La vita autentica - Vito Mancuso

>> sabato 10 settembre 2011

Un grande merito di questo saggio è che mi ha fatto finalmente inquadrare il pensiero di Heiddeger: ricordo con frustrazione che al liceo è stato uno dei filosofi di cui non avevo capito dove voleva andare a parare. Ora che il mistero si è svelato ne sono rimasto estremamente deluso, in particolare dell'esaltazione del decisionismo fine a se stesso, non a caso apprezzato dal regime nazista.
Mancuso sviluppa il suo ragionamneto sulla vita autentica andando a cercarne le radici nel pensiero di scrittori e filosofi. La tesi di fondo, in sintesi, è che la vita autentica si basa sulla libertà, la ricerca incessante della verità, del bene, della giustizia e del rapporto sincero con gli altri. Il libro ha molti spunti interessanti anche se ogni tanto perde il filo del discorso per via delle frequenti citazioni.


Da questo percorso verso la vita autentica emerge quindi una prima conclusione: la vita è tanto più umana quanto più è libera, cioè quanto più genera e incrementa la libertà. Ne viene che riflettere sull'autenticità significa mettere a tema il buon uso della libertà per far sì che risulti buona e non cattiva, giusta e non ingiusta, vera e non falsa, bella e non brutta, e conduca sul sentiero della vita autentica e non su quello, altrettanto possibile, della vita inautentica. Il problema dell'essere uomini, a ben vedere, è tutto qui, consiste nell'esercizio autentico della libertà. Ma, appunto, che cosa significa autentico?
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Spesso si mente per sfuggire a una condizione della quale ci si sente prigionieri. Può essere la non accettazione di sé, del proprio nome, del proprio corpo, del proprio carattere o di tutte queste cose insieme, il rifiuto di un sé da cui si desidera prendere le distanze, in cui non ci si riconosce, che talora si vorrebbe persino distruggere. Capita che si vorrebbe fuggire dalla propria famiglia, dai propri genitori, dalla propria identità, dalla propria terra, dal proprio popolo. Ci si vergogna di essere quello che si è, la presa di coscienza di se stessi è associata con la vergogna e il dolore, con un fortissimo senso di estraneazione: ci si guarda allo specchio e, del tutto all'opposto rispetto a Narciso, non si riesce a immedesimarsi nella propria immagine, si vorrebbe essere un altro, e tuttavia si è inchiodati a questo terribile sé. Si è in trappola.

Naturalmente anche il narcisismo è una trappola: non a caso il mito racconta che il bellissimo Narciso, dopo aver rifiutato innumerevoli spasimanti, si lasciò morire per la tristezza di non poter abbracciare la propria immagine riflessa dalle acque, unica realtà che riusciva ad amare (il mito aggiunge che il cadavere venne ritrovato accanto a un fiore a cui fu dato il nome dello sfortunato ragazzo). Il narcisismo è un'angusta prigione della mente, magari con le sbarre dorate ma non per questo meno soffocante, una prigione che impedisce la presa di contatto con la realtà effettiva e che deforma tutto a partire dall'Io, e quindi una fonte pressoché inesauribile di menzogne. Il narcisista ossessivo è dominato a livello mentale da una tale forza di gravità che è come se ospitasse dentro di sé un buco nero che risucchia tutto quanto gli passa vicino; oggetti, persone ed esperienze risultano incurvati verso di lui e alla fine annullati. Per questo il destino del narcisista è un'oscura solitudine, perché anche quando è circondato dalla gente egli in realtà negli altri pensa e vede solo se stesso, una condizione davvero triste e gelida al di sotto di un superficiale ottimismo, e significativamente Hegel parlando dell'inferno scrive che "noi troviamo definita la dannazione dell'inferno come l'essere eternamente legati all'azione soggettiva, l'esser soli con il proprio appartenere a se stessi [...] proprio questo tormento dell'eterna contemplazione di se stessi". Il narcisismo può condurre a uno stato persino peggiore del rifiuto di sé, perché nel rifiuto c'è almeno una tensione, seppure solo negativa, verso qualcosa di vero, mentre il narcisista può giungere a trasformare in menzogna tutto quello che dice e che fa. È quindi meccanicamente condannato a essere ingiusto persino contro la sua volontà, soprattutto se si tratta di un uomo potente (come spesso accade a un narcisista di diventare) perché facendo sempre di se stesso il centro del sistema egli produce negli altri la percezione di non poter esprimere liberamente il proprio punto di vista ma di essere costretti a modificarlo per compiacerlo. Si crea così un vortice di menzogne, di cui la prima vittima è proprio lui, il narcisista. Il narcisismo è una terribile malattia spirituale da non augurare a nessuno.
