplosiva per sparare pietre rotonde. L'esercito se le era trascinate dietro fin dalla Normandia, ma finora non le aveva usate, e nessuno sapeva con certezza se avrebbero funzionato o no. Quel giorno re Edoardo doveva sfruttare tutti i mezzi a sua disposizione, perché la superiorità del nemico era da quattro a sette francesi per ogni inglese.<br />
Sul fianco sinistro dello schieramento inglese, gli uomini del conte di Northampton erano disposti nello stesso modo. Dietro le prime linee c'era un terzo battaglione di riserva, al comando del re. Alle spalle del re c'erano due vie di scampo. La prima era costituita dai carri delle vettovaglie, disposti in circolo, che racchiudevano all'interno i non combattenti, cuochi, ingegneri militari e stallieri, e i cavalli. La seconda era la foresta stessa dove, in caso di rotta, i sopravvissuti dell'esercito inglese avrebbero potuto rifugiarsi, perché i cavalieri francesi avrebbero avuto difficoltà a seguirli.<br />
Erano lì dall'alba, senza altro cibo che zuppa di piselli e cipolle. Ralph indossava l'armatura e sudava dal caldo, perciò il temporale era stato graditissimo. Aveva anche reso fangoso il pendio che i francesi avrebbero dovuto risalire nella loro carica, con il rischio di scivolare.<br />
Ralph pensava di sapere che tattica avrebbero adottato i francesi. I balestrieri genovesi avrebbero tirato al riparo dei grandi scudi, per sfoltire le file degli inglesi. Poi, quando avessero fatto danni a sufficienza, si sarebbero fatti da parte e ci sarebbe stata la carica dei cavalieri francesi.<br />
Non c'era nulla di più spaventoso di quella carica. Detta furor franciscus, era l'arma fondamentale dei nobili francesi. Il codice imponeva loro di non tenere in nessun conto la propria salvezza. Quegli enormi destrieri da guerra, montati da cavalieri completamente chiusi nell'armatura, tanto che parevano uomini di ferro, travolgevano al loro passaggio arcieri, scudi, spade e soldati.<br />
Naturalmente, non sempre funzionava. La carica poteva essere respinta, specie quando il terreno favoriva gli avversari, come in quel caso. Comunque, i francesi non si scoraggiavano facilmente e tornavano alla carica. E la loro superiorità numerica, quel giorno, era così schiacciante che Ralph non vedeva come gli inglesi avrebbero potuto respingerli all'infinito.<br />
Aveva paura, ma nello stesso tempo non rimpiangeva di essere con l'esercito. Per sette anni aveva vissuto la vita d'azione che aveva sempre desiderato, quella in cui gli uomini forti dominavano e i deboli non contavano niente. Aveva ventinove anni e di rado gli uomini d'azione diventavano vecchi. Aveva commesso atroci peccati, ma era stato assolto da tutti proprio quella mattina, dal vescovo di Shiring, che adesso era accanto a suo padre il conte, armato di una mazza dall'aria assai pericolosa: i preti non avrebbero dovuto spargere sangue, una regola che rispettavano in modo molto superficiale adottando in battaglia armi non affilate.<br />
I balestrieri con le casacche bianche giunsero in fondo al pendio. Gli arcieri inglesi, che avevano atteso seduti, con le frecce conficcate di punta nel terreno davanti a sé, cominciarono ad alzarsi e a tendere le corde degli archi. Ralph intuì che la maggior parte di loro si sentiva proprio come lui, e provava un misto di sollievo per la fine della lunga attesa e timore al pensiero di quante poche probabilità avessero di sopravvivere alla battaglia.<br />
Ralph pensò che c'era ancora tempo. Vide che i genovesi non avevano i lunghi pavesi che costituivano un elemento essenziale della loro tattica. La battaglia non sarebbe iniziata finché non fossero giunti gli scudi, ne era certo.<br />
Migliaia di cavalieri si stavano riversando nella valle da sud e a mano a mano si distribuivano a destra e a sinistra dietro i balestrieri. Il sole tornò a illuminare i vivaci colori dei loro stendardi e delle gualdrappe dei cavalli. Ralph riconobbe le insegne di Carlo, conte di Alençon, il fratello di re Filippo.<br />
I balestrieri si fermarono ai piedi della collina. Erano migliaia. Come a un segnale, lanciarono tutti insieme un grido terrificante. Qualcuno saltò. Risuonarono le trombe.<br />
Era il loro grido di guerra, destinato a terrorizzare i nemici. Con alcuni avrebbe potuto funzionare, ma l'esercito inglese era composto di esperti combattenti che avevano alle spalle sei settimane di carapagna, e ci voleva molto più di un grido per spaventarli. Restarono impassibili.<br />
Poi, con enorme stupore di Ralph, i genovesi sollevarono le balestre e tirarono.<br />
Cosa stavano facendo? Non avevano gli scudi!<br />
Il fragore improvviso fu terrificante, cinquemila dardi di ferro che fendevano l'aria. Ma il lancio risultò fuori bersaglio. Forse i balestrieri non avevano tenuto conto del fatto che tiravano verso la cima della collina; inoltre, il sole pomeridiano alle spalle dello schieramento inglese doveva aver abbagliato i nemici. Qualunque fosse la ragione, i loro dardi caddero troppo vicini, senza colpo ferire.<br />
Dal centro della prima linea inglese partì un lampo di fuoco e un boato simile al tuono. Stupefatto, Ralph vide il fumo levarsi dal punto in cui erano state piazzate le nuove bombarde. Il rumore era impressionante, ma quando guardò i ranghi del nemico non gli parve che avessero subito seri danni. Comunque, parecchi balestrieri rimasero abbastanza sconvolti da ritardare l'operazione di ricarica.<br />
In quel momento, il principe di Galles ordinò ai suoi arcieri di tirare.<br />
Duemila longbows si alzarono. Sapendo che erano troppo lontani per tirare in linea retta parallela al terreno, gli arcieri puntarono verso l'alto, calcolando istintivamente una traiettoria curva per le loro frecce. Tutti gli archi si inclinarono allo stesso tempo, come spighe di grano in un campo attraversato da un'improvvisa brezza estiva; poi le frecce partirono all'unisono con un clangore che rammentava il rintocco di una campana. Le saette, volando più veloci di qualsiasi uccello, salirono in aria, quindi puntarono in basso e si abbatterono sui balestrieri come una grandinata.<br />
Lo schieramento nemico era molto fitto e le cotte imbottite dei genovesi offrivano ben poca protezione. Senza i loro scudi, i balestrieri erano spaventosamente vulnerabili. Caddero a centinaia, morti o feriti.<br />
Ma quello fu solo l'inizio.<br />
Mentre i balestrieri sopravvissuti ricaricavano le loro armi, gli inglesi tirarono di nuovo, e poi ancora e ancora. Un arciere ci metteva quattro o cinque secondi a estrarre una freccia dal terreno, incoccarla, tendere l'arco, prendere la mira, tirare ed estrarre un'altra freccia. Quelli più esperti e abili riuscivano a farlo più in fretta. Nello spazio di un minuto, ventimila frecce piombarono sugli indifesi balestrieri.<br />
Fu un massacro, con un'inevitabile conseguenza: i genovesi si voltarono e fuggirono.<br />
In un attimo si portarono fuori tiro e gli inglesi interruppero il lancio di frecce, ridendo per l'inaspettato trionfo e schernendo il nemico. Ma per i balestrieri era in serbo un altro pericolo: i cavalieri francesi stavano avanzando. Un fitto gruppo di balestrieri in fuga si trovò di fronte a uomini a cavallo che non vedevano l'ora di caricare. Seguirono attimi di confusione.<br />
Ralph rimase a osservare con enorme stupore i nemici che combattevano fra loro. I cavalieri estrassero la spada e cominciarono a menare fendenti contro i balestrieri, che scaricarono le loro armi addosso ai cavalieri e poi continuarono a combattere con i coltelli. I nobili francesi avrebbero dovuto tentare di fermare quella carneficina ma, per quel che riusciva a vedere Ralph, quelli con le armature più sontuose, che montavano i cavalli più grossi, erano in prima linea e attaccavano i loro alleati con incontenibile furia.<br />
I cavalieri sospinsero i balestrieri su per la collina finché non furono nuovamente alla portata dei longbows. Ancora una volta il principe di Galles diede ai suoi l'ordine di tirare. E questa volta la grandinata di frecce colpì tanto i cavalieri quanto i balestrieri. In sette anni di guerra, Ralph non aveva mai visto nulla del genere. Centinaia di nemici erano a terra, morti o feriti, mentre nessuno tra gli inglesi aveva riportato neppure un graffio.<br />
Alla fine i cavalieri francesi si ritirarono e i balestrieri rimasti si dispersero. Il pendio sotto la postazione inglese era disseminato di corpi. I fanti gallesi e quelli provenienti dalla Cornovaglia, armati di coltelli, uscirono di corsa dai ranghi e si precipitarono nel campo di battaglia per finire i feriti francesi, recuperare le frecce intatte in modo che gli arcieri potessero riutilizzarle e, senza dubbio, già che c'erano, derubare i cadaveri. Nello stesso tempo i giovani attendenti portavano agli uomini in prima fila nuove frecce prese dal convoglio dei rifornimenti.<br />
La pausa non durò a lungo.<br />
I cavalieri francesi si riorganizzarono, rinforzati da nuovi arrivi che si presentavano a centinaia, a migliaia. Osservando i ranghi del nemico, Ralph notò che alle insegne di Alençon si erano aggiunte quelle delle Fiandre e della Normandia. Lo stendardo del conte di Alençon si spostò in testa, poi risuonarono le trombe e i soldati a cavallo iniziarono a muoversi.<br />
Ralph abbassò la visiera dell'elmo e sfoderò la spada. Pensò a sua madre. Sapeva che pregava per lui ogni volta che andava in chiesa e per un attimo si sentì colmo di commossa gratitudine per lei. Poi osservò il nemico.<br />
Gli enormi cavalli si misero in marcia lentamente, oppressi dal peso dei cavalieri con l'armatura completa. Il sole al tramonto scintillava sulle visiere dei francesi e le bandiere sventolavano nella brezza serale. Lo scalpiccio degli zoccoli sul terreno si fece via via più risonante e la carica acquistò velocità. I cavalieri urlavano parole di incoraggiamento ai destrieri e ai loro compagni, agitando le spade e le lance. Giunsero come un'onda su una spiaggia e, a mano a mano che si avvicinavano, sembravano più numerosi e più veloci. Ralph aveva la bocca secca e il cuore gli batteva come un tamburo.<br />
Quando furono abbastanza vicini, il principe diede di nuovo ordine agli arcieri di tirare. Ancora una volta, le frecce volarono in aria e ricaddero come una pioggia mortale.<br />
I cavalieri erano completamente coperti dall'armatura e ci voleva davvero molta fortuna per colpire le giunture fra le varie parti, ma i loro cavalli avevano soltanto una protezione sul muso e una cappa di maglia di ferro sul collo, perciò erano loro i più vulnerabili. Quando le frecce li trafissero sulle spalle e sui fianchi, alcuni morirono sul colpo, altri caddero, altri si voltarono per fuggire. Le grida disperate degli animali riempivano l'aria. Gli scontri fra cavalli fecero cadere altri cavalieri, che si ammassarono sopra i corpi dei balestrieri genovesi. I cavalieri che arrivavano da dietro erano troppo lanciati per tentare di deviare, così passavano al galoppo sui caduti.<br />
Ma i cavalieri erano migliaia, e continuavano ad arrivarne.<br />
La distanza diminuì e gli arcieri scelsero una traiettoria più lineare. Quando la carica fu a circa cento iarde di distanza, passarono a un diverso tipo di freccia, che invece della punta aveva un'estremità piatta di acciaio in grado di perforare un'armatura. Adesso potevano uccidere i cavalieri, anche se un tiro che colpiva il cavallo era altrettanto accettabile.<br />
Il terreno era fradicio di pioggia e a quel punto la carica cominciò a incontrare le buche scavate in precedenza dagli inglesi. Lo slancio dei cavalli era tale che ben pochi animali riuscivano a finire in una fossa profonda un piede senza inciampare, così molti caddero disarcionando i loro cavalieri, in balia degli zoccoli dei destrieri che sopraggiungevano.<br />
I cavalieri in arrivo cercavano di evitare gli arcieri, così, come gli inglesi avevano previsto, la carica fu incanalata in uno stretto corridoio dove i nemici, colpiti da destra e da sinistra, venivano sterminati.<br />
Era la chiave della tattica inglese. A quel punto fu chiaro che costringere i cavalieri inglesi a smontare da cavallo era stata una scelta molto saggia. Se fossero stati in sella non avrebbero resistito all'impulso di lanciarsi alla carica, quindi gli arcieri avrebbero dovuto smettere di tirare per paura di colpire i loro. Ma siccome i cavalieri e gli armigeri restavano nelle file di retroguardia, fu possibile massacrare il nemico senza una sola perdita fra gli inglesi.<br />
Ma non bastava ancora. I francesi erano troppi e troppo coraggiosi. Continuavano ad avanzare e alla fine raggiunsero le schiere degli uomini a piedi nella parte interna fra le due linee avanzate di arcieri, e fu allora che iniziò la vera battaglia.<br />
I cavalli travolsero le prime file nemiche, ma la loro carica era stata rallentata dalla ripida collina fangosa e ben presto furono bloccati dalle fitte schiere inglesi. Ralph si trovò all'improvviso nel pieno dello scontro, impegnato a evitare colpi mortali inferti dai cavalieri, a colpire con la spada le zampe dei loro cavalli, puntando ad azzoppare le bestie nel modo più semplice e sicuro, recidendo i tendini. Si combatteva con ferocia: gli inglesi non avevano vie di scampo e i francesi sapevano che se si fossero ritirati avrebbero dovuto riattraversare quella mortale grandinata di frecce.<br />
Gli uomini cadevano attorno a Ralph, abbattuti da spade e asce da combattimento e poi calpestati dai tremendi zoccoli rivestiti di ferro dei cavalli da guerra. Ralph vide il conte Roland crollare colpito da una spada francese. Il figlio di Roland, il vescovo Richard, roteò la mazza per proteggere il padre caduto, ma un cavallo lo spinse da una parte e il conte venne calpestato.<br />
Gli inglesi furono costretti a retrocedere e Ralph si rese conto che i francesi avevano un bersaglio: il principe di Galles.<br />
Ralph non provava un particolare affetto per il privilegiato erede al trono sedicenne, ma sapeva che sarebbe stato un colpo tremendo per il morale degli inglesi se il principe fosse stato ucciso o catturato. Indietreggiò verso sinistra, unendosi a parecchi altri che andarono a ingrossare le file degli uomini che facevano scudo attorno al principe. Ma i francesi intensificarono i loro sforzi, ed erano a cavallo.<br />
Ralph si ritrovò a combattere proprio a fianco del principe, che riconobbe dalla sopravveste inquartata, con gigli in campo blu e leoni araldici in campo rosso. Un attimo dopo, un cavaliere francese colpì il principe con un'ascia, e il giovane cadde a terra.<br />
Fu un brutto momento.<br />
Ralph scattò e con un affondo riuscì a colpire l'uomo che aveva attaccato il principe, conficcandogli la spada nell'ascella, dov'era il giunto dell'armatura. Ebbe la soddisfazione di sentire la punta che penetrava nella carne e vide il sangue sprizzare dalla ferita.<br />
Un soldato si era messo a cavalcioni sopra il principe caduto e roteava a due mani un'enorme spada colpendo indifferentemente uomini e cavalli. Ralph vide che era l'alfiere del principe, Richard FitzSimon, che aveva lasciato cadere lo stendardo sopra il suo signore a terra. Per qualche minuto Richard e Ralph combatterono selvaggiamente per difendere il figlio del re, senza neanche sapere se fosse vivo o morto.<br />
Giunsero i rinforzi. Il conte di Arundel comparve insieme a una nutrita schiera di uomini freschi. I nuovi arrivati si unirono alla battaglia con vigore e capovolsero la situazione. I francesi iniziarono a retrocedere.<br />
Il principe di Galles si tirò su in ginocchio. Ralph si sollevò la visiera e lo aiutò ad alzarsi in piedi. Il giovane era ferito, ma non gravemente, così Ralph si voltò e ricominciò a combattere.<br />
Un attimo dopo, i francesi erano in rotta. Nonostante l'assurdità della tattica, il loro coraggio era quasi bastato a sfondare le linee inglesi, ma alla fine avevano dovuto cedere e adesso fuggivano, cadendo in gran numero mentre passavano sotto le forche caudine degli arcieri. Nel tentativo di raggiungere la loro postazione, correvano giù per il pendio insanguinato e inciampavano nei corpi dei loro compagni. Gli inglesi, esausti ma trionfanti, lanciarono grida di esultanza.<br />
Ancora una volta i gallesi invasero il campo di battaglia, tagliando la gola ai feriti e raccogliendo migliaia di frecce. Anche gli arcieri raccoglievano le frecce per rifornire le loro faretre. Dalle retroguardie giunsero gli inservienti con boccali di birra e di vino, e i cerusici si precipitarono a curare i nobili feriti.<br />
Ralph vide William di Caster chinarsi sul conte Roland, che respirava ma aveva gli occhi chiusi e pareva in punto di morte.<br />
Ralph ripulì sul terreno la sua spada insanguinata e si alzò la visiera per bere un boccale di birra.<br />
Il principe di Galles gli si avvicinò e gli chiese: «Come ti chiami?».<br />
«Ralph Fitzgerald di Wigleigh, mio signore.»<br />
«Hai combattuto con coraggio. Domani sarai sir Ralph, se il re mi darà ascolto.»<br />
Ralph si illuminò. «Grazie, signore.»<br />
Il principe annuì con garbo e si allontanò.<br />
<br />
<br />
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Antonio De Bellishttp://www.blogger.com/profile/08589288385447295429noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3437498411039201584.post-49276391161582185102013-03-15T00:29:00.000+01:002013-03-15T00:29:01.478+01:00La collina del vento - Carmine Abate<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhIeJwZhy38ylD_NAnX2ec_-6pFMRil1WSrXu2yJqtVXs-rmyF20lZoJtuBuYKOmiK9fKdKv72HLzE4OS0kL8nxiIokabgA5GCrGaokAImfeDbzZeHTgs0LrMuQ8efBEJbXu_DiONQjNXA/s1600/Carmine+Abate+-+La+collina+del+vento.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhIeJwZhy38ylD_NAnX2ec_-6pFMRil1WSrXu2yJqtVXs-rmyF20lZoJtuBuYKOmiK9fKdKv72HLzE4OS0kL8nxiIokabgA5GCrGaokAImfeDbzZeHTgs0LrMuQ8efBEJbXu_DiONQjNXA/s200/Carmine+Abate+-+La+collina+del+vento.jpg" width="130" /></a></div>
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<b>Stasera il Gruppo Lettori si è riunito per discutere dell'ultimo libro di Abate, vincitore del Campiello 2012. Tre quarti dei presenti ha apprezzato il libro: molto scorrevole, poetico, capace con le sue descrizioni di far vivere sensazioni fisiche al lettore come il rumore del vento, il profumo della terra, il caldo del sole... Sono piaciuti anche i personaggi e la storia che sembra sia stata tratta dalla memoria diretta dell'autore. Io faccio parte dell'ala meno entusiasta. Personalmente l'ho trovato statico, a tratti noioso e con personaggi che non si staccano dalla carta. Mi ha un po' ricordato <a href="http://leggereconpiacere.blogspot.it/2011/08/canale-mussolini-antonio-pennacchi.html" target="_blank">Canale Mussolini</a> ma senza averne la verve, la grandiosità nella ricostruzione storica, la caratterizzazione dei personaggi. Comunque alla fine ci siamo chiesti: ma è questo un libro da premio? E mestamente abbiamo condiviso che le logiche che ci sono dietro l'assegnazione di un premio sono forse più legate alle relazioni tra le case editrici che al valore per i lettori.</b></div>
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A causa della guerra e dell'emigrazione, al paese le ragazze in età da marito erano almeno il quintuplo dei giovani che cercavano moglie. Perciò Arturo Arcuri se la prese comoda, scartando a priori un frettoloso matrimonio di combinazione, come a quei tempi era in uso. Ogni domenica andava in chiesa ad ammirare le ragazze. Le passava in rassegna nei minimi dettagli, soprattutto mentre gli scorrevano accanto, prima di prendere l'ostia sacra. Le voci sulle doti più o meno ricche di alcune di loro lo lasciavano indifferente. Concentrava invece l'attenzione sulle più belle e sanizze. Erano una meraviglia: avevano le spalle dritte, il petto ben tornito, gli occhi pieni di scintille, i denti bianchissimi, le labbra da baciare. Il suo paese era famoso nel circondario per la bellezza delle donne. Arturo non aveva che l'imbarazzo della scelta.</div>
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«L'hai trovata quella giusta?» gli chiedevano gli amici.</div>
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«Io sì. Ma ora lei deve scegliere me, altrimenti non c'è gusto, la stadera pende tutta dalla mia parte. E questo non mi piace proprio.» </div>
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«Cioè?»</div>
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«Cioè, se manca il desiderio, se tu non le fai sangue come lei fa a te, il matrimonio è come un innesto che non prende, si secca, e la vita diventa stufùsa.»</div>
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«Ma che stai contando? E chi sarebbe questa lei?»</div>
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«Be', allora non capite una minchia!» Lei era una qualsiasi delle quattro ragazze rimaste in lizza nella sua personale selezione. Come potevano capire gli altri? Che tipo, Arturo. Agli amici pareva che la guerra gli avesse scardinato il cervello. Certe volte si comportava da forestiero che non conosceva nulla delle usanze del paese.</div>
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«Vedrai che nessuna ti degnerà di un sorriso» gli dicevano, «le ragazze del nostro paese non sono teatriste né zoccole!»</div>
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Si sbagliavano: ben tre delle prescelte gli sorridevano e gli facevano gli occhi dolci.</div>
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Arturo era un bel giovanotto alto e robusto, con lo sguardo vivace e la parlantina simpatica. Alle ragazze piaceva molto. E inoltre, essendo morti i fratelli in guerra, salute a noi, avrebbe ereditato tutto il Rossarco, dunque era un ottimo partito, un gran faticatore, insomma uno da maritare di corsa. Ma con un limite, o un pregio, che lo rendeva imprevedibile: ragionava a modo suo, ragionava all'incontrario. Infatti scelse la ragazza che nessuno si aspettava, quella che non gli dava retta, non uno sguardo ricambiato, non un mezzo sorriso. «Lina…» la chiamava lui, infischiandosene delle altre. Lei faceva finta di non sentire, non si voltava mai.</div>
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Quando in chiesa chiudeva gli occhi, forse per pregare, il suo volto si illuminava di una luce estatica. Arturo le fissava le labbra imbronciate che lei apriva e chiudeva lentamente, a tratti mordicchiandole inquieta. A lui sembravano piccoli segni da decifrare come un sì d'incoraggiamento, se non addirittura un sì d'amore. Non fosse stato un sacrilegio scandaloso, l'avrebbe acquietata con un bacio rubato sotto gli occhi di tutti i santi e del paese intero. Ne era capace.</div>
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«Arturì, scommettiamo che questa non ti caca proprio?» lo stuzzicavano gli amici, uscendo dalla chiesa.</div>
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Lui sorrideva sicuro di sé: «Non c'è bisogno di scommettere: lei mi ha già detto sì».</div>
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Da quel momento cominciò un corteggiamento estenuante. Ogni giorno, al ritorno dal Rossarco, mangiava, si lavava, si radeva la sua barbaccia dura e andava a piazzarsi sul muretto di fronte alla casa di Lina. Era impossibile non notarlo.</div>
<div style="text-align: justify;">
Gli amici gli rinfacciavano maligni che lui si comportava da galletto sfrontato perché la ragazza era figlia unica, con il padre nella lontana Merica. Arturo ribatteva spavaldo, innamorato: «Per Lina non mi scanterei né davanti a un padre né a tre fratelli mascoli, pronti a scannarmi vivo».</div>
<div style="text-align: justify;">
Alla madre di lei quella sfacciataggine non dispiaceva, viste le intenzioni serie del giovane, ormai note a tutto il paese. E aspettava che facesse quei cinque passi dal muretto a casa loro per chiedere la mano della figlia, accompagnato dal padre Alberto.</div>
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Lina pareva non accorgersi dell'attenzione mielosa che la circondava, continuava a sbrigare le faccende domestiche senza mai fermarsi; agli sguardi insistenti di lui alzava una barriera di vetro, si lasciava ammirare, indifferente, e a volte osservava di sottecchi. Non era spocchiosa, però, né ciòta, cioè dura come un ciottolo di fiume, stupida. Aveva diciassette anni, dagli altri era ritenuta più che matura per il matrimonio, molte sue coetanee avevano già figli.</div>
<div style="text-align: justify;">
«Ch'aspetti a raprìre le braccia a quel bravo giovine seduto sul muretto?» le chiedevano le vicine di casa, sobillate dalla madre.</div>
<div style="text-align: justify;">
«Al momento non mi interessa nessuno» rispondeva scocciata. Semplicemente non si sentiva pronta per quel salto in un mondo che l'attraeva e la respingeva a un tempo. Non erano felici le donne maritate, lei lo intuiva, erano piuttosto serve che sorridevano e si sottomettevano ai mariti per dovere. A sua madre si leggeva negli occhi l'insoddisfazione rancorosa, il rimpianto della giovinezza spensierata, e non c'era giorno in cui non malediceva il marito, chiamandolo con disprezzo "chjachjèllu", cioè loffio spregevole, che aveva buttato a mare la fede nuziale per una zoccola mericana e non si era fatto più vivo né con una lettera né con un dollaro bucato.</div>
<div style="text-align: justify;">
Arturo non si arrendeva. Ogni sabato notte, ogni vigilia di festa, le dedicava una lunga serenata: per ore, sotto il balcone di Lina, cantava e suonava la chitarra battente, accompagnato da un amico con la fisarmonica e uno con la lira. Era bravo soprattutto a suonare, stringeva al petto il fondo bombato della chitarra con la bramosia di un amante e liberava un arpeggio ritmato dai tocchi percussivi dei polpastrelli sul piano armonico; la sua voce, pur tra qualche stonatura, vibrava di tensione amorosa, lanciava messaggi che planavano sul letto di lei come petali di rose lasciati cadere da una rondine amica, la «rìndina echi va lu maru maru», mentre il suo bene «è sutta na friscura / echi sta durmennu / Ohi riturnella / è sutta na friscura / echi sta durmennu…».</div>
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Un giorno d'autunno cominciò a piovere dopo che Arturo si era seduto sul muretto del vicolo. Invano si coprì la testa con la giacca per ripararsi un poco, la pioggia continuava a cadere a scrosci implacabili, gli annebbiava la vista, lo obbligava a stringersi nelle spalle dai brividi, rendeva vana la sua presenza innamorata di fronte alla porta e alle finestre chiuse. Ma lui non si mosse di un centimetro, aspettava che spiovesse, aspettava il miracolo.</div>
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Lei aprì la porta, finalmente, si sporse appena per non bagnarsi i lunghi capelli neri e gridò per sovrastare il rumore della pioggia: «Dai, ciòto. Entra che sennò t'ammali». Il suo sorriso sfavillava, radioso come il sole, tra gli interstizi della pioggia battente. A pensarci bene, valeva più dell'invito, quel sorriso venato di stupore, almeno quanto il primo bacio, valeva. Arturo non li avrebbe mai scordati, il sorriso e il primo bacio.</div>
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Dentro casa non c'era nessuno. Fuori continuava a diluviare.</div>
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Lina e Arturo, i miei nonni, si sposarono il 26 luglio del 1920. La cerimonia in chiesa si svolse in un'atmosfera a tratti malinconica e svagata, mentre la successiva festa a casa della sposa ristagnò in un'allegria contenuta, ma del tutto priva di autentico mordente nuziale. Troppo fresche erano le ferite della guerra, tant'è che dopo la celebrazione del matrimonio i genitori di Arturo non si fermarono a festeggiare con gli sposi, i parenti e gli amici. Avevano fatto il loro dovere spogliandosi del lutto per una mattinata, di più non si poteva pretendere da una madre e un padre che portavano stampata nei visi scavati una sofferenza indicibile.</div>
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Nessuno si offese e la gente ebbe parole di conforto e solidarietà nei riguardi degli Arcuri, così segnati dalle disgrazie, così sfortunati nella fortuna. Niente ipocrisia, le parole erano sincere, si è sempre affettuosi con chi soffre le pene dell'inferno, anche se quella stessa gente, prima della guerra, aveva invidiato la famiglia Arcuri, augurandole chissà quali e quante malanove.</div>
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Era una domenica torrida. Gli invitati bevevano acqua, vino mescolato con acqua, infine vino schietto, quello corposo del Rossarco. «Fa un caldo bestiale, il vino asciuga i sudori» si giustificavano in coro. Solo più tardi, quando molti furono brilli, i giovani si scatenarono in una tarantella mozzafiato.</div>
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Quella notte il compare d'anello e una compagnia allegra di musicisti di talento imbastirono una serenata interminabile perché lo sposo non si degnava di uscire, come era tradizione, con il cesto stracolmo di bottiglie di vino e di liquore, pane e taralli, salciccia, soppressata, capicollo, panzaia, prosciutto, sardella, 'nduja, provola. Cantavano e suonavano tutto il loro repertorio di canzoni napoletane e calabresi, ma lo sposo ancora non si decideva ad aprire la porta, forse si era addormentato, forse si prendeva gioco di loro, forse non udiva le loro voci, e allora strillavano più forte, rischiando di stonare a ogni acuto.</div>
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In effetti Arturo non sentiva le canzoni, ma solo i mugolìi e le grida di piacere della giovane moglie. Che lo implorava di non. smettere di succhiarle i capezzoli e di continuare a muoversi con quei colpi lenti e forti che le facevano male e bene, che le riempivano il corpo di un calore mai provato, un fuoco inatteso, il paradiso in terra.</div>
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Lina si era aperta a lui con una fiducia che non poteva andare delusa. Arturo non aveva grande esperienza in amore, lo aveva fatto due volte a pagamento, cinque o sei minuti in tutto, il tempo di vedere com'era una femmina dall'ombelico in giù. Ma di fronte a una moglie desiderosa di lasciarsi amare, che si era spogliata senza imbarazzo e gli aveva offerto i seni e la bocca con gioiosa avidità, l'esperienza era cresciuta di bacio in bacio, bruciando tutte le tappe in poco tempo.</div>
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Arturo si stupiva in cuor suo di quanto fosse semplice e bello fare l'amore, mentre lei lo pregava di non fermarsi mai. E lui ubbidiva volentieri, i peli del petto e i capelli bagnati, il corpo che grondava di sudore bollente.</div>
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Dopo la prima volta si erano asciugati con fazzoletti di lino, le mani tremanti di desiderio.</div>
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E avevano ricominciato.</div>
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Verso le quattro del mattino, accolto dai fischi e da qualche applauso di scherno degli amici esausti e affamati, Arturo consegnò finalmente il cesto al compare d'anello.</div>
Antonio De Bellishttp://www.blogger.com/profile/08589288385447295429noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3437498411039201584.post-5815685998907781732013-02-03T23:53:00.000+01:002013-02-03T23:54:44.289+01:00In quelle tenebre - Gitta Sereny<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgGxmJ0YPKehmTbaCJ9qYId5ubdKmcNYYxiun84M8ME0eE8afhpJwGjd0mcfhMw75HDSE8MTLDWbdGxFr_GizGjsFVo6QhZ_evNqU6e2nt5W-_OulkphH6ZDITHfb0pc-Jlvec6QozF_YQ/s1600/In+quelle+tenebre+-+Gitta+Sereny.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgGxmJ0YPKehmTbaCJ9qYId5ubdKmcNYYxiun84M8ME0eE8afhpJwGjd0mcfhMw75HDSE8MTLDWbdGxFr_GizGjsFVo6QhZ_evNqU6e2nt5W-_OulkphH6ZDITHfb0pc-Jlvec6QozF_YQ/s200/In+quelle+tenebre+-+Gitta+Sereny.jpg" width="126" /></a></div>
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<b>La serata che il Circolo Lettori della Biblioteca di Castiglione ha dedicato al "Giorno Della Memoria" è stata introdotta </b><b><b>da Fabio Alessandria con un approfondimento del concetto di memoria, che in letteratura non ha un'interpretazione comune. Ad esempio due importanti autori, Proust e Nabokov, presentano una visione diametralmente
opposta: per il primo il ricordo è fonte di dolore per il secondo di
gioia. Ci si è domandati quale efficacia avrà in futuro celebrare una ricorrenza come quella della Shoah quando non ci sarà più chi ha vissuto in prima persona l'Olocausto e si perderà il ricordo diretto. Come si potrà coinvolgere al meglio le nuove generazioni? Probabilmente sarà necessario un linguaggio e una modalità di comunicazione molto diversa da quella usata finora. Fortunatamente il materiale iconografico e letterario non manca. </b></b><br />
<b><b>Il libro che abbiamo condiviso, "In quelle Tenebre",</b> rappresenta un documento di straordinario valore perchè è l'unica intervista ad un comandate di un campo di sterminio. L'autrice, giornalista britannica di origini ungheresi, ha partecipato al processo di Norimeberga</b> <b>ed è riuscita successivamente ad incontrare in carcere per diverse settimane e fino a 19 ore prima della morte, Franz Stagl, il responsabile del campo di Treblinka, condannato al carcere a vita per lo sterminio di novecentomila ebrei. Il libro raccoglie anche le interviste ai pochi sopravvissuti al campo nonchè ad altri funzionari delle SS e getta luce sulla relazione poco chiara tra la Chiesa e il regime nazista. Riporto integralmente la parte relativa ai rapporti con il Vaticano perchè mi sembra ben documentata e approfondita nel cercare le ragioni del "tiepido" atteggiamento di Pio XII nei confronti del nazismo. Curiosa anche le descrizione che un ex gerarca nazista impenitente fa di Hitler e di Eva Braun. Al di là di tutto la domanda iniziale che l'autrice fa (come può una persona "normale" rendersi responsabile dell'omicidio sistematico e a sangue freddo di tanti esseri umani, compresi i bambini che potrebbero essere suoi figli, e le donne, che potrebbero ricordare una madre o una moglie) </b><b><b>resta senza una risposta definitiva</b>. Stangl (così come tanti altri che hanno lavorato nei campi di sterminio o nel famigerato progetto T4 in cui il regime ha iniziato a "formare" i suoi uomini all'eutanasia dei minorati fisici o mentali, anche questo citato nel libro) non era uno psicopatico, anzi ha tutte le caratteristiche del buon padre di famiglia, attento e premuroso con moglie e figli. Quella che viene elevata sempre a motivazione (la necessità di eseguire gli ordini e il timore di ritorsioni del regime sulla carriera e la famiglia o il ricatto psicologico di essersi già macchiati di un crimine la prima volta che si è stati spinti a commetterlo) cade davanti all'evidenza di centinaia di migliaia di persone inermi trucidate e ridotte in cenere e in un passo dell'intervista Stangl si lascia sfuggire qualche parola che rende chiaro il suo profondo disgusto per una razza inferiore. Luca Cremonesi durante la discussione ci ha ricordato che il nazismo è sorto in Germania quando era il paese intellettualmente più avanzato al mondo e fonda le sue radici filosofiche sulla convinzione che il tempo è finito perchè ormai l'uomo ha raggiunto la sua perfezione, la sua massima espressione. Questo fa ancora più paura perchè indica che la conoscenza e la cultura possono essere completamente staccati dalla coscienza del valore della vita umana.</b></div>
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Era di un'importanza essenziale, pensavo, prima che fosse troppo tardi, cercare almeno una volta, con atteggiamento per quanto possibile equanime e spregiudicato, di penetrare la personalità di un uomo che era stato così profondamente coinvolto nel male più totale che la nostra epoca abbia prodotto. Era importante, pensavo, chiarire le circostanze che l'avevano portato a questo, non dal nostro punto di vista, ma, una volta tanto, dal suo. Era un'occasione da non perdere, pensavo, per valutare - esaminando le sue motivazioni e le sue reazioni come lui stesso le descriveva, anziché come noi, nel nostro pregiudizio, desideravamo o pensavamo che fossero - se il male emerga dalle circostanze o per nascita, e fino a che punto sia determinato dall'individuo stesso o dal suo ambiente. Stangl era l'ultimo, e in definitiva l'unico, uomo di questo particolare calibro, col quale si poteva tentare un simile esperimento.</div>
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Uomini come Bouhler, Brack e Blankenburg (ora morti) e alcuni altri, e i 'luminari' della medicina che a suo tempo prestarono il loro nome a quest'attività, in particolare gli psichiatri professor Nitsche, professar Heyde e dottor Mennecke, furono i cosiddetti 'assassini da tavolino'. Nessuno di loro, né degli appartenenti agli uffici del T4, commise mai un assassinio di propria mano. E alcuni di loro - almeno all'inizio di queste spaventose imprese - sembra credessero sinceramente che un 'misericordioso' programma di eutanasia era giustificato: una persuasione condivisa dalle molte persone perfettamente onorevoli che oggigiorno propongono di legalizzare l'eutanasia su richiesta.<br />
Ma una volta creati questi 'istituti ' di eutanasia, nessuno nella Cancelleria del Fuhrer o al T4 poteva continuare a nutrire illusioni; era evidentissimo che tutto quello che succedeva non era certo un 'suicidio facilitato', o l'uccisione misericordiosa di malati gravemente sofferenti, su richiesta loro, o di loro parenti, per ragioni terapeutiche ', ma un assassinio legalizzato, commesso per ragioni economiche- e più tardi politiche ... E anche su questo piano, la sua 'legalità' era soltanto una pseudo-legalità.</div>
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In Mein Kampf, scritto nel 1923, Hitler aveva già concepito l'idea di una nuova Europa basata su teorie razziste, secondo cui quella dell'Europa Orientale avrebbe dovuto diventare una «popolazione di servizio » a beneficio delle «razze superiori » (oltre alla Germania, la Scandinavia, l'Olanda, una parte della Francia, e la Gran Bretagna). Anche se non vi fosse stata nessuna guerra, o se la Germania avesse vinto la guerra dopo la caduta della Francia nel 1940, le condizioni per attuare questo programma sarebbero state create ugualmente. Sarebbe risultato ugualmente necessario uccidere o, nell'ipotesi migliore, sterilizzare, tutti coloro che nell'Europa Occidentale avrebbero potuto con tutta probabilità opporsi: gli intellettuali e l'élite sociale e religiosa. Bambini razzialmente 'puri'sarebbero stati ugualmente spediti in Germania da piccolissimi, e allevati da genitori adottivi tedeschi, o in istituti tedeschi. (In realtà, durante la guerra si ebbe un inizio di questa particolare fase, quando duecentomila bambini polacchi furono portati via a forza ai loro genitori. Un gran numero di essi furono restituiti alla Polonia attraverso l'azione dell'UNRRA nel 1945-46, ma non tutti vennero ritrovati).<br />
La nuova Europa di Hitler era interamente basata su questo concetto dei popoli superiori e inferiori. Sia con annessioni, sia con la guerra, egli era determmato a creare le condizioni per attuare la decimazione dell'Europa Orientale. Così pure, guerra o non guerra, poiché non si offriva nessun'altra soluzione pratica, a suo tempo avrebbe dovuto trovare i modi per sterminare fisicamente gli ebrei; la sola logica conclusione della campagna di diffamazione psicologica sulla quale la maggior parte del suo programma si basava. I campi di ' concentramento ' in origine furono creati come vasti luoghi di detenzione per chiudervi coloro che si opponevano al Nuovo Ordine, e per eliminarli, con una parvenza di legalità, come' traditori' o' spie', se la loro ' rieducazione ' si dimostrava impossibile.<br />
Dal 1941, la maggior parte di questi campi diventarono vasti mercati di lavoro schiavistico, ma anche allora variavano assai per grado di severità, largamente in dipendenza della nazionalità dei prigionieri che ospitavano. E anche nel peggiore di essi, per quanto terribili ne fossero le condizioni, v'era almeno una tenue possibilità di sopravvivenza.<br />
Nei campi di 'sterminio', tale possibilità non esisteva. Erano creati con l'unico scopo di stermmare gli ebrei d'Europa, e gli zingari. Di questi campi destinati esclusivamente allo sterminio ve ne furono quattro; il primo, il campo-pilota di Chelmno (Kulmhof), fu costruito nel dicembre del '41. Poi, dopo la Conferenza del Wannsee del gennaio 1942, che, presieduta da Reinhardt Heydrich, diede la sanzione ufficiale al programma di sterminio, Belsec (marzo.1942), Sobibor (maggio 1942), e il più grande di tutti, Treblinka (giugno 1942). Tutti entro un raggio di duecento miglia da Varsavia.</div>
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Anche i campi di concentramento avevano furgoni a gas, camere a gas, crematori, e fosse comuni. In essi, le vittime venivano anche fucilate, gli venivano praticate iniezioni mortali e, oltre a essere assassinate, a centinaia di migliaia morivano di esaurimento, di fame, e di malattie. Ma - perfino a Birkenau, la sezione di sterminio di Auschwitz (dove si ritiene siano stati uccisi ottocentosessantamila ebrei 4bis) - in tutti c'era una speranza di sopravvivere.<br />
Nei campi di sterminio, gli unici che mantennero questa speranza di giorno in giorno furono i pochissimi che erano tenuti come 'ebrei da lavoro' per il funzionamento del campo. Complessivamente, ottantadue persone - tra di esse nessun bambino - sopravvissero ai quattro campi di sterminio nazisti in Polonia.<br />
Ma non fu soltanto la politica che vi era sottesa che distinse lo sterminio mizista degli ebrei dagli altri casi di genocidio. Anche i metodi impiegati furono unici, e ideati in modo unico. Le uccisioni erano sistematicamente organizzate in modo da ottenere la massima umiliazione e disumanizzazione delle vittime prima di ucciderle. Era una politica calcolata, per uno scopo ben preciso, non era l'effetto di 'semplice ' crudeltà o indifferenza: i viaggi nei carri piombati, incredibilmente stipati, senza impianti sanitari, senza mangiare né bere, e immensamente peggiori di qualsiasi trasporto di bestiame; l'isterismo degli arrivi, le frustate, l'immediata e sempre violenta separazione degli uomini dalle donne e i bambini; la svestizione in pubblico; l'incredibile umiliazione delle ispezioni fisiche interne, in cerca di valori nascosti; il taglio dei capelli e la rasatura delle donne; e infine, la corsa, tutti nudi, nelle camere a gas, sotto le frustate. <br />
« Quale pensava che fosse, a quel tempo, la ragione dello sterminio degli ebrei? » domandai a Stangl. «Volevano i loro soldi» rispose subito. «Ha idea delle somme fantastiche che rese? È con quei soldi che si comprava l'acciaio in Svezia ».</div>
