La voce della notte, Rafik Schami

>> domenica 28 giugno 2009


Libro deludente e noioso. Le storie riportate sono esili, fine a se stesse e con morale a tratti inesistente; i personaggi sono poco caratterizzati. Il libro non sarebbe utile neanche se letto ai bambini. Sono rari i momenti che riescono a distogliere dalla monotonia della narrazione.

C’era una volta un contadino che si chiamava Hammad. Un giorno l’uomo più in vista del villaggio annunciò il matrimonio della figlia e decise di organizzare grandi festeggiamenti che dovevano durare sette giorni e sette notti. Tutto il villaggio e anche i contadini dei dintorni sarebbero stati suoi ospiti e la festa si annunciava meravigliosa. La prima sera furono serviti carne di agnello, riso, fagioli e insalata di cavolo a volontà. Gli ospiti, naturalmente, fecero grande onore alla tavola. Soprattutto Hammad che era povero in canna: non ci crederete ma in meno di due ore aveva spolverato un vassoio di riso, un pezzo di arrosto gigante e tanta insalata. A notte fonda Hammad cominciò a sentirsi male. Aveva la pancia piena d’aria e pensò che la cosa migliore era andare fuori a scoreggiare all’aperto, per liberarsi. Ma mentre si alzava da tavola gli scappò una scoreggia, proprio nel momento in cui il poeta del villaggio stava decantando la bellezza della sposa: “Il tuo respiro è dolce e profumato come il fiore di gelsomino” dicevano i suoi versi. Gli ospiti scoppiarono in una grande risata e il padrone di casa, vale a dire il padre della sposa, fulminò il povero Hammad con lo sguardo.

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Chesil Beach, Ian McEwan

>> domenica 21 giugno 2009


I sentimenti dei due giovani coniugi alla loro prima notte di nozze sono descritti con una profondità unica. E soprattutto è analizzato molto bene il conflitto che deciderà del loro futuro. Il messaggio è universale. A tutti sarà capitato di amare una persona e affrontare un litigio che può distruggere in breve un legame pazientemente costruito nel tempo. Solo con la maturità e la pazienza che gli anni e l’esperienza portano, si può avere la capacità di mettere da parte il proprio orgoglio, ripercorrere i propri passi, decidere lucidamente se il legame è realmente importante e comportarsi di conseguenza.

La collera di lui sdoganò la sua e all’improvviso Florence credette di aver capito la natura del loro problema: erano troppo educati, repressi, timorosi, si affrontavano sempre in punta di piedi, sottovoce, rimandando, assentendo. Si conoscevano pochissimo, e non avrebbero fatto grandi progressi in tal senso data l’imbottitura di premuroso silenzio con cui smussavano le rispettive identità, bendandosi gli occhi e impantanandosi sempre di più. Avevano avuto il terrore di contraddirsi e adesso la rabbia di Edward la faceva sentire libera. Voleva ferirlo, infliggergli un castigo al solo scopo di manifestare la propria differenza. Quell’impulso, quasi un fremito devastatore, le era talmente sconosciuto da coglierla del tutto priva di difese.
(…)
Ecco come il corso di tutta una vita può dipendere … dal non fare qualcosa. A Chesil Beach Edward avrebbe potuto richiamare Florence, o seguirla. Non sapeva, e nemmeno avrebbe voluto scoprilo, che correndo lontano, sicura, nella sua disperazione, di essere sul punto di perderlo, Florence non si era mai sentita tanto innamorata e sgomenta, e che il suono della sua voce l’avrebbe raggiunta come una salvezza, che si sarebbe senz’altro voltata.

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Cecità, Josè Saramago


Se si può parlare di innovazione nella scrittura questo romanzo ne è un esempio importante. L’uso della punteggiatura è molto particolare: i dialoghi non sono introdotti dai due punti e non ci sono le virgolette a racchiudere le frasi che invece sono separate solo da una virgola, seguita da una parola che inizia con una lettera maiuscola ad indicare il cambio di voce. Sono completamente assenti i punti interrogativi. Il tutto sembra un flusso di coscienza e la lettura, faticosa all’inizio, diventa più agevole man mano che ci si abitua. La trama è angosciante, claustrofobica e unisce al miglior romanzo dell’orrore lo spessore di considerazioni sulle miserie di un’umanità che se, oltre la vista, perde il senso di solidarietà, precipita verso l’abisso.