Oltre che dal sé, la trappola generatrice della menzogna può anche essere determinata dalle relazioni con gli altri. Il coniuge con il quale si è vissuto per anni appare un giorno la persona sbagliata, persino un nemico, il nemico. Non lo si stima più, non lo si accetta più, risulta prevedibile in tutto, non ha ancora aperto la bocca e si sa già che cosa dirà, con quale gesto della mano, con quale immancabile aggettivo, una ripetizione monotona delle stesse cose negli stessi modi per tutti i giorni che si scorgono davanti a sé, e piomba addosso come un senso fisico di sgomento, manca l'aria, la vita si trasforma in una prigione, tutti i giorni la stessa cella, tutti i giorni lo stesso rancio, e un grande amore finisce in una serie infinita di piccoli tormenti, vendette reciproche, scatti d'ira, persino di odio.

Oppure sono i figli che si comportano sempre più come estranei e con il loro comportamento costruiscono la trappola. Nella mente inizia ad affacciarsi il sospetto che non solo non hanno la minima considerazione per i sacrifici compiuti per loro, ma che ci considerano come delle scarpe ormai consumate, ridotte in quello stato quando si è incerti se buttarle o portarle ancora una volta a riparare. A volte si ha la sensazione che ci guardino con un senso di malcelato imbarazzo, è chiaro che non vorrebbero diventare mai come noi e che sono ben altri i loro modelli, e prendere coscienza di ciò è una forma sottile di morte.
Oppure è la professione a rivelarsi una trappola, o perché altri hanno fatto carriera e non ci sono più chance, o perché la carriera e il successo alla fine hanno presentato il conto. Si prende coscienza di quanto si è dovuto mentire, adulare, assumere atteggiamenti contrari alle proprie convinzioni (i quali però ora vanno mantenuti e diventano come una seconda natura falsa e appiccicosa che avvolge l'anima, spegne la luce degli occhi, muta persino la voce). Guardare alla vita passata e riconoscerla come un grande tradimento può essere terribile. Si ripensa alla giovinezza e ai suoi ideali e ci si rivede ora, con le case, le macchine, i soldi, magari una cattedra universitaria di prestigio, magari una carica politica di primo piano, magari un'arcidiocesi che assicura inchini e baciamani, ma con gli ideali traditi per una vita all'insegna del servilismo. Lo si capisce dalle persone che ci circondano, delle quali nessuna è un amico, tutti sono solo clienti, solo relazioni interessate, in perfetta conformità allo stile di vita adottato da noi in funzione della carriera.
Da giovani, da adulti, da anziani, la vita può risultare una trappola. Ed è per questo che si evade, perlopiù concedendosi alla florida industria dell'intrattenimento che ha nella finzione la sua essenza (non a caso gli inglesi la chiamano fiction), e spesso mentendo agli altri e a se stessi. Si cerca così di fuggire dalla realtà, ma l'irrealtà non è un luogo a cui approdare, è solo utopia, non nell'eroico senso traslato di prospettiva ideale non ancora concretamente realizzata, ma nello sconsolante senso geografico di "non-luogo" nel senso letterale del termine, in greco outópos, cioè niente, nulla, vuoto assoluto. Ne viene che più si fugge, più ci si ritrova alle prese con ciò da cui si vuole fuggire, in un circolo vizioso che ad alcuni dà noia, ad altri disperazione, ad altri una sotterranea rabbia distruttiva che genera una violenza repressa che a un tratto esplode in modo improvviso e nessuno sa perché.