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Era una giornata di freddo intensissimo - nonostante gli stivali foderati di pelliccia, ben presto mi sentii i piedi gelati. Dopo circa mezz'ora di girovagare per il campo ciascuno per conto proprio, Wanda e io ci trovammo faccia a faccia in mezzo agli alberi. «I bambini!» proruppe; esattamente le stesse parole che opprimevano il mio animo: « Oh, mio Dio, i bambini, nudi, in questo freddo terribile!». Restammo in silenzio per un lungo momento, nel punto in cui loro avevano dovuto stare in piedi, in attesa che quelli che li precedevano fossero morti; in attesa del loro turno. Spesso, mi era stato detto, i loro piedi nudi si congelavano nel terreno, in modo che quando le fruste degli ucraini da ambo i lati del sentiero cominciavano a spingerli avanti, le loro madri dovevano strapparli dal suolo... Standocene lì, era insopportabile ricordare queste cose, eppure, Wanda e io sentivamo che questo sforzo deliberato di visualizzare la realtà di un inferno che nessuna di noi poteva veramente condividere, era nostro dovere compierlo - era il minimo che potevamo fare.</div>
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La voce gli si fece roca, il volto assunse un'espressione volgare e diventò di un rosso scuro. « Mi recai a Treblinka in macchina, con un autista delle SS » disse. « Si sentiva il fetore a chilometri di distanza. La strada correva lungo la ferrovia. Quando fummo a una ventina di minuti di macchina da Treblinka, cominciammo a vedere dei cadaveri lungo la linea ferroviaria, prima soltanto due o tre, ma continuarono ad aumentare a mano a mano che ci avvicinavamo alla stazione di Treblinka; ce n'erano a centinaia - sparsi sul terreno - e, evidentemente, erano lì da giorni e giorni, con quel calore. Alla stazione c'era un treno pieno di ebrei, alcuni morti, altri ancora vivi ... Anche questo aveva l'aria di esser lì da giorni».<br />
«Ma tutto questo non era uno spettaco lo nuovo, per lei. Aveva già visto una quantità di questi trasporti a Sobibor, non è vero?».<br />
«Nulla di simile a questo. E a Sobibor - come le ho detto - a meno che uno lavorasse nella foresta, si poteva vivere senza vedere effettivamente quello che succedeva; la maggior parte di noi non vide mai nessun morto né moribondo. Treblinka, quel giorno, fu la cosa più orribile che io abbia visto per tutta la durata del Terzo Reich ». Si nascose la faccia tra le mani.<br />
« Era l'inferno di Dante » disse, di tra le dita. « Era un Dante materializzato. Quando entrai nel campo e scesi dalla macchina sul piazzale mi trovai affondato fino al ginocchio nel denaro; non sapevo dove voltarmi, dove andare. Camminavo su biglietti di banca, sulle pietre preziose, sui gioielli, sugli indumenti. Erano dappertutto, disseminati su tutto il piazzale. Il fetore era indescrivibile. Dappertutto corpi che si andavano decomponendo, putrefacendo, a centinaia, a migliaia. Al di là del piazzale, nei boschi, poche centinaia di metri al di là del filo spinato, lungo tutto il perimetro del campo, v'erano tende, fuochi di bivacco, con gruppi di guardie ucraine e di ragazze - puttane, scoprii in seguito, di tutta la zona -, che si sborniavano, ballavano, cantavano, suonavano ... ».<br />
[...]<br />
« La mattina dopo - 22 agosto - sul presto, il nostro treno è stato dirottato su un altro binario, proprio lungo la piattaforma di carico, ed è stato allora che abbiamo saputo che quella gente era un trasporto di ebrei. Ci chiamavano, e ci hanno detto che stavano viaggiando da due giorni senza cibo né acqua. E poi, quando sono stati caricati su carri bestiame, abbiamo assistito alle scene più spaventose. I cadaveri di quelli che erano stati ammazzati la sera prima venivano gettati dalla polizia ausiliaria ebraica su un camion che ha fatto la spola quattro volte. Le guardie - delle SS ucraine volontarie, alcune delle quali ubriache - ammucchiavano. centottanta persone in ogni vagone. « Le contai » mi disse Herr Pfoch, i genitori in uno, i bambini in un altro. Non si facevano nessuno scrupolo di separare le famiglie. Urlavano, sparavano, picchiavano la gente col fucile, con tanta forza che a volte ne spaccavano il calcio. Quando alla fine tutti quanti furono caricati, si sentivano venire delle grida da tutti i vagoni. "Acqua!" imploravano. "Do' il mio anello d'oro per un po' d'acqua!". Altri ci hanno offerto cinquemila zloty (duemilacinquecento marchi) per una tazza d'acqua. Alcuni che hanno cercato di venire fuori attraverso i buchi di ventilazione sono stati immediatamente uccisi nel momento in cui toccavano terra, un massacro che faceva male al cuore, un bagno di sangue quale non avrei mai sognato. Una madre salta giù col suo bambino, e guarda con calma il fucile puntato contro di lei - un momento dopo sentiamo la guardia che li ha uccisi tutti e due vantarsi coi suoi compagni che era riuscito a "farli fuori" tutt'e due con un solo colpo che ha attraversato la testa di entrambi ».<br />
[...]<br />
<< Quando finalmente il nostro treno lascia la stazione, scrisse Pfoch << almeno cinquanta morti, donne, uomini e bambini, alcuni dei quali completamente nudi, giacciono lungo i binari. Abbiamo visto la polizia ebraica portarli via - ogni sorta di valori scompariva nelle loro tasche. A suo tempo, il nostro treno ha seguito l'altro treno, e abbiamo continuato a vedere cadaveri da entrambi i lati del binario - bambini e altri. Dicono che Treblinka sia un 'campo di spidocchiamento '. Quando arriviamo alla stazione di Treblinka, il treno è di nuovo accanto al nostro- c'è un odore tremendo di corpi in decomposizione, alcuni di noi vomitano. Le implorazioni per un po' d'acqua aumentano, le sparatorie indiscriminate delle guardie continuano ... Qui ne sono stati riuniti trecentomila » continua Pfoch (e dobbiamo ricordare che questo diario fu scritto nell'agosto 1942): << ogni giorno dieci o quindicimila vengono gasati e bruciati.<br />
[...]<br />
« La nostra vita quotidiana? Era in ogni senso regolata,e assai particolare. V'erano alcune cose assolutamente essenziali al fine della sopravvivenza: era essenziale riempirsi completamente della determinazione di sopravvivere; era essenziale creare in se stessi una capacità di dissociarsi in una certa misura da Treblinka; era importante non adattarsi completamente a essa. Un completo adattamento significava accettazione. E nel momento stesso in cui uno accettava, era moralmente e fisicamente perduto. «Naturalmente, furono molti quelli che soccombettero: ho letto praticamente tutto ciò che è stato scritto su questo argomento. Ma in qualche modo, nessuno sembra aver capito: non era la spietatezza, che permetteva all'individuo di sopravvivere, era una qualità indefinibile - non peculiare agli individui colti o raffinati. Chiunque poteva possederla. Una specie di inestinguibile sete di vita - è forse questa la migliore definizione che si possa darne - o magari, una sorta di talento per la vita, e una fede in essa ... ». <br />
[...]<br />
Emerge con grande chiarezza che a Treblinka Berek Rojzman continuò con le stesse tecniche di sopravvivenza che aveva già messo in pratica fuori. « Io commerciavo » disse, con un sorriso. «Più che altro con gli ucraini. Era gente d'affari: volevano oro, vestiti, oggetti, e roba da mangiare. D'altra parte, quando noi eravamo a corto, loro potevano avere roba da mangiare dai contadini, in cambio di oro o di denaro, e ce la portavano. Funzionava, » disse «funzionava benissimo. Erano come tutti: commerciavano ».<br />
[...]<br />
«Sarebbe giusto dire che alla fine sentiva che in realtà quella gente non erano esseri umani? ».<br />
«Una volta, anni dopo, in Brasile, ero in viaggio, » disse, con un'espressione profondamente concentrata, e rivivendo evidentemente quell'esperienza «il mio treno si fermò accanto a un mattatoio. Il bestiame nei recinti, all'udire il rumore del treno, trottò avvicinandosi alla barriera per guardare il treno. Erano vicinissimi al mio finestrino, si spingevano l'un l'altro e mi guardavano attraverso la barriera. In quel punto pensai: " Guarda, mi ricorda la Polonia; era proprio così che appariva, la gente, piena di fiducia, un momento prima che finisse nelle scatole ... " ».<br />
«Nelle "scatole", ha detto?» lo interruppi. « Che cosa intende dire?». Ma lui proseguì senza rispondermi, come se non mi avesse udito. « ... dopo d'allora, non riuscii più a mangiare carne in scatola. Quei grossi occhi ... che mi guardavano ...senza sapere che di lì a poco sarebbero stati tutti morti ». Fece una pausa. Aveva il volto tirato. In quel momento sembrò vecchio, esausto, vero.<br />
« E così, sentiva che non erano esseri umani? » . «Bestiame» disse con voce atona. « Semplicemente del bestiame » alzò una mano e poi la lasciò ricadere in un gesto di disperazione. Le nostre voci erano cadute a un tono basso. Fu una delle poche volte, in quelle settimane di conversazioni, che non fece alcuno sforzo per mascherare la sua disperazione, e questo suo dolore disperato mi suscitò un attimo di simpatia.<br />
« Quando pensa che cominciò a sentirli come bestiame? Da come parlava poco fa, del giorno in cui arrivò a Treblinka, dell'orrore che provò vedendo quei cadaveri dappertutto - allora, non erano ' bestiame ' per lei, non è vero? ». « Credo che cominciò il giorno in cui vidi per la prima volta il Totenlager di Treblinka. Ricordo Wirth lì in piedi, accanto a quelle fosse piene di cadaveri lividi, nerastri. Non aveva più nulla a che fare con l'umanità... era una massa... una massa di carne che imputridiva. Wirth disse: " Che cosa dobbiamo farne di questo letame?". Credo che inconsciamente fu da quel momento che cominciai a considerarli come bestiame ». « V'erano tanti bambini, non le fecero mai pensare alle sue bambine, a come lei si sarebbe sentito se fosse stato al posto dei loro genitori? ». « No, » disse lentamente « non posso dire di aver mai pensato a una cosa simile». Fece una pausa. «Vede, » riprese dopo un poco, sempre parlando con quell'estrema serietà, e con l'evidente scopo di trovare in se stesso una nuova verità « raramente li vedevo come individui. Per me era sempre e soltanto un'enorme massa. A volte stavo in piedi sopra il muro, e li vedevo nel tubo. Ma - come posso spiegarlo - erano nudi, assiepati, e correvano sotto le sferzate ... » non fini' la frase. (« Stangl spesso saliva in piedi sul muro di terra che divideva i due campi» disse Samuel Rajzman a Montreal. «Se ne stava lassù, come Napoleone che guardasse i suoi dominii » ). «E non avrebbe potuto cambiare nulla, di questo? »<br />
domandai. «Nella sua posizione, non avrebbe potuto far smettere la svestizione, le frustate, l'orrore di quei recinti». « No, no, no. Era quello il sistema. <br />
[...]<br />
«Quale pensava che fosse) a quell)epoca) la ragione di quegli sterminii? ».<br />
La sua risposta fu pronta: «Volevano i soldi degli ebrei ».<br />
«Non lo dirà sul serio!».<br />
Rimase sbalordito da questa mia reazione d'incredulità. « Ma naturalmente! Ha idea di quali fantastici capitali si trattava? È con quei soldi che cqmpravano l'acciaio in Svezia». «Ma ... non tutti erano ricchi. Solo a Treblinka furono uccisi almeno novecentomila ebrei ... (e più di tre milioni in totale sul suolo polacco) nei campi di sterminio e di concentramento. Centinaia di migliaia di loro provenivano dai ghetti dell'Est) gente che non aveva nulla ... ».<br />
«Nessuno non aveva nulla» disse. «Tutti avevano qualcosa». « Perfino quelli dell'estremo est della Polonia, i più poveri, portavano qualcosa» disse Richard Glazar.<br />
« Ricordo di aver lavorato sui loro indumenti: portavano giacche imbottite come i coolies cinesi. Era spaventoso maneggiare quella roba piena di pidocchi- addirittura bianca di pidocchi lungo le cuciture. Una volta stavo per infilare una di quelle giacche in un fagotto e qualcuno disse : "Un momento!". La sventrò, e appiccicati l'uno all'altro, dentro l'imbottitura, v'erano dozzine e dozzine di biglietti da cento dollari. Un'altra volta, entra una SS con un cestino pieno di roba da mangiare. "Tirati su le maniche," mi disse " e affonda la mano sino in fondo ". Io feci così. Era pieno - fino al gomito - di dollari d'oro'.<br />
« La questione razziale '' disse Stangl « era soltanto secondaria. Altrimenti, come avrebbero potuto esservi tanti ariani onorari '? Si diceva che il generale Milch fosse ebreo». «Se la questione razziale era così secondaria perché allora tutta quella propaganda di odio?''·<br />
« Per condizionare quelli che dovevano mettere in atto quella politica; per rendergli possibile di fare ciò che facevano ».<br />
« Bene lei prese parte all'attuazione di questa politica: provava quell'odio?». <br />
«Non l'ho mai provato. Non avrei mai permesso a nessuno di ordinarmi chi dovevo odiare. Comunque, le sole persone che avrei mai potuto odiare sarebbero state quelle che volevano distruggermi - come Prohaska<br />
«Che differenza c'era per lei tra l'odio e il disprezzo implicito nel fatto di considerare della gente come 'bestiame'? ».<br />
«Non ha niente a che fare con l'odio. Erano così deboli; si lasciavano fare qualunque cosa. Era gente con la quale non c'era alcun terreno comune, nessuna possibilità di comunicazione - è di qui che sorge il disprezzo, non potevo capire come potessero arrendersi a quel modo. Molto di recente ho letto un libro sui conigli delle nevi, che ogni cinque o sei anni si gettano in mare per morire; mi ha fatto ripensare a Treblinka ».<br />
« Se non provava un irresistibile senso di lealismo verso il Partito o le sue idee a che cosa credeva durante tutto quel tempo in Polonia?».<br />
« Nella sopravvivenza' rispose immediatamente. « In mezzo a tutte quelle morti, alla vita. E ciò che mi sosteneva di più era la mia fondamentale fede nell'esistenza di una giusta retribuzione».<br />
[...]<br />
Il Papa era certo - come lo era stato, fino a un certo punto, il suo predecessore, papa Pio XI (il quale, peraltro, era stato assai più critico nei confronti dei nazisti) - che i tedeschi sotto Hitler rappresentavano il principale baluardo contro il bolscevismo in Europa. E questa convinzione - che non era stata scossa dal patto russo-tedesco, che, con la sua esperienza diplomatica, doveva aver riconosciuto come una manovra tattica - fu determinante per la maggior parte delle sue azioni e inazioni durante gli anni di guerra. La seconda importante componente della condotta del Papa mi sembra sia stata il suo timore che i nazisti intendessero spazzar via il cattolicesimo in Germania. Imponendo misure restrittive alle organizzazioni della Chiesa (sia protestante sia cattolica), e con una costante azione di ricondizionamento delle menti dei giovani, abolendo le scuole e le pubblicazioni cattoliche, i nazisti si muovevano, con cautela, ma si muovevano. Benché, in realtà, pochissimi preti, sia tedeschi che austriaci, e non un solo vescovo cattolico, in tutta l'Europa occidentale, fosse mai stato arrestato o molestato dai nazisti (a differenza di un gran numero di religiosi polacchi imprigionati), le misure prese dai nazisti dal 1934 in poi costituivano una chiara indicazione della direzione in cui si stavano muovendo. La gravità di questa minaccia è vividamente illustrata da uno degli ultimi dei circa cinquecento libri, rapporti, pamphlet, e documenti, che io ho letto nei tre anni impiegati nella preparazione di questo libro. Si tratta del riassunto di una lettera spedita da Martin Bormann al Gauleiter dottor Meyer di Miinster in data 6 giugno 1941; una lettera che può spiegare in larga misura il silenzio di Pio XII di fronte agli orrori nazisti, e può perfino giustificare in parte i suoi più profondi timori. Vi furono due versioni di questa lettera: quella che Bormann scrisse in un primo tempo, evidentemente di sua propria iniziativa, e quella pubblicata successivamente (probabilmente nell'autunno del 1941) e inviata come circolare a tutti i Gauleiter. Le testimonianze ai processi di Norimberga indicarono che queste due versioni, che si distinguono soltanto per piccole differenze stilistiche, furono infine ritirate, con l'ordine di distruggerle. A quanto pare, fu una copia illegale di questa lettera, fatta per la preparazione di un manifestino che doveva essere lanciato dagli aerei, che fu accettata come prova dalla corte (documento di Norimberga).La lettera, intitolata « Rapporti tra il nazionalsocialismo e il cristianesimo», è un'attenta e acuta analisi di tutte le forme del dogma cristiano, e una raccomandazione per la totale abolizione di tutte le religioni positive, basata sulla logica, il patriottismo, e una sorta di panteismo che molti animi dubbiosi potevano trovare affascinante. È - almeno per quanto a me risulche mai sia stato fatto da un gerarca nazista (e infatti, come abbiamo detto, fu considerato prematuro, e ritirato). Per quanto riservata fosse questa lettera, non v'è il minimo dubbio ch'essa giunse in Vaticano. Come pure non può esservi dubbio che il Vaticano già conoscesse, assai prima di avere questa lettera, che le opinioni in essa espresse erano correnti tra i capi nazisti; questa lettera pertanto deve aver pesantemente sottolineato l'enorme pericolo che il cattolicesimo correva in Germania. La seconda ragione dell'atteggiamento del Papa mi sembra dunque la sua grande preoccupazione del reale pericolo che correva una delle più importanti roccaforti del cattolicesimo in Europa. E, fatalmente connessa con questo timore per il cattolicesimo in Germania, v'era anche la sua valutazione dell'opinione pubblica e dello stato d'animo prevalente tra i cattolici tedeschi. In un articolo su « L'Amitié Judéo-Chrétienne » (del dicembre 1949), Jacques Maudaule scriveva che « ... è quasi impossibile che il Papa esprima un'opinione se non vi è costretto da una sorta di grande movimento d'opinione che sorga dalle masse, e che si comunichi al clero dai fedeli». Poiché, egli dice, « ... (essenzialmente) la Chiesa è una democrazia». Questa spiegazione è d'importanza cruciale. Se l'Episcopato tedesco e austriaco erano persuasi che l' opinione cattolica nella Grande Germania era prevalentemente a favore del nazionalsocialismo, allora, secondo questa tesi, le possibilità d'azione del Papa, determinate da questa opinione pubblica, sarebbero state limitate. Potremmo ribattere - certo, ci verrebbe fatto di ribattere - che se era così, tanto più il pontefice sarebbe stato tenuto a influenzare un atteggiamento che portava, in ultima analisi, a un totale abbandono della morale - ma questo argomento sarebbe destinato alla sconfitta. Sarebbe sconfitto perché i tedeschi - cattolici e non cattolici - erano a favore del nazionalsocialismo, non già perché spinti da sentimenti antisemiti, o da qualsiasi altra riprovevole motivazione. Il nazionalsocialismo era essenzialmente l'affermarsi di un nuovo sistema politico ed economico che - come credeva la grande maggioranza dei tedeschi - avrebbe portato un 'nuovo ordine', di integrità morale, di dignità nazionale, e di equilibrio economico. I suoi elementi pseudomistici furono insinuati nelle masse solo gradualmente, e principalmente a beneficio dei giovani. In teoria, il Vaticano non aveva diritto di interferire nella politica interna della Germania, più di quanto l'avrebbe avuto di interferire nell'organizzazione politica della Gran Bretagna, degli Stati Oniti, o della Francia. Se colleghiamo questo «grande movimento d'opinione», che indicava al Papa che i cattolici tedeschi accettavano il nazionalsocialismo, con la sua conoscenza delle misure prese dai nazisti contro la Chiesa, e del fine a cui miravano queste misure, allora il rifiuto del Papa di condannare le atrocità naziste diviene, se non più giustificabile e accettabile, più faCilmente comprensibile. L'atteggiamento del Papa, insomma, fu determinato, prima dal suo timore del bolscevismo, e in secondo luogo dal suo timore dei piani nazisti di abolire a suo tempo la Chiesa. Egli deve aver sentito che considerata la fondamentale accettazione del nazionalsocialismo da parte della grande maggioranza dei tedeschi: e in particolare lo sconfinato entusiasmo dei giovani, qualunque critica egli avesse fatto alla politica e al comportamento dei nazisti gli avrebbe alienato i cattolici tedeschi, e avrebbe enormemente aggravato - e perfino precipitato- il grande pericolo che correva la Chiesa. (Si ricorderà che il Papa attese fino al giugno 1943 per emanare un'enciclica che condannava l'eutanasia; a quell'epoca egli era stato ovviamente assicurato che il «grande movimento d'opinione» tra i cattolici tedeschi era decisamente contro l'eutanasia). Queste furono dunque le principali ragioni dell'atteggiamento del Papa. Ma ve ne furono altre due. Una fu semplicemente ch'egli era giunto ad amare la Germania. Come disse più volte, era in Germania ch'egli aveva passato i suoi anni più felici, ed era con i tedeschi che aveva avuto in gioventù, e continuò ad avere fino alla morte, i più stretti legami sentimentali. Avendo conosciuto tanti - e così eccellenti - tedeschi, dovette trovare quasi impossibile credere alle terribili storie che cominciò a udire dal momento in cui i tedeschi avevano invaso la Polonia. Ma entro meno di un anno, non furono più semplicemente delle' storie'; egli ricevette rapporti dettagliati, lettere e documenti dolorosamente autentici, ed è qui che dobbiamo accettare l'ultima- e la più odiosa- ragione del suo silenzio. Chiunque abbia letto le lettere di Pio XII ai vescovi tedeschi (e nel tedesco originale la fraseologia è anche più significativa) troverà difficile dubitare che il Papa fosse antisemita. Non dico che questo abbia determinato la sua condotta; quali fossero le sue principali motivazioni è abbastanza evidente. Ma questo forse istintivo antisemitismo deve aver contribuito alla sua passività nelle molte occasioni in cui - come egli usava dire alludendo alle atrocità naziste, e com'era senza dubbio vero - si sentiva «profondamente turbato». Dopo aver esaminato una volta di più le ragioni del silenzio di papa Pio XII, e sorvolando per il momento sul suo indiscutibile obbligo morale, non possiamo fare a meno di porci la drammatica domanda: se il Papa, fin dall'inizio, avesse preso una decisa posizione contro l'eutanasia, contro il sistematico indebolimento per mezzo del lavoro forzato, la fame, la sterilizzazione e lo sterminio, delle popolazioni dell'Europa orientale, e infine contro lo sterminio degli ebrei, ciò non avrebbe potuto influire sulla coscienza dei singoli cattolici direttamente o indirettamente coinvolti in queste azioni, al punto da indurre i nazisti a cambiare la loro politica? Ho deliberatamente posto questa domanda in una sequenza cronologica poiché a essa si può rispondere soltanto considerando un fatto dopo l'altro. Abbiamo visto nelle pagine precedenti, sulla base di documenti e di eventi, come Hitler fosse profondamente consapevole dell'importanza dell'opinione cattolica. E abbiamo visto, dalle dichiarazioni di personaggi interessati, come Stangl e sua moglie, fino a che punto la tacita approvazione della Chiesa contribuì alla pacificazione delle loro coscienze. Credo si possa fare un valido parallelo tra la graduale acquiescenza di Stangl (un'acquiescenza individuale) e quella del Vaticano (fondamentalmente un'altra acquiescenza individuale) alle azioni sempre più terribili. L'aver mancato di dire « no » fin dal principio, fu fatale; ogni passo successivo, infatti, non fece che confermare il fondamentale cedimento morale iniziale. È tragicamente vero che quando ormai i campi di sterminio furono pronti per l'assassinio in massa degli ebrei polacchi (non si deve dimenticare che le grandi potenze mondiali avevano dimostrato chiaramente la loro incapacità e contrarietà ad affrontare questa colossale catastrofe) una protesta papale, per quanto imperativa dal punto di vista morale, non avrebbe potuto più avere alcun effetto pratico. Ma è altrettanto indubitabile che una presa di posizione inequivoca, e ampiamente pubblicizzata, assunta alle prime voci di eutanasia, e accompagnata da una minaccia di scomunica per chiunque partecipasse a qualunque volontaria azione di assassinio, avrebbe fatto del Vaticano un fattore formidabile col quale fare i conti, e avrebbe almeno in certa misura - e forse profondamente - influenzato gli eventi successivi: l'assassinio di milioni di civili russi, sia cristiani che ebrei; il martirio dei cattolici polacchi, e infine quello degli ebrei polacchi. La questione dell'atteggiamento del Papa ha purtroppo avuto un peso anche sugli eventi del dopoguerra. Infatti non è possibile evitare di pensare ch'esso abbia influenzato le azioni e le autogiustificazioni dei prelati di Roma che prestarono un importante aiuto alla fuga dei nazisti.<br />
Avevo raccolto con considerevole scetticismo le voci secondo le quali alcuni preti avevano scientemente aiutato a sfuggire alla giustizia secolare degli uomini ch'erano accusati di questi crimini così mostruosi. Una simile condotta era contraria a tutto ciò che avevo visto con i miei occhi nella Francia occupata, dove praticamente tutto il clero, dagli arcivescovi al più umile curato di campagna, e al più giovane novizio di convento, diede prova costante dei più alti princìpi morali e umanitari. E contrastava anche con quanto avevo appreso immediatamente dopo la guerra da molti profughi, compresi ebrei di tutte le nazionalità, che si erano salvati la vita grazie all'aiuto di preti e di monache. È naturalmente vero, e spesso dimenticato e minimizzato che, in ultima analisi, tutto ciò che si fa è fatto da singoli uomini e donne, con singole capacità di decisione. Qualunque sia la fede religiosa a cui appartiene un prete, un pastore, un frate o una monaca, rimane un individuo e - e questo è un fatto essenziale - un cittadino del suo paese d'origine. È vero che molti preti - particolarmente polacchi - morirono in campo di concentramento per le loro convinzioni religiose, e il loro martirio non ha nulla a che fare con la loro nazionalità. Santi uomini come questi vi sono stati in tutte le epoche. Ma durante il periodo di cui stiamo parlando, furono assai più numerosi i religiosi che agirono contro i tedeschi almeno in parte per ragioni di patriottismo personale. Un gran numero degli eroici preti e pastori francesi, belgi, italiani, olandesi, norgevesi, danesi, cèchi, e polacchi, che nascosero aviatori alleati, che aiutarono le organizzazioni clandestine, che fecero funzionare radiotrasmittenti, che aiutarono tedeschi antinazisti a nascondersi in mezzo alle popolazioni locali, agivano innanzitutto per amore del loro paese, piuttosto che per la loro Chiesa. Molti di loro l'hanno ammesso apertamente. In tutta l'Europa, dei bambini ebrei furono nascosti dalle monache nei conventi. Nella Francia occupata, ho conosciuto diverse di queste nobili donne, e più di una volta, quando rilevai il loro coraggio, ricevetti la risposta: «Mais je suis française, à la fìn ». Quei religiosi tedeschi e austriaci che durante la guerra agirono contro le leggi del loro paese, fatto abbastanza straordinario, sono soltanto eccezioni che confermano la regola. Ho parlato anche con alcuni di costoro, e ciascuno di questi ammirevoli uomini e donne mi ha parlato di lotte di coscienza, e di una decisione presa come individui che non potevano accettare quel ' governo, e le ' sue ' leggi, quali rappresentanti dei veri interessi del paese. E così, anche costoro agirono principalmente quali cittadini moralmente offesi, che erano anche preti, monache, e pastori. Se, naturalmente, accettiamo questi lealismi nazionali nell'ambito delle Chiese, come inevitabili e giusti in simili circostanze, allora ne segue che fu non meno giusto per dei preti tedeschi e austriaci aiutare tedeschi e austriaci in generale che dopo la guerra si trovarono in gravi difficoltà. E così, torniamo alla questione centrale, quella che immancabilmente torna a spuntare in tutte queste polemiche a proposito dell'atteggiamento della Chiesa cattolica durante quel periodo: fino a che punto sapevano?<br />
Ci hanno detto che la Chiesa non sapeva niente dell'intenzione dei nazisti di istituire l'eutanasia nel 1939, anche se un teologo morale, che a quell'epoca era professore in una università cattolica (della quale in precedenza era stato rettore) lavorò per sei mesi a un'Opinione che gli era stata commissionata ufficialmente. Ci hanno detto che il Papa non poteva protestare contro lo sterminio degli ebrei nella Polonia occupata dai nazisti, poiché - anche se gli erano giunte voci di questi orrori - non lo sapeva con certezza. E ci hanno detto che, pur ammettendosi che dopo la disfatta tedesca importanti capi nazisti fuggirono all'estero attraverso Roma, la loro identità non era nota a coloro che li aiutavano.<br />
Io ero pronta a farmi convincere di tutte queste affermazioni, ma su tutte quante la prova del contrario è schiacciante.<br />
Per quanto riguarda le fughe, anche se non si presta fede a nessuna o a quasi nessuna delle storie drammatiche che sono state raccontate, e anche se si è disposti ad attribuire la maggior parte degli aiuti dati da Roma a motivi umanitari perfettamente legittimi, rimane tuttavia una quantità di fatti incontrovertibili che provano che, a parte le attività sinceramente caritatevoli del clero romano, vi fu, da parte di alcuni prelati (quasi tutti tedeschi e austriaci), uno sforzo deliberato per aiutare specifici individui che erano particolarmente implicati nei crimini nazisti. Per amore di giustizia, tuttavia, va riconosciuto un altro fatto: di tutta l'Europa coinvolta dalla guerra, Roma - principalmente a causa del Vaticano - fu la città più protetta contro scoperte azioni terroristiche da parte dei tedeschi. Non intendo minimizzare la deportazione degli ebrei romani nel 1943-44, ma a Roma non vi furono mai i continuati e incessanti orrori che vi furono altrove. Al popolo di Roma, compresi i religiosi, furono in certa misura risparmiate le esperienze di coloro che vissero in mezzo al terrore, di modo che si può concedere almeno in qualche misura una certa ignoranza psicologica a coloro che oggi si difendono con una generica - se non specifica - ignoranza. Così pure - e anche questo, nella valutazione dei fatti, a me sembra un elemento d'importanza cruciale - gran parte dell'iniziativa, e la responsabilità finale della fuga e della successiva vita oltremare, ricade sui fuggiaschi stessi. La prova migliore di questo sta nella vita relativamente modesta che hanno condotto nei paesi in cui si rifugiarono coloro di cui oggi sappiamo veramente tutto (non per sentito dire, o per aver letto storie più o meno romanzate). A me pare che la fuga di Stangl - e gli eventi che la precedettero- come li hanno descritti lui stesso, sua moglie e una quantità di altre persone direttamente o indirettamente implicate, forniscono un esempio significativo in base al quale si possono misurare altre storie analoghe, forse meno ben controllate. <br />
[..]<br />
Il dottor Dollmann è uno dei rari tedeschi che non abbia mai negato la sua appartenenza al partito nazista - anzi, si fa un punto d'onore di non mostrarsene affatto pentito. Aveva settantadue anni, quando lo conobbi, nel 1972, nell'elegante residence di Monaco, Das Blaue Haus, dove vive, da civilissimo scapolo, in compagnia del suo bel cane. Il dottor Dollmann sembra molto più giovane della sua età- pur non essendo alto, ha un portamento molto eretto - indossa abiti di taglio squisito, ed è un intenditore d'arte e di antichità. Durante il periodo che passò a Roma come interprete di Hitler, egli fu anche l'interprete di tutti gli altri tedeschi importanti in visita a Roma- Himmler, Heydrich, Goering, diplomatici, e generali delle SS. Assisté a tutte le più importanti conferenze italo-tedesche, a Roma e a Berlino, e fu diverse volte ospite di Hitler al Berghof. Non ha ragione di negare la sua adesione al Partito: evidentemente, egli non fece mai nulla al di fuori del suo prestigioso incarico che - visto ch'egli sembra essere stato il confidente di tutti - fu gratificante non meno che stimolante. Sia nel suo libro The Interpreter sia con me, non ha fatto mistero di quanto fosse contento della propria vita. «Il mio libro non è mai stato pubblicato in tedesco» disse. «Non osano». Leggendolo, non si vede chiaramente il perché non oserebbero, a parte forse il fatto che coloro cui piace pensare che il mondo nazista fosse un po' più intrepido ne resterebbero alquanto delusi. Il quadro che Dollmann dipinge - estremamente bene della vita di Roma durante la guerra, è senza dubbio diverso da quello descritto da altri, e il suo ritratto di Hitler, per dire il meno, è insolito. « Naturalmente,» disse.« la mia vita in quegli anni non fu molto diversa da quella che facevo in tempo di pace. In realtà, non avevo di che lagnarmi. Avevo il mio delizioso appartamento a Roma; avevo innumerevoli e altrettanto deliziosi amici italiani. E tra i tedeschi - be', sceglievo i miei amici, come chiunque farebbe. Ovviamente, si poteva stare veramente soltanto con quelli forniti di senso dell'umorismo. Come lei sa, questo costituisce una limitazione notevole, tra i tedeschi. Pure, qualcuno ce n'era». A quanto pare, anche dopo la disfatta della Germania, la vita del dottor Dollmann è continuata piuttosto piacevolmente. « Quando cominciò a far caldo, » disse « mi nascosi. Rimasi nascosto per un anno in un convento a Milano. Naturalmente, io non avevo fatto niente - ma, d'altra parte, avevo indossato quell'uniforme. Perciò, sulla carta, dopotutto, ero stato nelle SS. E lei sa che cosa voleva dire questo quando arrivarono gli Alleati. Perciò andai a stare dal cardinale di Milano. Fu un anno simpatico. Il cardinale veniva ogni sera a trovarmi nella mia stanza - la mia cella- e diceva: "Ora, beviamo un bicchier di vino insieme", e ci mettevamo a parlare di arte, di musica, e di gente - le cose che contano. « Mi hanno sempre divertito le sciocchezze che la gente va dicendo a proposito di Hitler » disse. « Tutto quel gran parlare dei suoi accessi di collera, del fatto che si metteva a spaccare i vasi, e a mangiare i tappeti. Quando alla fine mi presentai agli americani, dopo essere stato nascosto per tutto quell'anno - una fretta eccessiva di costituirmi non sarebbe stata opportuna - ascoltarono la mia storia, e poi scrissero una dichiarazione e mi chiesero di firmarla. Io cominciai a leggerla, e loro dissero che non era affatto necessario. Ma io dissi che leggevo sempre tutto ciò che dovevo firmare. Alla fine avevano scritto che io avevo detto di aver visto Hitler in preda a quei folli accessi di collera, lanciare i vasi, masticare i tappeti, e altre sciocchezze del genere. E così dissi che non avrei firmato. Dissero ch'erano disposti a pagarmi una somma considerevole in dollari - ma io dissi che non avevo nessun bisogno dei loro dollari, che non avevo mai visto cose di quel genere, e che non avrei firmato. Così dissero che ciò sarebbe andato sicuramente a mio svantaggio - ma lo cancellarono.<br />
«Vede, io non vidi mai Hitler men che cortese. In realtà, in tutte le numerose occasioni sociali in cui gli fui accanto, per consigliarlo, come una sorta di aiutante - tutti i Capi di Stato hanno qualcuno che li consiglia in fatto di etichetta - mai una volta lo vidi fare una mossa falsa. Veramente straordinario,: per un uomo delle sue origini. Parlava con voce molto pacata, timida, e il suo molle accento austriaco aveva un fascino per i tedeschi. [Lord Boothby disse la stessa cosa: «Una voce morbida, esitante, e pensosa». Fu così che descrisse la voce di Hitler]. «Naturalmente, Mussolini era molto diverso. Vede, lui era un vero uomo, un italiano, pieno di vita, di fascino - e anche di cultura. Sì, era un uomo pieno di calore, e di cordialità. Hitler era freddo » disse il dottor Dollmann. « L'atmosfera che creava intorno a sé era gelida. Ma era incredibilmente ricettivo alle informazioni. Domandava e poi ascoltava. Era molto abile nelle chiacchiere salottiere. Una cosa in cui non ci si sarebbe mai aspettati che eccellesse; e che gli piacesse. Quando riceveva la società romana, io dicevo qualche parola tra una presentazione e l'altra, per esempio, questa è la principessa tal dei tali, ha una grande tenuta vicino a Firenze, il marito è nello Stato Maggiore del Duce, questa è la contessa X, cinque figli, s'interessa molto di puericultura, o di giardinaggio, o di zoologia, a seconda dei casi. E lui afferrava subito, e si metteva a conversare in conseguenza. E aveva una memoria fenomenale, mai che dimenticasse una cosa ». <br />
« Che cosa pensa delle voci secondo cui Hitler era omosessuale? » gli domandai. «Be', penso non sia da escludere» disse. «Vede, in tutte le storie del periodo, nessuno ha mai detto come fossero straordinariamente belli tutti i giovanotti della cerchia immediata di Hitler. Non erano dei giovinastri, erano ragazzi assai beneducati e ben imparentati. Avevano l'aria di giovani dèi ». <br />
«Che cosa mi dice di Eva Braun? Ritiene che vi fosse un rapporto normale, fra loro due?». «Non certo un rapporto normale dal punto di vista fisico. Era piuttosto bella, ma terribilmente stupida. Io dovevo fare un programma per lei, quando veniva a Roma con lui; tutto quello che desiderava fare era di vedere negozi, andare in giro a comprare abiti e roba del genere; non sapeva portare niente con eleganza italiana, ma non faceva che comprare. Al Berghof - si, ci sono stato diverse volte -se ne stava lì a contemplare Hitler con uno sguardo adorante; non faceva altro che star lì ad adorarlo. Non sapeva conversare, non aveva un pensiero in testa, era praticamente priva di cervello. Secondo me, era proprio questo che a lui piaceva e cercava in lei; qualcuno al quale non dovesse dir nulla, che fosse semplicemente in adorazione al suo santuario. Credo che questo bisogno sia andato sempre aumentando in lui, a mano a mano che le cose gli andavano sempre peggio. <br />
« Gli ebrei? No, non ho mai udito Hitler pronunciare la parola 'ebreo' in privato, e nemmeno nella conversazione ordinaria. Parlava degli 'Staatsfeinde' [nemici dello Stato], e con questa parola intendeva chiunque fosse contro la Germania, compresi gli Alleati, i russi, eccetera. Ma, come ho detto, mai ch'egli abbia nominato gli ebrei in mia presenza ... Naturalmente,non deve dimenticare che in Italia non v'era in realtà nessun problema ebraico di cui valesse la pena di parlare, e naturalmente erano le questioni italiane che rientravano nella mia competenza come interprete. In Italia v'erano diverse persone di rilievo che erano ebree - industriali, scienziati, scrittori, ai quali naturalmente non successe niente, se ne andarono in tempo, cioè prima del settembre 1943, quando la situazione dell'Italia cambiò da alleata a nazione occupata. Oppure furono nascosti da italiani, spesso in conventi e in monasteri. Perciò per Hitler e Mussolini non vi fu mai nessuna necessità di discutere del problema ebraico. « Non ho mai udito nemmeno Pio XII pronunciare la parola 'ebreo'. Ma d'altronde, lui parlava sempre in termini molto generici: parlava di 'umanità sofferente', di' eccessi', e così via. Al di là di queste espressioni generiche, non specificava mai... Tranne una volta » disse poi. « Ma questo fu molto tardi, nel 1944, in occasione dell'ultima udienza che il generale Wolff ebbe con lui; Pio XII chiese a Wolff di ordinare il rilascio di un giovane, figlio di un suo amico d'infanzia - erano ebrei. E fu fatto immediatamente. Nel corso di quello stesso ultimo colloquio, il Papa chiese che 'tutti gli eccessi' in Italia dovevano cessare immediatamente, e cessarono. Il generale Wolff diramò un ordine secondo cui d'ora innanzi nessuno doveva più essere toccato, e che il cibo e tutto il resto, nelle prigioni e nei campi, dovevano essere migliorati immediatamente. Naturalmente, avrebbe potuto fare una speciale menzione degli ebrei - ma non la fece nemmeno quella volta. « No, non credo proprio che il Papa fosse filonazista. Ma era senza dubbio filotedesco. In senso politico, egli era soprattutto anticomunista, non bisogna dimenticarlo. Fu certamente così fino alla fine '43-inizio '44. Fino ad allora la Germania era apparsa - doveva essergli apparsa - come il principale baluardo contro il comunismo. Io credo che questo fu l'elemento principale che determinò il suo atteggiamento. Sì, v'era, e v'è sempre stato, un latente antisemitismo, in Vaticano. Dopotutto, è l'insegnamento tradizionale cattolico che lo comporta: gli ebrei assassini di Cristo, e così via. Ora quest'atteggiamento è un po' fuori moda. Ma credo perfettamente possibile che abbia influenzato il pensiero e l'azione di Pio XII - magari inconsciamente. Poi, naturalmente, c'era anche la paura: per quanto potente, il Vaticano era in mezzo alla Roma fascista, e in seguito nazista... Comunque, sarebbe stato del tutto impossibile toccare il Papa, prima del settembre 1943; il Duce e gli italiani si sarebbero sempre opposti contro ogni interferenza in Vaticano».<br />
La dichiarazione fatta dal generale Wolff alla stampa a proposito dei piani per arrestare il Papa era stata pubblicata un paio di settimane prima del mio colloquio col dottor Dollmann, e gli domandai che cosa ne pensasse. (A quell'epoca non sapevo che padre Robert Graham aveva fatto una dichiarazione analoga alla stampa). «Se ne parlò, ma non diventò mai un ordine effettivo. Nulla del genere avrebbe potuto esser fatto senza che io ne fossi a conoscenza. Semplicemente non succedeva».<br />
« Fino a che punto sapeva, lei, di ciò che succedeva agli ebrei? ». « C'erano molte voci, nell'ambiente, a proposito dei campi. Ma, ripeto, tutto ciò non riguardava l'Italia, col suo numero relativamente ristretto di ebrei. Noi non sapemmo mai che gli ebrei venivano sterminati in Oriente, non lo sapevamo veramente. Ricordo che dopo la guerra, quando stavo preparando il mio libro, andai a trovare Kesselring. Gli domandai, in tutta onestà, a scopo d'informazione storica: era stato a conoscenza, lui, di questi campi di orrore? E lui disse: "Glielo giuro, non avevo alcun'idea della loro esistenza". Sì, naturalmente, lo so: tutto l'esercito del fronte orientale - soldati, ufficiali, comandi - loro devono averlo saputo; era inevitabile. No, io stesso non riesco a spiegarmi come non si sia risaputo dappertutto. È perfettamente vero, venivano in licenza, ne avranno parlato in giro. Ma il fatto rimane: noi non lo sapevamo. « Ho sempre pensato - come la maggior parte della gente - che il Papa, come tutti gli altri, non avesse nessuna informazione precisa e attendibile sulla precisa natura delle atrocità che venivano commesse contro gli ebrei, né della misura di esse. «Naturalmente se, come lei dice, ora i documenti dimostrano che lui sapeva, se non prima, certo alla fine del 1942, allora tutto il quadro cambia: ci si deve veramente domandare che cosa abbia mai potuto impedirgli di parlare ... ».<br />
[...]<br />
Considerazioni di spazio impediscono la riproduzione di tutti e tre i documenti che mi furono mostrati; ma la prova più incontrovertibile della perfetta conoscenza, da parte del Vaticano, dei metodi e dell'estensione dello sterminio degli ebrei in Polonia almeno dal dicembre 1942, è fornita da uno di essi, la lettera che l'ambasciatore polacco consegnò personalmente al cardinale Tardini il 21 dicembre 1942: « L'ambasciata di Polonia ha l'onore di comunicare alla Segreteria di Stato di Sua Santità le seguenti informazioni provenienti da fonti ufficiali: « I tedeschi stanno liquidando l'intera popolaZione ebraica della Polonia. I primi a esser presi sono i vecchi, gli invalidi, le donne e i bambini; il che prova che queste non sono deportazioni per lavori forzati, e conferma l'informazione che queste popolaZioni deportate sono condotte in installazioni allestite allo scopo, per esservi messe a morte con van mezzi mentre i giovani e gli abili vengono uccisi per fame o per lavori forzati. " Quanto al numero degli ebrei polacchi sterminati dai tedeschi, è valutato a oltre un milione. Nel ghetto di Varsavia soltanto, v'erano alla metà di luglio 1942 circa quattrocentomila ebrei; nel corso di luglio e di agosto, duecentocinquantamila furono portati all'Est; il primo settembre, nel ghetto furono distribuite soltanto centoventimila carte annonarie, e il primo ottobre quarantamila. La ' liquidazione' sta procedendo con lo stesso ritmo nelle altre città della Polonia. «L'ambasciata polacca coglie l'occasione per porgere alla Segreteria di Stato di Sua Santità i sensi della più alta stima.<br />