Il cieco gridò, Tutti calmi e zitti, se qualcuno si azzarda ad alzare la voce, faccio fuoco, chi capita capita, poi non vi lamentate. I ciechi non si mossero. Quello della pistola continuò, E’ detto e non si torna indietro, da oggi in poi saremo noi a gestire il cibo, siete tutti avvisati, e che a nessuno venga in mente di andarlo a cercare fuori, metteremo dei sorveglianti a questo ingresso, subirete le conseguenze di qualsiasi tentativo di contravvenire agli ordini, adesso il cibo si vende, chi vuol mangiare paga (…) Ogni camerata nominerà due responsabili, questi saranno incaricati di raccogliere le cose di valore, tutte, di qualsiasi tipo, soldi, gioielli, anelli, bracciali, orecchini, orologi, quello che avete, e porteranno tutto nella terza camerata del lato sinistro, cioè dove siamo noi, (…)
Trascorsa una settimana, i ciechi malvagi mandarono a dire che volevano donne. Così, semplicemente, Portateci delle donne. Questa inattesa ancorché non del tutto insolita pretesa causò l’indignazione che è facile immaginare, (…) Se non ci portate delle donne, non mangiate. Umiliati, gli emissari ritornarono nella camerata con l’ordine, O ci andate, o non ci danno da mangiare. Le donne sole, quelle che non avevano un compagno, o per lo meno non lo avevano fisso, protestarono immediatamente, non erano disposte a pagare il cibo degli uomini altrui con quello che avevano tra le gambe, una ebbe persino l’audacia di dire, dimenticando il rispetto dovuto al proprio sesso, Io sono padronissima di andarci, ma quanto guadagno è per me, e se mi va ci resto pure a vivere, così mi garantisco letto e piatto.

Molto belle e originali le similitudini usate dall’autore

Più in là, molto lentamente, appoggiandosi sui gomiti, il ladro della macchina sollevò il busto. Non sentiva la gamba, c’era solo il dolore, il resto non gli apparteneva più. L’articolazione del ginocchio si era irrigidita. Rotolò con il corpo dalla parte della gamba sana, che lasciò pendere fuori dal letto, poi, tenendosi la coscia con le mani, tentò di spostare la gamba ferita nello stesso senso. Come un branco di lupi improvvisamente risvegliati, i dolori accorsero da tutte le direzioni per rientrare subito dopo nel lugubre cratere cui si alimentavano.

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Il battello bianco, Tschingis Aitmatov


E’ una fiaba che cela tra le righe un pessimismo assoluto: non c’è scampo e speranza in un contesto di autorità e oppressione. La figura più emblematica è quella del nonno che prima alimenta i sogni del bambino e poi contribuisce a distruggerli. E questo perché non sa opporsi alle imposizioni e vessazioni di cui continuerà ad essere vittima per sempre. L’uccisione dei cervi spezza con crudele realismo l’incantesimo della fiaba.

Il bambino restò pietrificato, invaso dal gelo, quando, ai piedi del muro della rimessa, scorse una testa di cervo con le sue corna. Rotolata nella polvere, la testa recisa era impregnata di nere macchie di sangue. Faceva pensare a uno di quei corpi di cui ci si sbarazza per non ingombrare la strada. Vicino alla testa erano sparse quattro zampe, con i loro zoccoli, recise al ginocchio. (…)
Le corna resistevano. Staccarle non era così semplice. Ormai completamente sbronzo, Orozkul tirava fendenti a sproposito, e questo lo faceva imbestialire. Dal ceppo, la testa rotolò a terra. Orozkul continuò a colpirla. Rimbalzava qua e là, e lui la inseguiva a colpi di scure. A ogni colpo il bambino sussultava, indietreggiando involontariamente, senza tuttavia riuscire a staccarsi da lì. Come in un incubo, era inchiodato a terra da una forza angosciosa e incomprensibile; restava immobile stupito, stupito che l’occhio vitreo e fisso di Madre cerva dalle ramose corna non si riparasse dalla scure, che le sue palpebre non battessero, non si chiudessero dallo spavento. Da un pezzo, ormai, la testa rotolava nel fango e nella polvere, ma l’occhio rimaneva limpido, sembrava ancora contemplare il mondo con lo stupore raggelato e muto nel quale l’aveva sorpreso la morte. Il bambino temeva che Orozkul la colpisse appunto negli occhi. (…)
Il cranio scricchiolava, schegge d’osso volavano da ogni parte. Un breve grido sfuggì dalle labbra del bambino quando la scure andò a colpire un occhio, con un taglio obliquo. Un liquido scuro e vischioso schizzò dall’orbita sfondata. L’occhio era morto, scomparso, svuotato.