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Karl Lowith, uno dei migliori studenti di Heidegger a Friburgo, divenuto a sua volta un filosofo di rilievo, in un suo scritto autobiografico osserva che l'influenza esercitata da Heidegger sugli studenti era dovuta principalmente "alla sostanziale indeterminatezza e al carattere puramente appellativo delle sue intenzioni filosofiche, alla sua intensità e concentrazione spirituale sull'unica cosa necessaria". Poi prosegue: "Solo in seguito ci fu chiaro che quest'unica cosa in realtà non era niente, era puro decisionismo senza uno scopo preciso". È una conseguenza che si impone da sé: una concezione della vita che non vede altro scopo che anticipare il nulla della morte non si potrà legare a nulla, sarà perennemente inquieta, elusiva, corrosiva, saprà solo ossessivamente negare come la danza del dio Shiva che annienta tutte le cose. Non è quindi strano che alcuni studenti, nonostante il fascino dell'imponente personalità filosofica di Heidegger, in qualche modo si rendessero conto di questo soggiacente nichilismo interiore, come racconta Lowith: "Un giorno uno studente ne fece un'efficace parodia: 'Io sono deciso, ma non so a che cosa'". Lowith conclude accostando "questo puro essere risoluti di fronte al nulla" al nazionalsocialismo.
Al di là delle considerazioni sul significato complessivo della filosofia e della personalità di Heidegger su cui gli esperti non cessano di dividersi, rimane comunque che grazie a lui si è introdotto nella riflessione filosofica il concetto di autenticità come "fedeltà a se stessi". Dicendo "autentico" oggi si intende perlopiù chi è fedele a se stesso, chi vive all'insegna "dell'esser-sempre-mio".
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Autentico, formato sul greco autòs cioè "se stesso", significa "fedele a se stesso", ma il paradosso che stiamo mettendo a tema è che proprio dall'interno dell'uomo procedono le insidie e le trappole dell'inautenticità. Proprio ciò a cui devo essere fedele per essere autentico è quanto maggiormente mi spinge verso il narcisismo all'origine dell'inautenticità. Per essere autentico devo essere fedele a me stesso, ma, allo stesso tempo, devo diffidare di me stesso. Siamo dunque alle prese con una necessaria fedeltà a se stessi e con una altrettanto necessaria esigenza di trascendersi, perché se è vero che non c'è nulla di più triste di una personalità grigia che quasi rimpiange di esistere, al contempo non c'è nulla di più noioso di chi sa parlare solo di sé in un monotono susseguirsi di io, io, io.
Tra questi due estremi vado alla ricerca di un punto di equilibrio e ritengo che esso si trovi cercando sempre e solo la verità, sia dentro sia fuori di sé. Anzitutto dentro di sé, secondo queste luminose parole di Shakespeare: "Questo soprattutto: sii sincero con te stesso, e ne seguirà come la notte al giorno che non potrai essere falso verso nessuno". Parole di capitale importanza: tutto parte dalla sincerità verso di noi. Le piccole o le grandi menzogne che diciamo agli altri e che impediscono alla nostra vita di essere autentica il più delle volte non sono altro che la conseguenza inevitabile delle menzogne che diciamo prima di tutto a noi stessi. E’ la verità verso di sé la sorgente della qualità in grado di trasformare una vita falsa in una vita autentica. Ma la verità verso di sé può scaturire solo dal fatto che, più di se stessi, si ama la verità, la verità in sé e per sé, si direbbe con terminologia hegeliana. L'amore per la verità è la luce che rende pienamente autentica la vita, la sua assenza ciò che la rende inautentica. Ma che cos'è la verità?
Al sentire solo pronunciare il termine verità oggi è pressoché inevitabile che risuoni in noi la scettica domanda di Pilato a Gesù: "Che cos'è la verità?" (Giovanni 18,38). Sia chiaro che per il procuratore romano la domanda non aveva nulla di teoretico ma rappresentava solo uno sprezzante giudizio su quel pazzo idealista che aveva di fronte, e quindi è da leggersi immaginando Pilato che muove la mano avanti e indietro, le quattro dita giustapposte al pollice, un amaro sorriso sul viso, e nessun desiderio di ascoltare un'eventuale complicata risposta. Il fatto è che anche qui in Occidente, quando si sente parlare di "verità", non si può fare a meno di ripetere mentalmente il gesto di Pilato. Siamo vecchi noi occidentali, abbiamo una lunga storia alle spalle, e migliaia di libri che hanno fatto a pezzi l'ideale di una verità unica e immutabile. Certo, l'atteggiamento varia a seconda dei contesti. I credenti quando ascoltano l'autorità religiosa parlare di verità sono ben lungi dall'imitare Pilato, basta però che a pronunciare questa parola sia un politico della parte avversa o un filosofo agnostico perché essi si ritrovino nei panni del procuratore romano. E molti non-credenti, mentre esercitano con passione lo scetticismo di Pilato quando si tratta della pretesa veritativa della religione, ospitano ben altro sentimento quando a parlare è uno scienziato (e non di scienza, ma della sua filosofia di vita) o il leader politico di riferimento.