Vaticano, 19 dicembre 1942 "· (Un'annotazione a mano in polacco, dice: « Consegnata personalmente dall'ambasciatore a monsignor Tardini il 21-11-'42 » ).<br />
[...]<br />
Alla fine delle nostre conversazioni, dissi a Frau Stangl che sentivo il bisogno di rivolgerle una domanda estremamente difficile, e che volevo che lei riflettesse profondamente, prima di darmi una risposta. «È la domanda più importante di tutte quelle che le ho fatto durante queste nostre conversazioni, » le dissi « e per me, la risposta che mi darà determinerà la sua posizione; il grado, scusi se mi esprimo così, della sua colpa personale ». E le suggerii che, prima di rispondermi, mi lasciasse per un poco, si stendesse, e ci pensasse su.<br />
« Vorrei che mi dicesse » dissi « che cosa crede che sarebbe successo se a un certo momento lei si fosse messa di fronte a suo marito imponendogli una scelta assoluta; se gli avesse detto: " Senti, so che è tremendamente<br />
pericoloso, ma, o tu ti tiri fuori da questa cosa terribile, o altrimenti io e le bambine ti lasceremo ". Quello che vorrei sapere » dissi « è: se lei gli avesse posto quest'alternativa, che cosa crede che lui avrebbe scelto?».<br />
Lei se ne andò nella sua stanza e si stese sul letto; sentii cigolare le molle del letto, come lei vi si stese. La piccola casa era in silenzio. Fuori faceva molto caldo, e il soggiorno dove ero seduta in attesa era pieno di sole; rimasi ad aspettare per più di un'ora. Quando lei tornò era pallidissima; aveva pianto, poi si era lavata la faccia, si era pettinata, e, mi parve, si era messa un po' di cipria. Adesso si era ricomposta; aveva preso una decisione - la stessa decisione che suo marito aveva preso sei mesi prima nella prigione di Dusseldorf: aveva deciso di dire la verità. «Ho riflettuto profondamente» disse. «So quello che lei vuole sapere. So che cosa faccio, nel rispondere alla sua domanda. E le rispondo perché me ne ritengo in dovere, ritengo di doverlo a lei, agli altri, e a me stessa, credo che se avessi posto a Paul l'alternativa: o Treblinka o me, lui ... sì... in ultima analisi, lui avrebbe scelto me».<br />
Sentii intensamente che questa era la verità. Io credo che l'amore di Stangl per sua moglie era più grande della sua ambizione, e più grande anche della sua paura. Se lei avesse trovato il coraggio e la forza morale di indurlo a fare una scelta, è vero, magari sarebbero periti tutti, ma, in un senso più fondamentale, lei l'avrebbe salvato.<br />
[...]<br />
Forse, in definitiva, per suo marito era stato più facile dire la verità, poiché credo sapesse che una volta che l'avesse detta sarebbe morto. L'ultimo giorno che passai con Stangl fu la domenica 27 giugno 1971. Per diversi giorni di quella settimana aveva avuto dei disturbi di stomaco, e quel giorno gli avevo portato una minestra speciale in un<br />
thermos - era una minestra austriaca che lui mi aveva detto che sua moglie gli faceva quando non si sentiva bene. Quando tornai alla prigione dopo l'intervallo di mezz'ora per la colazione, lo trovai tutto diverso: sollevato, la faccia rilassata, gli occhi freschi. «Non so dirle come mi sono sentito bene d'un tratto » disse. «Ho mangiato quella meravigliosa minestra, e poi mi sonQ steso un poco. E mi sono riposato così profondamente, come forse mai mi era capitato. Oh, adesso mi sento splendidamente» ripeté. Poiché il tempo che potevo dedicare a queste conversazioni si stava esaurendo, e avevo l'intenzione di tornare ancora soltanto una volta - il martedì successivo per un paio d'ore, per ricapitolare i punti più importanti prima di riprendere l'aereo per Londra- il direttore della prigione mi aveva autorizzata a rimanere più a lungo del solito, quella domenica. Quel pomeriggio passammo quattro ore insieme, ritornando su molte questioni di cui avevamo parlato in precedenza. Lui mi parlò di nuovo, diffusamente, del libro di fiabe di Janusz Korczak; l'argomento di ciò che si doveva insegnare ai bambini, e di ciò che non si sarebbe dovuto insegnargli mai più, lo affascinava. Parlò a lungo, in tono deciso, ma nel tempo stesso pacato e pensoso. Poi cominciò a parlare della stupidità in generale. Scaldandosi all'argomento, e tornando a parlare delle sue esperienze personali, come spesso era avvenuto durante questi colloqui, la sua personalità cambiò bruscamente, e in modo sorprendente; la sua voce si fece più alta e più dura, il suo accento più provinciale, il volto più volgare. («Succedeva» mi disse poi sua moglie. « Che Dio m'aiuti, lo vidi anche qui in Brasile - non sempre, solo negli ultimi due anni; gli succedeva spesso soprattutto quando guidava e si arrabbiava con gli altri guidatori - stupidità, la chiamava, e mi spaventava vedere come la sua faccia cambiava»).<br />
« In Brasile » disse lui, con voce aspra, con accento quasi volgare « alla VW, la stupidità di certa gente, bisognava vederla per crederci. Certe volte mi faceva impazzire». Fece un gesto con le mani.« C'erano degli idioti, tra loro. Minorati mentali. Spesso, mi lasciavo andare. "Mio Dio," gli dicevo "l'eutanasia vi ha risparmiati, eh?", e quando tornavo a casa, dicevo a mia moglie: " Quei minorati se la sono scampata, dall'eutanasia "».<br />
[...]<br />
« Per quello che ho fatto, la mia coscienza è pulita >> disse, le stesse parole, rigidamente pronunciate, che aveva ripetuto innumerevoli volte al suo processo, e nelle scorse settimane, ogni volta che eravamo tornati su questo argomento. Ma questa volta io non dissi nulla. Lui fece una pausa e aspettò, ma la stanza rimase silenziosa. « Io non ho mai fatto del male a nessuno, intenzionalmente >> disse, in un tono diverso, meno incisivo, e di nuovo aspettò molto a lungo. Per la prima volta, in tutti questi giorni, io non gli davo nessun aiuto. Non c'era più tempo. Lui si afferrò al tavolo con entrambe le mani, come per tenersi a esso. « Ma ero lì >> disse poi, in un tono di rassegnazione, curiosamente secco e stanco. C'era voluta quasi mezz'ora per pronunciare quelle poche frasi. « E perciò, sì... >> disse alla fine, molto pacatamente «in realtà, condivido la colpa ... perché la mia colpa ... la mia colpa ... solo adesso, in queste conversazioni ... ora che ho parlato ... ora che per la prima volta ho detto tutto ... » si fermò. Aveva pronunciato le parole «la mia colpa>>: ma più delle parole, fu l'improvviso afflosciarsi del suo corpo, il volto cadente, a denunciare l'importanza di quell'ammissione. Dopo più di un minuto, riprese, come controvoglia, con voce atona. « La mia colpa>> disse « è di essere ancora qui. Questa è la mia colpa>>. «Ancora qui?>>. «Avrei dovuto morire. Questa è la mia colpa>>. «Intende dire che avrebbe dovuto morire, o che avrebbe dovuto avere il coraggio di morire?>>. «Può anche metterla così >> disse in tono vago; sembrava stanco, ora. « Be', lo dice adesso. Ma allora? >>. « Questo è vero >> disse lentamente, forse fraintendendo volontariamente la mia domanda. « Ho avuto altri vent'anni - venti buoni anni. Ma, mi creda, adesso preferirei essere morto allora, anziché questo ... >> guardò attorno, nella piccola stanza della prigione.«Non ho più speranza>> disse poi.<br />
[...]<br />
Stangl morì diciannove ore dopo, appena passato mezzogiorno del giorno dopo, lunedì, per un attacco di cuore. Non aveva visto nessuno, da quando l'avevo lasciato, tranne la guardia che gli aveva portato il carrello con la colazione. Su un pezzo di carta appuntato alla parete aveva buttato giù un nome che voleva ricordarsi, sul tavolo tutto era in perfetto ordine. Dentro il libro di fiabe di Janusz Korczak, il foglio col quale aveva segnato una pagina che voleva mostrarmi non era più bianco come io l'avevo visto, ma coperto di citazioni tratte dal libro, ed enfaticamente sottolineate, ciascuna con accanto il numero della pagina. Il libro della biblioteca della prigione che stava leggendo al momento della morte era Leggi e Onore di Josef Pilsudski. Tutti quanti, me compresa, pensammo che avesse potuto suicidarsi, e pertanto l'autopsia cui fu sottoposto per legge il suo cadavere fu particolarmente accurata. Non si era suicidato. Era malato di cuore, e sarebbe morto presto comunque. Ma io credo sia morto allora perché alla fine, sia pure per un momento, s'era messo di fronte a se stesso e aveva detto la verità; era stato uno sforzo ciclopico, per raggiungere quel momento fuggevole in cui era divenuto l'uomo che avrebbe dovuto essere.<br />
[...]<br />
EPILOGO<br />
Io non credo che tutti gli uomm1 siano uguali, poiché la nostra caratteristica essenziale è proprio di essere individuali e diversi. Ma l'individualità e la differenza non sono dovute soltanto alle qualità che ci capita di avere alla nascita. Dipendono altrettanto dalla misura nella quale abbiamo potuto liberamente svilupparci.<br />
V'è un nucleo essenziale del nostro essere, ancora mal definito e mal compreso, che, godendo di questa libertà, sorge e si sviluppa, quasi come il nascere, e che ci libera e ci separa da influenze intrinseche, e in seguito determina la nostra condotta e il nostro sviluppo morale. Io credo che un mostro morale non sia tale dalla nascita, ma sia prodotto da interferenze nel suo sviluppo. Io non so che cosa sia questo nucleo. Mente, spirito, o forse una forza morale finora innominata. Ma io credo che, nel senso più profondo, la personalità individuale esista soltanto, sia valida soltanto, dal momento in cui essa emerge; quando, a qualunque età (se abbiamo fortuna, nell'infanzia), cominciamo a essere padroni e progressivamente responsabili delle nostre azioni. La moralità sociale dipende dalla capacità dell'individuo di prendere decisioni responsabili, di fare la scelta fondamentale tra il giusto e l'ingiusto; questa capacità deriva da questo misterioso nucleo - che è l'essenza stessa della persona umana. Quest'essenza, tuttavia, non può sorgere né esistere in un vuoto. È profondamente vulnerabile e profondamente dipendente dal clima di vita; dalla libertà nel senso più profondo: non licenza, ma libertà di svilupparsi: nell'ambito della famiglia, nell'ambito della comunità, nell'ambito delle nazioni, e nell'ambito della società umana nel suo complesso. Il fatto che essa esista, pertanto - il fatto stesso che noi esistiamo come individui validi - è prova della nostra interdipendenza e della nostra responsabilità reciproca.</div>
Antonio De Bellishttp://www.blogger.com/profile/08589288385447295429noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-3437498411039201584.post-19266668133844256262013-01-19T23:00:00.000+01:002013-01-19T23:00:08.128+01:00Il Profumo delle Foglie di Limone - Clara Sanchez<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi_t37N8ByWEViiPiGela4fgZvorBagQn0Khnl0684hyphenhyphenxxJ9A7VBCZMFIgQTB8Mx6Qv0G9esnawDY88D745e3yQqfwc6BwI5sMWbNJiERX_BtqZ9B2bqMjSp-LabVWG6XAVmYRGtN5angQ/s1600/Il+profumo+delle+foglie+di+limone.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="170" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi_t37N8ByWEViiPiGela4fgZvorBagQn0Khnl0684hyphenhyphenxxJ9A7VBCZMFIgQTB8Mx6Qv0G9esnawDY88D745e3yQqfwc6BwI5sMWbNJiERX_BtqZ9B2bqMjSp-LabVWG6XAVmYRGtN5angQ/s200/Il+profumo+delle+foglie+di+limone.jpg" width="200" /></a></div>
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<b>Miracoli dell'effetto placebo. Questo in sintesi un libro che ha tutte le premesse per essere molto interessante ma che rimane nell'ambito del leggibile/scorrevole. L'idea della caccia ai criminali nazisti che cercano di nascondersi nell'anonimato di tranquilli pensionati è interessante come anche quella dell'inedita coppia di detective costituita da un ottantenne ex reduce di un campo di concentramento e della giovane incinta che decide di vivere da sola la sua maternità. Ma la storia è poi disseminata di vicende poco credibili e di trame non sviluppate che lasciano interdetti. L'elisir di lunga vita e la vitalità dei nonnetti, l'adesione della protagonista alla setta, l'interesse degli aguzzini per il nascituro, il personaggio dell'Anguilla, ... è tutto lasciato lì, </b><b><b>non spiegato, </b>non approfondito. Anche sull'olocausto si poteva magari andare più a fondo nelle dinamiche che legavano vittime e carnefici a tutto vantaggio dei giovani che si avvicinano al tema leggendo proprio questo libro. Un occasione persa. Interessante comunque le considerazioni sugli anziani e il gioco psicologico che il protagonista attua nei confronti di uno dei suoi avversari per spingerlo alla pazzia: ne riporto di seguito le parti più significative.</b></div>
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<b> Io ho "letto" la versione in audiolibro che consiglio perchè le voci dei due protagonisti sono rese alla perfezione dai due interpreti.</b></div>
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<br /></div>
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Non dovevo più pensare alla strategia da seguire e ai passi da fare, il piano si stava creando da solo. A poco a poco, intorno a me si era andato costruendo un mondo invisibile alle altre persone, un mondo in cui io avevo qualcosa da dire e da fare. Così, non appena ebbi portato a termine la commissione per Sandra e salii in macchina, sapevo già cosa dovevo fare.<br />Dovevo tornare alla barca del Macellaio: in quel momento stava sicuramente facendo la spesa o era uscito a fare due passi. La sua era l’unica abitazione accessibile tra quelle dei membri della Confraternita, probabilmente perché aveva vissuto molti anni senza che gli succedesse niente e non aveva niente di cui diffidare. Passare inosservato, camuffarsi, essere uno dei tanti, non avere apparentemente nulla da nascondere, per lui era più sicuro che circondarsi di muri e di vigilanza. Eppure, improvvisamente, una saponetta in meno, un fiore in meno, un coltello in meno. Chi saliva su una barca per rubare queste<br />cose? Poteva pensare solo a una sua disattenzione. </div>
<div style="text-align: justify;">
Rimasi in calzini per scendere le scale. Tutto era esattamente come l’ultima volta. Quell’organizzazione maniacale gli dava un’impressione di stabilità, gli faceva pensare che nel suo piccolo mondo niente potesse cambiare. Lo capivo perché a me accadeva lo stesso. Se mettevo gli occhiali in una tasca diversa dal solito, mi confondevo. Così rimisi di nuovo la saponetta e il coltello al loro posto e i fiori non li toccai. Poi presi dagli scaffali quanti più quaderni riempiti dal pugno di Heim potevo prendere. Uscii, mi misi le scarpe e aspettai che tornasse, seduto su una panchina di fronte. Entrò con le sue gambe forti e muscolose e lo sguardo basso e scese nel recinto sacro. Avevo freddo ma aspettai di vederlo salire di nuovo in coperta.<br />Fece qualche passo qua e là, poi scese un’altra volta. Nei catamarani ormeggiati ai lati non c’era nessuno a cui chiedere se fossero saliti sulla sua barca. E perché qualcuno sarebbe dovuto salire per fare quella stupidaggine? Sarebbe stato prudente, si sarebbe detto che forse non aveva visto bene, che aveva pensato mancasse qualcosa che in realtà non mancava. Decise di tornare dentro. Quando uscì di nuovo perlustrò il pavimento della coperta come doveva aver ispezionato le scalette e l’interno. E a un certo punto scosse la testa, come a dire a sé stesso che si trattava di una sciocchezza e che non valeva più la pena di pensarci.<br />Il giorno dopo, però, prima del mio appuntamento con Sandra, nell’orario in cui lui di solito usciva per andare in pescheria o per fare un giro sulla terraferma, rimase in barca.<br />Sicuramente voleva vedere se qualcosa si spostava, spariva o saltava fuori mentre lui era lì.<br />Il seme dell’insicurezza era stata gettato, ora bisognava solo aspettare che crescesse. Ero certo che avrebbe iniziato a fare quello che avrei fatto io. A innaffiare la pianta del sospetto ci avrebbe pensato lui. Un giorno sì e uno no passavo di là, non volevo perdere di vista il Macellaio. Mi faceva male vederlo e allo stesso tempo non riuscivo a smettere di guardarlo mentre era impegnato nelle sue faccende quotidiane, per esempio pulire la sua amata coperta, come un tempo aveva svolto altre faccende quotidiane, per esempio uccidere esseri umani, con la stessa cura e organizzazione.<br />Quando Sandra entrava in quel bunker che era Villa Sol non avevamo più modo di comunicare, per cui non sapevo quando avrei potuto tranquillizzarla dicendole che l’inquilino stava bene e che per quanto pazzi potessero essere non si sarebbero giocati tutto per un capriccio di Karin. Per raccontarci le novità dovevamo aspettare di vederci un giorno sì e un giorno no al Faro alle quattro del pomeriggio, a meno che Sandra non riuscisse a lasciarmi un messaggio in albergo o nella nostra «cassetta» del Faro o che io mi facessi vedere quando scendeva in paese per portare Karin in palestra. L’aspetto positivo del nostro essere animali abitudinari è che finiamo per avere orari più o meno fissi. Io stesso, nonostante il tipo di vita che stavo conducendo negli ultimi tempi, nonostante non dovessi rendere conto a nessuno e dovessi approfittare di qualunque opportunità mi si presentasse per proseguire le mie indagini sulla Confraternita, non potevo far altro che prendermi una pausa a metà giornata per riposarmi e andare a dormire presto la sera.<br />[...]</div>
<div style="text-align: justify;">
“Salva, se mi avessi visto salire e scendere placidamente dalla barca di Heim. Salva, se potessi vedere tutto questo”, pensavo davanti allo spettacolo di Heim, il Macellaio, che stava impazzendo. <br />Sapevo cosa provava, perché di tutto il fango della vecchiaia in cui uno finisce per rigirarsi, la perdita della memoria era quello che più mi sconvolgeva. E per quanto diversi fossimo io e Heim, su questo punto potevamo assomigliarci. Prima furono la saponetta, il fiorellino nel vaso e il coltello. Sparirono e poi ricomparvero, il che, per un uomo così metodico, abituato a organizzare al millimetro il mondo che lo circondava, dovette essere piuttosto inquietante. <br />E adesso i quaderni in cui annotava le sue efferatezze a Mauthausen. <br />“Dove posso averli messi?” si stava certamente domandando. “Perché dovrei averli tolti dalle mensole in cui erano nascosti, camuffati fra i libri normali?” Che fosse salito qualcuno in barca? No, non era salito nessuno, e se anche l’avessero fatto avrebbero dovuto sapere fin troppo bene cosa cercare. E in quel caso il fatto che avessero rubato i quaderni non avrebbe mai spiegato la sensazione di aver perso e ritrovato il coltello. <br />Sicuramente doveva aver pensato alla possibilità di cambiare posto ai quaderni. <br />E se avesse finito per farlo e per dimenticarsene?<br />Fu un martedì mattina: il tempo era bello, anche se non abbastanza caldo da potersi mettere i pantaloni corti. <br />Quel giorno mi dedicai a contemplare Heim che portava in coperta praticamente tutto quello che c’era giù. La riempì di libri, asciugamani, lenzuola, pentole, altri quaderni con la sovraccoperta di tela nera che io non avevo trovato. Saliva e scendeva. Alla fine si sedette sulla sdraio pieghevole su cui dormicchiava dopo pranzo per controllare quegli oggetti uno a uno e catalogarli su un altro quaderno con la copertina di tela nera. Di tanto in tanto si prendeva la testa fra le enormi mani e poi andava avanti con l’ispezione. A mano a mano che segnava, scendeva per rimettere l’oggetto in questione al suo posto. Andò avanti così per diversi giorni, mattina e pomeriggio. Io lo osservavo di tanto in tanto, un po’ la mattina e un po’ al pomeriggio, gustandomi un buon caffè espresso nel bar di fronte e pensando a Salva e a cosa avrei dato perché fosse con me in quel momento. Ero stato tentato di raccontarlo a Sandra, ma pensai che fosse meglio per lei non sapere. Fin quando l’ultimo giorno, dopo aver tirato fuori e inventariato le sue cose diverse volte ed essere giunto alla terribile conclusione che il conteggio non quadrava, lo vidi scendere con passo deciso dalla barca e andare verso il garage dove teneva la sua imponente Mercedes nera.<br />Lo aspettai. <br />Il muso della macchina uscì lentamente dal garage. Guardava di fronte a sé senza battere ciglio, il viso sembrava di pietra sotto il berretto. Non era difficile seguirlo. Nonostante la macchina potentissima che aveva a disposizione, i suoi riflessi erano peggiori dei miei ed erano ulteriormente rallentati dall’insicurezza che era affiorata in lui. <br />“Figlio di puttana”, pensai, “mi auguro che arrivi a sentirti un essere inutile, a pensare che la tua vita non valga la pena di essere vissuta e a provare sulla tua pelle quello che hai fatto agli altri.” </div>
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[...] </div>
<div style="text-align: justify;">
La vita è sorprendente. <br />Era l’unica certezza di cui avevo fatto tesoro con il passare degli anni. La vita era crudele e sorprendente, monotona e sorprendente, meravigliosa e sorprendente. Adesso le toccava essere solo sorprendente.<br />Successe quando tornai in camera dopo aver sorvegliato la Stella e i movimenti di Heim in coperta. Tornavo contento perché ogni giorno che passava lo trovavo sempre peggio. Saliva e scendeva in cabina disorientato. Dopo pranzo non faceva più un riposino come prima, e quando se ne andava al mercato per comprare il pesce che tanto gli piaceva tornava indietro almeno due volte a controllare che fosse tutto ben chiuso. Si guardava intorno come se qualcuno lo stesse sorvegliando, il che d’altronde non era molto lontano dalla realtà, e l’ultima volta che aveva portato fuori la sua enorme Mercedes dal parcheggio aveva rigato la fiancata. Forse stava andando da Sebastian a piagnucolare e a chiedergli altre iniezioni. Quello che probabilmente non gli avrebbe detto è che sospettava di essere stato scoperto, perché se avessero scoperto lui avrebbero scoperto anche gli altri e questo avrebbe comportato un problema per tutto il gruppo. Né perdere la memoria né essere scoperto era un bene, e non mi meravigliava che avesse rigato la sua imponente armatura, quella che si metteva quando andava a fare visita agli altri angeli caduti.</div>
<div style="text-align: justify;">
[...]</div>
<div style="text-align: justify;">
Intanto, mentre si avvicinava il giorno in cui quella lettera sarebbe stata spedita, mi dedicai a far impazzire Heim. Sapevo come farlo, me lo avevano insegnato loro.</div>
Antonio De Bellishttp://www.blogger.com/profile/08589288385447295429noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3437498411039201584.post-88699016722379666752013-01-08T23:04:00.000+01:002013-01-08T23:16:13.128+01:00La Tigre Bianca - Aravind Adiga<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjPsQ0fKJK8rrRrMvwwhgWtsTLdHb-XUSC4C82B5pVLYrl18xcoE4sGQmg4A7iQnAkuZOTams0WZrYl5Ig3sSL1a5oD3N9ZLZ4gDyjnhn7W_hVbt7c68nS1TOS0RHLQvOv-sSzN2n7WAcg/s1600/La+Tigre+Bianca.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjPsQ0fKJK8rrRrMvwwhgWtsTLdHb-XUSC4C82B5pVLYrl18xcoE4sGQmg4A7iQnAkuZOTams0WZrYl5Ig3sSL1a5oD3N9ZLZ4gDyjnhn7W_hVbt7c68nS1TOS0RHLQvOv-sSzN2n7WAcg/s200/La+Tigre+Bianca.jpg" width="128" /></a></div>
<b>Il libro di esordio di Aravind Adiga è una sorpresa estremamente piacevole. Scritto con un linguaggio semplice ma fortemente efficace nel descrivere situazioni e stati d'animo, rappresenta per i profani come me, un'introduzione lucida e disincantata dell'India moderna. Il dietro le quinte di una nazione che ha le potenzialità per essere la prima al mondo ma che deve risolvere le tante contraddizioni che scuotono il suo tessuto sociale caratterizzato da un divario abissale tra ricchi e poveri. L'autore indugia in più di un occasione a spiegare in dettaglio i meccanismi della corruzione e della sopraffazione che regolano molte delle attività sia all'interno delle classi agiate che in quelle più infime dei moderni schiavi. Molto interessante la similitudine della "stia per polli" come meccanismo di annullamento naturale delle aspirazioni a progredire e migliorare da parte degli ultimi. La visione è estremamente pessimistica: non si salva nessuno e lo stesso protagonista, che è un assassino, sembra migliore di tutti gli altri.</b><br />
<b><br /></b>
Ho accennato al fatto che il corpo di mia madre era avvolto in una pezza di satin. Adesso le coprirono la faccia con questo tessuto; e ceppi di legno, tanti quanti potevamo pagarne furono impilati sopra il corpo. Poi il sacerdote diede fuoco n mia madre.<br />
- Era una brava ragazza tranquilla quando è arrivata a casa nostra, - disse Kusum mettendomi una mano sulla faccia.<br />
Non sono io che ho cercato la lite.<br />
Mi tolsi dalla faccia la sua mano. Guardai mia madre.<br />
Quando il fuoco cominciò a divorare il satin, un piede pallido schizzò fuori come una cosa viva; le dita, che si stavano sciogliendo per il calore, si arcuavano come se cercassero di porre resistenza a ciò che subivano. Kusum ricacciò il piede nel fuoco, ma continuava a non bruciare. Il cuore mi batteva all'impazzata. Mia madre non avrebbe lasciato che la distruggessero.<br />
Sotto la piattaforma con la pila di legna da ardere, dove il fiume lambiva l'argine, c'era un gigantesco ammasso di fanghiglia nera. Era cosparso di ghirlande di gelsomino, petali di rosa, frammenti di satin, ossa carbonizzate; un cane dal manto pallido si aggirava nel fango fiutando i petali e il satin e le ossa carbonizzate. Io guardai quella melma, guardai il piede contratto di mia madre e capii. Era quel fango che le ripugnava, quell'ammasso di melma nera. Mia madre stava cercando di tenerlo lontano, quel fango nero; le dita dei piedi si contraevano nel tentativo di resistere, ma il fango la stava risucchiando, risucchiando. Era così denso, e aumentava sempre più ogni volta che il fiume lambiva il ghat. Presto anche lei sarebbe divenuta parte di quell'amnmasso nero, e il cane dal manto pallido avrebbe cominciato a leccarla.<br />
Poi capii: è quello il vero dio di Benares, quel fango nero del Gange in cui ogni cosa muore e si decompone e rinasce per morire di nuovo. Sarebbe accaduto lo stesso a me quando fossi morto e mi avessero portato lì. Lì niente poteva liberarsi. Restai senza fiato. E per la prima volta in vita mia, svenni.<br />
Da allora non sono mai tornato a vedere il Gange, lo lascio ai turisti americani!<br />
[...]<br />
Il corpo di un ricco è come un cuscino di cotone di prima qualità, bianco e soffice e immacolato. I nostri corpi sono diversi. La spina dorsale di mio padre era una corda attorcigliata, come quelle che usano le donne nei villaggi per attingere l'acqua al pozzo; le clavicole gli formavano intorno al collo un rilievo pronunciato, che faceva pensare al collare di un cane; tagli e graffi e cicatrici, come piccoli segni di frustate sulla pelle, gli correvano lungo il torace e la schiena, giu oltre le ossa del bacino, fino alle natiche. La storia della vita di un povero è scritta sul suo corpo, con una matita ben temperata.<br />
[...]<br />
Iqbal, che è uno dei quattro maggiori poeti del mondo- gli altri tre essendo Rumi, Mirza Ghalib e un altro che non ricordo, anche lui musulmano- ha scritto una poesia che dice questo a proposito degli schiavi:<br />
«Rimangono schiavi perché non sanno vedere ciò che è bello in questo mondo».<br />
E la cosa più vera che sia mai stata detta. Grande poeta, questo Iqbal, anche se era musulmano.<br />
(A proposito, signor primo ministro: ha notato che tutt'e quattro i piu grandi poeti del mondo sono musulmani? Eppure tutti i musulmani in cui ti imbatti o sono analfabeti o coperti dalla testa ai piedi dai burqa neri o in cerca di edifici da far saltare in aria. E' un mistero, non trova? Se riesce a capirci qualcosa, mi mandi una mail.). Già da bambino sapevo vedere ciò che è bello in questo mondo. Non ero destinato a restare schiavo.<br />
[...]<br />
Origliando io imparavo un sacco di cose sulla vita, sull'India e sull'America - e anche un poco di inglese. (Forse più di quanto abbia lasciato trasparire finora ... !) Molte delle idee migliori le ho prese a prestito dal mio ex datore di lavoro o da suo fratello o da qualcun altro che ho portato in giro. (Lo confesso, signor primo ministro: non sono,un pensatore originale, però sono un ascoltatore originale.). E vero che alla fine io e Mr Ashok abbiamo avuto qualche disaccordo in materia fiscale e le cose fra noi si sono fatte un po' tese, ma quel pasticcio viene molto più tardi nella storia. Al momento filiamo d'amore e d'accordo: ci siamo appena incontrati, lontano da Delhi, nella città di Dhanbad.<br />
Giunsi a Dhanbad dopo la morte di mio padre. Era stato ammalato per qualche tempo, ma a Laxmangarh non ci sono ospedali, anche se ci sono tre diverse prime pietre per un ospedale, posate da tre diversi politici alla vigilia di tre diverse elezioni. Quando quella mattina cominciò a sputare sangue, io e Kishan lo portammo in barca al di là del fiume. Continuavamo a sciacquargli la bocca con l'acqua del fiume, ma l'acqua era cosi inquinata che lui sputava ancora più sangue. Sull'altra sponda del fiume c'era un conducente di risciò che riconobbe mio padre e ci portò tutt'e tre gratis all'ospedale pubblico. Sui gradini del grande edificio sbiadito erano accucciate tre capre nere; la puzza di sterco di capra si diffondeva attraverso la porta aperta. I vetri di gran parte delle finestre erano rotti; da una finestra ci fissava un gatto. Una targa all'ingresso diceva:<br />
OSPEDALE GENERALE PUBBLICO DI LOHIA.<br />
ORGOGLIOSAMENTE INAUGURATO DAL GRANDE SOCIALISTA<br />
SANTA PROVA DEL FATTO CHE MANTIENE LE SUE PROMESSE<br />
Io e Kishan portammo dentro nostro padre, calpestando lo sterco di capra disseminato sul pavimento come una costellazione di stelle nere. Nell'ospedale non c'erano medici. Dopo averci estorto dieci rupie, il ragazzo del pronto soccorso ci disse che forse la sera ne sarebbe arrivato uno. Le porte delle camere erano spalancate; dai letti spuntavano le molle metalliche, e quando entrammo nella camera il gatto cominciò<br />
a soffiare.<br />
- Nelle camere non è sicuro ... il gatto ha leccato il sangue. Due uomini musulmani avevano disteso un giornale sul pavimento e ci stavano seduti sopra. Uno di loro aveva una ferita aperta sulla gamba. Ci invitò a sederci con lui e il suo amico. Io e Kishan adagiammo nostro padre sui fogli di giornale e aspettammo lì.<br />
Arrivarono due bambine e si sedettero alle nostre spalle; entrambe avevano gli occhi gialli.<br />
- Itterizia. Me l'ha attaccata lei.<br />
- No. Sei tu che l'hai attaccata a me. E adesso moriremo tutt'e due!<br />
Un vecchio con una benda su un occhio venne a sedersi dietro le bambine. I due musulmani continuavano ad aggiungere fogli di giornale, e la fila di occhi malati, ferite a nudo e bocche deliranti continuava ad allungarsi.<br />
- Perché non c'è un dottore, zietto?- domandai. - Questo è l'unico ospedale sulle due sponde del fiume.<br />
- Le cose stanno cosi, - disse il più anziano dei due musulmani.<br />
-C'è un incaricato del governo che dovrebbe sorvegliare che negli ospedali di campagna come questo vengano dei dottori. Ora, ogni volta che il posto di incaricato resta vacante, il Grande Socialista fa sapere ai dottoroni che bandisce un concorso pubblico per quel posto. Di questi tempi il prezzo medio per questo tipo di posti è di circa quattrocentomila rupie.<br />
Restai di stucco: - Cosi tanto!<br />
- Perché no? Nel servizio pubblico girano parecchi soldi! Ora, immagina che io sia un dottore. Chiedo in prestito dei soldi e li dò al Grande Socialista, toccandogli pure i piedi. Lui mi dà il lavoro. Io giuro su Dio e sulla Costituzione indiana e poi vado a scaldare una scrivania nella capitale dello stato. - Sollevò i piedi e fece mostra di posarli su un tavolo immaginario. - A quel punto convoco nel mio ufficio tutti i giovani dottori che dovrei sorvegliare. Tiro fuori il grosso libro mastro del governo e comincio: «Dottor Ram Pandey». Puntò un dito verso di me e io assunsi il mio ruolo nella recita: - Sissignore! .<br />
Mi tese la mano col palmo rivolto in su.<br />
-Prego, dottor Ram Pandey, posa gentilmente un terzo del tuo stipendio sul palmo della mia mano. Bravo ragazzo. In cambio, io faccio questo. - Fece una crocetta sull'immaginario libro mastro. - Puoi tenere per te il resto dello stipendio e andare a lavorare in un ospedale privato per il resto della settimana. Dimentica il villaggio. Perché secondo questo libro mastro tu ci sei già andato. Hai curato la mia gamba ferita. Hai guarito l'itterizia delle due bambine.<br />
- Ah, - dissero i pazienti. Anche gli infermieri, che si erano radunati intorno per ascoltare, fecero cenni di apprezzamento col capo. Le storie di disonestà e corruzione sono sempre le migliori, dico bene?<br />
Quando Kishan gli mise del cibo in bocca, papà lo sputò fuori insieme al sangue. Il suo scheletrico corpo nero fu preso dalle convulsioni, e il sangue cominciò a schizzare dappertutto. Le bambine con gli occhi gialli si misero a piagnucolare. Gli altri pazienti si allontanarono.<br />
- Tubercolosi, vero? - chiese il musulmano più anziano scacciando le mosche dalla ferite sulla gamba.<br />
-Non lo sappiamo, signore. E un po' che tossisce, ma non sappiamo cos'ha.<br />
-Oh, è Tbc. Non è il primo conducente di risciò che se la prende. Il lavoro li fiacca. Chissà, magari stasera arriva un dottore. Non arrivò. Quel giorno intorno alle sei, come senza dubbio è accuratamente riportato nel libro mastro del governo, mio padre guarì per sempre dalla tubercolosi. Gli infermieri ci fecero ripulire tutto prima di lasciarci rimuovere il corpo. Entrò una capra e si mise a fiutare l'aria, e quelli del pronto soccorso la carezzarono e le diedero una carota succulenta mentre noi strofinavamo il sangue infetto di nostro padre dal<br />
pavimento.<br />
[...]<br />
È bene che le spieghi due o tre cose sulla casta. Anche gli indiani fanno confusione con questa parola, soprattutto gli indiani colti delle città. Hanno una gran difficoltà a spiegare di cosa si tratta. Ma in realtà è molto semplice.<br />
Partiamo da me.Allora: Halwai, il mio nome, significa «pasticcere». E la mia casta, il mio destino. Nelle Tenebre chi sente il mio nome sa subito tutto di me. Ecco perché io e Kishan ovunque andassimo trovavamo lavoro in chioschi e pasticcerie. Il proprietario pensava: «Ah, sono Halwai, il tè e i dolci ce li hanno nel sangue».<br />
Ma se eravamo Halwai, perché mio padre non faceva i dolci e invece tirava un risciò? Perché sono cresciuto spezzando il carbone e pulendo i tavoli invece di mangiare gulab jamun e pasticcini ogni volta che mi andava? Perché ero magro e scuro e scaltro, e non grasso, color crema e sorridente come dovrebbe essere un ragazzo cresciuto a dolciumi? Vede, all'epoca della sua grandezza, quand'era la piu ricca nazione della terra, questo paese era come uno zoo. Uno zoo pulito, ordinato e ben tenuto. Tutti al loro posto, tutti contenti. Qui i fabbri. Qui i mandriani. Qui i possidenti. L'uomo chiamato Halwai faceva i dolci. L'uomo chiamato mandriano teneva le vacche. Gli intoccabili pulivano i cessi. I possidenti erano gentili con i propri servitori. Le donne si coprivano il capo con un velo e tenevano gli occhi bassi quando parlavano con gli estranei.<br />
Poi, grazie a tutti quei politici a Delhi, il 15 agosto I947 - il giorno in cui gli inglesi se ne andarono - le gabbie vennero aperte e gli animali presero ad aggredirsi e a sbranarsi l'un l'altro, e la legge della giungla soppiantò la legge dello zoo. I più feroci, i più affamati, divorarono tutti gli altri, e misero su pancia. Adesso è quella l'unica cosa che conta, le dimensioni della pancia. Non importa se sei una donna, o un musulmano, o un intoccabile: puoi salire in alto, purché tu abbia la pancia. Il padre di mio padre dev'essere stato un vero Halwai, un pasticcere, ma mi sa che quando mio padre ha ereditato la bottega un membro di qualche altra casta gliel'ha fregata, probabilmente con la complicità della polizia. Mio padre non aveva la pancia per farsi valere. Ecco com'è sprofondato sempre piu nel fango, fino allivello di conducente di risciò. Ecco come mi è stato sottratto il mio destino di ragazzo grasso, color crema e sorridente.<br />
Per riassumere: ai vecchi tempi in India c'erano mille castee mille destini.<br />
Adesso ci sono solo due caste: Uomini con Grandi Pance e Uomini con Piccole Pance.<br />
E due destini soltanto: mangiare o essere mangiati.<br />
[...]<br />
Ora, dico che mi avevano assunto come «autista». Non so come siate organizzati in Cina con i vostri servi, ma in India, o quantomeno nelle Tenebre, i ricchi non hanno autisti, cuochi, barbieri e sarti. Hanno semplicemente servi. Il che significa che ogni volta che non ero al volante dell'auto dovevo spazzare il cortile, preparare il tè, togliere le ragnatele con una lunga scopa o cacciare via una vacca dal giardino.<br />
[...]<br />
Aveva una malattia della pelle: la vitiligine gli aveva tinto le labbra di un rosa vivido, in mezzo a una faccia nera come il carbone. Meglio spendere due parole su questa malattia che affligge così tanti poveri nel nostro paese. Non so in che modo si prende, ma quando la prendi la pelle cambia colore dal marrone al rosa. In nove casi su dieci si tratta di qualche chiazza rosa sul naso o sulle guance, come una stella esplosa sulla faccia, oppure di uno sfogo rosa sull'avambraccio, come se uno si fosse bruciato con l'acqua bollente, ma a volte tutto il corpo cambia colore, e quando vedi uno così pensi: «Un americano!» Ti fermi a guardare esterrefatto, vorresti avvicinarti per toccarlo. Poi capisci che è uno di noi, affetto da quell'orribile malattia. Nel caso di questo autista, dato che la chiazza rosa gli aveva scolorito soltanto le labbra, sembrava un pagliaccio con le labbra dipinte. A guardarlo in faccia mi si rivoltava lo stomaco. Ma era l'unico fra gli autisti che mi trattava con gentilezza, perciò gli restavo vicino.<br />
Eravamo fuori da un centro commerciale - una decina di chauffeur - ad aspettare che i nostri padroni tornassero dallo shopping. Ovviamente l'accesso al centro commerciale ci era vietato, non c'era neanche bisogno di dircelo. Avevamo formato un cerchio su un lato del parcheggio, e ce ne stavamo li a fumare e chiacchierare, e ogni tanto qualcuno sputava uno schizzo rosso di paan dalla bocca. Dato che veniva anche lui dalle Tenebre - naturalmente si era accorto subito delle mie origini - l'autista con le labbra infette mi fece un corso accelerato di sopravvivenza a Delhi, in modo che non mi caricassero su un autobus per rispedirmi<br />
nelle Tenebre.<br />
- La cosa più importante da sapere su Delhi è che le strade sono buone e la gente è cattiva. La polizia è totalmente corrotta. Se ti beccano senza cintura di sicurezza, devi ungerli con cento rupie. Anche i nostri padroni non sono granché. Quando vanno a un party la sera tardi, per noi è un inferno. Dormi in macchina, e le zanzare ti divorano. Se sono le zanzare della malaria va ancora bene, ti limiti a delirare per un paio di settimane, ma se sono quelle del dengue allora sei davvero nella merda, ci lasci la pelle. Alle due del mattino<br />
il padrone ricompare, batte sui finestrini urlando per svegliarti, puzza di birra e scoreggia per tutto il viaggio di ritorno. A gennaio fa un gran freddo. Se sai che il padrone andrà a una festa, portati dietro una coperta, cosi in macchina ti puoi scaldare. Serve anche per le zanzare. Ora, a un certo punto ti annoierai ad aspettare che il padrone torni. Ho conosciuto un autista che a forza di aspettare è impazzito. Perciò hai bisogno di qualcosa da leggere. Tu sai leggere, vero? Bene. Questa è in assoluto la cosa migliore da leggere in macchina. Mi passò una rivista con una copertina molto allettante: c'era una donna in reggiseno e mutandine sdraiata su un letto, sopra la quale incombeva l'ombra di un uomo.<br />
[...]<br />
Non so come siano progettati gli edifici nel suo paese, Eccellenza, ma in India in ogni condominio, ogni casa, ogni albergo ci sono gli alloggi della servitù, a volte sul retro, a volte (come nel caso del Buckingham Towers B Block) sottoterra. Un dedalo di stanze dove tutti i domestici, gli autisti, i cuochi, le cameriere e lo staff condominiale possono riposare, dormire, aspettare. Quando i padroni avevano bisogno di noi, un campanello elettrico si metteva a squillare in tutto il seminterrato, e noi correvamo a un tabellone per verificare il numero dell'appartamento vicino al quale lampeggiava la luce rossa. <br />
[...]<br />
Signore, quando lei arriverà qui, le diranno che noi indiani abbiamo inventato tutto, da Internet alle uova sode alle navi spaziali, prima che gli inglesi ci rubassero l'idea. Sciocchezze. Il massimo che questo paese abbia prodotto in diecimila anni di storia è la Stia per Polli.<br />
Vada nella vecchia Delhi, dietro la Jama Masjid, e guardi come tengono i polli li al mercato. Centinaia di galline biancastre e galli a colori vivaci, ammassati in gabbie di fil di ferro, schiacciati uno sull'altro come vermi in uno stomaco, a beccarsi a vicenda e cagare uno addosso all'altro, ad azzuffarsi per conquistare un minimo di spazio vitale. Dalla gabbia si alza una puzza orrenda: puzza di pennuti terrorizzati. Sulla tavola di legno posata sopra la stia siede un giovane macellaio ghignante, che esibisce la carne e le interiora di un pollo appena macellato, ancora ricoperto di una patina oleosa di sangue scuro. I galli nella stia sentono l'odore del<br />
sangue. Vedono le interiora dei loro fratelli sparse intorno. Sanno di essere i prossimi. Eppure non si ribellano. Non cercano di uscire dalla stia. I n questo paese si fa esattamente la stessa cosa con gli esseri umani. Osservi le strade di Delhi la sera; prima o poi vedrà un uomo su un risciò a pedali che arranca trascinandosi dietro un letto a due piazze, o un tavolo, legato sul carretto. Ogni giorno quell'uomo consegna i mobili a casa della gente. Un letto costa cinquemila rupie, anche seimila. Aggiunga le sedie e un tavolino da salotto e fanno dieci o quindicimila. Un uomo arriva col suo carro a pedali e ti porta il letto, il tavolo e le sedie, un pover'uomo che non guadagna più di cinquecento rupie al mese. Ti scarica tutti quei mobili, e tu gli dài i soldi in contanti, una mazzetta di banconote spessa come un mattone. Lui se la mette in tasca, o nella camicia, o nella canottiera, torna dal suo capo e gli consegna i soldi senza aver toccato una sola rupia! Ha sotto mano il salario di un anno, forse di due, e non prende neanche una rupia.<br />