Commento del gruppo lettori
Libro molto lirico e commovente che può essere letto come una fiaba, anche se molto triste, con un finale non certo consolatorio. Nei protagonisti, il nonno e il genero, si scontrano due mondi contrapposti: da una parte il mondo della tradizione che ha alle spalle cultura rispetto e poesia, dall’altra quello brutale che si basa su un potere che è predominio e prevaricazione, e che ha cancellato le proprie radici e la propria storia.
Il libro si può leggere anche come una denuncia politica del potere sovietico in una sperduta provincia russa, in cui domina la corruzione e l’omertà, e in cui l’ideologia si è svuotata di ogni significato per lasciare spazio alla pura burocrazia e all’individualismo dei più forti.. Il genero parla con un linguaggio rozzo e il bambino e il nonno un linguaggio mitico poetico L’uccisione dei cervi è l’epilogo del mondo antico: il bambino che ha subito ingiustizie e violenze, non riesce ad accettare l’uccisione degli innocenti che è per lui l’ingiustizia radicale.

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La solitudine dei numeri primi, Paolo Giordano

>> domenica 14 giugno 2009


I personaggi mi sono sembrati poco credibili, soprattutto Mattia con il suo universo di solitudine che dura decenni, senza una crepa, senza una modifica al suo modo di essere e di relazionarsi agli altri, nonostante il mondo attorno a lui cambi e si renda conto che almeno Alice continui a volergli bene. Il libro comunque è scritto bene, ha ritmo e merita per alcune considerazioni che fanno riflettere, come quella seguente sull’amore non corrisposto.

Mattia. Ecco. Ci pensava spesso. Di nuovo. Era come un’altra delle sue malattie, dalla quale non voleva veramente guarire. Ci si può ammalare anche solo di un ricordo e lei era ammalata di quel pomeriggio nella macchina, di fronte al parco, quando con il proprio viso aveva coperto il suo per togliergli da davanti il luogo di quell’orrore.
Poteva sforzarsi, ma di tutti gli anni passati insieme a Fabio non riusciva ad estrarre neppure un’immagine che le schiacciasse il cuore così forte, che avesse la stessa impetuosa violenza nei colori e che lei riuscisse ancora a sentire sulla pelle e alla radice dei capelli e tra le gambe. E’ vero, c’era stata quella volta a cena da Riccardo e sua moglie, in cui aveva riso e bevuto molto e mentre aiutava Alessandra a lavare i piatti, si era tagliata il polpastrello del pollice con un bicchiere, che le era andato in frantumi tra le mani, e lasciandolo cadere aveva detto ahi. Non l’aveva detto forte, l’aveva appena sussurrato, ma Fabio aveva sentito ed era accorso. Le aveva esaminato il pollice sotto la luce, chinandosi se l’era avvicinato alle labbra e aveva succhiato un po’ del sangue, per farlo smettere, come se fosse stato il suo. Con il pollice in bocca l’aveva guardata dal basso, con quegli occhi trasparenti che Alice non sapeva sostenere. Poi aveva chiuso la ferita nella sua mano e aveva baciato Alice sulla bocca. Lei aveva sentito nella sua saliva il sapore del proprio sangue e si era immaginata che fosse circolato in tutto il corpo di suo marito per tornare di nuovo a lei, pulito, come in una dialisi.
C’era stato quella volta e ce n’erano state infinite altre, che Alice non ricordava più, perché l’amore di chi non amiamo si deposita sulla superficie e da lì evapora in fretta.