Il fatto è che noi postmoderni occidentali nei confronti della verità siamo nella medesima situazione del poeta latino alle prese con l'infelice condizione di non poter più vivere insieme alla sua donna, dopo tutti i guai che gli aveva fatto passare, ma neppure di poter vivere senza di lei: nec tecum nec sine te vivere possum. Una situazione imbarazzante, non ci sono dubbi. Così è per noi con il concetto di verità, che non possiamo fare a meno di coltivare praticamente (essendo indispensabile nella ricerca scientifica, nel mondo dell'informazione, nell'amministrazione della giustizia e soprattutto nelle relazioni personali di ogni giorno), ma che non sappiamo più pensare teoreticamente, di cui anzi non pochi sono teoreticamente nemici perché ritengono che dall'idea di verità discendano la violenza e l'intolleranza (mentre è vero solo che violenza e intolleranza discendono da un'idea sbagliata di verità, in particolare da quella che la identifica con il potere, sia esso politico o religioso o peggio ancora una sintesi di entrambi).
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Un maestro chiede a un bambino davanti a tutta la classe se suo padre è alcolizzato. La verità è che lo è, ma il bambino risponde di no. La sua affermazione però non è una menzogna, ma una custodia a un livello superiore della verità, della verità che non è riducibile all'esattezza, ma che è anche misura, giustizia, bene, bellezza, decoro. E il compagno che lo contraddice per ristabilire la verità oggettiva dell'alcolismo del padre non serve la verità ma ne fa un uso cinico, magari per fare bella figura davanti al maestro, e così la tradisce. La verità si attinge solo quando si ha a cuore l'intero. Essa non è solo esattezza, ma soprattutto bene e giustizia, cioè saggezza nell'utilizzazione del dato esatto. La verità è molto più che esattezza, perché l'esattezza dice solo un aspetto particolare della realtà. La verità invece è l'intero delle relazioni, e in essa si può entrare solo mediante l'adeguazione della nostra intelligenza e della nostra volontà alla totalità del reale, un'adeguazione che richiede grande intelligenza emotiva e grande umiltà.
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L'autenticità è una dimensione sintetica dell'esistenza, uno di quei rari concetti che possono servire da sigla complessiva per definire un uomo per ciò che veramente è, al di là di quello che possiede, di quello che sa e anche di quello che compie. Che un uomo non sia un vero uomo per le ricchezze che possiede e per le cose che sa, penso non ci sia bisogno di rimarcarlo. Ma io aggiungo che non bastano neppure le azioni a definire un uomo. Anzitutto perché, allo stesso modo delle idee e delle dottrine, la valutazione delle azioni dipende dai singoli punti di vista.
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No, perché fermandosi alle azioni non si tocca il profondo interiore del soggetto. Ne viene che le azioni di un uomo (il suo successo economico, il suo sapere erudito, persino le sue eroiche imprese) non sono sufficienti perché si possa dire di essere al cospetto di un vero uomo.
Io ritengo che a costruire la pienezza del concetto di autenticità concorrano due dimensioni, una soggettiva e una oggettiva. La prima riguarda il rapporto del soggetto con se stesso e si traduce in genuinità, spontaneità, schiettezza, sincerità. La seconda riguarda il rapporto del soggetto con la realtà esterna e con gli altri e si traduce in giustizia, lealtà, dedizione al bene, amore della verità. Mi soffermo anzitutto sul livello soggettivo dell'autenticità.
Dato che ogni essere umano è in se stesso interiorità ed esteriorità, la situazione di autenticità soggettiva si ha quando tra l'esteriorità (le parole che uno dice, le azioni che uno compie) e l'interiorità (le intenzioni che lo animano, i sentimenti che prova davvero) c'è armonia. Un tale uomo dice quello che pensa, compie quello che crede, sente davvero quello che manifesta.
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La prima tesi secondo cui "l'uomo autentico è l'uomo libero" si può riscrivere in questo modo: "l'uomo autentico è l'uomo fedele a se stesso".