Ogni giorno, nelle strade di Delhi, qualche chauffeur è al volante di un'auto vuota con una valigetta nera posata sul sedile posteriore. Dentro la valigetta ci sono un milione, due milioni di rupie; piu soldi di quanti lo chauffeur ne vedrà in tutta la vita. Se prendesse quei soldi potrebbe andarsene in America, in Australia, ovunque, e cominciare una nuova vita. Potrebbe dormire negli alberghi a cinque stelle su cui ha sempre fantasticato ma che ha sempre visto solo da fuori. Potrebbe portare la famiglia a Goa, o in Inghilterra. Invece<br />
porta la valigetta nera dove vuole il suo padrone. La ripone dove gli è stato detto e non tocca una rupia. Perché? Perché gli indiani sono il popolo piu onesto del mondo, come la brochure del primo ministro non mancherà di informala?<br />
No. Perché il 99,9 per cento di noi sono imprigionati nella Stia per Polli, proprio come quei poveri galli al mercato. La Stia per Polli non sempre funziona quando si tratta di minuscole somme di denaro. Non metta alla prova il suo chauffeur con una o due rupie, quelle potrebbe rubarle. Ma lasci un milione di dollari davanti a un servo e lui non toccherà un centesimo. Faccia una prova: lasci una valigetta nera con un milione di dollari in un taxi di Mumbai. Il tassista chiamerà la polizia e restituirà i soldi il giorno stesso, glielo garantisco io. (Se poi la polizia li restituirà a lei o meno è un'altra storia, signore!) In questo paese i padroni affidano ai servi anche i diamanti! E vero. Ogni sera il treno in partenza da Surat, il centro mondiale del taglio e della lucidatura dei diamanti, è gremito di servi dei mercanti con valigette piene di diamanti tagliati da consegnare a qualcuno a Mumbai. Perché nessuno di quei servi sparisce con la valigetta piena di diamanti? Nessuno di loro è un Gandhi, sono uomini qualunque, come lei e me. Ma sono chiusi nella Stia per Polli. L'affidabilità dei servi è la base dell'intera economia indiana.<br />
La Grande Stia per Polli Indiana. In Cina avete qualcosa di simile? Ne dubito, Mr Jiabao. Altrimenti non avreste bisogno del Partito Comunista per sparare alla gente e di una polizia segreta che fa irruzione di notte nelle case e arresta le persone. Qui in India non abbiamo bisogno di una dittatura. E nemmeno di una polizia segreta. Perché noi abbiamo la stia. Mai prima nella storia dell'umanità cosi pochi hanno dovuto cosi tanto a cosi tanti, Mr Jiabao. In questo paese una manciata di uomini ha addestrato il restante 99,9 per cento <br />
- uomini altrettanto forti, abili e intelligenti - a vivere in un perenne stato servile; uno stato servile radicato al punto che se dài a un uomo la chiave della sua emancipazione lui te la scaglia addosso con un insulto.<br />
Bisogna vederlo con i propri occhi, per crederci. Ogni giorno milioni di persone si alzano all'alba, affollano autobus luridi per raggiungere le eleganti case dei loro padroni; poi puliscono i pavimenti, lavano i piatti, tagliano l'erba, dànno da mangiare ai bambini, massaggiano i piedi, e il tutto per una miseria. Non invidio i ricchi americani o europei, Mr Jiabao: non hanno servi. Non immaginano neppure cosa significa fare la bella vita. Ora, un uomo pensante come lei, Mr Jiabao, dovrebbe porsi due domande.<br />
Primo: perché la Stia per Polli funziona? Come fa a tenere in trappola in modo tanto efficace milioni di uomini e donne?<br />
Secondo: è possibile fuggire dalla stia? Se ad esempio un giorno un autista prendesse i soldi del suo datore di lavoro e scappasse? Come sarebbe la sua vita? Risponderò per lei a entrambe le domande, signore.<br />
La risposta alla prima domanda è che l'orgoglio e la gloria della nostra nazione, la depositaria di tutto il nostro amore e tutti i nostri sacrifici, l'oggetto di uno spazio senza dubbio considerevole nella brochure che le passerà il primo ministro, e cioè la famiglia indiana, è la ragione per cui siamo intrappolati senza scampo nella stia. La risposta alla seconda domanda è che solo un uomo pronto a vedere la propria famiglia distrutta - perseguitata, massacrata di botte, bruciata viva dai padroni - può fuggire dalla stia. E questa persona non può essere un uomo normale, ma solo un mostro, uno scherzo di natura. Insomma, una Tigre Bianca. Quella che lei sta ascoltando è la storia di un imprenditore sociale, signore.<br />
[...]<br />
La Stia per Polli era di nuovo all'opera. I servi devono impedire agli altri servi di diventare innovatori, sperimentatori, imprenditori. Sì, è questa la triste verità, signor primo ministro. La stia è sorvegliata dall'interno. <br />
[...]<br />
Tornai alla schiera dei cagatori. Uno di loro aveva finito e se n'era andato, un altro aveva preso il suo posto.<br />
Mi accovacciai alloro fianco con un ghigno sul volto. Alcuni distolsero immediatamente lo sguardo: erano ancora esseri umani. Altri mi fissarono con un volto inespressivo, come se per loro il pudore non avesse piu ragione di esistere. Poi notai un tizio magro e nero che mi guardava sogghignando, fiero di quel che stava facendo. Sempre accucciato, mi spostai verso di lui, ostentando un enorme sorriso. Lui fece lo stesso.<br />
Poi scoppiò a ridere, e scoppiai a ridere anch'io, e ben presto tutti i cagatori ridevano.<br />
- Ci faremo carico noi delle spese del matrimonio, - gridai.<br />
- Ci faremo carico noi delle spese del matrimonio! - gridò lui.<br />
- Ci scoperemo anche tua moglie al posto tuo, Balram!<br />
- Ci scoperemo anche tua moglie al posto tuo, Balram!<br />
Continuava a ridere, a ridere a crepapelle, tanto che cadde con la faccia in avanti, mostrando il culo sozzo al sozzo cielo di Delhi.<br />
Mentre tornavo indietro, i centri commerciali stavano aprendo. Mi lavai la faccia nel bagno comune e mi tolsi dalle mani la sporcizia dello slum. Scesi nel parcheggio, trovai una chiave inglese e provai un paio di volte a brandirla nell'aria, poi me la portai in camera. Un bambino mi aspettava vicino alletto. Stringeva fra i denti una lettera, e si stava abbottonando i calzoncini. Si girò quando mi senti, e la lettera gli sfuggi dalla bocca cadendo a terra. A me invece cadde di mano la chiave inglese.<br />
- Mi hanno mandato qui. Ho preso l'autobus e il treno, ho chiesto alla gente e sono arrivato qui. - Batté le palpebre. - Dicono che ti devi occupare di me, che devi far diventare autista anche me.<br />
- Chi diavolo sei ?<br />
- Dharam, - disse. - Sono il quarto figlio di zia Luttu. Mi hai visto l'ultima volta che sei venuto a Laxmangarh. Avevo una camicia rossa. Mi hai baciato qui -. Indicò la sommità della testa.<br />
Raccolse la lettera e me la porse.<br />
«Caro nipote, è passato molto tempo dall'ultima volta che ci sei venuto a trovare, e ancor piu tempo, un totale di undici mesi e due giorni, dall'ultima volta che ci hai mandato dei soldi. La città ha corrotto la tua anima e ti ha reso egoista, borioso e malvagio. Sapevo fin dall'inizio che sarebbe accaduto, perché eri un bambino perfido e insolente. Appena potevi, andavi ad ammirarti davanti allo specchio, e dovevo tirarti le orecchie per farti lavorare. Sei uguale a tua madre. Hai preso la sua natura, e non la natura mite di tuo padre. Finora abbiamo sofferto in silenzio, ma ora basta. Devi riprendere a mandarci i soldi. Se non lo fai, lo diremo al tuo padrone. Abbiamo anche deciso di organizzare il tuo matrimonio, e se tu non vieni, ti mandiamo la ragazza con l'autobus. Ti dico queste cose non per minacciarti, ma per amore. Dopotutto non sono la tua nonna? Come ti ingozzavo di dolci! Inoltre è tuo dovere badare a Dharam e prenderti cura di lui come fosse tuo figlio. Ora bada alla salute e ricorda che ti sto preparando dei buoni piatti di pollo da mandarti per posta, insieme alla lettera che scriverò al tuo padrone.<br />
La tua affezionata nonna, Kusum»<br />
Piegai la lettera, me la infilai in tasca, poi diedi al bambino uno schiaffò cosi forte che barcollò all'indietro, batté contro il fianco del letto e ci cadde sopra tirando giu la zanzariera.<br />
- Alzati, - dissi. - Ti devo picchiare di nuovo. <br />
Raccolsi la chiave inglese e la alzai sopra la sua testa ... poi la gettai sul pavimento. Il bambino era livido, aveva un labbro rotto e sanguinante, eppure non aveva fiatato. Sedetti sotto la zanzariera, sorseggiando una mezza bottiglia di whisky. Lo osservai. Ero sull'orlo del precipizio. Ero pronto ad ammazzare il mio padrone. L'arrivo del bambino mi aveva salvato dall'omicidio (e dall'ergastolo).<br />
[...]<br />
Ora, signor primo ministro, ogni giorno migliaia di stranieri sbarcano dall'aereo nel mio paese in cerca di illuminazione. Poi vanno sull'Himalaya, o a Benares o a Bodh Gaya. Si mettono in pazzesche posizioni yoga, fumano hashish, si sbattono due o tre sadhu e pensano di aver raggiunto l'illuminazione. Ah!<br />
Se siete venuti in India in cerca dell'illuminazione, dimenticate il Gange, dimenticate gli ashram, andate dritti al<br />
National Zoo, nel cuore di New Delhi. Io e Dharam guardammo le cicogne dal becco d'oro appollaiate<br />
sulle palme nel mezzo di un lago artificiale. Scesero in picchiata sull'acqua verde del lago, mostrandoci le<br />
screziature rosa delle ali. Sullo sfondo si vedevano le mura diroccate del Vecchio Forte. Iqbal, il grande poeta, aveva ragione. Quando ti accorgi di cosa c'è di bello in questo mondo, smetti di essere schiavo. Al diavolo i naxaliti e i loro fucili forniti dalla Cina. Se si insegnasse a dipingere a tutti i poveri dell'India, per i ricchi sarebbe la fine.<br />
Mi assicurai che Dharam apprezzasse la maestosa sagoma del forte, l'azzurro del cielo che faceva capolino dalle feritoie, le antiche pietre che scintillavano nella luce del sole. Camminammo per mezz'ora, passando di gabbia in gabbia. Il leone e la leonessa se ne stavano ciascuno per conto proprio, senza parlare, come una vera coppia di città. L'ippopotamo era sdraiato in una gigantesca pozza di fango; Dharam avrebbe voluto fare quel che facevano gli altri - tirare una pietra all'ippopotamo per farlo muovere - ma io gli spiegai che sarebbe stato crudele. Gli ippopotami se ne stanno sdraiati nel fango senza far niente, è la loro natura.<br />
Lasciamo che gli animali vivano da animali, e che gli uomini vivano da uomini. Ecco, in una sola frase, la mia intera filosofia.<br />
[...]<br />
Stati Uniti: ha reso la sodomia perfettamente legale nel suo paese, e adesso gli uomini si sposano uno con l'altro invece che con le donne. L'hanno detto alla radio. Questo sta portando al declino dell'uomo bianco. Inoltre i bianchi,usano troppo il cellulare, e il cellulare spappola il cervello. E un fatto risaputo. I telefonini causano il cancro al cervello e seccano i testicoli. I giapponesi li hanno inventati per attentare al cervello e alle palle degli uomini bianchi. L'ho sentito una sera alla fermata dell'autobus. Fino ad allora ero molto fiero del mio Nokia, lo facevo vedere a tutte le ragazze dei call center dentro cui speravo di ficcare il becco, ma l'ho subito buttato via. Adesso se qualcuno mi vuole chiamare, mi deve chiamare al fisso. Per la mia azienda è un danno, ma il cervello è troppo importante, signore: è l'unica cosa su cui può far conto un uomo pensante.<br />
Vivrò abbastanza a lungo da vedere la fine dell'uomo bianco. Ci sono anche i neri e i rossi, ma non ho idea di come se la passino, la radio non ne parla mai. La mia umile previsione è questa: nel giro di vent'anni al vertice della piramide ci saremo noi uomini gialli e uomini marroni, e domineremo il mondo.<br />
Dio abbia pietà di tutti gli altri.Antonio De Bellishttp://www.blogger.com/profile/08589288385447295429noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3437498411039201584.post-35572250657826487412012-12-21T14:31:00.000+01:002012-12-21T14:31:00.694+01:00L'ultimo inverno - Paul Harding<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhVJ5lfSuy0tAtoBMmC6SfUGPwUxyAPHpnWK6QcuG3myCDrD_3PBBlDp-1TbByz-MqD-AWN2q5KUNXThs3qdYiv-94y5ZL5ETv-BeMe5N9RJDezTSYs3K_bOEaCDXgRc4s6YHKXt9DSYkA/s1600/paul-harding-l-ultimo-inverno.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhVJ5lfSuy0tAtoBMmC6SfUGPwUxyAPHpnWK6QcuG3myCDrD_3PBBlDp-1TbByz-MqD-AWN2q5KUNXThs3qdYiv-94y5ZL5ETv-BeMe5N9RJDezTSYs3K_bOEaCDXgRc4s6YHKXt9DSYkA/s200/paul-harding-l-ultimo-inverno.jpg" width="133" /></a></div>
<b>Uno contro tutti ieri al <a href="http://www.facebook.com/pages/Circolo-Lettori-Castiglione/361561870601770?ref=ts&fref=ts" target="_blank">Circolo Lettori</a> che si è riunito in biblioteca. Fabio Alessandria ha dovuto vedersela con una quindicina di agguerriti lettori a cui il libro non è piaciuto. Le ragioni di Fabio sono condivisibili: alta qualità della scrittura, il tempo scandito dal meccanismo preciso e inflessibile degli orologi più volte descritti all'interno del romanzo, un intreccio narrativo circolare, l'immersione in una natura primordiale, le considerazioni sul valore della memoria (che fanno pendant con lo <a href="http://leggereconpiacere.blogspot.it/2012/11/il-senso-di-una-fine-julian-barnes.html" target="_blank">splendido libro</a> di Julian Barnes esaminato nell'incontro precedente). Ma non hanno fatto breccia nell'auditorio. Dico la mia. Capisco le ragioni di Fabio e sono d'accordo sulla capacità dell'autore che in alcuni passaggi è altamente efficace nel descrivere ambientazioni e sensazioni che sembra di vivere in prima persona a livello sensoriale, quasi percependo gli odori, il freddo, il vento, la pressione al tatto. Ma il libro mi sembra un esercizio di stile in cui la somma di tante belle parti creano un insieme poco chiaro, poco avvincente e tutto sommato un po' noioso. Più di una volta mi sono trovato a leggere senza ricordami una o due pagine precedenti, in cui senza accorgermene la mia mente aveva vagato in altri pensieri. Per chi cerca un libro che tiene incollato il lettore, è meglio passare oltre.</b><br />
<br />
Ci basti sottolineare come abbia saputo elevarsi oltre gli sprechi del passato, dotandosi di sandali robusti, di una mano ferma, di un cuore aperto alla natura e di una mente devota al progresso dell'umanità, e guardarlo con ammirazione mentre fruga, armeggia, lavora con insistenza su una serie di macchine fino a perfezionarne una in grado di misurare il tempo attraverso un flusso costante d'acqua nelle sue viscere. Diamogli un nome, già che ci siamo: Ctesibio di Alessandria, e conferiamogli il merito di aver costruito uno strumento che resta l'antenato di quello donato dall'Arabo a Carlo il Grande per misurare istante dopo istante i sette anni che gli restavano da vivere. Per prima cosa, un flusso costante d'acqua gocciava da un serbatoio in una vaschetta, nella quale era collocato un galleggiante, fissato con un bastoncino verticale. Appollaiata in cima al bastoncino c'era una figura (che possiamo immaginare con un turbante, una lunga veste, una fitta barba nera e occhi feroci, anch'essi neri). La figura reggeva un puntatore (anche in questo caso, possiamo immaginarlo a forma di asta o di lancia, puntata dal guerriero contro un nemico invisibile). Man mano che l'acqua riempiva la vaschetta, la figura si sollevava e il puntatore si innalzava sul lato di una colonnina, calibrata con ventiquattro tacche, una per ogni ora del giorno. Quando la figura indicava la ventiquattresima tacca, il livello dell' acqua raggiungeva un sifone che svuotava la vaschetta, facendo ricadere la figura al livello della prima tacca, vale a dire mezzanotte.<br />
L'orologio offerto in dono a Carlo Magno non era dotato di una figura unica, ma di un quadrante con ventiquattro porticine. Al cambio dell'ora, la porticina corrispondente si apriva lasciando uscire un numero appropriato di palline color oro, che cadevano una dopo l'altra su un tamburo d'ottone rivestito da un piccolo strato di pelle caprina. Quando arrivava la mezzanotte e le dodici palline avevano battuto l'ora, dodici cavalieri in miniatura uscivano al galoppo per chiudere le dodici porte.<br />
[...]<br />
Kathleen disse: Dammi il cucchiaio, George. Poi glielo strappò di mano e si gettò sopra suo marito, bloccandogli il torace. Howard grugnì e Kathleen gli ficcò il cucchiaio in bocca di traverso, come fosse il morso di un cavallo, per evitare che si mordesse la lingua. Howard morse il cucchiaio, George vide le labbra di suo padre che si arricciavano staccandosi dai denti e pensò: Sembra uno spettro, non un uomo; e non Papà. George, vieni qui e tieni fermo il cucchiaio. Così. George era terrorizzato all'idea di sedersi sul petto di<br />
suo padre. Usa tutte e due le mani. E spingi forte. Non fargli sbattere la testa. George sentì il corpo di suo padre che tremava sotto di lui ed ebbe la certezza che si sarebbe rotto in mille pezzi, che suo padre avrebbe finito per aprirsi in due.<br />
Mamma. Vado a prendere un bastoncino. Kathleen corse fuori dalla stanza e George la sentì sbattere contro il tavolo della cucina, rovesciando sul pavimento pile di pentole e padelle. Kathleen gemette e tornò con un bastoncino recuperato dal fascio di legna che George aveva raccolto quella mattina stessa. Proprio mentre stava per raggiungere George e Howard, il manico del cucchiaio si spezzò tra i denti di Howard e George cadde in avanti, dritto sulla faccia di suo padre. George tentò di riguadagnare l'equilibrio, ma le mani gli scivolarono su una pozza di sangue nero e oleoso che si stava formando sul pavimento, sotto la testa di suo padre. Si tirò su facendo leva sulle mani e vide che suo padre aveva aperto la bocca e stava per inghiottire una metà del inanico.<br />
George infilò le dita nella bocca di Howard per recuperare il cucchiaio, e Howard gliele morse. George<br />
emise un rantolo. Vide le dita incastrate tra i denti insanguinati di suo padre.<br />
Kathleen gli parlò a voce bassa, senza inflessioni. Va tutto bene, Georgie, va tutto bene. Puoi tenermi il bastoncino?<br />
Dai, che ce la fai. Poi tentò di disserrare la bocca di Howard. Lascia che lo prenda per il mento,<br />
Georgie. Afferrò la bocca di suo marito come fosse una trappola per orsi.<br />
Finirà per rompergliela, pensò George.<br />
Infila il bastoncino, Georgie, da uno dei lati. Forza. Insisti. La testa di Howard continuava a sbattere<br />
sul pavimento, senza sosta. George riuscì a incunearsi con il bastoncino tra i denti del padre, su un lato della<br />
bocca. Kathleen impugnò immediatamente il bastoncino e lo infilò più a fondo, con ferocia. Senza guardare,<br />
afferrò il cuscino di una sedia dal pavimento e lo fece scivolare sotto la testa del marito, mentre era sollevata<br />
e prima che sbattesse di nuovo a terra. Howard scalciò contro le gambe del tavolo. Darla si affacciò alla<br />
porta e lanciò uno strillo. Margie ansimò, tentando di riprendere fiato. Joe squittì.<br />
Papà si è rotto!<br />
Resisti ancora un po', Georgie. Ci siamo quasi, tesoro. C'era così tanto rumore, con gli stivali di mio padre<br />
che scalciavano il pavimento e le gambe del tavolo, facendo tintinnare e cadere piatti e stoviglie, che rimbalzavano a terra o finivano in pezzi. C'erano vetri, cibo, forchette e coltelli sparsi dappertutto, e Buddy uggiolava e abbaiava, e Joe e Darla strillavano, ma mio padre era in mezzo a quel caos, stranamente silenzioso, come se fosse concentrato o distratto, mentre i fili, le molle, le costole e le budella scoppiettavano, esplodevano, si snodavano e uscivano dai cardini. Quando mi staccò quasi le dita, sorrideva, o sembrava che sorridesse, ed era perfettamente tranquillo.<br />
Mia madre lo afferrò per il mento e io gli infilai a forza ilbastoncino tra i denti sporchi di sangue, senza più pensare di avere davanti una persona che avrei potuto ferire, e questo mi fece stare ancor più male. Il sangue colava dappertutto, e sembrava che le mie dita si fossero staccate e pendessero dalla mano, anche se sentivo ancora il sangue che pulsava dentro. E c'era sangue sulla faccia di mio padre e nella sua bocca, ed era il mio, e sangue tra i suoi capelli e sul pavimento, che invece era suo e colava dalla ferita che si era procurato sbattendo la testa contro la sedia, mentre cadeva. E per qualche motivo incomprensibile, notai che Russell il gatto muoveva il capo, con le orecchie tese, gli occhi spalancati, le pupille contratte e il piccolo triangolo del naso che vibrava mentre fiutava il sangue e fissava la pozza sul pavimento. Invece di spaventarmi, pensai: Ecco come stanno le cose; adesso lo so. Mio padre non è un lupo mannaro, un orso o un mostro; quindi<br />
posso fuggire via.<br />
[...] <br />
Ed ecco Kathleen, stesa nel suo letto che è posto tra i rami nudi di un albero scuro come una visione infernale - il tronco annerito, la resina ridotta in cenere, avvolto nella notte. È inverno, i venti invernali scuotono i rami, e il letto si muove insieme a loro. È inverno, e l'albero è stato spogliato del suo manto brillante di foglie. È inverno, perché Kathleen è lì distesa, sveglia, il cuore a nudo, tentando disperatamente di ricordare una stagione meno desolata. E pensa: Un tempo dovrò pur essere stata giovane.<br />
È stesa su un lato del letto. L'altra metà è occupata dalla sagoma scura di suo marito, che è voltato di spalle<br />
e dorme profondamente, come se si trovasse in un mondo a parte. Dalla coltre di coperte spunta soltanto<br />
il viso di Kathleen, che brilla come un uovo quasi bianco. Sotto il viso, rimboccato all'altezza del mento, c'è<br />
il lenzuolo bianco, lavato, stirato e inamidato, ripiegato sopra la coperta per una lunghezza di dieci centimetri<br />
esatti, come le ha insegnato sua madre quando lei era ancora una bambina. I capelli sono fissati con una<br />
molla sopra la testa e coperti da un berretto da notte che sua madre ha cucito per lei molti anni fa. Anche se ha i capelli lunghi fino alla vita, li lascia sciolti solo quando deve lavarli - due volte al mese l'estate, una volta al mese l'inverno. Sono biondo rame, ma si sono sfibrati e cominciano a diradarsi sul cranio. Si scopre furibonda all'idea che la ferita sulla testa di suo marito possa sanguinare, inzuppare le garze e macchiare la federa del cuscino. Dalla stanza sul lato opposto del corridoio sente George che si lamenta nel sonno. Le ossa delle dita sembrano integre, ma probabilmente gli serviranno un paio di punti, perché le ferite provocate dai denti di Howard si rimarginino. Non è riuscita a sentire il dottor Box al telefono, visto che è Natale, perciò ha deciso che domattina per prima cosa porterà George al suo ambulatorio.<br />
I suoi modi bruschi e la sua totale assenza di umorismo mascherano un'amarezza ben più profonda di quanto i figli e il marito possano immaginare. Non si è mai ripresa dallo shock di diventare moglie, e poi madre. Ogni mattina, quando va a svegliare i suoi bambini e li trova sereni, addormentati nei loro letti, è costernata<br />
all'idea di provare soprattutto risentimento, e sentirsi perduta. Quei sentimenti la terrorizzano al punto che li ha sepolti sotto uno strato di severità domestica. Nei dodici anni trascorsi da quando si è sposata ed è diventata madre per la prima volta, è quasi riuscita a convincersi che l'ordine marziale con cui gestisce casa e<br />
famiglia è il suo modo di manifestare quell'amore che è così spaventata di non provare. Quando uno dei figli si sveglia in una gelida mattina di gennaio con la febbre e la tosse che gli squassa i bronchi, invece di baciarlo sulla fronte, rimboccargli le coperte, mettere a bollire l' acqua e preparargli una tisana al miele e limone, reagisce affermando che non è nel destino degli uomini trovarsi a proprio agio nel mondo e che, se dovesse prendersi un giorno di riposo ogni volta che ha il raffreddore o il torcicollo, la casa andrebbe in pezzi tutto intorno a loro e si ritroverebbero come uccellini senza nido; perciò ordina: Alzati e vestiti, và ad aiutare tuo fratello con la legna, tua sorella con l'acqua. Poi tira via le coperte dal figlio tremolante, gli getta addosso i vestiti gelati e ripete: Vestiti, se non vuoi che te le suoni. Si è convinta, almeno alla luce del sole, che questo è amore, ed è il sistema migliore di tirar su i figli in modo che diventino forti come rocce. Non troverebbe più pace se si concedesse il lusso di credere che li tratta in questo modo perché ha per loro lo stesso affetto che potrebbe provare per una collezione di pietre dure.<br />
Mentre si addormenta e già sogna di volare e di portare il suo letto tra i rami di un albero, decide che è arrivato il momento di fare qualcosa per la malattia di suo marito. Ne parlerà al dottor Box, ma solo dopo che avrà dato un'occhiata alla mano di George.<br />
La mattina dopo, si alzò e si vestì che era ancora prestissimo. Le finestre erano tutte appannate e coperte<br />
da uno strato di brina, e del sole non si vedeva traccia.<br />
Howard si stirò e chiese: Che succede? Kathleen disse: Porto George dal dottore.<br />
Per cosa? Che gli è successo? disse Howard.<br />
Kathleen rispose: Per il morso, Howard; il morso che gli hai dato.<br />
Howard gracchiò: Il morso? Quale morso?<br />
La casa del dottor Box, e le due stanze a piano terra che fungevano da studio, distava poco meno di quattro<br />
chilometri. L'alba sorprese Kathleen e George mentre camminavano su un lato della strada, la madre davanti e il bambino che le si trascinava dietro, ancora mezzo addormentato e conscio soltanto del freddo e del dolore alh mano. All'inizio, fu come se la notte prendesse un color cenere; poi una luce rossa si alzò dietro l' orizzonte, illuminando la faccia inferiore delle nuvole che correvano nel cielo, provenienti da ovest. Kathleen era preoccupata di perdere la determinazione che le sarebbe servita per parlare al dottor Box di suo marito, ma quando lei e George furono ormai a poche centinaia di metri dall'ambulatorio, la sentì crescere di nuovo.<br />
[...]<br />
In un orologio, lo scappamento consiste in un anello montato su un pignone e chiamato àncora, e in una ruota di scappamento, collocata in fondo alla catena di trasmissione e al treno del tempo. II treno del tempo è l'insieme degli ingranaggi che misurano e tengono il tempo. Se l' orologio è dotato di una suoneria, al treno del tempo si aggiungerà il treno della suoneria, che attiva e regola la suoneria dell'orologio, la quale consiste in un piolino, un batacchio e una spirale d'acciaio che, quando viene colpita dal batacchio, produce un suono di campana. Ognuno dei treni è alimentato da una molla. La molla, o molla motrice, è una sottile lamina d'acciaio a spirale. Il lato interno della spirale è legato all'albero di carica, che viene fatto ruotare da una<br />
chiave per caricare la molla, e con essa l'orologio. Durante il caricamento, la molla viene bloccata da un cricchetto e da un dente d'arresto. Negli orologi di più recente fabbricazione, la molla viene alloggiata in un asse di rame, detto anche bariletto. Completato il caricamento, la molla comincia a svolgersi, e l'energia liberata viene trasmessa a una serie di ruote e ingranaggi, che fanno muovere le lancette delle ore e dei minuti sul quadrante dell'orologio. In fondo a questo treno si trova la ruota di scappamento. È qui che l'energia rilasciata dalla molla motrice abbandona l' orologio. Ed è qui che viene mantenuta la regolarità del battito; siamo quindi tornati all'àncora, e alla ruota. L'energia passa attraverso la ruota di scappamento che, trovandosi alla fine del treno del tempo, è la più bella, la più elegante e la più sensibile delle ruote. È infatti la ruota di scappamento che riceve l'energia, incanalata attraverso una serie di ingranaggi, domata e privata della sua carica selvaggia, e la costringe a eseguire il più prezioso dei compiti: scandire, con l'aiuto dell'àncora, ognuno degli 86.400 secondi in cui consistono le nostre giornate, e ripetere l'operazione per otto giorni consecutivi e per un totale di 691.200 secondi, o 192 ore. Il frutto di questa cooperazione, e ciascuno di queste centinaia di migliaia di secondi, si traduce nel rassicurante e tranquillizzante tic-toc del nostro orologio a mensola, che sovrasta il camino acceso nelle notti d'inverno.Antonio De Bellishttp://www.blogger.com/profile/08589288385447295429noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3437498411039201584.post-30052647510192011052012-11-28T19:00:00.003+01:002014-07-25T05:08:22.238+02:00Il senso di una fine - Julian Barnes<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiAuJmaQz1bGd0Pc7I_MKSJlV369VUPlsmZ_x0j-5VUEJz2gtrzYwcu-VXpNnuNmIZgKXmuo5JIop9RzDnN4MnvusMsVexqNga4Dh5emd0GkplmdsdvVwIu49eJPbYKFUCdGjAC4-LsmCE/s1600/Il+senso+di+una+fine+-+barnes.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiAuJmaQz1bGd0Pc7I_MKSJlV369VUPlsmZ_x0j-5VUEJz2gtrzYwcu-VXpNnuNmIZgKXmuo5JIop9RzDnN4MnvusMsVexqNga4Dh5emd0GkplmdsdvVwIu49eJPbYKFUCdGjAC4-LsmCE/s200/Il+senso+di+una+fine+-+barnes.jpg" height="200" width="125" /></a></div>
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<b>Non capita spesso di trovare un libro che una volta finito lo si rilegge dall'inizio per dare un valore compiuto e meglio definito all'intera vicenda. <a href="http://www.amazon.it/gp/product/B0085IMXCM/ref=as_li_tf_tl?ie=UTF8&camp=3370&creative=23322&creativeASIN=B0085IMXCM&linkCode=as2&tag=clubdellinnov-21">Il senso di una fine</a><img alt="" border="0" src="http://ir-it.amazon-adsystem.com/e/ir?t=clubdellinnov-21&l=as2&o=29&a=B0085IMXCM" height="1" style="border: none !important; margin: 0px !important;" width="1" />
di Barnes è uno di questi rari casi. Costruito come un thriller, con un paio di colpi di scena importanti, lo si ripercorre a ritroso per capire se si è perso qualcosa per strada, si è sorvolato su un indizio, un dettaglio che sembrava irrilevante e invece non lo era. </b></div>
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<b>La storia è narrata dal protagonista sessantenne, ormai in pensione, che ha vissuto una vita partita con grandi attese ma che si è poi rivelata mediocre, per sua stessa ammissione. Si è sempre lasciato trascinare dalle vicende invece di indirizzare il corso degli eventi, e in tanti momenti non ha capito le ragioni che c'erano dietro atteggiamenti e situazioni. E' ora costretto a ricomporre pezzi della sua adolescenza, dei momenti vissuti a scuola, con gli amici, con il primo amore per dare significato ad una lettera e ad una inaspettata eredità. Il libro scorre benissimo merito di una scrittura di altissimo livello. Si presta a due letture: una più diretta, che segue il corso degli eventi, l'altra più profonda, se ci si sofferma sulle digressioni che affrontano vari temi (il tempo, l'amicizia, il suicidio, la memoria, la giovinezza, la vecchiaia, la storia). Di notevole valore anche il messaggio che trasuda da tutto il libro: il passato di ognuno di noi non esiste nella sua versione unica e definita perchè sottoposto ad un costante processo di revisione da parte della memoria. </b></div>
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<b>L'unica cosa che mi ha lasciato perplesso è l'imprevedibile finale che è così sconcertante da sembrare un po' forzato.</b></div>
<br />
Viviamo nel tempo; il tempo ci forgia e ci contiene, eppure non ho mai avuto la sensazione di capirlo fino in fondo. Non mi riferisco alle varie teorie su curvature e accelerazioni né all’eventuale esistenza di dimensioni parallele in un altrove qualsiasi. No, sto parlando del tempo comune, quotidiano, quello che orologi e cronometri ci assicurano scorra regolarmente: tic tac, tic toc. Esiste al mondo una cosa piú ragionevole di una lancetta dei secondi? Ma a insegnarci la malleabilità del tempo basta un piccolissimo dolore, il minimo piacere. Certe emozioni lo accelerano, altre lo rallentano; ogni tanto sembra sparire fino a che in effetti sparisce sul serio e non si presenta mai piú. Non sono particolarmente interessato ai miei anni di scuola, non ne ho affatto nostalgia. Ma è a scuola che tutto è cominciato, perciò mi toccherà tornare brevemente su certi eventi marginali ormai assurti al rango di aneddoti, su alcuni ricordi approssimati che il tempo ha deformato in certezze. Se da un lato a questo punto non posso garantire sulla verità dei fatti, dall’altra posso attenermi alla verità delle impressioni che i fatti hanno prodotto. È il meglio che posso offrire.<br />
[...]<br />
In quei giorni immaginavamo noi stessi come prigionieri dentro un recinto, in attesa di essere liberati nel pascolo delle nostre esistenze. Quando fosse giunto il momento, la vita, e il tempo stesso, avrebbero subíto un’accelerazione. Come avremmo potuto sapere che in effetti le nostre vite erano già cominciate, che alcuni vantaggi ce li eravamo accaparrati e che qualche danno era già stato inflitto? E che, per di piú, ci avrebbero solo liberati dentro un recinto piú grande i cui limiti avremmo in principio faticato a riconoscere?<br />
Frattanto, avevamo fame di libri e di sesso, eravamo anarchici e meritocratici. Ogni sistema sociale e politico ci sembrava corrotto, ma ci astenevamo dal considerare un’alternativa qualsiasi diversa dal caos edonistico. Adrian, tuttavia, ci esortava a credere nell’applicazione del pensiero alla realtà, secondo il principio che le idee dovessero fare da guida all’azione. In precedenza, il filosofo del gruppo era stato Alex. Aveva letto libri ignoti agli altri due e poteva uscirsene all’improvviso in dichiarazioni come: «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Io e Colin ponderavamo l’idea in silenzio per un momento, poi riprendevamo il discorso, con un sorrisetto. Ora però, l’arrivo di Adrian aveva sfrattato Alex dalla posizione occupata, o meglio, aveva offerto a noi due un candidato diverso per il ruolo del filosofo. Se Alex aveva letto Russell e Wittgenstein, Adrian conosceva Camus e Nietzsche. Io mi ero letto George Orwell e Aldous Huxley; Colin Dostoevskij e Baudelaire. E si tratta solo in parte di una caricatura.<br />
[...] <br />
– Potremmo ad esempio partire dalla domanda solo in apparenza semplice, Che cos’è la Storia? Qualche idea, Webster?<br />
– La storia è fatta delle menzogne dei vincitori, – risposi un po’ troppo fulmineo.<br />
– Sí, temevo che avrebbe detto cosí. Non dimentichi comunque che è fatta anche delle illusioni dei vinti. Simpson?<br />
Colin era piú preparato di me. – La storia è come un panino con la cipolla cruda, signore.<br />
– In che senso?<br />
– Perché non fa che ripetersi, signore. Torna su. L’abbiamo constatato mille volte quest’anno. Sempre la solita solfa, lo stesso pendolo tra tirannia e ribellione, guerra e pace, prosperità e depauperamento.<br />
– Tutt’altro che poco per un panino, non trova?<br />
Ridemmo molto piú del necessario, in preda all’euforia da fine semestre.<br />
– Finn?<br />
– «La storia è quella certezza che prende consistenza là dove le imperfezioni della memoria incontrano le inadeguatezze della documentazione».<br />
– Ma davvero? Questa dove l’ha trovata?<br />
– Lagrange, signore. Patrick Lagrange. Un francese.<br />
– Lo si poteva arguire. Sarebbe tanto gentile da offrirci un esempio?<br />
– Il suicidio di Robson, signore.<br />
Si sentí in aula un notevole risucchio di fiato e qualcuno voltò d’istinto la testa. Hunt tuttavia, come gli altri insegnanti, accordava a Adrian un’indulgenza speciale. Chiunque di noi si azzardasse a provocare veniva liquidato come affetto da puerile cinismo, un altro vizio che avremmo superato crescendo. Le sfide di Adrian, invece, erano accolte come un’anomala ricerca della verità.<br />
– Che c’entra questo con il discorso in questione?<br />
– Si tratta di un evento storico, signore, seppure marginale. In compenso è recente. Perciò non dovrebbe essere difficile inserirlo nella storia. Sappiamo che è morto, sappiamo che aveva una ragazza, sappiamo che lei è incinta – o lo era. Che altro abbiamo? Un unico documento scritto, un messaggio di addio che dice «Scusami, mamma» – almeno secondo la versione di Brown. Esiste ancora il biglietto? È stato distrutto? Robson aveva altri possibili moventi o ragioni, oltre a quelli ovvi? In che condizioni mentali si trovava? Possiamo essere certi che il figlio fosse suo? No, non possiamo saperlo, nemmeno a cosí poca distanza dai fatti. Perciò, come potrebbe chiunque scrivere la vicenda di Robson tra cinquant’anni quando i suoi genitori saranno morti e la sua ragazza sarà scomparsa e non vorrà comunque ricordarsi di lui? Capisce il problema, signore?<br />
Ci girammo tutti a guardare Hunt, chiedendoci se quella volta Adrian non avesse davvero esagerato. Anche solo la parola «incinta» sembrava aleggiare su di noi come polvere di gesso. Quanto poi alla temeraria ipotesi di una paternità alternativa, di Robson in veste di Liceale Cornuto… Dopo un momento, il professore rispose.<br />
– Capisco il problema, Finn. Ma credo che lei sottovaluti la storia. E pure gli storici. Proviamo a supporre, per amor di dibattito, che il povero Robson si riveli un soggetto di interesse storico. Da sempre gli storici devono vedersela con la mancanza di prove chiare dei fatti. Ci sono abituati. Non dimentichi inoltre che, nel caso specifico, ci sarebbe stata un’inchiesta e perciò un rapporto del coroner. È possibile inoltre che Robson tenesse un diario, o scrivesse lettere, facesse telefonate il cui contenuto sarebbe stato registrato. I suoi genitori avranno risposto alle condoglianze che hanno ricevuto. E a cinquant’anni da oggi, con le attuali aspettative di vita, parecchi suoi compagni di scuola saranno ancora rintracciabili per un’intervista. Il problema potrebbe rivelarsi meno scoraggiante di quanto lei immagini.<br />
– Niente potrà però ovviare alla mancata testimonianza di Robson.<br />
– Per certi versi, no. Ma d’altra parte gli storici sono costretti a considerare con una buona dose di scetticismo la dichiarazione di individui coinvolti nell’evento. È spesso la testimonianza rilasciata con un occhio al futuro la meno attendibile.<br />
– Se lo dice lei, signore.<br />
– Le condizioni mentali delle persone possono spesso essere dedotte dai loro gesti. È raro che un tiranno che vuol far eliminare un nemico spedisca una richiesta redatta di suo pugno.<br />
– Se lo dice lei, signore.<br />
– Infatti, lo dico io.<br />
Fu proprio questo lo scambio di battute tra loro? Quasi certamente no. Resta comunque il ricordo piú preciso che conservo di quello scambio.<br />
[...] <br />
– Secondo Camus il suicidio è l’unica vera questione filosofica.<br />
– Se si escludono l’etica, la politica, l’estetica, la natura del reale e compagnia bella –. La controbattuta di Alex non era del tutto peregrina.<br />
– L’unica vera questione, ho detto. Quella essenziale, da cui dipendono tutte le altre.<br />
Una lunga disamina del suicidio di Robson ci portò a concludere che lo si potesse considerare filosofico in un senso aritmetico del termine: destinato a incrementare di un’unità la popolazione del genere umano, Robson aveva ritenuto suo dovere morale mantenere costanti i numeri del pianeta. Sotto ogni altro aspetto era nostra opinione che Robson avesse tradito noi e il pensiero responsabile. Il suo gesto era stato non filosofico, egocentrico e scarsamente artistico: in altre parole, sbagliato. Quanto al biglietto di addio sul quale secondo le voci (sempre quella di Brown) era scritto «Scusami, mamma», a noi parve che rinunciasse a cogliere una poderosa opportunità educativa.<br />
Forse saremmo stati meno severi con Robson non fosse stato per un unico fatto cruciale e incontrovertibile: Robson aveva la nostra età, era del tutto ordinario secondo i nostri parametri, e ciononostante non solo era riuscito a trovarsi una ragazza, ma anche a fare, innegabilmente, sesso con lei. Maledetto bastardo! Perché lui e non noi? Come mai a nessuno di noi era successo anche solo di farsi dire di no? Se non altro l’umiliazione avrebbe arricchito la nostra saggezza e ci avrebbe fornito un motivo di orgoglio, seppure di segno negativo. (Le sue esatte parole sono state «Cretino foruncoloso con il fascino di una ciabatta»). Dalle nostre letture dei classici sapevamo che l’Amore comportava Sofferenza e ci saremmo volentieri allenati a Soffrire se ciò avesse comportato la tacita, perfino ragionevole promessa che prima o poi sarebbe arrivato l’Amore.<br />
Ecco un’altra delle nostre paure: che la Vita potesse rivelarsi diversa dalla Letteratura. Prendi i nostri genitori, erano forse materiale letterario? Tutt’al piú, potevano ambire al ruolo di astanti, di spettatori, far parte di un fondale umano contro il quale avvenivano le cose reali, quelle che contano veramente. Tipo? Beh, tutte le cose di cui si occupa la Letteratura: amore, sesso, morale, amicizia, felicità, sofferenza, tradimento, adulterio, bene e male, eroi e cattivi, colpevoli e innocenti, ambizioni, potere, giustizia, rivoluzione, guerra, padri e figli, madri e figlie, l’individuo in rapporto al sociale, il successo e il fallimento, l’omicidio, il suicidio, la morte, Dio. E i gufi reali. Certo, esistevano anche altri generi di letteratura: teorica, autoreferenziale, pietosamente autobiografica; solo sterili seghe mentali, però. L’autentica letteratura trattava delle verità psicologiche, sentimentali e sociali che emergevano dalle azioni e dai pensieri dei protagonisti; il romanzo si fondava sugli sviluppi di un personaggio nel corso del tempo. Cosí almeno ci aveva detto Phil Dixon. E la sola persona – a parte Robson – la cui esistenza contenesse qualcosa di remotamente degno di un romanzo era Adrian.<br />
[...]<br />
La mia ragazza si chiamava Veronica Mary Elizabeth Ford, informazioni (mi riferisco al secondo e terzo nome) che impiegai due mesi a estorcerle. Studiava spagnolo, amava la poesia e suo padre era un funzionario. Un metro e sessanta circa, polpacci forti, capelli castano chiaro lunghi fino alle spalle, occhi grigioazzurri dietro un paio di occhiali dalla montatura azzurra, e un sorriso veloce che non ti lasciava piú andare. La trovavo simpatica. Beh, quasi certamente l’avrei pensato di qualunque ragazza che non mi evitasse. Non provai neanche a dirle che mi sentivo un po’ giú perché non era vero. Aveva un giradischi Black Box (contro il mio Dansette) e gusti musicali migliori dei miei; vale a dire che disprezzava Dvořák e Čajkovskij, che io adoravo, e possedeva alcuni lp di corali e di Lieder. Passava ogni tanto in rassegna la mia collezione di dischi intervallando qualche sorrisetto fugace e una assai piú frequente espressione delusa. Il fatto di avere nascosto sia l’ouverture 1812 sia la colonna sonora di Un uomo, una donna non bastò a salvarmi. Trovò abbastanza materiale di dubbio gusto anche prima di raggiungere la mia vasta raccolta di musica pop: Elvis, i Beatles, i Rolling Stones (e fin qui, nessuno avrebbe trovato nulla da eccepire), ma anche gli Hollies, gli Animals, i Moody Blues e un doppio di Donovan (definito, in caratteri minuscoli, in copertina, il dono di un fiore a un giardino).<br />
<br />
– Questa roba ti piace? – mi chiese con voce impassibile.<br />
<br />
– Va bene per ballare, – risposi, un po’ sulla difensiva.<br />
<br />
– Perché, balli quando l’ascolti? Qui? In camera tua? Da solo?<br />
<br />
– No, non proprio –. Ovviamente lo facevo, invece.<br />
<br />
– Io non ballo, – disse lei, a metà fra l’antropologa e la responsabile del regolamento di ogni possibile nostro rapporto, qualora fossimo usciti insieme.<br />
<br />