Commento del gruppo lettori
I lettori hanno espresso pareri contrastanti. Secondo alcuni il romanzo inquadra con molto realismo le situazioni di disagio di tanti giovani d’oggi che hanno perso la capacità di esprimere sentimenti e emozioni. Le loro vicende di solitudine e di dolore trascorrono nel silenzio delle famiglie e della società in cui vivono. È stata giudicata originale la scelta dell’autore di trasformare l’esperienza dei due protagonisti in situazioni matematiche. Per altri il romanzo è stato poco coinvolgente con trovate scontate e situazioni non vere e molto costruite, gratuitamente triste. È assente ogni tentativo di ribellione. La scrittura è stata considerata retorica con un uso eccessivo della similitudine; a volte piatta e banale.

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Il codice dell'anima, James Hillman

>> sabato 13 giugno 2009


Nel Il codice dell'anima. Carattere, vocazione, destino la tesi dell’autore è che ciascuno di noi ha una vocazione interiore, un talento, che lo rende unico e potenzialmente una persona di successo. Questa vocazione è “il qualcosa in più” che spezza il binomio ereditarietà-ambiente come spiegazione dei comportamenti e della storia di ognuno di noi. Se fossimo infatti il solo frutto del patrimonio genetico trasmessoci dai nostri genitori, delle influenze positive o negative delle persone che ci circondano, degli eventi che ci accadono, saremmo delle vittime, senza alcuna voce in capitolo, invischiati in un destino che altri ci hanno scritto addosso. La nostra vocazione, se individuata e opportunamente assecondata, può farci fare il salto di qualità.

Tutti, presto o tardi, abbiamo avuto la sensazione che qualcosa ci chiamasse a percorrere una certa strada. Alcuni di noi questo qualcosa lo ricordano come un momento preciso dell’infanzia, quando un bisogno pressante e improvviso, una fascinazione, un curioso insieme di circostanze, ci ha colpiti con la forza di un’annunciazione.
(…)
Esiste un motivo per cui la mia persona, che è unica e irripetibile, è al mondo, esistono cose alle quali mi devo dedicare al di là del quotidiano e che al quotidiano conferiscono la sua ragion d’essere.
(…)
Dobbiamo prestare particolare attenzione all’infanzia, per cogliere i primi segni della vocazione all’opera, per afferrare le sue intenzioni e non bloccargli la strada. Una vocazione può essere rimandata, elusa, a tratti perduta di vista. Oppure può possederci totalmente. Non importa: alla fine verrà fuori.
(…)
Il mito platonico della discesa dice che l’anima discende in quattro modi: il corpo, i genitori, il luogo, le condizioni esterne. Possiamo prenderli come istruzioni per completare l’immagine che ci siamo portati con noi al nostro arrivo. Il corpo: discendere, cioè crescere, significa ubbidire alla legge di gravità, assecondare la curva discendente che accompagna l’invecchiamento (Josephine Baker incominciò a dire che aveva sessantaquattro anni quando ancora ne aveva dieci in meno; si vestiva con indumenti usati e aveva smesso di nascondere la calvizie). Secondo: accettare di essere un membro della tua famiglia, di far parte del tuo albero genealogico così com’è, con i suoi rami contorti e i suoi rami marci. Terzo: abitare in un luogo che sia adatto alla tua anima e che ti leghi a sé con doveri ed usanze. Infine restituire con gesti che dichiarino il tuo pieno attaccamento a questo mondo, le cose che l’ambiente ti ha dato.
(…)
Il più delle volte l’angelo non chiama a gran voce, si limita a dirigere la lenta e silenziosa rivelazione del carattere.
(…)
Io sono il mestiere che faccio e se faccio un mestiere mediocre, come tagliare bistecche in un supermercato, quello non è avere una vocazione. Il carattere non è quello che faccio, ma il modo come lo faccio.

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Il passato è una terra straniera, Gianrico Carofiglio

>> giovedì 4 giugno 2009


La storia è ben costruita, i personaggi sono credibili, le considerazioni (come quella che allego sulla manipolazione) interessanti, tuttavia come negli altri suoi romanzi c’è qualcosa che manca e che rende impari il confronto con i suoi colleghi di genere più blasonati. Probabilmente manca il ritmo, la capacità di tenere incollato il lettore.