Questo primo livello però non basta. Quando infatti si è in presenza solo di esso si ha la figura di Bruto, di fronte al quale Antonio sente sì la necessità di riconoscere che era un vero uomo pur essendogli nemico mortale, ma che tuttavia ha combattuto fino alla morte. Esiste una seconda dimensione per una vita davvero autentica, una dimensione oggettiva, che concerne la qualità della prospettiva ideale per la quale si vive e le azioni concrete che ne scaturiscono. Un uomo al proprio interno può essere del tutto autentico, perfettamente dedito all'ideale, privo del più piccolo interesse personale, ma tuttavia vivere per un ideale sbagliato e quindi presentare una vita autentica solo a metà. Il caso esemplare è il fanatismo, politico o religioso che sia. Qui abbiamo a che fare con veri e propri asceti, nessun dubbio al riguardo, ma dell'idiozia, e talora del crimine. Forse anche di fronte a Osama Bin Laden si può dire di essere in presenza di un uomo soggettivamente autentico, così fedele al suo ideale da spendere per esso tutti i suoi beni e da rischiare ogni giorno la vita con un'esistenza all'insegna della più dura austerità. Forse anche Hitler era così (Mussolini no, penso che non arrivasse neppure a questa altezza del male). Forse erano così anche Lenin e Stalin, Mao Tzetung e Poi Pot, che messi insieme hanno ucciso svariate decine di milioni di uomini. Forse anche i terroristi rossi e neri che hanno sparato alle spalle di persone per bene e mettevano le bombe nei treni e nelle piazze erano così. Persino i mafiosi si chiamano tra loro "uomini d'onore". Forse anche il padre domenicano Tomàs de Torquemada, fondatore dell'Inquisizione spagnola e principale responsabile della cacciata degli ebrei dal regno di Spagna, era così, un uomo autentico tutto d'un pezzo, e forse anche Roberto Bellarmino, gesuita, cardinale, dichiarato santo e dottore della Chiesa, che fece bruciare vivo Giordano Bruno perché non aveva abiurato le sue idee, era così. Dai dittatori agli inquisitori, tutti uomini soggettivamente autentici. Ma l'ideale a cui un uomo è autenticamente fedele può essere distruttivo per gli altri e una prigione per lui. Può generare aggressività, violenza, superstizione, odio, morte, come di fatto è avvenuto e avviene, e in questo senso si parla correttamente di "vittime della verità", anche se tutto ciò non ha nulla a che fare con la verità nel suo senso autentico ma ne è solo un sanguinoso parassita. La verità autentica, infatti, ha natura relazionale, coincide con il bene e con la giustizia, e perciò le idee che intendono rappresentarla si verificano pragmaticamente sulla capacità di produrre bene e giustizia. L'albero, è stato detto, "si riconosce dai suoi frutti" (Luca 6,44).
Occorre quindi un secondo livello per essere realmente in presenza di una vita autentica, il livello rappresentato dall'ideale che attrae e modella la nostra energia vitale, perché, come annotava Marco Aurelio, "ognuno vale tanto quanto le cose a cui si interessa" , parole corrispondenti a queste altre: "Dov'è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore" (Matteo 6,21). Io ritengo che qui siamo in presenza della dimensione decisiva dell'esistenza, il luogo dove si gioca la partita più importante, la vera e propria questione ultima. Il concetto di autenticità rimanda a una permanente tensione verso la verità o (che è lo stesso alla luce del concetto relazionale di verità) verso la giustizia. Si tratta di una tensione che conduce il soggetto a uscire da sé superando i suoi interessi immediati, compresi quelli del partito, del movimento o della Chiesa in cui milita, a cui non sacrificherà mai la sua onestà intellettuale, a cui non venderà mai la sua anima. La fedeltà alla verità e alla giustizia è per lui l'unica stella polare.
In questa uscita da sé, però, il soggetto non si perde, ma si ritrova a un livello più profondo, e la sua vita si compie, diviene pienamente autentica. Il vero uomo è colui che ha trovato qualcosa di più grande di sé per cui vivere, ma che proprio per questo acquisisce un sapore, un timbro, una musica interiore del tutto personali e inconfondibili. Si consegna a qualcosa di più grande, ma così, lungi dall'alienarsi, acquisisce una peculiarità personale per descrivere la quale ricorro ancora una volta a Shakespeare: "Dammi quell'uomo che non è schiavo della passione, ed io lo porterò nell'intimo del mio cuore, sì, nel cuore del mio cuore" .