Sarà meglio che spieghi il significato dell’espressione «uscire insieme» di allora, perché poi il tempo l’ha modificato. Di recente mi è capitato di parlare con una donna la cui figlia le aveva confidato la propria angoscia. Era al secondo semestre di università e andava a letto con un ragazzo che nello stesso periodo era andato a letto con numerose altre ragazze, in modo esplicito e senza sotterfugi. Il suo obiettivo era selezionarle tramite audizione per poi decidere con quale «uscire». La figlia si diceva sconvolta, non tanto per il sistema – pur intuendone almeno in parte l’iniquità – ma perché alla fine non era risultata lei la prescelta.<br />
Il racconto mi fece sentire come il superstite di una cultura obsoleta e anacronistica, i cui membri utilizzassero ancora rape rosse intagliate al posto della valuta. Ai «miei tempi» – benché non abbia mai vantato diritti d’autore sull’epoca, e meno che mai mi sogni di farlo ora – di solito succedeva cosí: conoscevi una ragazza, lei ti piaceva, cercavi di ingraziartene i favori, la invitavi in un paio di luoghi di incontro – che so io, un pub –, poi le chiedevi di trovarvi da soli, poi glielo chiedevi di nuovo e, dopo un bacio della buonanotte di intensità passionale variabile, potevi ufficialmente dichiarare che «uscivi» con lei. Era solo dopo aver preso un impegno pressoché pubblico che ti era dato di scoprire la sua posizione in materia di comportamento sessuale. Il che qualche volta significava avere a che fare con un corpo protetto come una riserva di pesca esclusiva.<br />
Veronica non era molto diversa dalle altre ragazze di allora. Si mostravano fisicamente disinvolte, ti prendevano sottobraccio in pubblico, ti baciavano da toglierti il fiato, potevano addirittura premerti volutamente addosso il seno, a patto che restassero almeno cinque strati di stoffa tra pelle e pelle. Erano perfettamente consapevoli di quanto accadeva frattanto nei tuoi pantaloni, pur non parlandone mai. E questo era tutto, per un bel po’ di tempo. Certe ti concedevano qualcosa di piú: si sentiva di alcune disposte alla masturbazione reciproca e di altre che ti lasciavano fare «sesso completo», come si diceva allora. Non si era in grado di apprezzare l’importanza di quell’aggettivo «completo», se non si aveva avuto parecchia esperienza del suo contrario, vale a dire dell’incompleto. Infine, con il progredire del rapporto, si verificava una serie di implicite contrattazioni, alcune fondate sul capriccio, altre su impegni e promesse, fino a ciò che il poeta ha chiamato «la lotta per un anello».<br />
Le generazioni successive potrebbero essere inclini a ricercare la causa di tutto nella religione o nel moralismo. Ma le ragazze – o le donne – con le quali ho avuto esperienze di ciò che si potrebbe definire sesso per interposita lana (sí, non c’è stata soltanto Veronica) erano a proprio agio con il loro corpo. Nonché, fatti salvi alcuni principî, anche con il mio. Non intendo suggerire, intendiamoci, che l’interposita lana non fosse eccitante, o che risultasse frustrante, se si esclude l’accezione letterale del termine. Inoltre, quelle ragazze si concedevano assai di piú delle loro madri, e io ottenevo piú di quanto avesse avuto mio padre. O almeno, cosí presumevo. E qualsiasi cosa era sempre meglio di niente. Non fosse che, nel frattempo, Colin e Alex si erano sistemati con ragazze la cui linea di condotta non prevedeva alcuna zona-tabú, o cosí le loro allusioni lasciavano supporre. Del resto, nessuno diceva la verità in fatto di sesso. E sotto questo aspetto non è cambiato nulla. <br />
[...]<br />
Il padre di Veronica afferrò la mia valigia come se ubbidisse a un remoto codice di ospitalità, ed esagerandone comicamente il peso, la trascinò su fino a una mansarda dove la gettò sul letto. Mi indicò un lavello minuscolo a parete e disse:<br />
– Puoi farla lí di notte, se vuoi.<br />
Per tutta risposta annuii. Non capivo se stava sfoggiando un cameratismo virile, o se mi trattava come feccia di ceto inferiore.<br />
Piú facile da interpretare fu Jack, il fratello di Veronica: il classico giovane sano e atletico che ride di quasi tutto e prende in giro la sorella minore. Quanto a me, mi trattava come un oggetto di modesto interesse e sicuramente non il primo a comparire al suo cospetto per una valutazione. La madre di Veronica ignorò tutto il teatrino circostante, mi chiese che cosa studiassi e sparí parecchio in cucina. Doveva avere piú o meno quarant’anni anche se naturalmente a me sembrava di un’abbondante mezza età, come il marito. Non assomigliava molto a Veronica: viso piú largo, fronte alta, capelli legati dietro con un nastro, altezza appena superiore alla media. Aveva un’aria vagamente artistica – saranno state le sciarpe variopinte, o i modi svagati, i motivi d’opera che canticchiava tra sé, o tutte e tre le cose insieme – ma a distanza di tanto tempo non saprei dire con precisione da cosa dipendesse.<br />
Ero talmente a disagio che mi si bloccò l’intestino per tutto il weekend: e questo è il ricordo piú nitido che ho. Il resto è fatto di impressioni e immagini indistinte che potrebbero benissimo essere strumentali: ad esempio, il modo in cui Veronica, dopo avermi invitato, sembrò battere in ritirata e unirsi alla sua famiglia nel sottopormi a esame, anche se, oggi come oggi, mi è difficile stabilire se ciò fosse causa e non conseguenza della mia insicurezza. A tavola quel venerdí cominciarono le domande sulla mia posizione intellettuale e sociale: mi sentivo come un imputato davanti a una commissione d’inchiesta. Dopo cena, guardammo il telegiornale e intavolammo una discussione impacciata sullo stato delle cose nel mondo, fino all’ora di andare a letto. Se fossimo stati in un romanzo, avrebbe potuto verificarsi qualche corsa furtiva tra un piano e l’altro della casa per un appassionato abbraccio dopo che il paterfamilias si fosse ritirato a dormire. Purtroppo non eravamo in un romanzo: Veronica mi negò perfino il bacio della buonanotte, quella prima sera, né accampò la scusa di controllare se avevo gli asciugamani e tutto il necessario. Forse temeva lo scherno del fratello. Perciò mi spogliai, mi lavai, pisciai aggressivamente nel lavandino, misi il pigiama e rimasi sveglio molto a lungo.<br />
Quando scesi per colazione, trovai solo Mrs Ford. Gli altri erano usciti a fare una passeggiata e Veronica aveva assicurato a tutti che io avrei preferito dormire. Non dovetti riuscire a mascherare del tutto la mia reazione, perché mi sentivo addosso lo sguardo di Mrs Ford la quale mi friggeva uova e pancetta con tanto malgarbo che finí per rompere un tuorlo. Non ero un esperto di conversazioni con le madri delle ragazze.<br />
– Abitate qui da parecchio? – chiesi alla fine, pur sapendo già la risposta.<br />
Si fermò per versarsi una tazza di tè, ruppe in padella un altro uovo, si appoggiò a una credenza strapiena di piatti e disse:<br />
– Non dargliele tutte vinte, a Veronica.<br />
Non sapevo come rispondere. Dovevo mostrarmi infastidito per l’ingerenza nel nostro rapporto, o assumere un atteggiamento confidenziale e mettermi a discutere sull’argomento-Veronica? Perciò dissi tutto compito:<br />
– In che senso, Mrs Ford? Mi guardò, sorrise senza paternalismo, scosse appena la testa e disse: – Abitiamo qui da dieci anni.<br />
Insomma, finii per ritrovarmi altrettanto a disagio con la madre come con il resto della famiglia, anche se a lei almeno sembravo piacere. Mi scodellò nel piatto un altro uovo, benché non l’avessi né chiesto, né voluto. Gli avanzi di quello rotto restavano nella padella; li scaricò sovrappensiero in pattumiera e quasi lanciò la padella rovente dentro il lavello bagnato. L’acqua sfrigolò sprigionando una nuvola di vapore, e lei rise come se la divertisse il piccolo trambusto che aveva causato.<br />
Quando Veronica e gli uomini di casa tornarono, mi aspettavo un’ulteriore sessione d’esame, magari perfino un gioco, qualche trabocchetto; ci furono invece domande educate sulla qualità del mio sonno e sul mio generale benessere. Il che avrebbe dovuto farmi sentire accolto, ma avevo piú l’impressione che si fossero stancati di me e che il weekend fosse ormai questione di tempo da far passare. Forse era solo una mia paranoia. Ma a suffragare l’ipotesi, Veronica si mostrava ora piú apertamente affettuosa; a tavola fu lieta di appoggiarmi una mano sul braccio e di scompigliarmi i capelli. A un certo punto si girò verso il fratello e gli disse:<br />
– Allora, può andare, no?<br />
Jack mi strizzò l’occhio; non ricambiai. Una parte di me, in compenso, si sentiva come se avessi rubato gli asciugamani di casa, o calpestato la moquette con le scarpe sporche di fango.<br />
Eppure le cose procedevano perlopiú normalmente. Quella sera Veronica mi accompagnò di sopra e mi concesse un bel bacio della buonanotte. La domenica a pranzo, c’era un arrosto di agnello da cui fuoriuscivano rami di rosmarino grossi come punte d’albero di Natale. Poiché i miei mi avevano insegnato l’educazione, dissi che era squisito. A quel punto colsi l’occhiata ammiccante che Jack rivolse a suo padre, come a dire: Che leccaculo. Ma Mr Ford ridacchiò commentando: – Senti, senti, mozione approvata, concordo, – mentre Mrs Ford mi ringraziava.<br />
Quando scesi per congedarmi, Mr Ford mi prese la valigia e disse: – Hai contato che non manchi niente nell’argenteria, vero cara? – Lei non si prese nemmeno la briga di rispondere, si limitò a sorridermi, quasi come se condividessimo un segreto. Jack non si fece vivo per la cerimonia degli addii; Veronica salí davanti in macchina con suo padre; io mi accomodai dietro di nuovo. Mrs Ford stava appoggiata al portico, e il sole batteva sul glicine che si arrampicava su per la casa al di sopra della sua testa. Quando Mr Ford ingranò la marcia e avviò l’auto sul vialetto di ghiaia, io salutai con la mano e lei ricambiò, ma non come fa la gente di solito, sollevando il palmo, bensí con una specie di gesto orizzontale non oltre l’altezza della cintura. Per un momento, rimpiansi di non averle parlato di piú.Per evitare che Mr Ford tornasse a segnalarmi le meraviglie di Chislehurst, dissi a Veronica: – Mi piace, tua madre.<br />
– Attenta, Vron, sembra che tu abbia una rivale, – disse Mr Ford, trattenendo platealmente il fiato. – Ora che ci penso, forse ho un rivale anch’io. Rivoltelle all’alba, giovinotto?<br />
Il treno era in ritardo a causa dei soliti cantieri aperti la domenica. Arrivai a casa verso sera. Ricordo che mi feci una cacata magistrale.<br />
[...]<br />
All’inizio, cercavo di capire la reazione dei miei amici di fronte a Veronica, ma di lí a poco scoprii che mi interessava di piú sapere che cosa lei pensasse di loro. Rise delle battute di Colin piú che delle mie, il che mi innervosí, e chiese ad Alex come si fosse arricchito suo padre (assicurazioni navali, le disse lui, sorprendendomi). Veronica sembrò contenta di tenersi Adrian per ultimo. Le avevo detto che stava a Cambridge, e gli propose i nomi di una serie di persone. Lui annuí di un paio, dicendo:<br />
<br />
– Sí, ho presente il genere.<br />
<br />
Mi parve un commento abbastanza antipatico, ma Veronica non si offese. Anzi, continuò a sciorinare nomi di college e di professori e di sale da tè in un modo che mi fece sentire tagliato fuori.<br />
<br />
– Come fai a sapere tutte queste cose su Cambridge? – le chiesi.<br />
<br />
– Perché ci sta Jack.<br />
<br />
– Jack?<br />
<br />
– Mio fratello, ti ricordi?<br />
<br />
– Aspetta, vediamo… quello piú giovane di tuo padre?<br />
<br />
Non mi sembrava male come battuta, ma non la degnò neanche di un sorriso.<br />
<br />
– Jack cosa studia? – domandai, cercando di recuperare terreno.<br />
<br />
– Filosofia, – rispose. – Come Adrian.<br />
<br />
So bene che cosa studia Adrian, grazie tante, avrei voluto ribattere. Invece mi limitai a tenerle il broncio per un po’ e a chiacchierare di cinema con Colin.<br />
<br />
Verso la fine del pomeriggio scattammo qualche foto; Veronica ne chiese «una con i tuoi amici». I tre invitati presero educatamente posto in fila, e lei procedette a risistemarli: Adrian e Colin, i due piú alti rispettivamente alla sua destra e alla sua sinistra, con Alex a fianco di Colin. La stampa faceva sembrare lei ancora piú minuta di quanto non fosse di persona. Molti anni dopo, quando tornai a esaminare quella fotografia a caccia di risposte, mi capitò di chiedermi come mai Veronica non portasse mai tacchi di nessuna misura. Avevo letto da qualche parte che, se uno vuole farsi ascoltare dagli altri, non deve alzare la voce, bensí abbassarla; è questo che suscita autentica attenzione. Forse Veronica utilizzava lo stesso espediente per la statura. Benché non abbia ancora capito se Veronica fosse tipo da fare ricorso a espedienti. Nel periodo in cui uscivamo insieme, mi è sempre sembrato che agisse d’impulso, senza premeditazione. D’altra parte io mi rifiutavo di considerare l’ipotesi che una donna volesse o potesse manipolare gli altri. E questo forse la dice piú lunga su di me che su di lei. Ma anche qualora dovessi decidere, con il senno di molto tempo dopo, che Veronica fosse sempre stata un tipo machiavellico, non credo che questo aiuterebbe a chiarire le cose. O meglio, non credo che aiuterebbe me.<br />
[...]<br />
Non voglio dare l’impressione di non aver fatto altro che sgobbare e vedere Veronica, a Bristol. E tuttavia riaffiora ben poco alla mia memoria. Un evento che torna, isolato e distinto, però, è la sera in cui assistetti al fenomeno della marea del Severn. Di solito, il giornale locale pubblicava un orario, indicando luoghi e tempi migliori per non mancarla. Ma la prima volta che ci provai, l’acqua sembrava decisa a infischiarsene delle istruzioni. Poi, una sera a Minsterworth, un gruppetto di noi si mise in attesa in riva al fiume fino a dopo mezzanotte, quando la nostra costanza fu ripagata. Per un paio d’ore ci toccò stare a guardare un fiume scorrere docile verso il mare come ogni buon corso d’acqua. I fugaci bagliori lunari erano coadiuvati dalle perlustrazioni saltuarie di alcune potenti torce elettriche. A un certo punto ci fu un mormorio, un generale protendersi di colli e ogni fastidio mentale prodotto dal freddo e dall’umidità svaní; sembrava che il fiume avesse semplicemente cambiato idea e un’onda alta poco meno di un metro venne verso di noi, frangendosi per la sua intera ampiezza, da una sponda all’altra. Il flutto montò fino alla nostra postazione, ci superò e piegò in lontananza; alcuni dei miei compagni si lanciarono all’inseguimento tra urla, imprecazioni e cadute, mentre l’onda in corsa li distaccava; io rimasi a riva, da solo. Non credo di riuscire a trasmettere l’impatto che quel momento ebbe su di me. Non fu come assistere a un uragano o a un terremoto (esperienze che, peraltro, non conosco), cioè a una natura che si fa violenta e distruttiva, richiamandoci tutti all’ordine. Fu perfino piú allarmante, perché i sensi lo percepirono come un quieto errore, come se qualcuno avesse azionato una minuscola leva nell’universo e in quel luogo preciso, per pochi minuti, la natura e il tempo procedessero a rovescio. Osservato col buio, inoltre, il fenomeno diventava ancora piú arcano, ancora piú surreale.<br />
[...]<br />
Poi mi alzai e mi diressi in bagno, col guanto pieno che mi sbatacchiava contro l’interno coscia. Mentre me ne disfacevo presi una decisione che si concludeva cosí: No, proprio no.<br />
<br />
– Sei un bastardo egoista, – mi disse, quando ci rincontrammo.<br />
<br />
– Sí, beh, le cose stanno cosí.<br />
<br />
– In pratica è stato uno stupro, allora.<br />
<br />
– Io proprio non credo.<br />
<br />
– Beh, avresti potuto usarmi la cortesia di dirmelo prima.<br />
<br />
– Non lo sapevo neanch’io, prima.<br />
<br />
– Oh, è stato uno schifo cosí totale?<br />
<br />
– No, è stato bello. Solo che…<br />
<br />
– Solo che?<br />
<br />
– Tu mi chiedevi sempre di riflettere sul nostro rapporto e adesso forse l’ho fatto. Sí.<br />
<br />
– Beh, complimenti. Deve essere stata dura.<br />
<br />
Io intanto pensavo: E non le ho nemmeno visto le tette, in tutto questo tempo. Sentite, sí, le ho sentite, ma viste, mai. E poi si sbaglia di grosso su Dvořák e Čajkovskij. Senza contare che io potrò sentirmi il mio lp di Un uomo, una donna finché mi pare. E non di nascosto.<br />
<br />
– Come, scusa?<br />
<br />
– Cristo, Tony, ma non riesci nemmeno a concentrarti ora? Aveva ragione mio fratello su di te.<br />
<br />
Sapevo che dovevo chiedere che cosa avesse detto Fratello Jack, ma non volevo darle la soddisfazione. Visto che non fiatavo, lei proseguí:<br />
<br />
– E non dire quello che si dice sempre.<br />
<br />
La vita era tutta un indovinello, anche piú del solito.<br />
<br />
– E sarebbe?<br />
<br />
– Che possiamo continuare a essere amici.<br />
<br />
– È previsto che dica cosí?<br />
<br />
– È previsto che tu dica quello che pensi, quello che provi, Cristo santo, quello che ti pare.<br />
<br />
– D’accordo. In tal caso, non dirò quel che è previsto io dica, perché non credo che possiamo continuare a essere amici.<br />
<br />
– Perfetto, – commentò lei sarcastica. – Perfetto.<br />
<br />
– Ma c’è una domanda che ti voglio fare. Sei venuta a letto con me per riconquistarmi?<br />
<br />
– Non sono piú tenuta a rispondere alle tue domande.<br />
<br />
– In tal caso, perché non sei venuta a letto con me mentre stavamo insieme?<br />
<br />
Nessuna risposta.<br />
<br />
– Perché non era necessario?<br />
<br />
– Forse perché non ne avevo voglia.<br />
<br />
– Forse non ne avevi voglia perché non era necessario.<br />
<br />
– Beh, credi pure quel che ti pare.<br />
<br />
Il giorno dopo, portai la lattiera che mi aveva regalato al negozio dell’usato. Speravo che la vedesse in vetrina. Quando però mi fermai a guardare, notai un altro articolo esposto in vendita: una piccola litografia a colori di Chislehurst che le avevo regalato io per Natale.<br />
[...]<br />
E la logica? Già, dove sta la logica? Dove si trova, ad esempio, nel successivo passaggio della mia storia? A metà circa dell’ultimo anno di studi, ricevetti una lettera da Adrian. Era diventato un fatto sempre piú raro, perché tutti e due stavamo sgobbando in vista della laurea. Nel suo caso, probabilmente a pieni voti. Dopodiché? Un dottorato, quasi di certo, poi la carriera accademica o qualche incarico nella pubblica amministrazione che gli permettesse di mettere a frutto cervello e senso di responsabilità. Una volta qualcuno mi disse che la pubblica amministrazione (perlomeno ai massimi livelli) era un ambiente di lavoro affascinante perché costringeva a continue decisioni di tipo etico. Forse una soluzione adatta a uno come Adrian. Di sicuro non me lo vedevo diventare una persona pratica delle cose del mondo, né intraprendente, se non a livello intellettuale, s’intende. Non era il genere di persona di cui trovi il nome o la faccia pubblicati sui giornali.<br />
Probabilmente avrete capito che prendo tempo per non dirvi il seguito. D’accordo: Adrian mi scrisse per chiedermi il permesso di uscire con Veronica.Già, perché lei? perché in quel momento? e soprattutto, perché chiedere? In effetti, a voler essere fedeli al ricordo, ammesso che ciò sia possibile (e non ho conservato nemmeno questa, di lettera), in realtà Adrian diceva che lui e Veronica già uscivano insieme, circostanza senza dubbio destinata a giungere prima o poi alle mie orecchie; e della quale pertanto riteneva meglio essere lui stesso a informarmi. Aggiungeva poi che, sebbene la notizia potesse suscitare la mia sorpresa, si augurava che l’avrei accolta con serenità, perché in caso contrario, dato il nostro legame di amicizia, avrebbe dovuto riprendere in considerazione il suo gesto e le sue iniziative. E infine, che Veronica aveva acconsentito alla stesura di quella lettera; che anzi l’aveva parzialmente suggerita.<br />
Come potete immaginare, mi piacque il passaggio sugli scrupoli morali, quello in base al quale, se a mio giudizio fosse stato infranto un sacro codice cavalleresco o, meglio ancora, un principio etico moderno, Adrian, in ossequio alla logica, avrebbe ovviamente smesso di scoparsela. Sempre a patto che lei non lo stesse menando per il naso come aveva fatto con me. Mi piacque inoltre l’ipocrisia di una lettera il cui scopo non era soltanto quello di ragguagliarmi in merito a qualcosa che avrei potuto non scoprire mai (o per parecchio tempo), ma farmi anche sapere quanto ci avesse guadagnato Veronica, ora che stava con il piú intelligente dei miei amici, e per di piú studente a Cambridge come Fratello Jack. Infine, che me la sarei ritrovata fra i piedi, se avevo intenzione di vedere Adrian, il che ebbe su di me l’effetto auspicato di farmi scegliere l’opzione opposta, e cioè di non rivedere Adrian. Niente male, per un’unica giornata, o nottata, di lavoro. Devo tuttavia sottolineare ancora una volta come questa sia la mia lettura attuale dei fatti. O meglio, l’attuale ricordo della mia lettura di allora di quanto al tempo accadeva.<br />
<br />
Credo tuttavia di avere attitudine alla sopravvivenza, all’autoconservazione. Forse è questo che Veronica chiamava codardia e io definivo essere pacifici. In ogni caso, qualcosa mi suggerí che era meglio non lasciarmi coinvolgere, non subito, almeno. Comprai la prima cartolina che capitava – una col ponte sospeso di Clifton – e scrissi un testo del tipo: «Facendo seguito alla tua del 21 c.m., il sottoscritto è lieto di porgerti le sue piú sentite congratulazioni e dichiararsi perfettamente felice dell’accaduto, vecchio mio». Cretino, ma inequivocabile; il che, per il momento, poteva bastare. Avrei finto, soprattutto con me stesso, di non avere assolutamente nulla in contrario. Mi sarei sepolto a studiare, avrei messo da parte i sentimenti, senza portarmi piú a casa nessuno dal pub, masturbandomi quando e come necessario e preoccupandomi di arrivare alla laurea che meritavo. E cosí feci (a proposito, sí, senza giocarmi i pieni voti).<br />
<br />
Mi trattenni un paio di settimane dopo gli esami, presi a frequentare compagnie diverse, mi ubriacai sistematicamente, fumai un po’ di erba e cercai di pensare il meno possibile. A parte immaginare quello che Veronica poteva aver detto di me a Adrian («Prima si è preso la mia verginità e subito dopo mi ha buttata via. Capisci perché mi sono sentita violentata?») Mi pareva di vederla, mentre se lo lisciava – ero stato testimone dell’inizio di quel percorso – lusingandolo e facendo leva sulle sue ambizioni. Come ho già detto, Adrian non era un uomo pratico delle cose del mondo, a dispetto di tutto il suo successo accademico. Da ciò dipendeva il tono saccente della sua lettera che, per qualche tempo, continuai a rileggermi con vittimistica soddisfazione. Quando, alla fine, mi decisi a rispondere seriamente, feci a meno di tutto quel cretino formulario epistolare. Per quanto ricordo, gli chiarii in modo abbastanza diffuso il mio punto di vista sugli scrupoli morali suoi e di lei. Gli suggerii inoltre di stare all’erta perché, a mio giudizio, la violazione subita da Veronica risaliva a molto tempo prima. Dopodiché gli augurai buona fortuna, bruciai la sua lettera su una graticola vuota (un gesto melodrammatico, sono d’accordo, ma invoco la mia giovinezza a circostanza attenuante) e decretai che quei due erano usciti dalla mia vita per sempre.<br />
[...]<br />
Che cosa intendevo con il termine «violazione»? Era una semplice congettura, non disponevo di prove certe. Eppure, se ripensavo a quel nostro malaugurato weekend, mi rendevo conto che non si era trattato solo di un giovane ingenuo a disagio in un ambiente familiare piú raffinato e socialmente disinvolto del suo. C’era stato anche quello, senza dubbio. Ma avevo percepito una complicità tra Veronica e quel suo genitore privo di tatto e delicatezza, che mi trattava come un sottosviluppato. Come pure tra Veronica e Fratello Jack, la cui vita e il cui contegno lei reputava in modo palese insuperabili: era lui il giudice incaricato al quale Veronica rivolse pubblicamente la domanda su di me – una domanda che assume connotazioni piú umilianti ogni volta che me la ripeto: «Allora, può andare, no?» Non vedevo in compenso la minima complicità con la madre, che senza dubbio conosceva sua figlia per quello che era. Come mai Mrs Ford aveva avuto quella prima opportunità di mettermi in guardia dalla figlia? Perché la mattina, la mattina immediatamente successiva al mio arrivo, Veronica aveva raccontato a tutti che io volevo dormire, e se n’era andata a spasso con padre e fratello. Niente che ci fossimo mai detti poteva giustificare una frottola simile. Io non dormivo mai fino a tardi. Non lo faccio nemmeno ora.<br />
Mentre scrivevo a Adrian, non ero sicuro io stesso di quel che potevo intendere con il termine «violazione». E a quasi un’intera vita di distanza, il concetto non mi è poi molto piú chiaro. Mia suocera (che per fortuna non ha un ruolo in questa vicenda) non mi ha mai stimato granché, ma è sempre stata se non altro molto sincera sul punto, come su quasi ogni cosa. Ebbene, mia suocera una volta mi disse, commentando l’ennesimo caso di abuso infantile che dominava le pagine dei quotidiani e i telegiornali: – Secondo me, siamo stati tutti vittime di un abuso –. Sto forse insinuando che Veronica sia stata vittima di quello che al giorno d’oggi definiremmo «comportamento improprio»: occhiate lascive di un padre con l’alito che sapeva di birra mentre lei faceva il bagno o si spogliava per andare a letto, qualcosa di piú di una fraterna intimità fisica con il fratello? Come farei a saperlo? Ci sarà stato nella sua vita un episodio di abbandono primario, una mancanza di affetto quando piú che mai ne aveva bisogno, uno scambio di battute sentito per caso e dal quale la bambina abbia dedotto che…? Di nuovo, non posso saperlo. Non dispongo di prove aneddotiche né documentali. In compenso, ricordo che cosa disse il vecchio Joe Hunt durante una discussione con Adrian: che le condizioni mentali delle persone possono essere dedotte dai loro gesti. Varrà per la Storia, Enrico VIII e compagnia bella. Mentre nella vita privata, penso sia vero il contrario: e cioè che sia possibile comprendere i gesti passati delle persone, attraverso le loro condizioni mentali presenti.<br />
Di sicuro sono convinto anch’io che tutti subiamo violazioni, in un modo o nell’altro. Come potrebbe non essere cosí, se non in un mondo fatto di genitori, fratelli, amici e vicini di casa perfetti? Esiste poi la questione, dalla quale cosí tanto dipende, di come ciascuno di noi reagisce alla violazione subita: se la riconosce o la nega, e come essa influisca sui rapporti con gli altri. Qualcuno ammette che sia avvenuta, e cerca di mitigarne gli effetti; qualcuno passa la vita ad aiutare altri che l’hanno subita; e poi c’è qualcuno il cui fine primario è arginare violazioni ulteriori, a ogni costo. Questi ultimi sono la categoria piú spietata, quella da cui guardarsi.<br />
Potete anche pensare che siano solo sciocchezze, castronerie moralistiche, strategia di autoassoluzione. Potete ritenere che il mio atteggiamento nei confronti di Veronica sia stato da classico maschio inesperto, e che tutte le mie «conclusioni» siano controvertibili. Ad esempio, «Dopo esserci lasciati, Veronica venne a letto con me» si può agevolmente ribaltare in «Dopo che Veronica venne a letto con me, la lasciai». Potete inoltre decidere che i Ford fossero una normale famiglia borghese. Sulla quale ho riversato astiosamente fasulli teoremi di violazione; e che Mrs Ford, anziché preoccuparsi con grande sensibilità del mio benessere, rivelasse un’indecorosa invidia verso la propria figlia. Potreste addirittura chiedermi di applicare a me stesso la mia «teoria» e di raccontarvi quale violazione abbia subíto io molto tempo prima, precisandone le eventuali conseguenze; ad esempio in materia di affidabilità e di schiettezza. Non sono sicuro che saprei rispondervi, a essere onesto.<br />
[...]<br />
Con l’andare degli anni, ti aspetteresti un po’ di riposo, no? Sei convinto di meritartelo. Io lo pensavo, almeno. Poi però cominci a capire che la vita non promuove per merito.<br />
Un’altra cosa: da giovane credi di saper prevedere probabili angosce e dolori della vecchiaia. Ti immagini solo, divorziato, vedovo; coi figli cresciuti che se ne vanno, gli amici che muoiono. Immagini che perderai prestigio, desiderio e desiderabilità. Puoi spingerti oltre e considerare l’avvicinarsi della tua stessa morte che, a dispetto di qualunque compagnia tu riesca a radunarti intorno, dovrai comunque affrontare da solo. Ma tutto questo ha a che fare con il guardare avanti. Quello che ti è impossibile è guardare avanti e immaginare te stesso che guarda indietro dal punto che avrai raggiunto nel futuro. Conoscere le emozioni nuove portate dal tempo. Scoprire, ad esempio, che con il ridursi del numero di testimoni della tua esistenza tende a diminuire l’avvaloramento, e di conseguenza la certezza, di ciò che sei o sei stato. Se anche hai documentato ogni cosa in modo sistematico, in forma di immagini, suoni, parole, puoi d’improvviso scoprire di aver sbagliato le modalità di registrazione dei fatti. Com’era la battuta di Adrian? «La storia è quella certezza che prende consistenza là dove le imperfezioni della memoria incontrano le inadeguatezze della documentazione».<br />
Leggo ancora parecchia storia e, va da sé, mi sono tenuto al corrente sui grandi eventi contemporanei alla mia vita: la caduta del Comunismo, la signora Thatcher, l’11 settembre, il riscaldamento globale. L’ho fatto con il normale miscuglio di ansia, paura e cauto ottimismo. Ma senza mai riuscire a considerarli con la stessa fiduciosa sicurezza con la quale guardo ai fatti di storia greca e romana, o dell’Impero britannico, o della Rivoluzione sovietica. Può darsi che mi senta piú tranquillo con la storia sulla quale si è ormai grossomodo raggiunto un accordo. O forse si tratta ancora una volta del vecchio paradosso: la storia che ci succede sotto il naso dovrebbe essere per noi la piú chiara, e invece risulta la piú deliquescente. Viviamo nel tempo, il tempo ci definisce e ci vincola e dovrebbe anche essere misura della storia, no? Ma se non riusciamo a comprenderlo, se non ne afferriamo il mistero in termini di andamento e decorso, che speranze possiamo avere con la storia, perfino con il marginale frammento della nostra personale, peraltro assai poco documentata?<br />
Quando si è giovani, chiunque superi i trent’anni ci sembra di mezza età, chiunque superi i cinquanta, decrepito. E il passare del tempo ci conferma che non sbagliavamo di molto. Le piccole differenze d’età, cosí significative e palesi da giovani, perdono rilevanza. Si finisce con l’appartenere alla stessa grande famiglia, quella dei non-piú-giovani. Personalmente non ci ho mai badato granché.<br />
Esistono tuttavia alcune eccezioni alla regola. Per qualcuno le differenze temporali sancite in gioventú non spariscono mai completamente: i maggiori d’età restano tali, anche quando si è ormai tutti dei vecchi bavosi. Per certa gente, una differenza di, che so, cinque mesi, significa che uno dei due continuerà a ritenersi perversamente piú saggio ed esperto dell’altro o dell’altra, a dispetto di qualunque prova contraria. O dovrei forse dire a causa di prove contrarie. Proprio perché risulta del tutto ovvio a qualsiasi osservatore obiettivo che l’equilibrio si è spostato in favore dell’individuo irrisoriamente piú giovane, l’altro rivendica la propria presunta superiorità con rigore ancor piú draconiano. Ancor piú nevrotico.<br />
[...]<br />
5.4 Il problema dell’accumulo. Se la vita è una scommessa, quale forma assume la giocata? Nell’ambiente ippico, si chiama sistema ad accumulo una giocata che trasferisce le vincite ottenute su un cavallo alla puntata sul successivo pronostico.<br />
5.5 Pertanto a) Fino a che punto è possibile definire le relazioni umane in base a una formula logica o matematica? E b) Qualora sia possibile, quali segni dovremo sistemare tra i numeri interi? Il piú e il meno, tautologicamente; talvolta il per e, sí, anche il diviso. Ma questi segni hanno un limite. Cosí facendo, una relazione completamente fallimentare potrebbe essere espressa sia in termini di perdita/meno sia di riduzione/diviso, arrivando a un risultato pari a zero; mentre una relazione riuscita può essere rappresentata come addizione e moltiplicazione. Ma che dire della maggior parte delle altre? Non hanno forse bisogno di esprimersi in termini improbabili sotto il profilo logico e irresolubile sotto quello matematico?<br />
5.6 Pertanto, come potremmo esprimere un accumulo che contenga gli interi b, a1, a2, s, v?<br />
<br />
b = s – vx+ a1<br />
<br />
oppure a2 + v + a1 × s = b?<br />
<br />
5.7 O si tratta forse di un approccio errato alla questione e alla rappresentazione dell’accumulo? Applicare i principî della logica alla condizione umana è forse in sé e per sé un sistema destinato al fallimento? Che cosa accade in una catena di argomenti quando ogni anello è fatto di metalli dotati di frangibilità diverse?<br />
<br />
5.8 E se «anello» fosse una metafora non applicabile?<br />
<br />
5.9 Ma supponendo che invece lo sia, se un anello si spezza, come si rintraccia la causa di tale rottura? Osservando gli anelli immediatamente vicini al punto di rottura, oppure «l’intera catena»? Ma cosa intendiamo per l’intera catena? Quanto si estendono i limiti della responsabilità?<br />
<br />
6.0 Oppure potremmo ridurre il campo di analisi delle responsabilità e distribuirle in modo piú esatto. E non utilizzare equazioni e numeri interi, bensí esprimere la questione facendo ricorso alla tradizionale terminologia narrativa. Dunque, ad esempio, se Tony<br />
[...]<br />
Ricordo un periodo verso la fine dell’adolescenza in cui mi ubriacavo mentalmente di prospettive avventurose. Ecco come sarò da adulto. Andrò in quel paese, farò questo, scoprirò quello, mi innamorerò di lei, e poi di lei, di lei e di lei. Vivrò come da sempre vive la gente nei romanzi. Quali romanzi, non mi era chiaro, ma sapevo per certo che passione e pericolo, estasi e disperazione (ma sempre seguita da altra estasi, intendiamoci) non sarebbero mancati. Comunque… chi è che ha parlato della «piccolezza delle passioni che l’arte ingigantisce»? Ci fu un momento quando ero ormai prossimo ai trenta, in cui dovetti riconoscere lo spegnersi definitivo di ogni ipotesi avventurosa. Non avrei mai attuato le imprese sognate da ragazzo. In compenso, tosavo il prato di casa, andavo in vacanza, facevo la mia vita.<br />
Il tempo però… ah, come può trascinarci alla deriva e confonderci le idee. Credevamo di aver raggiunto la maturità quando ci eravamo soltanto messi in salvo, al sicuro. Fantasticavamo sul nostro senso di responsabilità, non riconoscendolo per quello che era, e cioè vigliaccheria. Ciò che abbiamo chiamato realismo si è rivelato un modo per evitare le cose, ben piú che affrontarle. Già, il tempo ci riserva… il tempo necessario a farci percepire le nostre piú salde risoluzioni come traballanti, le nostre certezze come capricci momentanei. <br />
[...]<br />
Sin dal principio, lui aveva visto le cose con piú chiarezza. Mentre noi ci crogiolavamo nella malinconia adolescenziale convinti che la nostra scontentezza quotidiana potesse essere una reazione originale al male di vivere, Adrian già guardava oltre, spaziando su orizzonti piú vasti. E sentiva anche piú di noi la vita – perfino quando, o forse soprattutto quando, giunse alla conclusione che il gioco non valeva la candela. In confronto a lui ero sempre stato un confusionario, incapace di imparare quelle poche lezioni che l’esistenza mi aveva impartito. Per dirla in parole mie, mi ero adeguato alla realtà della vita, sottomettendomi all’ineluttabile: se cosí, allora colà, ed erano passati gli anni. Per usare invece le parole di Adrian, avevo rinunciato a vivere, avevo smesso di analizzare la vita per prenderla come veniva. Cosí, per la prima volta, ho cominciato a provare un rimorso piú vasto – un sentimento a metà tra il vittimismo e l’odio per me stesso – riguardo alla mia esistenza in generale. Tutta quanta. Avevo perso gli amici di gioventú. Avevo perso l’amore di mia moglie. Avevo rinunciato ai sogni di una volta. Avevo chiesto alla vita di non turbarmi troppo ed ero stato accontentato; e che miseria ne era derivata.<br />
Nella media, ecco come sono dai tempi del liceo. Medio all’università e sul lavoro; medio in amicizia, lealtà e amore; medio, senza dubbio, anche nel sesso. Qualche anno fa è uscito un sondaggio sugli automobilisti inglesi in base al quale il novantacinque per cento degli intervistati si riteneva un guidatore «al di sopra della media». In effetti, in ossequio alla statistica, la maggior parte di noi rientra per forza nella media. Non che questo rechi il minimo conforto. L’aggettivo echeggia sinistro. Medio nella vita, nella verità; moralmente nella media. La prima reazione di Veronica, vedendomi, era stata di sottolineare che avevo perso i capelli. Ma quello era il meno.<br />
La mail che mi ha spedito in risposta alle mie scuse diceva: «Proprio non ci arrivi, eh? Come sempre, del resto». Non potevo certo recriminare. Anche se mi sono ritrovato a rimpiangere pateticamente che non avesse usato il mio nome almeno in una delle due frasi.<br />
[...]<br />
Il carattere delle persone si sviluppa nel tempo? Nei romanzi, naturalmente, sí: altrimenti non ci sarebbe storia. Ma nella vita? A volte me lo chiedo. Cambiano i nostri atteggiamenti, le nostre opinioni, assumiamo nuove abitudini e nuove bizzarrie; ma è un’altra cosa, un fatto piú decorativo. Forse il carattere è simile all’intelligenza, anche se raggiunge il suo picco massimo leggermente piú tardi, diciamo, tra i vent’anni e i trenta. Dopodiché, non ci schiodiamo piú da lí. Siamo soli. Se cosí fosse, si spiegherebbero parecchie esistenze, non vi pare? Nonché, se il termine non risulta troppo solenne, la nostra tragedia.<br />
«Il problema dell’accumulo», aveva scritto Adrian. Scommetti dei soldi su un cavallo, quello vince e la vincita passa sul cavallo della corsa successiva, e cosí via. Le vincite si accumulano. E le perdite? Non all’ippodromo, dove si perde solo la puntata iniziale. Ma nella vita? Forse in questo caso le regole sono diverse. Scommetti su una relazione, non funziona; vai alla successiva, e non funziona neanche quella; forse non perdi solo la somma di due sottrazioni, bensí un multiplo di quanto avevi puntato. L’impressione è questa, comunque. La vita non è solo fatta di somme e sottrazioni. C’è anche l’accumulo, la moltiplicazione delle perdite, dei fallimenti.<br />
Il frammento del diario di Adrian fa anche cenno alla questione della responsabilità, domandandosi se collocarla in una catena o considerarla separatamente. Sono decisamente propenso alla seconda soluzione. No, mi dispiace, non puoi prendertela con i tuoi genitori defunti, o con il fatto di avere avuto fratelli e sorelle, o di non averne avuti, o con la genetica, o la società, o chissà che altro: non in circostanze normali, almeno. Parti dal principio di essere l’unico e solo responsabile, a meno di avere prove schiaccianti del contrario. Adrian era molto piú intelligente di me – lui usava la logica dove io ricorro al buonsenso – ma credo che alla fine siamo giunti entrambi alla stessa conclusione.<br />
<br />
Non che io riesca a capire tutto quel che ha scritto, intendiamoci. Ho contemplato a lungo le equazioni sul suo diario senza sentirmi particolarmente illuminato. D’altra parte, la matematica non è mai stata il mio forte.<br />
<br />
A Adrian non invidio la morte, ma la trasparenza della vita. Non solo perché vedeva, pensava, sentiva e agiva con piú chiarezza rispetto a tutti noi, ma anche per il momento in cui è morto. Non mi riferisco alle tirate retoriche da Grande Guerra, tipo «Reciso nel fiore degli anni» – espressione ancora rispolverata dal nostro preside in occasione del suicidio di Robson – o «Essi non saranno vecchi a differenza di noi, rimasti sulla terra a invecchiare». La maggior parte di noi rimasti non ha avuto nulla in contrario con l’idea di invecchiare. Sempre meglio dell’alternativa, secondo me. No, voglio dire un’altra cosa. Che quando hai vent’anni, pur essendo confuso e dubbioso sulle tue mire e aspirazioni, hai comunque forte il senso di cosa sia la vita e di cosa tu sia o possa diventare, in quella vita. Dopo… beh, dopo ci sono piú incertezze, piú sovrapposizioni, marce indietro, falsi ricordi. Da giovane sei in grado di ricordarti la tua breve esistenza tutta intera. Piú tardi la memoria si riempie di toppe e brandelli. È un po’ come la scatola nera degli aerei, che registra quel che accade in caso di incidente. Se non succede nulla, il nastro si cancella da sé. Perciò, se davvero precipiti, è chiaro perché l’hai fatto; ma se non vai giú, allora il giornale di bordo del tuo viaggio si fa assai meno limpido.<br />
Oppure, per metterla in un altro modo. Qualcuno una volta ha detto che i suoi periodi storici preferiti erano quelli in cui tutto precipita, perché significano la nascita imminente di qualcosa di nuovo. Ha senso questa teoria se la applichiamo alle vite dei singoli individui? Morire quando sta per nascere qualcosa di nuovo, anche se la novità in questione riguarda proprio noi? Perché, esattamente come ogni cambiamento storico o politico prima o poi delude, cosí succede con il diventare adulti. Con la vita. Certe volte penso che lo scopo dell’esistenza sia quello di riconciliarci, per sfinimento, con la sua perdita finale, dimostrandoci che, indipendentemente dal tempo che ci vorrà, la vita non è affatto all’altezza della propria fama.<br />
[...]<br />
Prima in confidenza consideravo che la caratteristica essenziale del rimorso è che non ci si può fare niente: perché il tempo delle scuse e delle ammende è passato da un pezzo. E se mi sbagliassi, invece? E se si potesse, chissà come, sospingere il rimorso controcorrente, trasformarlo in semplice senso di colpa, quindi chiedere scusa e ottenere il perdono? E se uno potesse dimostrare che in fondo non era il bastardo per cui era stato scambiato, e lei fosse disposta a lasciarsi persuadere?<br />
O forse le mie motivazioni arrivavano dalla direzione opposta, e non c’era di mezzo il mio passato, bensí il mio futuro. Come quasi tutti, ho alcune superstizioni collegate con le partenze per un viaggio. Possiamo anche sapere che volare è piú sicuro che andare a piedi fino al negozio d’angolo, ma prima di partire preferiamo pagare le bollette, sbrigare la corrispondenza, telefonare a una persona cara.<br />
[...]<br />
Quando si comincia a dimenticare le cose – non mi riferisco all’Alzheimer, ma solo alle prevedibili conseguenze dell’età – si può reagire in vari modi. Ci si può mettere d’impegno e cercare di costringere la memoria a cacciare fuori il nome di quel conoscente, di quel fiore, quella stazione ferroviaria, quell’astronauta… Oppure si può ammettere la propria défaillance e prendere misure pratiche al riguardo, utilizzando testi di consultazione e internet. O piú semplicemente, si può lasciar perdere – infischiarsene di ricordare – e scoprire, a volte, che l’elemento smarrito riaffiora magari a distanza di un’ora o di un giorno, spesso nel corso di quelle interminabili notti insonni che la vecchiaia infligge. È una cosa che impariamo tutti, tutti quelli di noi che dimenticano, intendo.<br />