Manipolare le carte, manipolare gli oggetti sono cose che vanno molto al di là del semplice gesto di destrezza. La vera abilità del prestigiatore consiste nella capacità di influenzare le menti. E fare un gioco di prestigio riuscito significa creare una realtà. Una realtà alternativa dove sei tu a stabilire le regole. (…) Se qualcuno dice che la vita non è una continua sequenza di manipolazioni, o è un bugiardo o è un cretino. La vera differenza non è fra manipolare e non manipolare. La differenza è tra manipolare consapevolmente e manipolare inconsapevolmente. Pensa ad un tizio sposato da poco. Una sera torna a casa e dice alla moglie di essere stato invitato ad una rimpatriata di vecchi amici. Le dispiace se lui esce? No, se lui ne ha voglia, dice lei dopo una breve esitazione, con una faccia che esprime il contrario di quello che ha detto a parole. Se non vuoi rimango a casa, replica lui. No, no, vai pure, ripete lei a parole. La sua faccia però dice: è chiaro che non ti importa di me se vuoi uscire da solo. Lui allora è a disagio, perché riceve due messaggi contraddittori, e si innervosisce. Insiste a dire che non è indispensabile e che può rimanere a casa; e lei insite a dire, a parole, che può andare. Alla fine lui, sentendosi in colpa, decide di non uscire. Non potrà accusarla di averlo costretto, perché lei gli ha detto che se voleva, poteva uscire. Non potrà lamentarsi perché è stato lui a decidere di non uscire. E questo lo farà sentire a disagio. Lei lo ha manipolato, ma nessuno dei due lo sa a livello cosciente. (…)
I giochi di prestigio, o il barare alle carte, sono una metafora della realtà quotidiana, dei rapporti tra le persone. (…) Le intenzioni vere sono diverse da quelle dichiarate.

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Né qui né altrove una notte a Bari, Gianrico Carofiglio

>> martedì 2 giugno 2009


Difficilmente riusciamo ad accorgerci di un momento felice mentre lo stiamo vivendo. Ricorriamo spesso ai ricordi (e ai rimpianti). Una rimpatriata di amici che non si vedevano da anni è l’occasione per rivivere momenti passati e ripercorrere con la memoria luoghi che con il tempo hanno cambiato usi e destinazioni. Il libro sarebbe stato nostalgicamente superficiale se un finale inaspettato non ci ricordasse che dietro l’apparenza spesso si nascondono conflitti irrisolti o eventi dolorosi. Per chi è originario di Bari (e magari ha lasciato la città da anni) il valore dell’opera raddoppia perché si rivedono i luoghi e i riti e si fissano i punti dell’identità collettiva: alla focaccia e ai mitili crudi, aggiungerei gli allievi, la zampina, i panzerotti.

La focaccia barese si prepara mescolando farina di grano tenero, sale, lievito e acqua. Ne deriva un impasto liquido che si versa in una teglia rotonda, si condisce con olio, pomodori freschi, olive e poi si cuoce nel forno a legna. Proprio perché l’impasto è liquido, i pezzi di pomodoro e le olive sprofondano nella pasta, creando e riempiendo dei piccoli crateri morbidi che diventano le parti più buone della focaccia. Si mangia calda ma non bollente, avvolta in un pezzo di carta da panificio, uscendo da scuola, al mare, per cena o anche per pranzo (…) la vera focaccia è quella con pomodori, olive, bordi bruciacchiati e basta. Va accompagnata, possibilmente, da una bella bottiglia di birra molto fredda. Se poi uno ha proprio voglia di un’incursione nell’alta cucina, il piacere supremo è la focaccia calda farcita con fette sottilissime di mortadella. La mortadella tagliata sottile, al contatto con la mollica calda e fragrante, sprigiona un profumo che fa impazzire le ghiandole salivari. A differenza di molte cose buone, che sono scarse e spesso costose, la focaccia, a Bari, si trova ovunque ci sia un panificio. Cioè ovunque, e tutti se la possono comprare. La focaccia a Bari è una metafora dell’uguaglianza e uno dei pochi simboli (fra questi, degni di nota anche le cozze crude), in cui i baresi riconoscono la loro identità collettiva.

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Lettura di Sciascia in biblioteca

5 Marzo ore 20,30, Biblioteca Castiglione delle Stiviere

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