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Sostengo quindi che l'uomo compie la sua vita, rendendola oggettivamente autentica e uscendo dalle trappole dell'Io, quando vive per una speranza più grande di lui, in base alla quale egli, a poco a poco, giunge a dare forma a tutto quello che fa e che dice. Ma ritorna la domanda di Kant: che cosa, dal punto di vista del contenuto, è lecito sperare? La risposta è semplice e insieme stupefacente: è lecito sperare che l'ultimo orizzonte dell'essere sia non l'assurdo ma il senso, non il male ma il bene, non il nulla ma l'essere, non la morte ma la vita. Questo, a un uomo ragionevole, è lecito sperarlo. Saperlo no, ma sperarlo in modo ragionevole sì. Anzi, continua Kant, "io avrò fede nell'esistenza di Dio e in una vita futura, e ho la certezza che nulla potrà mai indebolire questa fede, perché in tal caso verrebbero scalzati quei principi morali cui non posso rinunciare senza apparire spregevole ai miei stessi occhi" . Vivere per qualcosa di più grande di sé come il bene e la giustizia, cioè vivere l'esistenza all'insegna della più pura prospettiva etica, apre la speranza della mente al fatto che qualcosa di più grande di sé esiste veramente, che esiste una dimensione dell'essere più grande di quella di questo piccolo Io destinato a finire, una dimensione che i popoli di tutti i tempi hanno intuito e chiamato divino, assegnandovi poi il nome particolare di cui erano capaci, tutti comunque inadeguati. Sperare in un senso complessivo dell'essere che si dice come vita e come bene significa aver fede in un Dio.
Un uomo può essere abitato da questa speranza sul senso complessivo della vita, e un altro no, e perché questo avvenga nessuno lo sa. Ma per una vita autentica è necessario credere in un Dio? Sono convinto di no. Ritengo, però, che non sia possibile una vita pienamente autentica senza credere nel bene e nella giustizia, e che se un uomo crede nel bene e nella giustizia deve poi giustificare a se stesso perché lo fa e provare a pensare quale sia la concezione dell'essere più ragionevole che giustifica tale suo affidamento esistenziale al bene e alla giustizia. Se la logica del mondo non è indirizzata al bene e alla giustizia, perché costruirvi sopra la vita? Ma se vi è indirizzata, facendo sì che valga la pena impostarvi la vita, come chiamare questa direzione verso cui la logica del mondo conduce, direzione che è dentro il mondo ma che è anche più grande del mondo?
Io sono convinto che la dimensione etica, in quanto anelito al bene e alla giustizia, sia il fondamento autentico del pensiero del divino nella coscienza umana di tutti i tempi. Per questo, anche a prescindere da qualunque fede religiosa, "beati quelli che hanno fame e sete di giustizia" (Matteo 5,6). Infatti, se la speranza per cui uno vive è complessivamente orientata al bene e alla giustizia (intesi anche solo come forma delle relazioni umane e non come senso complessivo dell'essere), essa produce in chi la vive una luce particolare, la luce calma e benevola dell'uomo buono. Dell'uomo giusto. La dedizione della libertà a questa luce interiore rende la vita soggettivamente e oggettivamente autentica. Da qui la terza tesi: "L'uomo autentico è l'uomo che vive per la giustizia, il bene, la verità".
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È in base a questi argomenti che io sostengo che la maniera migliore di realizzare se stessi è stabilire rapporti autentici e giusti con gli altri, e che la reale attuazione del proprio bene contiene la cura di rapporti leali. La cura di sé si consegue più nella linea dell'altruismo che non dell'egoismo. Il bene, in questa prospettiva, non è nulla di straordinario, ma è la realtà più normale e più logica, proviene dall'essere stesso del mondo e coincide con la pienezza della dimensione naturale. Chi fa il bene compie l'azione più logica perché riproduce l'opera ordinatrice del processo evolutivo. Il bene è compimento razionale dell'essere.
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Penso però che per tutti valgano le celebri parole dell'Ulisse dantesco, secondo le quali, alla luce della nostra essenza di uomini, la vita autentica è quella vissuta all'insegna del bene (virtute) e dell'amore per la verità (canoscenza) . Impostare tutte le relazioni sulla base di questi valori è la più grande fortuna che possa capitare nella vita.

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Lettura di Sciascia in biblioteca

5 Marzo ore 20,30, Biblioteca Castiglione delle Stiviere

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