Ma impariamo anche qualcos’altro, e cioè che al nostro cervello non piace che gli si attribuisca un ruolo fisso. Proprio quando crediamo che sia tutta una questione di decrescita, di sottrazioni e divisioni, ecco che la nostra mente, la nostra memoria, possono sorprenderci. Quasi a dirci: Non pensare di poter fare conto su un rassicurante processo di graduale declino – la vita è molto piú complicata di cosí. E allora il cervello si mette a lanciarti addosso brandelli di cose, perfino a sbrogliare certi ben noti grovigli della memoria. E, con mio grande sgomento, è proprio questo che mi stava capitando. Ho cominciato a ricordare, in ordine sparso e senza un particolare senso di logica, dettagli sepolti da molto tempo di quel lontano weekend in casa Ford. La mia stanza in mansarda affacciava, dai tetti, su un bosco; di sotto sentivo una pendola battere le ore con cinque minuti esatti di ritardo. Mrs Ford rovesciò l’uovo rotto in pattumiera con aria turbata, per l’uovo, non per me. Il marito cercò di convincermi a bere un brandy dopo cena e, dato il mio rifiuto, mi chiese se ero un uomo o un sorcio. Fratello Jack si rivolgeva a Mrs Ford chiamandola «la Madre», in espressioni del tipo: «Quando ha intenzione di pensare al rancio per le truppe affamate, la Madre?» E la seconda sera Veronica non si limitò a venire con me fino al piano di sopra. Disse: – Accompagno Tony in camera sua, – e mi prese per mano davanti a tutti. Fratello Jack disse: – Che ne pensa la Madre? Non ha niente da dire? – Ma la Madre si limitò a sorridere. Quella sera diedi una frettolosa buonanotte a tutta la famiglia, perché sentivo un’erezione in arrivo. Salimmo piano fino in camera da letto, dove Veronica, sbattendomi contro la porta, mi baciò sulla bocca e poi disse: – Dormi il sonno dei depravati, stanotte –. E grossomodo quaranta secondi dopo, ricordo ora, mi masturbavo dentro il piccolo lavello fiottando sperma nell’impianto idraulico della casa.<br />
Per curiosità, ho cercato Chislehurst su Google. E ho scoperto che non c’era mai stata una chiesa dedicata a St Michael, da quelle parti. Perciò il giro guidato del centro offertomi in macchina da Mr Ford doveva essere frutto della fantasia – una specie di scherzo segreto, un modo per sfottermi… Ho forti dubbi anche sull’effettiva presenza di un Café Royal. A quel punto sono andato su Google Earth, e mi sono dedicato ad acrobazie e perlustrazioni ravvicinate del sobborgo, ma la casa che stavo cercando pareva non esistere piú.<br />
[...]<br />
Ho trascorso la settimana sforzandomi di recuperare nuovi ricordi su Veronica, ma non è riemerso nulla. Forse a insistere cosí mettevo sotto pressione il mio cervello. Perciò alla fine sono tornato a passare in rassegna quel che avevo, le ben note immagini di sempre e le recenti acquisizioni. Le piazzavo sotto la luce, rigirandomele tra le dita e cercando di capire se avessero frattanto cambiato significato. Ho cominciato a riesaminare me stesso da giovane, risalendo il piú indietro possibile. Certo, ero stato rozzo e ingenuo, come tutti in fondo; ma sapevo di non dover premere troppo su quel tasto, perché avrebbe avuto il solo scopo di incensare il me stesso che ero diventato. Ho cercato di mantenermi oggettivo. La versione del mio rapporto con Veronica che mi portavo appresso da anni era rimasta quella che mi conveniva allora. Un giovane cuore tradito, un giovane corpo usato come un giocattolo, un giovane individuo mortificato dal paternalismo di classe. Come aveva risposto il vecchio Joe Hunt quando con aria saccente avevo dichiarato che la storia era fatta delle menzogne dei vincitori? «Non dimentichi comunque che è fatta anche delle illusioni dei vinti». Ce ne ricordiamo abbastanza quando sono in gioco le nostre vite private?<br />
I giovanilisti compulsivi sostengono: i quaranta non sono nulla, a cinquanta si è nel fiore degli anni, i sessanta sono i quaranta del giorno d’oggi. Io so una cosa per certo: che un tempo oggettivo esiste, ma che esiste anche quello soggettivo, quello che si porta sull’interno polso, proprio accanto alle pulsazioni cardiache. E questo tempo personale, che è poi anche quello autentico, si misura in funzione del nostro rapporto con i ricordi. Perciò, quando è accaduta quella cosa strana, e all’improvviso mi sono ritrovato invaso da una serie di ricordi nuovi, è stato come se, per un attimo, il tempo avesse ingranato la retromarcia. Come se, per un attimo, il fiume risalisse la corrente. <br />
<br />
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<br />Antonio De Bellishttp://www.blogger.com/profile/08589288385447295429noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3437498411039201584.post-48664614041823055092012-09-08T19:06:00.000+02:002012-09-09T03:32:36.077+02:00Ottimo lavoro, professore - David Lodge<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEicJVPQfz_EwINreRZM8QoB9B71AfP4JGPoTC3WK5av-OnmU1cGaL_AIGS-EeYa0zt8IlCtSQYx5KLU0JvHFXg9icafVOi5l_srw_11zA1J6am_jjvkQ_XkANlH1kRjV1BEhVsusptGhoE/s1600/Ottimo+lavoro+professore+-+David+Lodge.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEicJVPQfz_EwINreRZM8QoB9B71AfP4JGPoTC3WK5av-OnmU1cGaL_AIGS-EeYa0zt8IlCtSQYx5KLU0JvHFXg9icafVOi5l_srw_11zA1J6am_jjvkQ_XkANlH1kRjV1BEhVsusptGhoE/s200/Ottimo+lavoro+professore+-+David+Lodge.jpg" width="129" /></a></div>
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<b>Due mondi completamente diversi che si incontrano: lei insegnante femminista, emancipata, indipendente, idealista, lui ingegnere, amministratore delegato di un'azienda meccanica, pratico ed efficiente. Saranno costretti a condividere le giornate lavorative a causa di un insensato progetto del governo inglese. I contrasti iniziali man mano si smorzano e poco per volta, conoscendosi, iniziano ad apprezzarsi. Ma come quasi sempre accade nelle coppie in cui è la donna dominante, l'uomo non può che soccombere. </b><b>Permeato da una sottile e amara ironia che avvolge i personaggi e le situazioni, è un libro che si legge veramente con piacere. E l'autore è molto bravo nel descrivere sia il mondo universitario che le dinamiche tipiche aziendali. </b><b>Lo sfondo è l'Inghilterra grigia di metà degli anni ottanta governata
dalla Tatcher con pugno di ferro e rigore nella somministrazione di
fondi alle amministrazione pubbliche e alle aziende private che devono lottare per sopravvivere. Bella la citazione che
sintetizza il confronto tra Inghilterra e Germania quando i due sono in viaggio a Francoforte e rimangono affascinati dalla pulizia e dall'efficienza dei tedeschi che contrasta con il decadimento del loro paese: "noi abbiamo vinto la guerra, ma perso la pace". </b><b> <sia alla="alla" ambiente="ambiente" approfondita="approfondita" aziendali.="aziendali." b="b" bella="bella" che="che" come="come" con="con" conforntarsi="conforntarsi" conoscenza="conoscenza" corrispondenza="corrispondenza" cui="cui" del="del" dell="dell" delle="delle" devono="devono" di="di" digressione="digressione" dimostra="dimostra" dinamiche="dinamiche" dominanti="dominanti" donne="donne" e="e" emerge="emerge" fine="fine" finir="finir" gettato.="gettato." gretto="gretto" in="in" inaspettata.="inaspettata." industriale="industriale" innamorarsi="innamorarsi" insegnamento="insegnamento" insegnate="insegnate" integralmente.="integralmente." l="l" la="la" lavoro="lavoro" le="le" lodge="lodge" lui="lui" metafora="metafora" metonimia="metonimia" molto="molto" nbsp="nbsp" opportunistico.="opportunistico." per="per" quasi="quasi" sensibilit="sensibilit" senza="senza" settore="settore" sia="sia" sono="sono" storie="storie" su="su" superiore="superiore" trascrivo="trascrivo" trovare="trovare" tutte="tutte" un="un" una="una" usato="usato"></sia></b></div>
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<br /></div>
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"Da' un'occhiata," fece Brian Everthorpe.</div>
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Vic esitò, poi sali con un balzo sul mobile. Avvicinò l'occhio al buco nella vernice e guardò, come attraverso un telescopio fisso e messo a fuoco, la giovane donna seduta sul fondo della sala. Aveva i capelli color rame, tagliati corti sulla nuca come quelli di un ragazzo, mentre sul davanti formavano un ciuffo sbarazzino di riccioli che ricadeva sulla fronte. Se ne stava seduta a suo agio sul divano, in pantaloni e stivali, con le lunghe gambe incrociate all'altezza delle caviglie, ma l'espressione del viso era annoiata e altera.</div>
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[...]</div>
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Brian Everthorpe spalancò la porta dell'ufficio di Vic Wilcox e, con un ampio gesto della mano, fece passare Robyn. "Il dottor Penrose," annunciò con un ghigno.</div>
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L'uomo che da dietro la scrivania di legno lucido, in fondo alla stanza, si Ìevò in piedi e si avvicinò per stringerle la mano era più piccolo e aveva un aspetto più comune di quanto lei si aspettasse. Il termine "amministratore delegato" aveva suggerito alla sua immaginazione una figura più imponente e pingue, con le guance imporporate, i capelli d'argento, il busto grassoccio vestito con un completo elegante dal taglio perfetto, con il fermacravatte, i gemelli d'oro e un grosso sigaro stretto tra le dita ben curate. L'uomo davanti a lei, invece, era tarchiato e vigoroso, come un terrier dalle gambe corte. Il suo viso era pallido e teso; due rughe verticali di. preoccupazione e gli solcavano la fronte al disopra del naso; la ciocca di capelli neri e lisci che gli ricadeva sulla fronte non aveva evidentemente mai ricevuto le cure di un barbiere esperto. Era in maniche di camicia, e questa non gli andava per niente a pennello, visto che era lunga di maniche come se fosse stato un ragazzino con gli abiti acquistati "a crescenza". Robyn quasi sorrise di sollievo, mentre valutava la figura che le andava incontro. Già immaginava la descrizione che ne avrebbe fatto a Charles o a Penny - "un ometto buffo"- tuttavria il vigore della sua stretta di mano e la luce che brillava nei suoi occhi castani, le consigliarono di non sottovalutarlo.</div>
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[...]</div>
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"Noi, per l'esame di maturità, abbiamo preparato il Giulio Cesare," la interruppe Wilcox. "Dovevamo impararne a memoria brani interi. Lo detestavo. L'insegnante era uno del Sud con la puzza sotto il naso, che ci rompeva l'anima ... Ci prendeva in giro per il nostro accento."</div>
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"Il mio campo di studi è il romanzo del XIX secolo," spiegò Robyn. Poi aggiunse: "E gli studi femminili."</div>
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"Studi femminili?" fece eco Wilcox, aggrottando la fronte.</div>
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"Di che si tratta?"</div>
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"Oh, donne scrittrici... E come venivano rappresentate le donne nella letteratura. Teoria critica femminista."</div>
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Wilcox tirò su con il naso. "Date una laurea per cose del genere?"</div>
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"È solo un corso nel piano di studi," ribatté Robyn irrigidendosi.</div>
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"E facoltativo." </div>
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"Robetta da poco, se vuole la mia opinione," osservò Wilcox. "Però immagino che vada bene per le ragazze."</div>
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. "Lo seguono anche i ragazzi," insistette Robyn. "E la quantità di matenale da leggere è piuttosto notevole, in realtà."</div>
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" "Ragazzi?" ripeté Wilcox, arricciando il labbro superiore. "Femminucce."</div>
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"Giovanotti assolutamente normali, seri, intelligenti," rispose la ragazza, sforzandosi di mantenere la calma.</div>
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"Perché allora non studiano qualcosa di utile?"</div>
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"Come ingegneria meccanica?"</div>
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"L'ha detto!"</div>
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Robyn sospirò. "Devo davvero spiegarglielo?"</div>
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"No, se non lo desidera."</div>
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"Perché loro sono più interessati alle idee, ai sentimenti, piuttosto che alle macchine e al loro funzionamento."</div>
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"Le idee e i sentimenti, però, non servono per pagare l' affitto."</div>
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"Allora l'unico criterio di valutazione è il denaro!"</div>
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"Non ne conosco uno migliore."</div>
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"E che ne è della felicità?"</div>
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"La felicità?" Wilcox parve sorpreso, come se si sentisse sconcertato per la prima volta.</div>
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"Sì. Io non guadagno molto, ma sono felice del mio lavoro. O almeno lo sarei, se avessi la sicurezza di non perderlo."</div>
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"Perderlo, perché?</div>
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Quando la ragazza gli ebbe spiegato la sua situazione, Wilcox parve più colpito dal fatto che i suoi colleghi fossero inamovibili che dalla vulnerabilità della posizione di lei. "Lei intende dire che hanno il lavoro assicurato per tutta la vita?" chiese.</div>
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"Be', sì. Ma il governo vuole abolire il sistema delle cattedre a vita, in futuro."</div>
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"Direi proprio che dovrebbe farlo!"</div>
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"Ma avere la cattedra permanente è essenziale!" esclamò Robyn. E l'unica garanzia di libertà accademica. E uno del principi per cui abbiamo fatto la dimostrazione la settimana scorsa."</div>
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"Un momento ... Un momento," disse Wilcox. "Lei dimostrava in favore del diritto degli altri professori di avere un impiego a vita?"</div>
<div style="text-align: justify;">
"In parte," rispose la giovane donna.</div>
<div style="text-align: justify;">
"Ma se sono inamovibili, non ci sarà mai posto per lei, nonostante possa essere molto più brava di loro come insegnante." </div>
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Questo pensiero aveva già attraversato la mente di Robyn in precedenza, ma lei lo aveva scacciato, considerandolo ignobile.</div>
<div style="text-align: justify;">
"È il principio che conta," rispose. "Inoltre, se non fosse per i tagli, a quest'ora avrei già avuto un incarico permanente. Bisognerebbe far iscrivere più studenti, non meno."</div>
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"Lei pensa che le università debbano espandersi all'infinito?"</div>
<div style="text-align: justify;">
"Non all'infinito, ma ... "</div>
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"Abbastanza per accogliere tutti quelli che vogliono occuparsi di studi femminili?"</div>
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"Se proprio vuole metterla in questo modo, sì!" ribatté Robyn, in tono di sfida.</div>
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"Chi paga?"</div>
<div style="text-align: justify;">
"Lei continua ricondurre tutto al denaro."</div>
<div style="text-align: justify;">
"È ciò che si impara nel mondo degli affari. 'Non esiste qualcosa come un pasto gratuito.' Chi l'ha detto?"</div>
<div style="text-align: justify;">
Robyn scrollò le spalle. "Non lo so. Qualche economista di destra, suppongo."</div>
<div style="text-align: justify;">
"Chiunque fosse, aveva la testa ben piantata sulle spalle. Io l'ho letto non so dove, sul giornale. 'Non esiste qualcosa come un pasto gratuito."' Fece di nuovo quella risata roca che sembrava un latrato. "Qualcuno deve pur sempre pagare il conto."</div>
<div style="text-align: justify;">
Lanciò un'occhiata all'orologio. "Be', suppongo che sia meglio che la porti a visitare la fabbrica. Mi dia solo qualche minuto, per favore." Si alzò, afferrò la giacca e se la infilò.</div>
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[...]</div>
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i mobili un po' logori, che poggiavano su gambe volte all'nfuori, le stesse riviste commerciali sparse sui tavolini bassi, gli stessi pezzi lucidati di macchinari (cosi perlomeno sembrava all'occhio inesperto di Robyn) in custodie polverose da esposizione, la stessa permanente. sulle teste delle segretarie, compresa quella che, lanciando occhiate curiose a Robyn, li accompagnò nell'ufficio di Norman Cole. Come quello di Wilcox, anche questo era un ampia stanza incolore, con una scrivania manageriale da un lato e, dall'altro, un tavolo lungo per le riunioni a cui lui li invitò a sedere. Cole era un uomo corpulento e calvo, che sbatteva continuamente le palpebre dietro gli occhiali e fumava la pipa, anzi picchiava, raschiava, soffiava, succhiava e spesso metteva fiammiferi accesi sopra una pipa ma, quanto al fumo, da tutta questa attività ne ricavava ben poco. Emanava invece una falsa aria di bonomia.</div>
<div style="text-align: justify;">
"Ah, ah, ah!" esclamò, dopo che Wilcox gli ebbe spiegato la presenza di Robyn. "Fingerò di crederci, Vic. Molti altri non lo farebbero."</div>
<div style="text-align: justify;">
Si voltò poi verso Robyn. "E lei che cosa fa all'università, signorina ... " </div>
<div style="text-align: justify;">
Dottore," intervenne Wilcox. "È il dottor Penrose."</div>
<div style="text-align: justify;">
Ah, lavora nel campo medico?"</div>
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"No, insegno letteratura inglese" rispose la ragazza.</div>
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"E si occupa di studi femminili," aggiunse Wilcox con una smorfia. </div>
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"Non vado matto per gli studi femminili, ah, ah!" disse Cole.</div>
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"Ma mi piacciono i buoni libri. Al momento sto leggendo Uccelli di rovo." Guardò Robyn con aria speranzosa.</div>
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"Temo di non averlo letto," rispose la giovane donna.</div>
<div style="text-align: justify;">
"Allora, come vanno gli affari, Norman?" chiese Wilcox.</div>
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"Non bisogna lamentarsi," ribatté l'altro.</div>
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[...]</div>
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Quando furono tornati in macchina, Robyn domandò: "Perché è stato a fare tutti quei calcoli, se era già disposto a scendere del tre per cento?"</div>
<div style="text-align: justify;">
"Per raggirarlo, facendogli credere di avermi messo alle strette, di aver fatto lui un affare. Non che ciò lo abbia ingannato, è un vecchio furbacchione, quel Ted Stoker."</div>
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"Non le ha detto chi fosse l'altra società."</div>
<div style="text-align: justify;">
"Non ci speravo. Volevo solo vedere l'espressione del suo viso mentre glielo chiedevo."</div>
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"E la sua faccia che cosa le ha detto?"</div>
<div style="text-align: justify;">
"Non sta bluffando. C'è davvero qualcuno che gli offre il quattro o cinque per cento in meno del nostro prezzo e, ciò che è più importante, stanno già fornendo la Rawlinson. Ciò significa che posso scoprire di chi si tratta."</div>
<div style="text-align: justify;">
"Come?"</div>
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"Farò in modo che un paio dei nostri rappresentanti si appostino in macchina fuori della Rawlinson, per annotare il nome scritto su ogni carro merci che entra in quel posto. Possono restare lì tutta la settimana, se è necessario. Con un po' di fortuna riusciremo a scoprire chi sta consegnando monoblocchi e dadove provengono."</div>
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"Vale la pena di spingersi a tanto?" chiese Robyn. "Quanto vale in realtà tutto l'affare?"</div>
<div style="text-align: justify;">
Wilcox rifletté per un istante. "Non cosi tanto," ammise. "Ma è una questione di principio. Non mi piace essere sconfitto," disse, premendo l'acceleratore, in modo che la Jaguar si slanciò in avanti con uno stridore di gomme. "Se il fornitore misterioso risulta essere la Foundrax, farò pentire Norman Cole di essere nato."</div>
<div style="text-align: justify;">
"Come?"</div>
<div style="text-align: justify;">
"Lo rovinerò, andrò ad attaccare gli altri suoi clienti."</div>
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"Intende dire che li assalirà?" chiese la giovane donna, scandalizzata.</div>
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Wilcox scoppiò a ridere, la prima risata fragorosa che mai gli avesse sentito fare. "Che cosa crede che siamo? La mafia?"</div>
<div style="text-align: justify;">
Robyn arrossi. Il discorso melodrammatico di Vic a proposito di piazzare degli uomini a spiare la Rawlinson, l'aveva fuorviata.</div>
<div style="text-align: justify;">
"No, io intendo attaccarli con prezzi bassi," disse Wilcox, "sottrargli degli affari. Ribattere colpo su colpo: solo che il nostro colpo sarà molto superiore al suo. Non saprà chi l'ha colpito."</div>
<div style="text-align: justify;">
"Non vedo lo scopo di tutte queste manovre, intrighi e colpi bassi," disse Robyn. "Appena ottenete un vantaggio in un punto, lo perdete in un altro."</div>
<div style="text-align: justify;">
"Sono gli affari," ribatté Vie. "Dico sempre che è come una staffetta. Prima sei in testa, poi passi il testimone e qualcun altro prende il comando, poi li raggiungi ancora. Ma non c'è traguardo, la corsa non termina mai."</div>
<div style="text-align: justify;">
"Perciò chi guadagna, alla fine?"</div>
<div style="text-align: justify;">
"Guadagna il consumatore," rispose Wilcox, con aria contrita.</div>
<div style="text-align: justify;">
"Alla fine della storia, qualcuno ha una pompa più a buon mercato."</div>
<div style="text-align: justify;">
[...]</div>
<div style="text-align: justify;">
"No, è un messaggio metonimico molto chiaro."</div>
<div style="text-align: justify;">
"Meto ... che?"</div>
<div style="text-align: justify;">
"Metonimico. Uno degli strumenti basilari della semiotica è la distinzione operata fra metafora e metonimia. Vuole che glielo spieghi?"</div>
<div style="text-align: justify;">
"Servirà a passare il tempo."</div>
<div style="text-align: justify;">
"La metafora è una figura retorica basata sull'analogia, mentre la metonimia è fondata su un rapporto di dipendenza. Nella metafora si sostituisce un termine proprio con uno figurato, mentre nella metonimia si sostituisce il nome di una cosa o di una persona con un'altra parola che abbia con essa un rapporto di dipendenza, come la causa con l'effetto o viceversa."</div>
<div style="text-align: justify;">
"Non capisco una parola di quello che dice."</div>
<div style="text-align: justify;">
"Be', prenda uno dei vostri stampi. Il fondo della staffa si chiama 'draga', perché draga il pavimento, e la parte superiore si chiama 'coperchio', perché copre quella inferiore."</div>
<div style="text-align: justify;">
"Gliel'ho detto io."</div>
<div style="text-align: justify;">
"Lo so. Quello che non mi ha detto è che 'draga' è una metonimia e 'coperchio' è una metafora."</div>
<div style="text-align: justify;">
Vic grugni. "Che differenza c'è?"</div>
<div style="text-align: justify;">
"Si tratta solo di capire come funziona il linguaggio. Pensavo che le interessasse sapere come stanno le cose."</div>
<div style="text-align: justify;">
"Non capisco che cosa abbia a che fare con le sigarette."</div>
<div style="text-align: justify;">
"Nel caso di quel manifesto, l'immagine in senso metaforico rappresenta il corpo femminile e la fenditura nella seta è simile a una vagina ... "</div>
<div style="text-align: justify;">
A questa parola, Vic trasalì. "Lo dice lei."</div>
<div style="text-align: justify;">
"Tutti i buchi, le concavità, le fessure e le pieghe rappresentano gli organi genitali femminili."</div>
<div style="text-align: justify;">
"Lo dimostri."</div>
<div style="text-align: justify;">
"L'ha dimostrato Freud, con la sua felice analisi dei sogni," rispose Robyn. "Ma la pubblicità delle Marlboro non si serve di nessuna metafora. È questo in realtà il motivo per cui lei le fuma." </div>
<div style="text-align: justify;">
"Che cosa intende dire?" chiese lui, in tono sospettoso.</div>
<div style="text-align: justify;">
"Lei non ha nessuna voglia di considerare le cose in senso metaforico. Per quanto la riguarda, una sigaretta è una sigaretta."</div>
<div style="text-align: justify;">
"Esatto"</div>
<div style="text-align: justify;">
"La pubblicità delle Marlboro non intacca l'ingenua fede nella stabilità del significato. Stabilisce un legame metonimico, assolutamente falso, naturalmente, ma realisticamente plausibile, fra il fumare quella marca particolare e la vita all'aperto, sana ed eroica del cow-boy. Comprando quelle sigarette, si acquista uno</div>
<div style="text-align: justify;">
stile di vita o si immagina di viverlo."</div>
<div style="text-align: justify;">
"Balle!" esclamò Wilcox. "Io odio la campagna e l'aria aperta. Mi spaventa il fatto di andare in un campo dove ci sia una mucca."</div>
<div style="text-align: justify;">
"Be', allora forse è la solitudine del cow-boy della pubblicità che la attira. Cosi fiducioso in se stesso, indipendente molto virile."</div>
<div style="text-align: justify;">
"Non ho mai sentito un simile mucchio di balle in vita mia," disse Vic, il che, provenendo da lui, era da considerarsi un linguaggio ardito.</div>
<div style="text-align: justify;">
"'Balle' ... Ecco un'espressione interessante ... " rifletté Robyn. </div>
<div style="text-align: justify;">
"Oh, no!" gemette lui.</div>
<div style="text-align: justify;">
"Quando si dice che un uomo ha le 'balle', in tono di approvazione, si usa una metonimia, mentre se si afferma che qualcosa è un 'mucchio di balle' o uno 'sballamento' si usa una specie di metafora. La metonimia assegna delle qualità positive ai testicoli, mentre la metafora li usa per deprezzare qualcos'altro."</div>
<div style="text-align: justify;">
"Non ne posso più di questo argomento," dichiarò Wilcox.</div>
<div style="text-align: justify;">
"Le dispiace se fumo? Solo una normale, semplice sigaretta?"</div>
<div style="text-align: justify;">
"Se io posso sintonizzarmi sul Terzo programma," rispose Robyn.</div>
<div style="text-align: justify;">
[...] </div>
<div style="text-align: justify;">
Era tardi quando tornarono alla Pringle. La Renault di Robyn era sola e abbandonata in mezzo al parcheggio deserto. Wilcox si fermò accanto a essa. </div>
<div style="text-align: justify;">
"Grazie," disse Robyn. Cercò di aprire la portiera, ma l'impianto di chiusura centralizzata glielo impedì. Wilcox premette un pulsante e tutte le serrature dell'auto si aprirono di scatto.</div>
<div style="text-align: justify;">
"Odio questo aggeggio," disse Robyn. "E il sogno degli stupratori."</div>
<div style="text-align: justify;">
"Lei ha lo stupro fisso nel cervello," affermò Vic. Poi, senza guardarla, aggiunse: "Venga a pranzo, domenica prossima."</div>
<div style="text-align: justify;">
L'invito era cosi inatteso, ed espresso in modo così brusco, che lei si chiese se avesse sentito bene. Ma le successive parole di lui confermarono che aveva sentito bene.</div>
<div style="text-align: justify;">
"Niente di speciale," disse. "C'è solo la mia famiglia."</div>
<div style="text-align: justify;">
[...]</div>
<div style="text-align: justify;">
Era, in effetti, l'albergo più lussuoso in cui Robyn avesse messo piede come ospite, sebbene l'atmosfera fosse piuttosto quella di un country-club esclusivo, con una grande profusione di legno e di mattoni a vista, e ogni genere di servizi e attrezzature per la ricreazione e la cura del corpo: un salone di bellezza, una palestra, una sauna, una sala giochi e una piscina. "Schwimmbad!" esclamò la ragazza quando vide l'indicazione con la freccia.<br />
"Se lo avessi saputo, mi sarei portata il costume."<br />
"Ne compri uno," disse Vie. "C'è un negozio, laggiù:"<br />
"Che cosa? Per una sola nuotata?"<br />
"Perché no? Sono sicuro che lo userà altre volte, non è così?"<br />
Mentre Vie era al banco di registrazione, la ragazza si avviò a passo lento verso la boutique di articoli sportivi al lato opposto dell'atrio e passò in rassegna un piccolo scaffale pieno di bikini e costumi interi. Quanto più erano esigui, tanto più pareva che fossero costosi. "Troppo cari", fu il suo commento, una volta tornata al banco della reception.<br />
"Permetta che gliene regali uno," disse Vic.<br />
"No, grazie. Vorrei vedere la mia stanza. Scommetto che è enorme."<br />
Lo era. Il letto era un monolite, la scrivania era immensa, con il ripiano in cuoio, il tavolino per il caffè aveva la superficie di vetro. C'erano un televisore, un minibar e un ampio armadio, in cui i pochi capi del suo modesto guardaroba sembrarono sperdersi. Staccò degli acini d'uva dal cestino con la frutta, offerto dalla direzione, che era posto sul tavolino da caffè. Accese la radio sulla mensola accanto alletto, e le melodie di Schubert riempirono la stanza. Premette un altro pulsante, e le tende di pizzo, azionate elettricamente, si aprirono con un ronzio per rivelare, come in un'inquadratura in cinemascope, giardini progettati da un architetto e un lago artificiale. La stanza da bagno, tutta luccicante di sofisticati impianti idraulici, aveva due lavabi inseriti in qualcosa che pareva proprio marmo, ed era provvista di un corredo di asciugamani in diverse misure, più di quanti lei riuscisse a immaginare di poter usare. Dietro alla porta, c'erano due accappatoi in un involucro di plastica sigillato. Schubert filtrava nella stanza da bagno attraverso un altoparlante supplementare. Era l'unico suono nella suite: i doppi vetri, i tappeti fitti e spessi e la pesante porta di legno assorbivano qualsiasi rumore proveniente dal mondo esterno. Due settimane qui, pensò Robyn, e io potrei terminare Angeli del focolare e femmine infelici. </div>
<div style="text-align: justify;">
L'autista era rimasto in attesa, per portarli nel centro della città. Seduta sul sedile posteriore della Mercedes silenziosa e veloce, Robyn fu colpita dal contrasto tra le strade di Francoforte e le loro equivalenti nella povera vecchia Rumrnidge. Ogni cosa qui pareva pulita, fresca, verniciata da poco e accuratamente lucidata. Per terra non c'erano i soliti coni di carta per le patatine, lattine di birra ammaccate, scatole di cartone del pollo fritto schiacciate, contenitori di hamburger in politene o bicchieri di carta accartocciati. I marciapiedi avevano l'aria di essere stati lavati da poco, e la stessa cosa valeva per i pedoni. Gli edifici commerciali erano lustri ed eleganti. </div>
<div style="text-align: justify;">
"Be', hanno dovuto ricostruire dal niente dopo la guerra, no?" disse Vic, in risposta all'osservazione fatta a questo proposito dalla ragazza. "Noi avevamo quasi raso al suolo Francoforte."<br />
"Anche il centro di Rummidge è stato quasi raso al suolo," ribatté la ragazza.<br />
"Non dalle bombe."<br />
"No. Dai pianificatori dello sviluppo della città. Ma non hanno ricostruito in questo modo, è vero?" .<br />
"Non potevano permetterselo. Come si suol dire, noi abbiamo vinto la guerra, ma perso la pace."<br />
"Perché?"<br />
Vic rifletté un momento. "Siamo stati troppo avidi, troppo pigri," rispose. "Negli anni cinquanta e sessanta, quando avremmo potuto vendere qualsiasi cosa, abbiamo continuato a utilizzare dei macchinari obsoleti e a pagare ai sindacati qualsiasi cifra chiedessero, mentre i crucchi investivano in nuove tecnologie e spuntavano contratti ragionevoli con le maestranze. Quando i tempi si sono fatti più duri, i risultati si sono visti. Qui credono di avere una recessione, ma non è niente in confronto a quella che abbiamo noi."</div>
<div style="text-align: justify;">
[...]</div>
<div style="text-align: justify;">
"È inutile rammaricarsi per il buon tempo andato, che in realtà era il buon tempo della noia," disse con impazienza Bob Busby. "La materia si è arricchita enormemente da quando tu hai cominciato, Rupert. Adesso abbiamo la linguistica, gli studi sui mezzi di comunicazione, la letteratura americana, la letteratura del Commonwealth, la teoria letteraria, gli studi femminili, per non parlare dei nuovi scrittori britannici che meritano una seria considerazione. Noi non possiamo coprire tutto questo in tre anni. È necessario un sistema di corsi facoltativi."<br />
"E cosi si finisce con centosettantatré testi d'esame e con un'infinità di sovrapposizioni orarie," ribatté Rupert Sutcliffe. "Meglio questo che un programma di studi che non lascia scelta agli studenti," commentò Robyn. "In ogni caso, il signor Wilcox è in malafede. Produce più di una cosa nella sua fabbrica. Anzi, fa un mucchio di cose diverse." <br />
"È vero," rispose Vic. "Ma non tante quante ne venivano fabbricate quando sono subentrato io. Il punto è che un'operazione ripetibile è sempre meno costosa e più sicura di una che deve essere programmata ogni volta."<br />
"Ma la ripetitività è la morte!" gridò Robyn. "La diversità è vita. La diversità è il presupposto del suo significato. La lingua è un sistema di differenze, come disse Saussure." </div>
Antonio De Bellishttp://www.blogger.com/profile/08589288385447295429noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3437498411039201584.post-75945526091625587302012-07-30T23:16:00.003+02:002012-07-30T23:16:40.469+02:00Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano - Eric Emmanuel Schmitt<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi6uxvBQ2kI4E7PlItAYF6KRAdUnlhU7TVY3GXIQbA4CaO-HZXAJzWrbzSCSPD2zz7zJwJ0SOzyAmqgHQAEcvgwZvRP-HfN8jXYlfoxwRdCAMsJzT6P4lexL_2cBJEKosRROWJzV3Mkn28/s1600/Schmitt+-+Monsieur+Ibrahim.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi6uxvBQ2kI4E7PlItAYF6KRAdUnlhU7TVY3GXIQbA4CaO-HZXAJzWrbzSCSPD2zz7zJwJ0SOzyAmqgHQAEcvgwZvRP-HfN8jXYlfoxwRdCAMsJzT6P4lexL_2cBJEKosRROWJzV3Mkn28/s200/Schmitt+-+Monsieur+Ibrahim.jpg" width="128" /></a></div>
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<b>Con l'arrivo delle vacanze ho ripreso finalmente a leggere libri. Il primo della serie è questo brevissimo racconto da cui hanno anche tratto un <a href="http://en.wikipedia.org/wiki/Monsieur_Ibrahim" target="_blank">film</a>. La storia è edificante: l'incontro tra un bambino ebreo e un anziano musulmano</b> <b>che diventerà il suo padre adottivo nella Francia degli anni sessanta. Tramite l'interazione tra i due emergono le differenze tra le due culture e le rispettive religioni e si intravede quello che può essere un terreno di dialogo comune costituito dalla tolleranza, il rispetto e la ricerca del vero significato della vita. Il racconto scorre leggero nonostante uno sfondo tragico e alienato della famiglia del ragazzo ed è disseminato di spunti di saggezza e ottimismo. Peccato per l'estrema brevità.</b></div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
"Monsieur Ibrahim, quando dico che il sorriso è roba da ricchi, intendo dire che è roba per gente felice"</div>
<div style="text-align: justify;">
Ecco, è qui che ti sbagli. E' il sorridere che rende felici".</div>
<div style="text-align: justify;">
"Col cavolo"!.</div>
<div style="text-align: justify;">
"Prova".</div>
<div style="text-align: justify;">
"Col cavolo, ho detto".</div>
<div style="text-align: justify;">
"Ma scusa, Momo, tu sei educato, no"?</div>
<div style="text-align: justify;">
"Per forza, se non voglio rimediare un ceffone".</div>
<div style="text-align: justify;">
"Ecco. Educato va bene. Cordiale è meglio. Prova a sorridere e vedrai".</div>
<div style="text-align: justify;">
Beh, dopo tutto, con monsieur Ibrahim che me lo chiede con tanta gentilezza, allungandomi una scatoletta di <i>choucroute </i>di qualità sopraffina, vale la pena provare...</div>
<div style="text-align: justify;">
Il giorno dopo, sembro un malato che si sia beccato il virus durante la notte: sorrido a tutti.</div>
<div style="text-align: justify;">
"Mi spiace, professoressa, non l'ho capito il problema di matematica".</div>
<div style="text-align: justify;">
E zac! un sorriso.</div>
<div style="text-align: justify;">
"Non sono proprio riuscito a farlo"!</div>
<div style="text-align: justify;">
"Va bene, Mosè, te lo rispiego".</div>
<div style="text-align: justify;">
Una cosa mai vista. Non uno strillo, non una minaccia. Niente.</div>
<div style="text-align: justify;">
Alla mensa...</div>
<div style="text-align: justify;">
"Posso avere un po' di crema di marroni"?</div>
<div style="text-align: justify;">
E zac! un sorriso.</div>
<div style="text-align: justify;">
"Grazie, con un po' di formaggio bianco".</div>
<div style="text-align: justify;">
E mi danno quello che chiedo.</div>
<div style="text-align: justify;">
L'euforia è totale. Più niente mi resiste.</div>
<div style="text-align: justify;">
Mounsieur Ibrahim mi ha dotato dell'arma assoluta.</div>
<div style="text-align: justify;">
[...]</div>
<div style="text-align: justify;">
Dopo avermi accettato nella sua corte di pretendenti, Miriam cominciava a respingermi in quanto candidato di poco valore.</div>
<div style="text-align: justify;">
"Non fa niente" diceva monsieur Ibrahim. "Il tuo amore per lei è tuo. Ti appartiene. Anche se lei lo rifiuta, non lo può cambiare. Semplicemente non ne approfitta, ecco tutto. Quello che tu dai, Momo, è tuo per la vita; e quello che non dai è perduto per sempre"!</div>
<div style="text-align: justify;">
[...]</div>
<div style="text-align: justify;">
Nessuno voleva saperne di noi. Ma monsieur Ibrahim non si lasciava scoraggiare.</div>
<div style="text-align: justify;">
"Il no ce l'abbiamo già in tasca, Momo. Ora non ci resta che ottenere il si".</div>
<div style="text-align: justify;">
[...]</div>
<div style="text-align: justify;">
"Quando vuoi sapere se il posto dove i trovi è ricco o povero, guarda la spazzatura. Se non vedi immondizia nè pattumiere, vuol dire che è molto ricco. Se vedi pattumiere ma non immondizia, è ricco. Se l'immondizia è accanto alle pattumiere, non è nè ricco nè povero: è turistico. Se vedi l'immondizia e non le pattumiere, è povero. E se c'è la gente che abita in mezzo ai rifiuti, vuol dire che è molto, molto povero."</div>
<div style="text-align: justify;">
[...]</div>
<div style="text-align: justify;">
Vedi, Momo, nella mia vita avrò anche lavorato molto, ma ho lavorato lentamente, prendendomi il mio tempo, senza dannarmi l'anima per incassare di più o accaparrarmi i clienti, no. Il segreto della felicità è la lentezza.</div>
<div style="text-align: justify;">
[...] </div>
<div style="text-align: justify;">
<i>L'oro non ha bisogno della pietra filosofale, il rame sì. Migliorati.</i></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Ciò che è vivo, fallo morire: è il tuo corpo.</i></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Ciò che è morto, vivificalo: è il tuo cuore.</i></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Ciò che è presente, nascondilo: è il mondo di quaggiù.</i></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Ciò che è assente fallo venire: è il mondo della vita futura.</i></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Ciò che esiste annientalo: è la passione.</i></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Ciò che non esiste, producilo: è l'intenzione.</i></div>
<div style="text-align: justify;">
Rumi<i><br /></i></div>
