Il Profumo delle Foglie di Limone - Clara Sanchez

>> sabato 19 gennaio 2013

Miracoli dell'effetto placebo. Questo in sintesi un libro che ha tutte le premesse per essere molto interessante ma che rimane nell'ambito del leggibile/scorrevole. L'idea della caccia ai criminali nazisti che cercano di nascondersi nell'anonimato di tranquilli pensionati è interessante come anche quella dell'inedita coppia di detective costituita da un ottantenne ex reduce di un campo di concentramento e della giovane incinta che decide di vivere da sola la sua maternità. Ma la storia è poi disseminata di vicende poco credibili e di trame non sviluppate che lasciano interdetti. L'elisir di lunga vita e la vitalità dei nonnetti, l'adesione della protagonista alla setta, l'interesse degli aguzzini per il nascituro, il personaggio dell'Anguilla, ... è tutto lasciato lì, non spiegato, non approfondito. Anche sull'olocausto si poteva magari andare più a fondo nelle dinamiche che legavano vittime e carnefici  a tutto vantaggio dei giovani che si avvicinano al tema leggendo proprio questo libro. Un occasione persa. Interessante comunque le considerazioni sugli anziani e il gioco psicologico che il protagonista attua nei confronti di uno dei suoi avversari per spingerlo alla pazzia: ne riporto di seguito le parti più significative.
 Io ho "letto" la versione in audiolibro che consiglio perchè le voci dei due protagonisti sono rese alla perfezione dai due interpreti.

Non dovevo più pensare alla strategia da seguire e ai passi da fare, il piano si stava creando da solo. A poco a poco, intorno a me si era andato costruendo un mondo invisibile alle altre persone, un mondo in cui io avevo qualcosa da dire e da fare. Così, non appena ebbi portato a termine la commissione per Sandra e salii in macchina, sapevo già cosa dovevo fare.
Dovevo tornare alla barca del Macellaio: in quel momento stava sicuramente facendo la spesa o era uscito a fare due passi. La sua era l’unica abitazione accessibile tra quelle dei membri della Confraternita, probabilmente perché aveva vissuto molti anni senza che gli succedesse niente e non aveva niente di cui diffidare. Passare inosservato, camuffarsi, essere uno dei tanti, non avere apparentemente nulla da nascondere, per lui era più sicuro che circondarsi di muri e di vigilanza. Eppure, improvvisamente, una saponetta in meno, un fiore in meno, un coltello in meno. Chi saliva su una barca per rubare queste
cose? Poteva pensare solo a una sua disattenzione. 
Rimasi in calzini per scendere le scale. Tutto era esattamente come l’ultima volta. Quell’organizzazione maniacale gli dava un’impressione di stabilità, gli faceva pensare che nel suo piccolo mondo niente potesse cambiare. Lo capivo perché a me accadeva lo stesso. Se mettevo gli occhiali in una tasca diversa dal solito, mi confondevo. Così rimisi di nuovo la saponetta e il coltello al loro posto e i fiori non li toccai. Poi presi dagli scaffali quanti più quaderni riempiti dal pugno di Heim potevo prendere. Uscii, mi misi le scarpe e aspettai che tornasse, seduto su una panchina di fronte. Entrò con le sue gambe forti e muscolose e lo sguardo basso e scese nel recinto sacro. Avevo freddo ma aspettai di vederlo salire di nuovo in coperta.
Fece qualche passo qua e là, poi scese un’altra volta. Nei catamarani ormeggiati ai lati non c’era nessuno a cui chiedere se fossero saliti sulla sua barca. E perché qualcuno sarebbe dovuto salire per fare quella stupidaggine? Sarebbe stato prudente, si sarebbe detto che forse non aveva visto bene, che aveva pensato mancasse qualcosa che in realtà non mancava. Decise di tornare dentro. Quando uscì di nuovo perlustrò il pavimento della coperta come doveva aver ispezionato le scalette e l’interno. E a un certo punto scosse la testa, come a dire a sé stesso che si trattava di una sciocchezza e che non valeva più la pena di pensarci.
Il giorno dopo, però, prima del mio appuntamento con Sandra, nell’orario in cui lui di solito usciva per andare in pescheria o per fare un giro sulla terraferma, rimase in barca.
Sicuramente voleva vedere se qualcosa si spostava, spariva o saltava fuori mentre lui era lì.
Il seme dell’insicurezza era stata gettato, ora bisognava solo aspettare che crescesse. Ero certo che avrebbe iniziato a fare quello che avrei fatto io. A innaffiare la pianta del sospetto ci avrebbe pensato lui. Un giorno sì e uno no passavo di là, non volevo perdere di vista il Macellaio. Mi faceva male vederlo e allo stesso tempo non riuscivo a smettere di guardarlo mentre era impegnato nelle sue faccende quotidiane, per esempio pulire la sua amata coperta, come un tempo aveva svolto altre faccende quotidiane, per esempio uccidere esseri umani, con la stessa cura e organizzazione.
Quando Sandra entrava in quel bunker che era Villa Sol non avevamo più modo di comunicare, per cui non sapevo quando avrei potuto tranquillizzarla dicendole che l’inquilino stava bene e che per quanto pazzi potessero essere non si sarebbero giocati tutto per un capriccio di Karin. Per raccontarci le novità dovevamo aspettare di vederci un giorno sì e un giorno no al Faro alle quattro del pomeriggio, a meno che Sandra non riuscisse a lasciarmi un messaggio in albergo o nella nostra «cassetta» del Faro o che io mi facessi vedere quando scendeva in paese per portare Karin in palestra. L’aspetto positivo del nostro essere animali abitudinari è che finiamo per avere orari più o meno fissi. Io stesso, nonostante il tipo di vita che stavo conducendo negli ultimi tempi, nonostante non dovessi rendere conto a nessuno e dovessi approfittare di qualunque opportunità mi si presentasse per proseguire le mie indagini sulla Confraternita, non potevo far altro che prendermi una pausa a metà giornata per riposarmi e andare a dormire presto la sera.
[...]
“Salva, se mi avessi visto salire e scendere placidamente dalla barca di Heim. Salva, se potessi vedere tutto questo”, pensavo davanti allo spettacolo di Heim, il Macellaio, che stava impazzendo.
Sapevo cosa provava, perché di tutto il fango della vecchiaia in cui uno finisce per rigirarsi, la perdita della memoria era quello che più mi sconvolgeva. E per quanto diversi fossimo io e Heim, su questo punto potevamo assomigliarci. Prima furono la saponetta, il fiorellino nel vaso e il coltello. Sparirono e poi ricomparvero, il che, per un uomo così metodico, abituato a organizzare al millimetro il mondo che lo circondava, dovette essere piuttosto inquietante.