<br />Antonio De Bellishttp://www.blogger.com/profile/08589288385447295429noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3437498411039201584.post-20625004386465953982012-04-10T23:01:00.000+02:002012-04-10T23:01:14.079+02:00Ad occhi chiusi - Gianrico Carofiglio<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjSHPMeXn1ctYs2oL5sKgVMIZN_M35tzol3hzH4xHFkb4C61Gf22ldcJC6wP925tHJ3jwnaMBW8gMZ9hP6nt1WkJtYcqQWQMFf5BvOGnq3bzC2N5LgujTKHhD_YgsddVrYMnfE058Lq3bE/s1600/Carofiglio+-+Ad+occhi+chiusi.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjSHPMeXn1ctYs2oL5sKgVMIZN_M35tzol3hzH4xHFkb4C61Gf22ldcJC6wP925tHJ3jwnaMBW8gMZ9hP6nt1WkJtYcqQWQMFf5BvOGnq3bzC2N5LgujTKHhD_YgsddVrYMnfE058Lq3bE/s200/Carofiglio+-+Ad+occhi+chiusi.jpg" width="140" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<b>Legal thriller con cui Carofiglio affronta il tema degli abusi su minori e adulti. A tratti la storia è coinvolgente ma non tutto funziona alla perfezione. I personaggi sono a volte troppo scontati (il marito violento) e a volte poco probabili (la coprotagonista esperta di arti marziali). Buona la parte in aula ma i momenti migliori sono le digressioni che non centrano nulla con la storia. Come quella che trascrivo di seguito in cui l'autore descrive l'incontro del protagonista con un vecchio amico. E' l'occasione per una amara considerazione sulle amicizie dopo i quarant'anni e la precarietà della vita.</b> <b>L'altra divagazione interessante è la storia del ju-jitsu. Ah, ho imparato che il termine "kung fu" significa "lavoro duro."</b></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Forse quindici anni che non ci vedevamo. Forse di più. Quando fummo vicini l'uno all'altro, dopo un attimo di esitazione mi abbracciò. Dopo un altro attimo di esitazione risposi all'abbraccio. Emilio Ranieri era stato mio compagno di scuola al liceo e poi, per due o tre anni, avevamo frequentato insieme l'università. Lui aveva smesso prima di laurearsi, per andare a fare il giornalista. Aveva cominciato con una radio in Toscana e poi lo avevano assunto all'Unità, dove era rimasto fino a quando il giornale non aveva chiuso.Ogni tanto me ne avevano parlato alcuni amici comuni; sempre di meno, col passare degli anni. Nel periodo mitico della mia vita, a cavallo fra la fine degli anni settanta e l'inizio degli anni ottanta, Emilio era stato uno dei miei pochissimi veri amici. Poi era scomparso; e in un certo senso, anch'io ero scomparso. «Guido. Sono contento. Cazzo se non sei uguale, a parte qualche capello in meno». Lui non era uguale. Aveva ancora tutti i capelli ma erano quasi completamente bianchi. Agli angoli degli occhi aveva rughe che sembravano scavate nel cuoio; violente e dolorose, mi parvero. E anche il sorriso aveva qualcosa di diverso; di spaurito e vinto.<br /><br />Però anch'io ero contento. Anzi ero felice di averlo incontrato. Il mio amico Emilio. «Anch'io sono contento. Che cosa ci fai a Bari?». «Adesso ci lavoro». «Come sarebbe: ci lavori?». «Ero disoccupato da quando ha chiuso l'Unità. Poi ho saputo che qui a Bari cercavano gente per rinforzare la redazione dell'ANSA, mi sono proposto e mi hanno preso. Con i tempi che corrono si può dire che mi è andata bene». «Vuoi dire che adesso stai qua stabilmente?». «Se non mi cacciano. Cosa non impossibile, ma insomma cercherò di comportarmi bene». Mentre Emilio parlava provai uno stranissimo, doloroso misto di contentezza, rabbia e malinconia. Mi ero reso conto, a un tratto, di una verità che avevo tenuto accuratamente nascosta a me stesso: da tempo non avevo più un solo amico. Forse questo è normale, quando arrivi dalle parti dei quaranta. Tutti hanno i cazzi loro; famiglie,bambini, separazioni, carriere, amanti; e l'amicizia è un lusso che non si possono permettere. Forse l'amicizia vera è un lusso di quando hai vent'anni. O forse dico solo cazzate. Certo è che in quel momento mi resi conto, dolorosamente, del fatto che non avevo più amici. E però ero così contento che Emilio fosse lì con me; contento che quel processo fosse saltato;contento di aver deciso di prendermi un'ora di vacanza. «Andiamo a prendere un caffè, dai». Andiamo, fece lui, di nuovo con quel sorriso spaurito. Così incongruo su quella faccia da capo del servizio d'ordine della FOCI ai tempi delle botte con i fascisti da una parte e gli autonomi dall'altra. Ci sedemmo in un piccolo bar ai confini della città vecchia. Io presi un cappuccino ed un cornetto; Emilio solo il caffè. Dopo averlo bevuto si accese una delle emmesse che fumava sin dai tempi del liceo. Quella non era la sigaretta ultraslim, ultralight di Martina, cui era facilissimo rinunciare. Quella era un pezzo di storia, un prisma di emozioni, una specie di macchina del tempo.Quando dissi no grazie, con un banale gesto della mano, quasi a respingere il pacchetto che Emilio mi aveva offerto, notai una specie di disappunto sulla faccia del mio amico. Fumare insieme, lo sapevo bene, aveva sempre avuto un significato speciale. Come un rituale di amicizia. Scambiammo un po' di parole senza consistenza, di quelle che si dicono per ristabilire un contatto, quando è passato tanto tempo; di quelle che si dicono per ricreare le coordinate di un territorio che è diventato sconosciuto. E fu senza consistenza che gli chiesi di sua moglie – non l'avevo conosciuta, sapevo solo che Emilio si era sposato sei o sette anni prima, con una collega a Roma – facendo la solita, banale domanda che ci si scambia nei paraggi dei quaranta. «Tu sei separato o resisti?». Mentre la facevo, quella domanda, sentii calare un gelo metallico. Prima che Emilio rispondesse;prima ancora di finire quelle parole che ormai erano fuori e che non potevo ritirare. «Lucia è morta». La scena diventò in bianco e nero. Muta e assordante. E improvvisamente priva di senso.Mi venne in mente una frase di Fitzgerald, ma non me la ricordavo bene. <i>Nella notte buia dell'anima sono sempre le tre del mattino.</i><br />Si mescolò ai frammenti di una conversazione inesistente tutta nella mia testa, che girava a vuoto. Quando è morta? Perché? Ah, si chiamava Lucia. Molto lieto. È un bel nome, Lucia. Mi dispiace. Quanti anni aveva? Era bella? Come stai, Emilio? Condoglianze. Bisogna andare avanti. Perché nessuno mi ha detto niente? E chi me lo doveva dire? Chi? Oh merda, merda, merda.<br /><br />«Si è ammalata ed è morta in tre mesi». La voce di Emilio era tranquilla, quasi atona. Davanti alla mia faccia muta e dispersa raccontò la sua storia, e quella di Lucia. Ragazza di trentaquattro anni che un giorno di aprile andò dal medico a ritirare delle analisi, e seppe che il suo tempo era quasi scaduto. Anche se aveva tante cose da fare, ancora.Cose importanti, come un bambino, per esempio. «Sai, Guido, allora pensi un sacco di cose. E soprattutto pensi al tempo sprecato. Pensi alle passeggiate che non hai fatto, alle volte che non hai fatto l'amore, a quando hai mentito. A quando hai fatto il ragioniere con la moneta degli affetti. Lo so che è banale, ma pensi che vorresti tornare indietro e dirle quanto la ami, tutte le volte che non l'hai fatto e avresti dovuto. Cioè sempre. Non è solo il fatto che vuoi che non muoia. È il fatto che vorresti che il tempo non fosse stato sprecato, in quel modo». Parlava al presente. Perché il suo tempo si era spezzato. Mi raccontò tutto, con calma. Come se volesse esaurire l'argomento. Mi raccontò di come lei si era trasformata, in quelle poche settimane; di come la sua faccia era diventata piccola, e le sue braccia magre, e le sue mani senza forza. Io stavo zitto, e pensavo che in tutta la mia vita non avevo mai contemplato il dolore in una forma così tersa, nitida, pura. Disperata. Poi arrivò il momento di salutarci. Ci alzammo dal tavolino e facemmo qualche passo insieme. Emilio sembrava tranquillo. Io no. Tirò fuori il portafoglio, frugò un po' all'interno e poi ne tirò fuori uno scontrino. Di una lavanderia a gettone, di quelle che cominciavano ad apparire in città, con insegne gialle e un nome americano. Ci scrisse sopra il suo numero di telefono e me lo diede, mentre io gli passavo uno dei miei stupidi biglietti da visita. Mi disse di chiamarlo, e che comunque lui mi avrebbe chiamato. Sembrava tranquillo. I suoi occhi guardavano altrove. </div>
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[...]</div>
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La leggenda racconta che il Wing Tsun fu ideato da una monaca, per consentire anche a persone fisicamente deboli di prevalere su avversari molto grossi e forti. Del resto leggende del genere esistono in tutte le arti marziali. La più bella è quella sulle origini del ju-jitsu. Quella del medico giapponese e del salice piangente. La conosci?». «No. Raccontamela».«C'era un medico, nel Giappone antico, che aveva passato molti anni a studiare i metodi di combattimento. Voleva scoprire il segreto della vittoria ma era insoddisfatto, perché alla fine in ogni sistema a prevalere era la forza, o la qualità delle armi, o espedienti ignobili. Questo significava che per quanto uno si allenasse e studiasse le arti marziali, per quanto fosse forte o preparato, avrebbe sempre potuto trovare un altro più forte, o meglio armato, o più scaltro, che l'avrebbe sconfitto». Si interruppe, come se le fosse passato per la testa un pensiero molesto. «Ti interessa davvero o vuoi solo essere gentile?». Cosa si risponde a una domanda del genere? Fatta da una signorina – una suora – che ha appena finito di pestare un energumeno di un metro e novanta, come se stesse facendo un gioco di prestigio? Niente, si risponde. È chiaro.<br /><br />Mi limitai a guardarla in faccia con una espressione leggermente buffa del tipo: potremmo-anche-fìnirla-con-queste-schermaglie. O anche: non-sono-il-tipo-che-dice-una-cosa-solo-per-essere-gentile. Incredibilmente funzionò. I suoi tratti si rilassarono un poco, e la sua faccia per la prima volta perse un po' della sua durezza. Trasformandosi. Carina, mi scappò di pensare, ma subito repressi il pensiero, vergognandomene. Anche se molto, molto strana, Claudia era una suora; ed io dalle suore avevo fatto tutte le scuole elementari. Certi schemi, certi modelli, certe associazioni sono molto difficili da abbandonare, se hai fatto le elementari dalle suore. Non si dice, e nemmeno si pensa che una suora è carina. Claudia riprese a raccontare senza fare altri commenti. Io smisi di pensare alle suore, in generale ed in particolare; e ai miei banali tabù.«Insomma, questo medico era avvilito, perché non faceva progressi nella sua ricerca. Un giorno d'inverno era seduto vicino ad una finestra, mentre fuori nevicava da ore. Guardava fuori, seguendo i suoi pensieri. Tutto il paesaggio era imbiancato, con tanta, tantissima neve. I prati, le rocce, le case erano coperti di neve. Ed anche gli alberi. I rami degli alberi erano carichi di neve, e a un certo punto il medico vide il ramo di un ciliegio che cedeva per il peso della neve, e si spezzava. Poi successe la stessa cosa con una grossa quercia. Era una nevicata mai vista». Certamente io ho un'indole infantile. Mi piace che mi raccontino delle storie, se chi le racconta è bravo. Claudia era brava ed io volevo sapere come andava a finire.«Nel parco, un po' più lontano dalla finestra, c'era uno stagno e intorno dei salici piangenti. La neve cadeva anche sui rami dei salici, ma non appena cominciava ad accumularsi, quei rami si piegavano e la neve cadeva a terra. I rami dei salici non si spezzavano. Vedendo quella scena il medico provò un improvviso senso di esultanza e si rese conto di essere giunto alla fine della sua ricerca. Il segreto del combattimento era nella non-resistenza. Chi è cedevole supera le prove; chi è duro, rigido, prima o poi viene sconfitto, e spezzato. Prima o poi troverà qualcuno più forte. Ju-jitsu significa: arte della cedevolezza. Il segreto era la cedevolezza. Nel Wing Tsun è più o meno la stessa cosa». Pensai che se il segreto era la cedevolezza, non sembrava che lei se ne fosse impossessata del tutto. Per dirla chiaramente: Claudia non dava l'impressione di una persona cedevole.Lei mi lesse nel pensiero. O più probabilmente si limitò a proseguire il discorso che aveva in mente.«Ovviamente bisogna intendersi su cosa significhi cedevolezza. Significa resistere fino ad un certo punto, e poi sapere esattamente in quale momento cedere, e sviare la forza dell'avversario, che alla fine si ritorce contro di lui. Il segreto dovrebbe essere nel saper trovare il punto di equilibrio fra resistenza e cedevolezza; cedevolezza e resistenza; debolezza e forza. Il principio della vittoria dovrebbe essere tutto qui. Fare esattamente il contrario di quello che l'avversario si aspetta, e che ate verrebbe naturale, o spontaneo. Qualunque cosa significhino queste due parole». Già, pensai. Vale anche per altro. Fare esattamente il contrario di quello che l'avversario si aspetta, e che a te stesso verrebbe naturale o spontaneo. Qualunque cosa significhino queste due parole.</div>
<span class="a" style="left: 494px; top: 3245px; word-spacing: -5px;"></span>Antonio De Bellishttp://www.blogger.com/profile/08589288385447295429noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-3437498411039201584.post-69857785539012254382012-01-31T23:24:00.002+01:002012-01-31T23:24:55.542+01:00Le Notti Bianche - Fedor Dostoevskij<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj0L16hauTuukys0SeetsybNqWw4-HjoVGcrN3jOaHvF-OPAD4nUSfW6RhTRpLau7o_v5fcL6dq1EVwb6pDMIBabw3chhXM_N22cYxuRmY858LbTGEy1kKIrIsMiTN9sNRpQymOcy0HNy0/s1600/Dostoevskij+-+Le+notti+bianche.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj0L16hauTuukys0SeetsybNqWw4-HjoVGcrN3jOaHvF-OPAD4nUSfW6RhTRpLau7o_v5fcL6dq1EVwb6pDMIBabw3chhXM_N22cYxuRmY858LbTGEy1kKIrIsMiTN9sNRpQymOcy0HNy0/s200/Dostoevskij+-+Le+notti+bianche.jpg" width="122" /></a></div>
<b>Un inno a tutti i timidi e sognatori. Uno dei più poetici romanzi che siano mai stati scritti. Letto da adolescente più di vent'anni fa mi aveva convinto che l'amore per una donna può essere così forte da accettare che per la sua felicità lei ci lasci per un altro (aiutandola addirittura a riconquistarlo). Ora penso invece che amore e possesso siano inscindibili. E ciò che sostiene la protagonista femminile, che dice di amare con la stessa intensità i due uomini, siano fandonie. Nonostante la vicenda e la situazione siano anacronistici, rimane il valore del romanzo</b> <b>che riesce a trasportarci in un mondo in cui tutto è soffuso, delicato, rispettoso dei sentimenti degli altri. Un mondo da sogno che non esiste.</b><br />
<br />
"Ma voi volete proprio sapere chi sono io?".<br />
"Certo, sì, sì!".<br />
"Nel senso stretto della parola?".<br />
"Nel senso più stretto della parola!".<br />
"Allora lasciatemi dire: sono un tipo".<br />
"Un tipo? Che tipo?", esclamò la ragazza scoppiando in una tale risata che sembrava che non avesse riso per un anno intero. "E' molto divertente stare con voi! Guardate: qui c'è una panchina; sediamoci! Qui non viene nessuno e nessuno potrà sentirci.<br />
Cominciate la vostra storia, anche se volete convincermi del contrario, voi avete una storia, solo che la nascondete. Prima di tutto, che cos'è un tipo?".<br />
"Un tipo? Un tipo è un originale, è un uomo ridicolo!", risposi io, scoppiando in una risata, dopo quella infantile di lei. "E' un carattere particolare. Sentite, voi sapete che cosa sia un sognatore?".<br />
"Un sognatore? Permettete, ma come si può non saperlo? Anch'io sono una sognatrice! A volte, quando sto seduta accanto alla nonna, quante cose mi passano per la testa! Quando si comincia a sognare, si possono immaginare tante cose, addirittura che sto per sposare un principe cinese... Ma d'altra parte, fa bene sognare!<br />
[...]<br />
"Esistono a Pietroburgo, Nasten'ka, alcuni strani angolini, anche se voi non li conoscete. In quei posti sembra che non arrivi quel sole che brilla per tutti gli abitanti di Pietroburgo, ma un altro sole, quasi ordinato appositamente per quegli angolini, e risplende di una luce diversa, particolare. In quegli angolini, cara Nasten'ka, sembra svolgersi una vita diversa, che non somiglia affatto a quella che ribolle intorno a noi, una vita come potrebbe svolgersi nel trentesimo regno di fiaba e non da noi, nella nostra epoca così seria e così dura. Ecco questa vita è un miscuglio di elementi puramente fantastici, ardentemente ideali e, ahimè, Nasten'ka, di elementi banalmente prosaici e abitudinari, per non dire inverosimilmente volgari".<br />
"Oh, Signore Iddio! Che introduzione! Che cosa sentirò ancora?".<br />
"Sentirete, Nasten'ka (credo che non smetterò mai di chiamarvi Nasten'ka), sentirete che in questi angolini vivono degli uomini strani, dei sognatori. Il sognatore, se serve una definizione precisa, non è un uomo ma, sapete, una specie di essere neutro. Si stabilisce prevalentemente in un angolino inaccessibile, come se volesse nascondersi perfino dalla luce del giorno, e ogni volta che si addentra nel suo angolino, vi aderisce come la chiocciola al guscio, e diventa simile a quell'animale divertente chiamato tartaruga, che è nello stesso tempo un animale e una casa. Perché pensate che egli ami tanto le sue quattro pareti, dipinte immancabilmente di verde, affumicate, tetre, annerite all'inverosimile? Perché questo signore ridicolo, quando va a trovarlo uno dei suoi rari conoscenti (e va a finire che tutti i suoi conoscenti si trasferiscono da qualche altra parte), gli va incontro così confuso, così alterato in volto e in preda a un tale turbamento, come se avesse appena commesso un crimine tra le sue quattro pareti, come se avesse fabbricato banconote false, o avesse mandato dei versi a qualche rivista insieme ad una lettera anonima, nella quale dichiara che veramente il poeta è ormai defunto, ma che un amico ritiene sacro dovere di far pubblicare l'opera poetica dello stesso? Perché, ditemi, Nasten'ka, la conversazione tra i due non lega? Perché dalla lingua dell'improvviso ospite e dell'amico titubante non esce fuori una risata o una parolina ardita? Eppure gli piace molto ridere, gli piacciono molto le paroline audaci, i discorsi sull'altro sesso e su altri argomenti divertenti. Perché infine questo amico, probabilmente conosciuto da poco, alla prima visita (perché in questo caso non ve ne sarà un seconda, né vi sarà un altro conoscente a fargli visita) si turba tanto, si irrigidisce, nonostante il suo animo scherzoso (se lo possiede), guardando il viso allarmato del padrone di casa, il quale a sua volta ha già fatto in tempo a smarrirsi ed a perdere completamente la bussola, dopo sforzi eroici, ma vani, per ravvivare e dare brio alla conversazione, per dimostrare da parte sua una certa familiarità con le conoscenze della buona società, per parlare del bel sesso e magari, per condiscendenza, per rendersi simpatico a quel poveretto fuori posto, capitato da lui in visita per errore?<br />
<br />
Perché infine l'ospite afferra improvvisamente il cappello e se ne va in gran fretta, ricordandosi ad un tratto di un affare estremamente urgente, che non è mai esistito, e in qualche modo libera la sua mano dalle strette ardenti del padrone di casa, che in tutte le maniere cerca di mostrare un pentimento e di rimediare a ciò che sta perdendo? Perché l'amico, appena fuori dalla porta, scoppia in una risata e subito giura a se stesso di non andare più da quell'originale, nonostante che quell'originale sia in fondo un ragazzo delizioso, e nello stesso tempo in nessun modo può vietare alla sua immaginazione un piccolo piacere: quello di paragonare, anche da lontano, i lineamenti del recente interlocutore al momento del loro incontro con il muso di un gattino infelice, maltrattato dai bambini, spaventato, infastidito in tutti i modi, perfidamente imprigionato, del tutto smarrito, che finalmente è riuscito a nascondersi sotto una sedia, al buio, e lì, per un'ora intera, non fa che rizzare il pelo, sbuffare e lavare il suo musetto offeso con le due zampe, e a lungo considererà ancora in modo ostile la natura, la vita e il boccone dal pranzo del padrone, conservato per lui da qualche compassionevole domestica?".<br />
<br />
"Sentite", m'interruppe Nasten'ka, che per tutto il tempo mi aveva ascoltato con stupore, con gli occhi e la piccola bocca aperti, "sentite, non so come tutto ciò sia potuto accadere e perché rivolgiate proprio a me domande così ridicole; ma so con sicurezza che tutte queste avventure sono successe proprio a voi, precisamente".<br />
<br />
"Senza dubbio", risposi con un'espressione serissima in viso.<br />
<br />
"Se è così, allora continuate", rispose Nasten'ka, "perché ho tanta voglia di sapere come va a finire".<br />
<br />
"Volete sapere, Nasten'ka, che cosa faceva il nostro eroe nel suo angolino, o, per meglio dire, io, perché l'eroe di questo racconto sono io, proprio io, con la mia modesta persona; voi volete sapere perché mi ero sgomentato e smarrito per tutto il giorno, dopo un'improvvisa visita del mio amico? Volete sapere perché fossi così trasalito, così arrossito dopo aver aperto la porta della mia stanza, perché non avessi saputo accogliere un ospite e come fossi stato vergognosamente annientato dall'onere dell'ospitalità?".<br />
<br />
"Certo, sì, sì!", rispose Nasten'ka, "proprio così. Sentite, però, voi sapete raccontare meravigliosamente, ma non è possibile raccontare in modo meno meraviglioso? Sembra che parliate come un libro stampato".<br />
"Nasten'ka!", dissi con voce solenne e severa, a fatica trattenendo il riso, "cara Nasten'ka, so di parlare in tono sublime, ma dovete scusarmi, non so raccontare in modo diverso.<br />Adesso, cara Nasten'ka, assomiglio allo spirito del re Salomone rinchiuso per mille anni dentro una giara con sette sigilli e dalla quale infine hanno strappato tutti e sette i sigilli.<br />Adesso, diletta Nasten'ka, noi ci incontriamo di nuovo dopo una così lunga separazione, perché è da molto che io vi ho conosciuta, perché è da tanto tempo che cercavo qualcuno, e questo incontro è un segno che cercavo proprio voi e che ci era destinato di incontrarci ora. Adesso nella mia testa si sono aperti mille torrenti e io devo rovesciare fuori fiumi di parole, altrimenti soffoco. E così vi prego di non interrompermi, Nasten'ka, e di ascoltarmi, rassegnata e docile, altrimenti dovrò soffocare".<br />"No, no, per niente! Parlate! Adesso non dirò più una parola".<br />"Continuo: nella mia giornata, Nasten'ka, esiste un'ora che io amo in modo particolare. E' l'ora in cui finiscono quasi tutti gli affari, gli impegni e i doveri, e tutti quanti si affrettano a casa per pranzare e per riposare, e qui, per strada, pensano ad altri argomenti allegri, come potrebbero passare la serata, la notte, e tutto il tempo libero che ancora loro rimane... A quell'ora anche il nostro eroe, permettetemi, Nasten'ka, di raccontare in terza persona, perché mi vergogno terribilmente a raccontarlo in prima persona, e così a quell'ora il nostro eroe, che non è rimasto inattivo, cammina dietro agli altri. Ma una strana sensazione di contentezza si nota sul suo volto, così pallido da sembrare leggermente avvizzito. Egli guarda immedesimato nel crepuscolo che si spegne lentamente sul freddo cielo di Pietroburgo. Quando io dico guarda, non dico la verità; egli non guarda, contempla senza rendersene conto, come se fosse stanco o occupato al tempo stesso con altri pensieri più interessanti, tanto da poter solo di sfuggita, quasi involontariamente, dedicare un po' di tempo a ciò che gli sta intorno. Egli è contento, perché fino a domani ha lasciato i tediosi "affari", e si sente come uno scolaro al quale è stato concesso di correre via dal banco verso i suoi giochi preferiti e le birichinate. Guardatelo in disparte, Nasten'ka: vi accorgerete subito che la sensazione di gioia ha già influito felicemente sui suoi nervi deboli e morbosamente sulla sua immaginazione eccitata.<br />Ecco che egli pensa a qualcosa... Credete che pensi al pranzo?<br />Alla serata di oggi? Che cosa guarda in questo modo? Guarda forse quel signore dall'aspetto rispettabile che in modo così pittoresco ha salutato con un inchino la signora passatagli accanto in una magnifica carrozza trainata da cavalli briosi? No, Nasten'ka, che cosa gli importa di queste inezie? Egli è già ricco, adesso, "della sua particolare" vita, come se si fosse arricchito improvvisamente, e gli ultimi raggi del sole al tramonto non risplendono invano così allegramente per lui e richiamano in quel cuore intiepidito un intero sciame di sensazioni. Ora egli si accorge appena di quella strada che prima colpiva la sua immaginazione con ogni suo più piccolo particolare. Ora la "dea fantasia" (se aveste letto Zukovskij, cara Nasten'ka) ha già tessuto con la sua mano capricciosa la propria trama d'oro e ha disfatto davanti a lui i ricami di una vita insolita e meravigliosa e, chissà, forse lo ha trasportato con quella mano capricciosa al settimo cielo di cristallo, sollevandolo dal massiccio marciapiede di granito, sul quale egli stava camminando.<br />Provate a fermarlo ora, a chiedergli improvvisamente dove si trovi, quali vie ho percorso. Egli certamente non si ricorderà di nulla, né dove sia andato, né dove si trovi ora e, arrossendo per il dispetto, certamente dirà una bugia qualunque, tanto per salvare la faccia. Ecco perché è trasalito così, e per poco non si è messo a gridare, guardandosi intorno con spavento, quando un'anziana signora molto rispettabile lo ha fermato in mezzo al marciapiede per chiedergli informazioni sulla strada smarrita.<br />Accigliato per la stizza, egli riprende il cammino, accorgendosi appena che più di un passante ha sorriso e si è voltato a guardarlo e che qualche bambina, dopo avergli ceduto timorosamente il passo, è scoppiata in una fragorosa risata vedendo il suo largo sorriso contemplativo e i movimenti delle sue mani. E intanto la stessa fantasia ha sollevato in un volo giocoso la signora anziana, i passanti curiosi, la ragazza ridente e i contadini che passano la serata nelle loro chiatte ancorate sulla Fontanka (immaginiamo che il nostro eroe a quell'ora sia passato di lì), ha intessuto giocosamente tutto e tutti nel suo canovaccio, come mosche in una ragnatela; arricchito da ciò che ha acquistato, quell'originale è già tornato nella sua tana consolante, si è seduto per pranzare, anzi ha già pranzato ed è ritornato in sé solo quando Matrëna, che lo serve, meditabonda e eternamente triste, ha portato via ogni cosa dalla tavola e gli ha portato la pipa, allora è tornato in sé e ha ricordato con stupore di aver già pranzato, non rendendosi conto del tutto di come lo abbia fatto. La stanza è invasa dal buio; nella sua anima regnano il vuoto e la tristezza; tutto il regno dei sogni intorno a lui è crollato senza lasciare traccia, senza rumori, senza chiasso, è svanito come una visione, ed egli stesso non ricorda che cosa ha sognato. Ma una sensazione oscura a poco a poco strugge e agita sempre più il suo petto, un desiderio nuovo, tentatore, pizzica e irrita la sua fantasia e impercettibilmente attira uno sciame di nuovi fantasmi. Nella piccola stanza regna il silenzio: la solitudine e la pigrizia accarezzano la sua immaginazione; essa si infiamma piano, e piano si mette a bollire, come l'acqua nella caffettiera della vecchia Matrëna che nella cucina accanto prepara placidamente il suo caffè. Ecco che l'immaginazione di lui già prorompe in nuovi bagliori, ecco che il libro, aperto senza scopo e a caso, cade dalle mani del mio sognatore che non è giunto nemmeno alla terza pagina. La sua immaginazione è di nuovo riacutizzata, risvegliata, e improvvisamente un nuovo mondo, una nuova e affascinante vita ardono davanti a lui in tutta la loro scintillante prospettiva. Un nuovo sogno, una felicità nuova, una nuova dose di raffinato e voluttuoso veleno! Oh, che importanza ha per lui la nostra vita reale! Secondo il suo sguardo corrotto, noi due, Nasten'ka, viviamo con tale lentezza, pigrizia, fiacchezza, siamo così insoddisfatti del nostro destino, siamo così annoiati dalla nostra vita! E, infatti, guardate come in realtà i nostri rapporti al primo sguardo possono apparire freddi, tristi, quasi ostili... 'Poveri!', pensa il mio sognatore. E non è strano che pensi così! Guardate questi magici fantasmi che si dispongono in modo tanto ammaliante e capriccioso in un ampio quadro così accattivante, animato, dove in primo piano si trova sempre lui, il nostro sognatore, con la sua preziosa persona. Guardate quante avventure diverse, che infinito sciame di sogni esaltanti. Forse chiederete che cosa egli sogni. Che senso ha chiederlo? Egli sogna tutto...: sogna della missione del poeta, all'inizio non riconosciuto, poi rinomato, sogna l'amicizia con Hoffmann, la notte di San Bartolomeo, Diana Vernon, il ruolo eroico di Ivan Vasil'evitch alla presa di Kazan', Clara Movray, Evia Dens, il concilio di sacerdoti con Hus davanti a loro, la resurrezione dei morti di Robert (ricordate quella musica?, ha l'odore del cimitero), Minna e Brenda, la battaglia presso Berezina, la lettura di un poema nella casa della contessa V.D., Danton, Cleopatra e i suoi amanti, la casetta a Kolomna, il suo angolino e, vicino, una cara creatura che sta ad ascoltarlo in una sera d'inverno con gli occhi e la piccola bocca aperti, come mi ascoltate ora voi, mio piccolo angioletto... No, Nasten'ka, a che cosa servirebbe a lui, a quel voluttuoso pigrone, questa vita che noi due desideriamo tanto? Egli pensa che sia una vita povera, misera, non immaginando che anche per lui forse suonerà una volta quella triste ora, quando per un giorno di quella misera vita avrebbe dato tutti i suoi anni di fantasticherie, e non li avrebbe dati in cambio di gioia e di felicità, e non avrebbe voluto nemmeno scegliere in quell'ora di tristezza, di pentimento e di libero dolore. Intanto quell'ora, quell'ora non è ancora giunta; egli non desidera nulla, essendo superiore ad ogni desiderio e possedendo tutto, perché è sazio, perché lui stesso è artefice della sua vita creandola ad ogni momento, a suo capriccio. E con quanta leggerezza, con quanta naturalezza si crea questo mondo fantastico e fiabesco! Sembra addirittura che la sua visione sia palpabile! In quel momento egli si sente in diritto di credere che tutta quella vita non sia un effetto dell'eccitazione, un miraggio, un inganno dell'immaginazione, ma qualcosa di vero, di reale, di esistente. Ditemi, Nasten'ka, perché in momenti simili gli manca il respiro? Per quale magia, per quale volontà sconosciuta il polso gli si accelera, sgorgano le lacrime dagli occhi del sognatore, bruciano quelle guance pallide e umide, e tutta la sua esistenza si riempie di una gioia irresistibile?<br />Perché intere notti insonni passano come un lampo in una sconfinata felicità e allegria, e quando con i rosei raggi l'aurora brilla alla finestra e l'alba illumina la stanza con la sua luce fantastica e incerta, come da noi a Pietroburgo, il nostro sognatore affaticato e sfinito si butta sul letto e si addormenta nelle ansie della sua estasi, che avverte nel suo spirito morbosamente sconvolto, e con tale dolore languido-dolce nel cuore? Sì, Nasten'ka, ti inganni, e credi involontariamente dall'esterno che una vera passione agiti la sua anima, credi che vi sia qualcosa di vivo e di tangibile in quei sogni immateriali.<br />E quale inganno! Ecco, ad esempio, l'amore ha invaso il suo petto, con tutta la sua inesauribile gioia, con tutti i suoi languidi tormenti... Guardatelo, solo, e vi convincerete! Credete forse, guardandolo, cara Nasten'ka, che egli non abbia mai conosciuto colei che ha tanto amato nel suo frenetico sognare? Non l'ha forse veduta solo tra i seducenti fantasmi e l'ha solo sognata, questa passione? Non hanno forse passato, mano nella mano, molti anni della loro vita, da soli, in due, respingendo tutto il mondo e unendo ognuno il proprio mondo, la propria vita con la vita dell'altro? Non è stata forse lei, a quell'ora tarda, al momento della separazione, ad abbandonarsi, singhiozzante e in preda all'angoscia, sul petto di lui, sorda alla tempesta che si scatenava sotto il cielo oscurato, sorda al vento che strappava e portava via lacrime dalle ciglia nere? Tutto ciò era stato forse un sogno, e anche quel giardino, triste, abbandonato e selvaggio, con sentieri ricoperti di muschio, solitario, cupo, dove avevano passeggiato così spesso in due, dove avevano sperato, si erano angosciati, dove si erano amati così a lungo e così teneramente? E quella strana casa degli avi, dove lei era vissuta tanto tempo triste e in solitudine con il vecchio e tetro marito, bilioso, che taceva sempre e che spaventava loro, che erano timidi come bambini e si nascondevano a vicenda il loro amore reciproco con timore e con malinconia? Come soffrivano, come erano spaventati, come innocente e puro era il loro amore e come (e va da sé, Nasten'ka) erano cattivi gli uomini! Oh, Dio mio, ma non l'aveva incontrato forse dopo qualche tempo, lontana dalle rive della sua patria, sotto un cielo straniero, meridionale, caldo, in una città eterna e meravigliosa, nello sfolgorio di un ballo, al suono della musica, in un palazzo (proprio in un palazzo) immerso in un mare di luci, su quel balcone, ricoperto dal mirto e dalle rose? E lei, dopo averlo riconosciuto, si tolse in fretta la sua maschera e sussurrò: "Sono libera", e, tremando, si gettò tra le sue braccia, dopo un grido di esultanza, si abbracciarono e in un attimo dimenticarono la sofferenza, la separazione, tutti i tormenti, la casa triste, il vecchio, il giardino cupo nella patria lontana, la banchina sulla quale, dopo l'ultimo bacio appassionato, lei si strappò con disperata sofferenza dal suo abbraccio pietrificato...<br />
[...]<br />
Come la gioia e la felicità rendono l'uomo sublime! Come sussulta il cuore per l'amore! Sembra che lo si voglia riversare tutto in un altro cuore, si desidera che ogni cosa sia allegra, che ogni cosa rida. E come è contagiosa questa gioia! Ieri nelle sue parole c'era una tale tenerezza, e nel suo cuore una tale bontà... Come si preoccupava per me, come mi adulava, come incoraggiava e inteneriva il mio cuore! Oh, come era civettuola nella sua felicità! E io... Io prendevo tutto per moneta buona, credevo che lei...<br />
[...]<br />
"Sentite!", dissi in tono deciso. "Sentite, Nasten'ka! Ciò che vi dirò adesso sono tutte sciocchezze, castelli in aria, cose assurde! So che non potranno mai accadere, ma è lo stesso, non posso tacere. In nome delle vostre sofferenze, vi prego in anticipo di perdonarmi!...".<br />"Che cosa, che cosa?", domandò lei, smettendo di piangere e guardandomi con attenzione. Una strana curiosità brillava nei suoi occhi meravigliati. "Che cosa vi accade?".<br />"E' un castello in aria, ma io vi amo, Nasten'ka! Ecco, adesso ho detto tutto!", dichiarai, agitando le mani. "Ora considerate voi stessa, se potete parlare con me come avete parlato poco fa, se potete ascoltare ciò che vi dirò...".<br />"Che cosa, che cosa?", m'interruppe Nasten'ka. "Che cosa vuol dire questo? Sì, lo sapevo da tempo che voi mi amate, ma mi sembrava che voi mi amaste semplicemente così... Ah! Dio mio, Dio mio!".<br />"In principio fu così facile, Nasten'ka, ma ora, ora... Io sono nella stessa situazione vostra, quando siete andata da lui, col fagottino in mano. Ma io sto peggio di voi, Nasten'ka, perché lui allora non amava nessuno, voi invece sì".<br />"Perché me lo dite! Io non vi capisco per niente. Sentite, ma perché tutto questo, cioè per quale ragione voi così, ad un tratto, avete deciso di?... Dio! Io dico delle sciocchezze? Ma voi...".<br />Nasten'ka si turbò del tutto. Le gote le avvamparono ed abbassò gli occhi.<br />"Che devo fare, Nasten'ka, che fare? Sono colpevole, ho abusato della vostra fiducia... No, no, io non sono colpevole, Nasten'ka; lo sento, perché il mio cuore mi dà ragione, perché io non vi posso offendere, non vi posso umiliare in nessun modo. Ero il vostro amico, e anche ora lo sono. Non sono cambiato. Mi scorrono le lacrime, Nasten'ka. Lasciate che scorrano, lasciate che pianga, esse non disturbano nessuno. Si asciugheranno, Nasten'ka...".<br />"Ma sedetevi, sedetevi", disse lei, facendomi accomodare sulla panchina. "Oh! Dio mio!".<br />"No, Nasten'ka, non voglio sedermi; non posso più rimanere qui, voi non dovete più vedermi; vi dirò tutto, ma poi me ne andrò.<br />Voglio soltanto dirvi che non avreste mai saputo del mio amore, avrei mantenuto il mio segreto. Non starei ora, in questo momento, a tormentarvi con il mio egoismo. No! Ma non sono riuscito a trattenermi; voi stessa avete toccato l'argomento prima di me.<br />Siete colpevole voi, siete colpevole voi e non io. Non mi potete scacciare...".<br />"No, no, io non vi scaccio", disse Nasten'ka, nascondendo come poteva la propria agitazione; poveretta!<br />"Voi non mi scacciate? No! Io stesso avrei voluto fuggire lontano da voi. Me ne andrò, ma vi dirò tutto dall'inizio, perché quando voi avete parlato, io non sono riuscito a rimanere seduto. Quando avete pianto, quando avete sofferto, a causa (lo chiamerò con il proprio nome, Nasten'ka), a causa del suo rifiuto, del vostro amore respinto, ho avvertito, ho sentito nel mio cuore un tale amore per voi, Nasten'ka, un tale amore... E mi sentivo così amareggiato perché non ero in grado di aiutarvi con questo amore... da farmi spezzare il cuore, e io, io non ho potuto tacere, ho dovuto parlare, Nasten'ka, ho dovuto parlare!...".<br />"Sì, sì, parlatemi, parlatemi così!", disse Nasten'ka con un gesto vago. "Magari vi sembrerà strano che io vi parli così, ma...<br />raccontate tutto! Io vi dirò poi, vi racconterò tutto poi!".<br />"Voi avete compassione di me, Nasten'ka; semplicemente compassione, mia piccola amica. Quel che è stato. è stato! Ciò che è detto non torna indietro! Non è così? Ora sapete tutto. Questo è un momento decisivo. Bene! Adesso tutto questo è stupendo, ma ascoltatemi. Quando voi stavate seduta lì e piangevate, pensavo (lasciate che vi dica ciò che ho pensato!), pensavo che... (ma questo non potrà accadere mai, Nasten'ka), ho pensato che voi.. .<br />ho pensato in modo del tutto astratto che voi non l'amaste più. In quel caso, lo pensavo ieri e l'altro ieri, Nasten'ka, avrei detto certamente di tutto perché voi mi poteste amare: l'avete fatto, voi stessa avete detto che eravate quasi sul punto di innamorarvi di me. Che cosa, ancora? Vi ho detto quasi tutto ciò che volevo dire; rimane solo da dire che cosa sarebbe successo se vi foste innamorata di me, solo questo, nient'altro! Ascoltate allora, amica mia, visto che siete la mia amica: io sono un uomo semplice, povero, insignificante, ma questo non c'entra (mi sembra di non dire le cose giuste, ma sono troppo turbato, Nasten'ka); io vi amerei in modo tale che anche se voi lo amaste ancora e continuaste ad amare colui che io non conosco, il mio amore non vi peserebbe affatto. Voi percepireste solo, voi sentireste in ogni attimo che accanto a voi batte un cuore grato, molto grato, ardente, che per voi... Oh, Nasten'ka, Nasten'ka, che cosa avete fatto di me!...".<br />"Smettete di piangere, non voglio vedervi piangere", disse Nasten'ka, alzandosi rapidamente dalla panchina. "Venite, alzatevi, venite da me, non piangete, non piangete", diceva, asciugando le mie lacrime con il suo fazzoletto, "venite, ora; forse vi dirò una cosa... Anche se lui mi ha abbandonata, anche se mi ha dimenticata, sebbene io lo ami ancora (non voglio ingannarvi)... Ma ascoltate, rispondetemi. Se io, per esempio, vi amassi, cioè se solo... Oh, amico mio, amico mio! Se ci penso, se penso all'umiliazione di allora, quando ridevo del vostro amore e vi elogiavo perché non vi eravate innamorato di me! Dio mio! Come non prevederlo, sì, proprio prevederlo, come sono stata stupida!<br />Ma... insomma, mi sono decisa: vi dirò tutto...".<br />"Ascoltate, Nasten'ka, sapete che cosa? Andrò via da voi, ecco cosa farò! Io vi tormento soltanto. Voi sentite ora i rimorsi di coscienza per i vostri scherzi, ma io non voglio, sì, non voglio che oltre al vostro dolore... Sono io il colpevole, Nasten'ka, addio!".<br />"Fermatevi, ascoltatemi: potete aspettare?".<br />"Aspettare che cosa?".<br />"Io lo amo, ma questo passerà, deve passare, questo non può non passare; sento che sta già passando... Chissà, magari tutto finirà oggi stesso, perché io lo odio, perché lui mi ha presa in giro, proprio quando voi qui piangevate con me, perché voi non mi avreste abbandonata come lui, perché voi mi amate e lui no, perché io in fondo vi amo, sì, vi amo! Vi amo come mi amate voi! Io, io stessa ve l'ho detto prima, e voi l'avete sentito. Vi amo perché siete migliore di lui, avete un cuore più nobile, perché, perché lui...".<br />
[...]<br />"Perdonatemi, perdonatemi!", mi scriveva Nasten'ka. "Ve ne prego in ginocchio, perdonatemi! Ho ingannato voi e me insieme. E' stata una visione, un sogno... Il pensiero di voi mi ha fatto soffrire tanto. Vi chiedo perdono, perdono!... Non mi accusate, perché io non sono cambiata nei vostri riguardi. Vi dissi che vi avrei amato, e anche adesso vi amo, anzi sento per voi qualcosa di più dell'amore. Dio mio! Se potessi amarvi tutti e due insieme! Oh, se voi foste lui!".<br />"Se lui fosse voi!", queste parole mi balenarono per la mente.<br />Nasten'ka, non scordo queste tue parole!<br />"Dio vede ciò che io vorrei fare adesso per voi! Siete triste e angosciato, lo so. Io vi ho umiliato, ma voi sapete che chi ama non ricorda a lungo le offese. E voi mi amate!<br />"Vi ringrazio! Sì, vi ringrazio per questo amore, perché nella mia memoria si è impresso come un dolce sogno, che ricordo a lungo dopo il risveglio. Ricorderò per sempre il momento in cui, come un fratello, mi avete aperto il vostro cuore e avete accettato in dono il mio, mortificato, per proteggerlo, accarezzarlo, guarirlo... Se mi perdonerete, il vostro ricordo sarà reso sublime in me dall'eterno sentimento di gratitudine verso di voi, che non potrà mai essere cancellato dalla mia anima... Io custodirò questa memoria, le sarò fedele, non la tradirò, non tradirò il mio cuore: esso è troppo costante. Ieri è tornato così in fretta a colui al quale già apparteneva.<br />"Ci rivedremo, voi verrete da noi, non ci abbandonerete, sarete per sempre il mio amico, il mio fratello... Quando ci vedremo, mi tenderete la mano... vero? Me la darete? Mi perdonerete, è vero?<br />Mi amerete 'come prima'?<br />"Oh, amatemi, non mi abbandonate, perché io vi amo così in questo momento, e perché sono degna del vostro amore, lo meriterò...<br />amico mio caro! La settimana prossima lo sposerò. Egli è tornato innamorato, non mi aveva mai dimenticata... Non vi arrabbiate, se vi ho scritto di lui. Voglio venire da voi con lui. E' vero che gli vorrete bene?<br />"Perdonate, ricordate e amate la vostra Nasten'ka".<br /><br />Antonio De Bellishttp://www.blogger.com/profile/08589288385447295429noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-3437498411039201584.post-39060540229860866352011-12-26T23:03:00.003+01:002012-01-08T00:10:49.464+01:00Topi - Gordon Reece<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiCSOEW9CHGO5m5X4x3wva61oN85z4R7JFzzcHJwfAYaFGHZ111-oNovCi2fXIJTSjOIKnr7Rrhs69ZMhLVRlqcI-5ZdnozfGl-YLl4wtm_1pQOhFvkGDaJgLEYeUd9hYR-J2S7BMUPBtE/s1600/Topi+Gordon+Reece.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiCSOEW9CHGO5m5X4x3wva61oN85z4R7JFzzcHJwfAYaFGHZ111-oNovCi2fXIJTSjOIKnr7Rrhs69ZMhLVRlqcI-5ZdnozfGl-YLl4wtm_1pQOhFvkGDaJgLEYeUd9hYR-J2S7BMUPBtE/s200/Topi+Gordon+Reece.jpg" width="160" /></a></div>
<b>Thriller originale per la tematica affrontata e il suo sviluppo. I topi del titolo sono le persone che subiscono soprusi e per tutta una serie di motivi continuano a subire senza avere la forza di ribellarsi. Questo fino a che la misura è colma. La metamorfosi in questo caso trasforma le due protagoniste, mamma e figlia, in spietate assassine. E' narrato dal punto di vista della ragazza adolescente che ha subito una serie di feroci e gratuiti atti di bullismo da tre delle sue migliori amiche. Molto interessanti i momenti di riflessioni sulle origini della sua condizione e di quella della madre, anche lei vittima di prevaricazioni (del marito che l'ha abbandonata, dei datori di lavoro che la sfruttano, ...). Non si riesce a stare dalla parte delle due donne nella loro condizione di topi, così remissive da suggerire che quasi meritino ciò che gli capita. Nel momento in cui tirano fuori gli artigli, invece, si rimane invischiati nel loro punto di vista e ci si ritrova ad augurarsi che la facciano franca. E' bravo l'autore a giocare su un aspetto psicologico fondamentale: quando le ingiustizie sono così tante ed evidenti, nelle persone perbene irrompe un disgusto viscerale e una voglia spropositata di mettere le cose a posto che può avere effetti imprevedibili.</b><br />
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Visto quant’erano diversi e com’è finito il matrimonio, mi sono domandata spesso perché papà l’avesse scelta e perché lei si fosse lasciata scegliere da lui. Non c’è dubbio che fosse attratto dalla mamma - le fotografie del matrimonio mostrano quant’era bella, con quei capelli scuri e il sorriso timido. Ma sono sicura che per lui fosse anche una sfida conquistare il cuore di quella ragazza impacciata e ritrosa, con una laurea a pieni voti e una reputazione professionale di tutto rispetto. Forse, dopo le esperienze londinesi (le avevano rubato in casa, le avevano scippato la borsetta in pieno giorno), la mamma voleva una presenza forte come papà che la proteggesse. Forse credeva che sarebbe stata contagiata magicamente dalla sua forza. O forse si lasciò conquistare solo dal suo aspetto e dal suo fascino discreto. Papà era sempre gentile e, fin da piccola, ero gelosamente consapevole dell’effetto che il suo sorriso affabile aveva sulle altre donne.<br />
Quando nacqui, quattro anni dopo, papà insisté perché la mamma stesse a casa dal lavoro per occuparsi di me a tempo pieno. Non voleva che sua figlia passasse di tata in tata come una specie di pacco. Non voleva che sua figlia tornasse da scuola e trovasse una casa vuota perché i genitori erano al lavoro. Era convinto che il suo stipendio fosse più che sufficiente a mantenerci e che non c’era bisogno che lavorassero entrambi. La sua insistenza non aveva niente a che vedere (ovviamente) con il fatto che anche la mamma stava per essere promossa socia dello studio. Non aveva niente a che vedere (ovviamente) con il fatto che era considerata da tutti il miglior avvocato dello studio e che la sua intelligenza brillante lo faceva sentire spesso stupido e inadeguato.<br />
La mamma accettò ubbidientemente la sua richiesta. Lui sapeva cos’era meglio dopotutto. Era più grande di lei, era un compagno, era un uomo. Come avrebbe potuto opporsi, anche volendo? Come può un topo opporsi a un gatto? Così rinunciò a quel lavoro che amava e per i quattordici anni successivi si dedicò a prendersi cura di me e della casa - cucinare, fare la spesa, lavare, stirare - mentre mio padre continuava a fare carriera da Everson.<br />
Quando la piantò, la mamma aveva quarantasei anni. Le sue competenze professionali erano irrimediabilmente datate - avvizzite come frutta lasciata a marcire su un albero. <br />
[...]<br />
Alla luce di ciò che successe in seguito, ho riflettuto spesso su come il loro aspetto cambiò quasi di pari passo con il loro atteggiamento nei miei confronti. E mi sono chiesta spesso se c’era qualche collegamento fra le due cose. Il nostro aspetto esteriore influenza la nostra personalità? O è la nostra personalità a influenzare il nostro aspetto? Sono i colori di guerra a trasformare il membro di una tribù in un feroce guerriero, oppure un guerriero si dipinge con i colori di guerra per sbandierare la sua ferocia? Un gatto ha sempre un aspetto da gatto? Un topo ha sempre un aspetto da topo? Qualunque sia la verità, resta il fatto che io non cambiai. Mi davo ancora da fare in classe, sgobbavo per i test e coloravo le cartine. Ero ancora la più brava in inglese e arte, ma spesso primeggiavo anche in storia, francese e geografia. Mi veniva ancora la pelle d’oca se un insegnante alzava la voce in classe. <br />
Avevo lo stesso taglio di quando avevo nove anni: capelli dritti fino alle spalle e con la frangia. Mi alzai leggermente ma non persi la mia “ciccia” infantile. Avevo ancora i rotolini sulla pancia e le mie cosce sfregavano l’una contro l’altra quando camminavo. Non mi truccavo per andare a scuola come facevano loro, perché la mamma diceva che non mi faceva bene alla pelle. Quando mi venivano i brufoli non li toccavo (la mamma diceva che se li strizzavo mi sarebbero rimaste le cicatrici), mentre le altre se li toglievano con le loro taglienti unghie smaltate, coprendosi le piccole ferite con il fondotinta.<br />
Non portavo orecchini, collane, braccialetti e anelli perché ero allergica a tutto ciò che non era oro puro, e in fondo non mi piacevano i gioielli - mi sembravano solo d’impiccio e avevo paura di perderli. A scuola indossavo le stesse camicette, maglioni e gonne semplici di sempre, accompagnate dalle stesse scarpe pesanti con le fibbie laterali (Teresa le chiamava le mie “scarpe ortopediche”), mentre le altre erano sempre più ossessionate dai vestiti e dal loro aspetto fisico.<br />
Notai che non sembravano più così contente di vedermi quando le raggiungevo nel cortile della scuola o in mensa. Adesso quando eravamo insieme c’era un’atmosfera diversa, come se si divertissero con i loro giochetti dai quali ero esclusa. Sentivo che mi guardavano con un vago senso di disgusto e per la prima volta nella mia vita cominciai a sentirmi a disagio per il mio aspetto, per il grasso molliccio che mi sporgeva fuori dall’elastico della gonna, per la mia frangia da bambina, per la colonia di brufoletti che avevo sul mento.<br />
Fu vedendo il modo in cui mi guardavano e le espressioni severe sui loro volti che cominciai a intuire - sebbene ancora non riuscissi a crederci - che le mie migliori amiche mi trovavano ripugnante.<br />
Non giocavamo più insieme durante l’intervallo, anche se avrei voluto, perché consideravano quei giochi “infantili”. Piuttosto, preferivano stravaccarsi dietro una delle aule dove i professori non potevano vederle e giocare con i loro cellulari, sempre più sdegnose del fatto che io non ne avessi uno (la mamma non poteva permetterselo nemmeno per sé, figuriamoci se le avrei chiesto di comprarmelo). Quando non giocavano con i cellulari, parlavano quasi esclusivamente di cose che non m’interessavano: musica pop, vestiti, gioielli, trucchi. E, sempre più spesso, parlavano di ragazzi.<br />
Ero l’unica a non avere un ragazzo. Avevo quattordici anni, quasi quindici, ma ancora non capivo bene cosa fosse l’attrazione. La maggior parte dei ragazzi della mia scuola erano tipi rozzi e grossolani. Giocavano a calcio ossessivamente e facevano a botte nei corridoi; bestemmiavano a ripetizione nel tentativo disperato di sembrare dei duri e cercavano di mettere in imbarazzo le ragazze con le loro allusioni spinte e volgari. Per anni avevamo snobbato i ragazzi e ci eravamo tenute alla larga da loro. Adesso Teresa, Emma e Jane avevano tutte il ragazzo e non smettevano mai di parlarne. Parlavano del loro lavoro, dei loro tatuaggi, delle auto che truccavano, delle ferite che si erano procurati .azzuffandosi o facendo sport. Ma il loro argomento preferito in assoluto erano i programmi per il fine settimana: che film avrebbero visto insieme ai loro ragazzi, in quale club avrebbero cercato di entrare, come si sarebbero acconciate i capelli, che borsetta avrebbero comprato da abbinare ai jeans che stavano per acquistare. Alla fine di certe pause pranzo, mi accorgevo di non aver detto nemmeno una parola in tutta l’ora che avevamo passato insieme.<br />
Solo adesso, ripensandoci, mi rendo conto che avrei dovuto smettere di frequentare quelle tre molto prima, e cercare di farmi nuovi amici. Avrei dovuto accettare il fatto che ci eravamo allontanate.<br />
Ma allora le cose non erano così chiare. Anche se sapevo che stavano cambiando e avvertivo una crescente ostilità nei miei confronti, non capivo ancora quanto la faccenda fosse seria - dopotutto, in passato avevamo avuto qualche scaramuccia, che poi si era sgonfiata in fretta. E poi mi era impossibile immaginare la scuola senza di loro. Non avevo altri amici, non avevo mai avuto bisogno di farmi nuovi amici. Avevo sempre avuto Teresa, Emma e Jane. Eravamo migliori amiche dall’età di nove anni. Ci eravamo volute bene come sorelle. Eravamo le jets. Non avevo idea di quanto fossero diventati velenosi i loro sentimenti nei miei confronti. E non avevo idea di quanto fossi in pericolo.<br />
[...]<br />
Non potevo dirlo ai professori perché ero certa che a lungo andare avrebbe solo peggiorato le cose. Non volevo dare alle mie aguzzine un pretesto per aumentare le loro violenze - non sapevo ancora che i cattivi non hanno bisogno di pretesti per le loro azioni. Avevo anche una fastidiosa sfiducia nella capacità della scuola di proteggermi. Avevo notato che i professori, anche la signorina Briggs, chiudevano spesso un occhio sul comportamento di Teresa, Emma e Jane, fingendo di non aver sentito la parolaccia, di non aver visto il dito alzato - tutto a favore del quieto vivere.<br />
Avrei dovuto dirlo alla mamma - ora me ne rendo conto ma mi vergognavo. Mi vergognavo a dirle che avevano scelto proprio me per quel trattamento, come se mi portassi addosso un marchio che mi bollava diversa da tutti gli altri. A peggiorare le cose c’era il fatto che la mamma conosceva queste ragazze: aveva preparato loro la merenda, le aveva accompagnate a casa in macchina, pensava che fossero le mie migliori amiche. Non sopportavo che venisse a sapere quanto mi odiavano. E avevo il terrore delle inevitabili domande: Cos’hai fatto? Le hai fatte rimanere male in qualche modo?Nel profondo, non riuscivo a liberarmi dalla sensazione che in un certo senso fosse colpa mia, che in un certo senso me la fossi cercata. Inoltre, informare la mamma o la scuola avrebbe significato dover fronteggiare le mie aguzzine, cosa di cui ero del tutto incapace. Semplicemente, non faceva parte di me. Non avevo un carattere di quel tipo. Ero un topo, non dimenticatevelo.<br />
Mi veniva più naturale non dire niente, soffrire in silenzio, stare immobile nella speranza di non essere vista, sgattaiolare via lungo il battiscopa cercando un posto sicuro dove nascondermi.<br />
L’unica persona a cui pensai seriamente di dirlo fu mio padre. Prima che entrasse in scena Zoe era sempre stato protettivo nei miei confronti. Aveva anche cercato di «temprarmi» così diceva - perché imparassi a difendermi: mi portava a correre con lui, cercava di convincermi a fare judo. Tutto questo, per compensare o sovracompensare quella che vedeva come la “cattiva influenza” della mamma. Adesso mi perdevo in fantasie nelle quali papà veniva a difendermi e mi salvava come un supereroe dei fumetti.<br />
Ma sapevo benissimo che papà non era un supereroe. Ricordavo com’era diventato cafone e arrogante negli ultimi tempi e, di nascosto, anche volgare (una volta avevo trovato una copia di Hot Sluts nascosta nella sua valigetta). Ero sicura che Zoe l’avrebbe messo contro di me (Shelley è una ragazzina lagnosa e sdolcinata, attaccata alle sottane della mamma). E perché non avrebbe dovuto? Non voleva dividere i soldi di papà con me. E sapevo che papà non l’avrebbe delusa. Non poteva certo rischiare di perdere quella bocca provocante, quelle tette da pornostar. Avevo un numero dove potevo chiamarlo in Spagna e fui a un passo dal farlo - ma il pensiero di Zoe che rispondeva al telefono mi dava il voltastomaco. Papà non faceva più parte della mia vita.<br />
[...]<br />
Sembrava che non ci fossero vie d’uscita dalla situazione penosa in cui mi trovavo. O meglio, sembrava ce ne fosse solo una.<br />
Pianificai ogni cosa nel dettaglio, seduta alla mia scrivania come se si trattasse di fare i compiti. Decisi che avrei agito due giorni dopo, sabato, quando la mamma andava a fare la grossa spesa settimanale al supermercato appena fuori città. Di solito andavo con lei, ma questa volta avrei finto un mal di testa.<br />
Dopo un’attenta riflessione, decisi qual era il modo migliore per farlo (la trave in garage alla quale papà appendeva il suo sacco; la robusta cintura della mia vestaglia di spugna) e strappai una pagina di quaderno per scrivere un messaggio di addio alla mamma.<br />
Ma anche se rimasi là seduta per più di mezz’ora, non mi venivano le parole. Non trovavo ancora il coraggio di dirle delle molestie, nemmeno su un biglietto, un biglietto che non avrebbe letto se non dopo la mia morte. Non capivo proprio perché non riuscissi a confidarmi con la mamma, eppure eravamo così vicine.<br />
Potei solo pensare che, indipendentemente da quanto siamo vicini a qualcuno, ci sono dei limiti, dei confini invalicabili tra di noi, delle cose che ci toccano così in profondità che non possono essere condivise con nessuno. Forse, pensai, è quello che non possiamo condividere con gli altri che definisce chi siamo davvero.<br />
Mentre rigiravo quelle inutili frasi nella mente, avevo scarabocchiato qualcosa sul foglio e, abbassando gli occhi, non potei trattenere un sorriso amaro nel vedere cos’era. Un topo. E attorno al collo aveva uno spesso cappio da impiccato. Sapevo di essere timida; sapevo di avere la tendenza a piangere con facilità, a tremare e perdere la voce al minimo rimprovero o segno di aggressività. Ma ci erano voluti mesi di molestie per capire che in fondo non ero che questo: un topo, un topo umano. E allo stesso tempo, capii che quel disegno era il messaggio più eloquente che potevo lasciare. Piegai il foglio, ci scrissi sopra Mamma e lo misi dentro al primo cassetto della scrivania, dove sarebbe stato facile da trovare. Ed era così che la mia vita sarebbe finita, come la vita di molti altri deboli topi prima di me - appesa a un cappio rudimentale, con i piedi che descrivevano cerchi sempre più piccoli, le mani che si contraevano spasmodicamente - se le mie aguzzine non mi avessero teso la loro trappola più crudele proprio il giorno seguente. Quell’attacco feroce, ironia della sorte, mi salvò la vita.<br />
[...]<br />
Gli occhi mi si aprirono di scatto e in un attimo fui completamente sveglia. Anche se ero sprofondata in un sonno abissale, l’inconfondibile scricchiolio del quarto scalino aveva raggiunto quella zona del cervello che non dorme mai. Non avevo dubbi su quel che avevo sentito, e non avevo dubbi su ciò che significava: c’era qualcuno in casa.<br />
Lo schermo fluorescente della sveglia sul comodino segnava le 3,33. Sentivo il cuore battermi nel petto come se fosse dotato di vita propria, come un coniglio che si dimena e si contorce in un laccio che si stringe sempre più con l’aumentare dello sforzo.<br />
Tesi l’orecchio per superare il rimbombo martellante nelle tempie. Le mie orecchie sondarono lo spazio fuori dalla porta della stanza - il pianerottolo, le scale - come invisibili cani da guardia, rimandandomi continue informazioni: silenzio, silenzio, silenzio, c’è solo silenzio, non troviamo niente. Possibile che mi fossi sbagliata? No, impossibile. Avevo sentito il quarto scalino cigolare sotto il peso di una persona. E difatti, dopo un’attesa che mi sembrò eterna, sentii lo scricchiolio di un altro scalino più su: c’era qualcuno in casa.<br />
Ero paralizzata dalla paura. Da quando avevo aperto gli occhi non avevo mosso un muscolo. Era come se un istinto primordiale, l’istinto di rimanere completamente immobili e non mandare alcun suono finché il pericolo non era passato, si fosse impossessato di me. Anche il mio respiro si era fatto così lento e leggero da essere quasi impercettibile e da non sollevare la trapunta nemmeno di un millimetro. Pensai alla mazza da baseball che tenevo sotto al letto “contro i ladri”, ma non riuscivo ad abbassare la mano per prenderla. Qualcosa di più forte mi teneva inchiodata e immobile. Stai ferma, mi ordinava, non fare alcun rumore finché il pericolo non è passato. I passi procedevano per le scale, più forti, come se l’intruso avesse rinunciato al tentativo di muoversi in silenzio. Sentii un corpo sbattere con forza contro il mobiletto del pianerottolo (ubriaco?) e una voce che imprecava (un uomo). Lo sentii aprire la porta della camera della mamma. Capii che aveva acceso la luce, perché la fitta oscurità nella mia stanza si rischiarò in misura infinitesimale. Sentii la voce della mamma. Assonnata. Confusa. Spaventata. Poi la voce dell’uomo, un fiume di grugniti aggressivi e gutturali che sembravano più animali che umani. «Aspetta» udii chiaramente la voce della mamma. «La mia vestaglia.» Poi li sentii venire entrambi verso camera mia. La porta si aprì frusciando contro la spessa superficie del tappeto e la luce esplose in un chiarore bianco e accecante. Non mi mossi, anche se erano tutti e due nella mia stanza (stai ferma, non fare alcun rumore finché il pericolo non è passato). Rimasi distesa, immobile e impotente, come se mi avessero spezzato il collo. La mamma disse il mio nome per svegliarmi, ma non riuscii a rispondere. Lo ripetè a voce più alta, avvicinandosi al letto.<br />
Alla fine comparve nel mio campo visivo. Il suo volto pallido era ancora stravolto dal sonno, i capelli spettinati in un modo che sarebbe sembrato buffo in altre circostanze, la vestaglia infilata frettolosamente, con la cintura penzolante. Capì che ero sveglia da tempo e che sapevo benissimo cosa stava succedendo.<br />
«Shelley, cara» disse. «Non avere paura. Vuole solo dei soldi. Se facciamo come dice, se ne andrà e ci lascerà in pace.» Non le credevo e capii dalle mani tremanti e dalla voce strozzata che non ci credeva nemmeno lei. Quando un gatto entra nella tana di un topo, non se ne va senza avergli fatto del male.<br />
[...]<br />
La realtà non aveva niente a che fare con i romanzi o le poesie, non aveva niente a che fare con i paesaggi a olio o con i quadrati rossi e gialli dei dipinti astratti. Non aveva niente a che fare con l’organizzazione dei suoni nell’apparente armonia della musica. La realtà era l’esatto opposto dell’ordine e della bellezza. Era caos e sofferenza, crudeltà e orrore. Era ritrovarsi con i capelli incendiati quando non avevi fatto del male a nessuno; era saltare in aria per un attentato terroristico mentre accompagnavi i tuoi figli a scuola o mangiavi seduto al tuo ristorante preferito; era essere ammazzati a calci in un vicolo per la magra pensione che eri appena andato a ritirare; era essere violentati da un branco di sconosciuti ubriachi; era farsi tagliare la gola da un tossico che si era intrufolato in casa tua in cerca di soldi. La realtà era un quotidiano massacro degli<br />
innocenti. Era un mattatoio, una macelleria tappezzata dei cadaveri di innumerevoli vittime-topi...<br />
E tutta questa “cultura”, tutta questa “arte” non erano che un trucco. Ci consentivano di credere che gli esseri umani fossero creature nobili e intelligenti, che si erano lasciate alle spalle il loro passato animale per evolvere in qualcosa di più raffinato, di più puro; che poiché sapevano dipingere e scrivere come angeli, fossero realmente degli angeli. Ma questa “arte” era solo uno schermo per nascondere l’atroce verità, e cioè che non eravamo affatto cambiati, eravamo ancora le stesse creature che squarciavano il ventre caldo di animali ammazzati con pietre affilate e che sfogavano la loro rabbia sui deboli con i colpi violenti di una clava. I bei quadri e le poesie intelligenti non cambiavano di una virgola la nostra natura. No, l’arte, la musica e la poesia non rispecchiavano assolutamente la realtà. Erano solo un rifugio per codardi, un’illusione per chi era troppo debole per affrontare la verità. Nel tentativo di assorbire questa “cultura” non avevo fatto altro che diventare debole, debole e impotente, incapace di difendermi contro le bestie umane che popolavano questa<br />
giungla del ventunesimo secolo.<br />
«Ci ucciderà, mamma. Ne sono sicura.»<br />
«Shelley, devi stare calma. Devi solo fare come ti dice.»<br />
«Non capisci che pericolo stiamo correndo! È drogato! Ci ucciderà!»<br />
Che razza di giustizia era questa? Quale Dio poteva permettere una cosa simile? Io e la mamma non avevamo sofferto abbastanza? Papà ci aveva abbandonate, lasciandoci a faticare mentre lui si crogiolava al sole della Spagna con la sua puttanella di ventiquattro anni. Avevo subito delle violenze così feroci da essere costretta a lasciare la scuola e prendere lezioni private.<br />
Avevo la faccia sfregiata dai segni del rancore altrui. E adesso, con tutte le case in cui poteva infilarsi questa bomba a orologeria su due piedi, si era intrufolata proprio nella nostra. Proprio quando stavamo cominciando a ricostruirci una vita insieme. Proprio quando le cose stavano ricominciando a sorriderci.<br />
Cos’altro dovevamo subire? Violenze? Torture? Quale crimine avevamo commesso, a parte quello di essere deboli, il crimine di essere topi?. Cos’avevamo fatto di male per meritarci una punizione così spietata? Perché tutto questo non succedeva a Teresa Watson ed Emma Townley? Perché non succedeva alle ragazze che mi avevano molestato con tanta ferocia da farmi venire voglia di uccidermi? Perché non succedeva a mio padre e a Zoe? Perché succedeva a noi? Perché ancora a noi? Non avevamo sofferto abbastanza?<br />
[...]<br />
Se ne stava andando, portandosi via il mio regalo di compleanno stretto contro il giubbino puzzolente.<br />
Il regalo che la mamma aveva incartato con cura, decorato con un bel fiocco rosso e lasciato sul tavolo della cucina prima di andare a letto, in modo che lo trovassi la mattina per colazione. Una bellissima sorpresa di compleanno. Il portatile che, con il suo intuito di madre, aveva capito che desideravo. Il portatile che non si poteva permettere ma che aveva deciso che dovevo avere, indipendentemente da ciò di cui si sarebbe dovuta privare.<br />
Il ragazzo se ne stava andando, lasciandosi dietro un brutto sfregio sulla guancia della mamma causato dal suo grosso anello con sigillo, e un livido bluastro che le inghiottiva l’occhio destro.<br />
Se ne stava andando, lasciandosi dietro due donne indifese che aveva sistematicamente umiliato, tormentato e maltrattato come se fosse nell’ordine naturale delle cose, come se fosse un suo diritto.<br />
Ancora oggi non so esattamente cosa mi spinse a fare quello che feci in seguito. Forse fu vedere quel pallido, crudele delinquente che si portava via il mio regalo di compleanno, il simbolo di tutte le mie ambizioni future; forse fu la rabbia per quello che aveva fatto alla mamma; forse fu perché mi aveva detto che ero brutta; forse la verità è che tutti abbiamo un limite oltre il quale non possiamo più sopportare - anche i topi - e che quando quel limite viene superato, qualcosa si spezza. Forse fu solo il modo in cui il bellissimo fiocco rosso della mamma era caduto lentamente, miseramente sul pavimento...<br />
Strappai i pochi brandelli di corda che ancora mi legavano le gambe, presi il coltello dal tavolo della sala da pranzo e uscii in giardino, correndogli dietro. <br />
Aveva raggiunto solo il punto in cui la veranda incontrava l’erba del prato, ancora all’interno dello specchio di luce proiettato dalla cucina. Sentendomi arrivare, lanciò un’occhiata dietro a una spalla e continuò tranquillo per la sua strada come se non avesse visto altro che un gatto occupato nelle sue faccende feline e non una ragazza urlante con un coltello in mano.<br />
Gli piantai il coltello in mezzo alle scapole con tutta la forza che avevo. Aveva una schiena incredibilmente dura, come pugnalare un tronco d’albero - la lama si fermò a due centimetri dal manico e mi ci volle uno sforzo enorme per estrarla di nuovo. Colpito, il ragazzo mandò un lungo rantolo e lasciò cadere il computer e la borsa rossa. Si piegò in avanti come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco e, girandosi, mi guardò con un’espressione di innocenza tradita sul volto. «Perché l’hai fatto?» gemette, come se gli avessi giocato uno scherzo di cattivo gusto. Lo colpii di nuovo, più e più volte, socchiudendo gli occhi per non vedere le ferite inferte dal coltello, per non vedere il sangue. Ancora piegato in due come un soldato sotto il fuoco dei cecchini, il ragazzo si diresse nuovamente verso la cucina, il braccio sinistro alzato per cercare di arginare i colpi peggiori. Pensai: Bene! Ti voglio di nuovo in casa! Non voglio che mi scappi! Entrò in cucina e cercò di chiudermi in faccia la porta sul retro, ma non fece in tempo e infilai dentro una spalla. Barcollò verso la dispensa e cercò di nascondersi dietro al tavolo di pino, ma anche allora fu troppo lento. Gli piombai addosso di lato, pugnalandolo senza tregua, tormentandolo come un picador che conficca la sua lancia nei fianchi grondanti di un toro. Lui continuò a girare attorno al tavolo mentre io lo seguivo, pugnalando, pugnalando, pugnalando...<br />
«Adesso giochiamo al gioco delle sedie!» gridavo. «Adesso giochiamo al gioco delle sedie!» L’avevo colpito così tante volte che ormai avevo perso il conto. Il ragazzo sembrò perdere le forze, finché non si accasciò sul lavello, rovesciando lo scolapiatti di plastica pieno di stoviglie della sera prima, che si fracassarono sul pavimento. Appena cercò di riprendere l’equilibrio, uno dei miei colpi si conficcò su un lato del collo e il sangue cominciò a zampillare come acqua da una tubatura rotta. Si portò le mani sulla ferita e s’incurvò nell’angolo vicino al portapane, dandomi la schiena. Volevo solo vederlo a terra, volevo che la smettesse di muoversi, che la smettesse di essere una minaccia per me e la mamma. Studiai il retro del suo giubbino lacero e insanguinato, cercando d’individuare la posizione del cuore. In quel preciso istante, si torse bruscamente. Il coltello colpì la spessa placca ossea della sua scapola con così tanta forza da sfuggirmi di mano e slittare sul pavimento.<br />
Vidi l’espressione sul suo volto mutare da vile sottomissione a un beffardo, sanguinario trionfo. Il gioco era cambiato a suo favore e, prima ancora che potessi guardare dov’era finito il coltello, il ragazzo mi fu addosso. Mi cedettero le ginocchia e, schiacciata sotto il suo peso, caddi pesantemente all’indietro sul pavimento. Atterrai su qualcosa di duro e tagliente che mi raschiò il coccige, e gridai per il dolore accecante. Capii subito cos’era. Ero finita sul coltello! Il ragazzo si dimenava sul mio petto, mi saliva sopra, cercava di alzarmi il mento con l’avambraccio per scoprirmi la gola. Il sangue gli sgorgava dalla ferita sul collo come<br />
vino da una bottiglia rovesciata. M’inondava il volto come un fiume senza fine, scorrendomi addosso, riempiendomi la bocca e costringendomi a sputare e boccheggiare come se stessi annegando. Mi faceva bruciare gli occhi come sapone, accecandomi completamente. Il suo volto adesso era premuto contro il mio. Le nostre labbra si sfioravano come nell’orribile parodia di un bacio tra amanti. Stava cercando di mettermi le mani al collo, ma io le allontanavo freneticamente, graffiandogli furiosamente il volto. Ogni volta che cercava di immobilizzarmi le mani sul pavimento, mi liberavo dalla sua presa e gli infilavo le unghie negli occhi. Urlavo e mi dimenavo, cercando disperatamente di spostare quel peso soffocante e afferrare il coltello intrappolato sotto la mia schiena. Se fossi riuscita a scrollarmelo di dosso anche solo per un secondo e prendere il coltello, sarei tornata in vantaggio. Se solo fossi riuscita ad allungare una mano verso il coltello...<br />
Ma era troppo forte. Nonostante le ferite che aveva subito e il sangue che gli usciva a fiotti dal collo, era ancora troppo forte per me, e alla fine riuscì a mettermi le mani attorno alla gola.<br />
Sentii una stretta improvvisa bloccarmi il respiro. Minuscoli puntini di luce bianca esplosero nell’oscurità dietro le mie palpebre e capii con assoluta certezza che sarei morta se non respiravo entro pochi secondi. Riuscii ad aprire leggermente gli occhi brucianti e vidi il suo volto distorto in un disgustoso primo piano. Aveva le pupille enormemente dilatate per l’eccitazione adrenalinica, digrignava i denti gialli nello sforzo di soffocarmi e un sottile filo di bava rosa gli penzolava dal labbro inferiore. <br />
E pensai: Questa sarà l’ultima cosa che vedo. Qualcosa cominciò a cedermi in mezzo al collo; qualcosa si stava per spezzare. Ero riuscita a sfiorare il coltello con i polpastrelli, ma le forze mi stavano abbandonando. Le braccia mi caddero pesantemente lungo i fianchi. Non respiravo da troppo tempo. I puntini di luce bianca si fecero sempre più grossi, finché ci fu solo luce bianca. Allora ecco com’è morire, pensai, ecco com’è... è questa la luce bianca di cui parlano... Smisi di resistere, anche mentalmente, e chiusi gli occhi, mi arresi, aspettando la morte, aspettando il momento cruciale.<br />
[...]<br />
Se non fosse stata così debole, forse io non sarei stata un topo, forse sarei riuscita a difendermi dalle ragazze interessate e non ci saremmo mai ritrovate in questa situazione!<br />
L’ondata di rabbia che provavo per la mamma portava con sé anche l’amara consapevolezza che, nonostante avessi già sedici anni, mi aspettavo ancora che si comportasse da madre e mi proteggesse. Mi aspettavo che, come una madre, allontanasse miracolosamente quel pericolo, che cacciasse via il lupo che si aggirava intorno a casa nostra. E mi sentii tradita quando capii che quel giorno non ci sarebbe stato nessun miracolo materno, nessuna magia - solo la luce abbagliante e il silenzio, rotto occasionalmente dal fruscio di soffici corpi piumati sui cornicioni.<br />
[...]<br />
In quegli ultimi secondi prima di essergli addosso, mentre correvo scalza sul vialetto con la vestaglia aperta che mi svolazzava sul corpo, provai qualcosa che non avevo mai provato in vita mia. Era un’emozione completamente nuova, una dolcezza gioiosa e liberatoria che mi scorreva nelle vene come una droga. Era come se tutto quello che c’era di artificiale nella mia vita fosse scomparso all’improvviso, come entrare fuggevolmente in contatto con una verità primordiale, una realtà più antica della vita stessa. E mi sentivo come un gigante, come un dio!Antonio De Bellishttp://www.blogger.com/profile/08589288385447295429noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3437498411039201584.post-51567394532103816522011-12-18T19:35:00.000+01:002011-12-18T19:43:04.368+01:00La Strada - Cormac McCarthy<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgzLnUvofafJlcr-yiQ05KcbRQ6oJTbO92I98pAVpZt1IdFHIiqhGbm7IsKq_4P9O_IJX8EjhCDn7alNYRWviG6_IL7Y1-I-rwkNwP_d8JiTJ4fys08fwF0Gsd9d8tEd4CWk12GjDERCkw/s1600/La+Strada+Cormac.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgzLnUvofafJlcr-yiQ05KcbRQ6oJTbO92I98pAVpZt1IdFHIiqhGbm7IsKq_4P9O_IJX8EjhCDn7alNYRWviG6_IL7Y1-I-rwkNwP_d8JiTJ4fys08fwF0Gsd9d8tEd4CWk12GjDERCkw/s200/La+Strada+Cormac.jpg" width="123" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<b>Finalmente un bel libro! Era da un pò di mesi che un testo non mi appassionava così. Balza ai primi posti della mia personale classifica dei più bei romanzi da tre anni a questa parte. Avevo letto altri libri di McCarthy (Cavalli selvaggi, Non è un paese per vecchi) ma non mi avevano convinto fino in fondo. Qui funziona tutto. Uno stile di scrittura asciutto, essenziale, </b><b>con dialoghi che si mescolano nella prosa della narrazione,</b><b> che ben si sposa con una storia cruda e apocalittica. La caratterizzazione dei personaggi, credibili nel loro muoversi in una situazione limite. La trama, che si svolge lungo il cammino dei due protagonisti verso una
meta di cui non si conosce nulla (se potrà accoglierli, salvarli, ...)
ma è l'unica cosa che hanno oltre all'affetto che li lega. La descrizione delle situazioni, che ti fa percepire il freddo, l'inedia, la
scarsità di luce, l'odore nauseabondo di una umanità ridotta a mangiarsi
l'un l'altro per sopravvivere in un mondo bruciato e coperto di cenere,
dove flora e fauna sono estinti da anni. Ricorda a tratti l'Ombra dello Scorpione, il capolavoro di Stephen King,
per il tema della fine del mondo, il dualismo tra bene e male, l'introspezione dell'animo umano. Ma si discosta da questo per il suo stile unico, molto lontano dalla verbosità a volte eccessiva di King, dimostrando di essere ugualmente efficace nel riportare l'orrore o la tenerezza tra due persone che si vogliono bene. </b></div>
<div style="text-align: justify;">
<b>Se nelle <a href="http://leggereconpiacere.blogspot.com/2009/05/le-benevole-jonathan-littell.html" target="_blank">Benevole</a> citavo come elemento distintivo del romanzo il "male" che si nasconde nella natura umana, qui siamo sul versante opposto: nell'uomo degradato e sottoposto a sfide estreme, dietro la scorza si fa strada il "bene".</b></div>
<br />
<br />
<div style="text-align: justify;">
Attraversarono la città a mezzogiorno dell'indomani.<br />
L'uomo aveva la pistola a portata di mano, sopra il telo di plastica piegato in cima al carrello. Si teneva il bambino stretto al fianco. La città era quasi completamente bruciata. Nessun segno di vita. Per le strade automobili incrostate di cenere, ogni cosa coperta da cenere e polvere. Impronte fossili nel fango secco. In un androne un cadavere ridotto a cuoio. Con una smorfia di scherno rivolta al giorno. Si strinse ancora di più al bambino. Ricordati che le cose che ti entrano in testa poi ci restano per sempre, gli disse. Forse dovresti rifletterci.<br />
Però certe cose uno se le dimentica, no?<br />
Sì. Ci dimentichiamo le cose che vorremmo ricordare e ricordiamo quelle che vorremmo dimenticare.<br />
A un paio di chilometri di distanza dalla fattoria di suo zio c'era un lago dove in autunno lui e lo zio andavano sempre a fare legna. Lui si metteva seduto a poppa della barchetta con una mano abbandonata nella scia fredda, mentre lo zio si piegava sui remi. I piedi del vecchio dentro le scarpe nere da ragazzino puntate contro i montanti. Il suo cappello di paglia. La pipa di pannocchia che teneva fra i denti e un filino di saliva che colava dal fornello. Lo zio si voltò per dare un' occhiata alla sponda opposta, tenendosi in grembo le impugnature dei remi e togliendosi la pipa di bocca per asciugarsi il mento con il dorso della mano. La sponda era costeggiata da betulle che si stagliavano pallide come ossa contro il colore scuro dei sempreverdi alle loro spalle. La riva del lago era un conglomerato di ceppi ritorti, grigi e slavati, residui lasciati da un uragano anni prima. Gli alberi invece erano stati segati e portati via da un pezzo per farne legna da ardere. Lo zio girò la barca e tirò dentro i remi e si lasciarono trasportare dalla corrente verso le secche, finché la poppa non sfregò sulla sabbia. Un pesce persico morto fluttuava a pancia in su nell'acqua limpida. Foglie ingiallite. Lasciarono le scarpe sulle tiepide assi dipinte, trascinarono la barca sulla spiaggia e gettarono l'ancora. Un barattolo di strutto riempito di cemento con un anello di ferro piantato nel mezzo. Camminarono lungo la riva e lo zio esaminava i ceppi tirando boccate di fumo, una corda di canapa arrotolata in spalla. Ne scelse uno e lo fecero rotolare appoggiandosi alle radici finché non prese a galleggiare nell'acqua. Nonostante i calzoni arrotolati alle ginocchia si bagnarono lo stesso. Legarono la corda a un gancio sulla parte posteriore della barca e riattraversarono il lago con il ceppo che li seguiva lentamente, a scossoni. Ormai si era fatta sera. Solo il lento e regolare cigolio strascicato degli scalmi. Lo specchio scuro del lago e le finestre che si illuminavano lungo la riva. Da qualche parte una radio. Nessuno dei due aveva aperto bocca. Quella era stata la giornata ideale della sua infanzia. La giornata su cui modellare tutte le giornate a venire.<br />
Nei giorni e nelle settimane seguenti proseguirono verso sud. Solitari e ostinati. Una regione scabra e collinosa. Case di lamiera. A tratti sotto di loro intravedevano la superstrada in mezzo alle nude macchie di foresta secondaria. Freddo, sempre più freddo. Appena superato il profondo avvallamento fra le montagne si fermarono e spinsero lo sguardo oltre quella vasta gola verso sud, dove non c'era che terra mangiata dal fuoco a perdita d'occhio, con le sagome annerite delle rocce che spiccavano fra i banchi di cenere e i pennacchi di cenere che si alzavano e venivano sospinti lungo la distesa brulla. La traccia di un sole smorto che si muoveva invisibile oltre le tenebre.<br />
Impiegarono interi giorni per attraversare quella piana cauterizzata. Il bambino si era dipinto delle zanne sulla mascherina con dei pastelli che aveva trovato e andava avanti senza lamentarsi. Una delle ruote anteriori del carrello si era mezzo scassata. Che ci potevano fare? Niente. Poiché davanti a loro tutto era ridotto in cenere, accendere fuochi era impossibile e le notti erano lunghe, buie e fredde come mai prima. Un freddo che spaccava le pietre. Un freddo assassino. L'uomo teneva stretto a sé il bambino tremante e contava ogni suo fragile respiro nell'oscurità.<br />
Fu svegliato dal brontolio di un tuono in lontananza e si mise a sedere. La luce fioca tutto intorno, tremolante e senza una fonte precisa, si rifrangeva nella pioggia di fuliggine portata dal vento. Coprì se stesso e il bambino con il telo di plastica e rimase a lungo in ascolto. Se si fossero bagnati non ci sarebbe stato nessun fuoco ad asciugarli. Se si fossero bagnati probabilmente sarebbero morti.<br />
L'oscurità in cui si svegliava in quelle notti era cieca e impenetrabile. Un' oscurità che faceva male alle orecchie a forza di ascoltare. Spesso non poteva fare a meno di alzarsi. Non un suono oltre al vento fra gli alberi nudi e anneriti. Si alzò in piedi e rimase lì, vacillante in quel buio freddo e autistico, le braccia tese per mantenersi in equilibrio mentre i calcoli vestibolari in corso nel suo cervello sfornavano risultati. Una vecchia storia. Inseguire la verticalità. Non c'è caduta che non vada per gradi. Si addentrò nel nulla a lunghi passi di marcia, contandoli per riuscire poi a tornare. Occhi chiusi, remate di braccia. Verticalità rispetto a cosa? Un'entità senza nome nella notte, vena o matrice.<br />
Attorno alla quale lui e le stelle giravano come un unico satellite. Come il grande pendolo nella sua rotonda che segna i lunghi moti giornalieri dell'universo di cui sembrerebbe che non sappia nulla e tuttavia non può non sapere.<br />
[...]<br />
Cominciò a scendere gli scalini di legno grezzo. Chinò la testa poi accese l 'accendino e protese la fiammella verso il buio come un'offerta. Freddo e umidità. Un puzzo inumano. Il bambino gli si aggrappava al giaccone. Intravedeva una parete di pietra. Un pavimento di argilla. Un vecchio materasso macchiato di scuro. Si chinò, scese un altro gradino e illuminò lo spazio davanti a sé. Rannicchiate contro la parete opposta c'erano delle persone nude, maschi e femmine, che cercavano di nascondersi, riparandosi il viso con le mani. Sul materasso era steso un individuo con le gambe amputate fino ai fianchi e i moncherini anneriti e bruciati. L'odore era micidiale.<br />
Gesti, sussurrò l'uomo.<br />
Uno dopo l'altro i prigionieri si voltarono, battendo le palpebre per quel barlume di luce. Aiuto, mormorarono. La prego, ci aiuti.<br />
Cristo, disse lui. Oh Cristo.<br />
Si voltò e afferrò il bambino. Svelto, disse. Svelto. L'accendino gli era caduto. Non c'era tempo per cercarlo. Spinse il bambino su per le scale. Aiuto, imploravano quelli.<br />
Svelto.<br />
Ai piedi delle scale apparve un volto barbuto. Ti prego, gridò battendo le palpebre. Ti prego.<br />
Svelto. Svelto, per l'amor di Dio.<br />
Spinse il bambino fuori dalla botola facendolo cadere a terra. Usci, afferrò lo sportello, lo richiuse brutalmente e si voltò per raccogliere il bambino, che però si era già rialzato e stava facendo il suo solito balletto del terrore.<br />
Per l'amor di Dio, muoviti, gli sibilò. Ma il bambino stava puntando il dito verso la finestra e quando l'uomo guardò fuori si sentì gelare il sangue. Quattro individui barbuti e due donne stavano attraversando il prato diretti verso la casa. Afferrò la mano del bambino. Cristo, disse. Corri. Corri.<br />
[...]<br />
Rovistarono fra le rovine carbonizzate di case in cui un tempo non avrebbero messo piede. Un cadavere che galleggiava nell'acqua nera di una cantina in mezzo ai rifiuti e alle tubature arrugginite. L'uomo si fermò dentro un salotto parzialmente incenerito e aperto al cielo. Le assi deformate dall'acqua inclinate verso il giardino. Volumi fradici sugli scaffali di una libreria. Ne prese uno, lo aprì e lo rimise a posto. Tutto era umido. Marcescente. In un cassetto trovò una candela. Non c'era modo di accenderla. Se la mise in tasca. Usci fuori nella luce livida, rimase lì in piedi e per un attimo vide l'assoluta verità del mondo. Il moto gelido e spietato della terra morta senza testamento. L'oscurità implacabile. I cani del sole nella loro corsa cieca. Il vuoto nero e schiacciante dell'universo. E da qualche parte due animali braccati che tremavano come volpacchiotti nella tana. Un tempo e un mondo presi in prestito e occhi presi in prestito con cui piangerli.<br />
[...]<br />
Si alzò e uscì sulla strada. Un nastro nero dal buio verso il buio. Poi un rombo sommesso in lontananza. Non un tuono. Lo si avvertiva sotto i piedi. Un suono senza pari e quindi impossibile da descrivere. Qualcosa di imponderabile che si muoveva là fuori nel buio. La terra stessa che si contraeva per il freddo. Non si ripeté. In che stagione erano? Quanti anni aveva il bambino? L'uomo arrivò in mezzo alla strada e si fermò. Il silenzio. Il salnitro che si asciugava venendo in superficie. I contorni imbrattati di fango delle città allagate, bruciate fino alla linea di piena. A un incrocio, un campo contrassegnato da dolmen dove le ossa parlanti degli oracoli giacciono in decomposizione. Non un suono all'infuori del vento. Che cosa dirai? E stato un vivente a pronunciare queste parole? Ha affilato una penna d'oca con il suo temperino per vergarle su legno di prugnolo o nero fumo ? In un momento dato e scolpito nella pietra? Sta arrivando a rubarmi gli occhi. A sigillarmi la bocca con la terra.<br />
[...]<br />
I giorni si trascinavano uno dopo l'altro, innumerevoli e innumerati. Sulla superstrada, in lontananza, lunghe file di macchine carbonizzate e arrugginite. I cerchioni nudi delle ruote su un ammasso grigio di gomma fusa e solidificata dentro anelli anneriti di fil di ferro. I cadaveri inceneriti ridotti alle dimensioni di bambini e appoggiati sulle molle scoperte dei sedili. Diecimila sogni sepolti dentro i loro cuori bruciacchiati. Andarono avanti. Percorrevano quel mondo senza vita come criceti sulla ruota. Le notti immobili come la morte, e più nere ancora. Un freddo. Parlavano poco o niente. L'uomo tossiva in continuazione e il bambino lo guardava sputare sangue. Si trascinavano oltre. Lerci, cenciosi, senza speranza. L'uomo si fermava e si appoggiava al carrello e il bambino proseguiva, poi anche lui si fermava e si girava e l'uomo alzava gli occhi piangenti e lo vedeva lì sulla strada voltato a guardarlo da qualche futuro impensabile, radioso come un tabernacolo in quella desolazione.<br />
La strada attraversava un acquitrino prosciugato, dove colonne di ghiaccio si alzavano dal fango gelato come stalagmiti in una grotta. I resti di un fuoco sul ciglio. Ancora oltre, una lunga strada rialzata di cemento. Una palude morta. Alberi senza vita che spuntavano dall'acqua grigia con barbe di muschio fossile. I soffici mucchietti di cenere contro lo spigolo dell'asfalto. L'uomo si fermò e si sporse dal parapetto di calcestruzzo ruvido. Forse, guardandone la distruzione, finalmente sarebbero riusciti a vedere come era fatto il mondo. I mari, le montagne. Il poderoso contro spettacolo delle cose che cessano di esistere. La sconfinata desolazione, idropica e gelidamente terrena. Il silenzio.<br />
[...]<br />
Devi andare avanti, disse. lo non ce la faccio a venire con te. Ma tu devi continuare. Chissà cosa incontrerai lungo la strada. Siamo sempre stati fortunati. Vedrai che lo sarai ancora. Adesso vai. Non ti preoccupare.<br />
Non posso.<br />
Non ti preoccupare. Questo momento doveva arrivare da tempo. E adesso è arrivato. Continua ad andare verso sud. Fa' tutto come lo facevamo insieme.<br />
Fra poco ti passa, papà. Ti deve passare.<br />
No, non passerà. Tieni sempre la pistola con te. Devi trovare gli altri buoni, ma non puoi permetterti di correre rischi. Niente rischi. Capito?<br />
Voglio restare con te.<br />
Non puoi.<br />
Ti prego.<br />
Non puoi. Devi portare il fuoco.<br />
Non so come si fa.<br />
Sí che lo sai.<br />
È vero? Il fuoco, intendo.<br />
Sí che è vero.<br />
E dove sta? Io non lo so dove sta.<br />
Sí che lo sai. È dentro di te. Da sempre. Io lo vedo.<br />
Portami con te. Ti prego.<br />
Non posso.<br />
Ti prego, papà.<br />
Non ce la faccio. Non ce la faccio a tenere fra le braccia mio figlio morto. Credevo che ne sarei stato capace, e invece no.<br />
Hai detto che non mi avresti mai lasciato.<br />
Lo so. Mi dispiace. Hai tutto il mio cuore. Da sempre. Tu sei il migliore fra i buoni. Lo sei sempre stato. Quando non ci sarò più potrai comunque parlarmi. Potrai parlare con me e io ti risponderò. Vedrai.<br />
E riuscirò a sentirti?<br />
Sí. Mi sentirai. Fa' come se ci parlassimo con la mente. E allora vedrai che mi senti. Ci vorrà un po' di allenamento. Ma non ti arrendere. Ok?<br />
Ok.<br />
Ok.</div>Antonio De Bellishttp://www.blogger.com/profile/08589288385447295429noreply@blogger.com2