E adesso i quaderni in cui annotava le sue efferatezze a Mauthausen.
“Dove posso averli messi?” si stava certamente domandando. “Perché dovrei averli tolti dalle mensole in cui erano nascosti, camuffati fra i libri normali?” Che fosse salito qualcuno in barca? No, non era salito nessuno, e se anche l’avessero fatto avrebbero dovuto sapere fin troppo bene cosa cercare. E in quel caso il fatto che avessero rubato i quaderni non avrebbe mai spiegato la sensazione di aver perso e ritrovato il coltello.
Sicuramente doveva aver pensato alla possibilità di cambiare posto ai quaderni.
E se avesse finito per farlo e per dimenticarsene?
Fu un martedì mattina: il tempo era bello, anche se non abbastanza caldo da potersi mettere i pantaloni corti.
Quel giorno mi dedicai a contemplare Heim che portava in coperta praticamente tutto quello che c’era giù. La riempì di libri, asciugamani, lenzuola, pentole, altri quaderni con la sovraccoperta di tela nera che io non avevo trovato. Saliva e scendeva. Alla fine si sedette sulla sdraio pieghevole su cui dormicchiava dopo pranzo per controllare quegli oggetti uno a uno e catalogarli su un altro quaderno con la copertina di tela nera. Di tanto in tanto si prendeva la testa fra le enormi mani e poi andava avanti con l’ispezione. A mano a mano che segnava, scendeva per rimettere l’oggetto in questione al suo posto. Andò avanti così per diversi giorni, mattina e pomeriggio. Io lo osservavo di tanto in tanto, un po’ la mattina e un po’ al pomeriggio, gustandomi un buon caffè espresso nel bar di fronte e pensando a Salva e a cosa avrei dato perché fosse con me in quel momento. Ero stato tentato di raccontarlo a Sandra, ma pensai che fosse meglio per lei non sapere. Fin quando l’ultimo giorno, dopo aver tirato fuori e inventariato le sue cose diverse volte ed essere giunto alla terribile conclusione che il conteggio non quadrava, lo vidi scendere con passo deciso dalla barca e andare verso il garage dove teneva la sua imponente Mercedes nera.
Lo aspettai.
Il muso della macchina uscì lentamente dal garage. Guardava di fronte a sé senza battere ciglio, il viso sembrava di pietra sotto il berretto. Non era difficile seguirlo. Nonostante la macchina potentissima che aveva a disposizione, i suoi riflessi erano peggiori dei miei ed erano ulteriormente rallentati dall’insicurezza che era affiorata in lui.
“Figlio di puttana”, pensai, “mi auguro che arrivi a sentirti un essere inutile, a pensare che la tua vita non valga la pena di essere vissuta e a provare sulla tua pelle quello che hai fatto agli altri.” 
[...]
La vita è sorprendente.
Era l’unica certezza di cui avevo fatto tesoro con il passare degli anni. La vita era crudele e sorprendente, monotona e sorprendente, meravigliosa e sorprendente. Adesso le toccava essere solo sorprendente.
Successe quando tornai in camera dopo aver sorvegliato la Stella e i movimenti di Heim in coperta. Tornavo contento perché ogni giorno che passava lo trovavo sempre peggio. Saliva e scendeva in cabina disorientato. Dopo pranzo non faceva più un riposino come prima, e quando se ne andava al mercato per comprare il pesce che tanto gli piaceva tornava indietro almeno due volte a controllare che fosse tutto ben chiuso. Si guardava intorno come se qualcuno lo stesse sorvegliando, il che d’altronde non era molto lontano dalla realtà, e l’ultima volta che aveva portato fuori la sua enorme Mercedes dal parcheggio aveva rigato la fiancata. Forse stava andando da Sebastian a piagnucolare e a chiedergli altre iniezioni. Quello che probabilmente non gli avrebbe detto è che sospettava di essere stato scoperto, perché se avessero scoperto lui avrebbero scoperto anche gli altri e questo avrebbe comportato un problema per tutto il gruppo. Né perdere la memoria né essere scoperto era un bene, e non mi meravigliava che avesse rigato la sua imponente armatura, quella che si metteva quando andava a fare visita agli altri angeli caduti.
[...]
Intanto, mentre si avvicinava il giorno in cui quella lettera sarebbe stata spedita, mi dedicai a far impazzire Heim. Sapevo come farlo, me lo avevano insegnato loro.

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La Tigre Bianca - Aravind Adiga

>> martedì 8 gennaio 2013

Il libro di esordio di Aravind Adiga è una sorpresa estremamente piacevole. Scritto con un linguaggio semplice ma fortemente efficace nel descrivere situazioni e stati d'animo, rappresenta per i profani come me, un'introduzione lucida e disincantata dell'India moderna. Il dietro le quinte di una nazione che ha le potenzialità per essere la prima al mondo ma che deve risolvere le tante contraddizioni che scuotono il suo tessuto sociale caratterizzato da un divario abissale tra ricchi e poveri. L'autore indugia in più di un occasione a spiegare in dettaglio i meccanismi della corruzione e della sopraffazione che regolano molte delle attività sia all'interno delle classi agiate che in quelle più infime dei moderni schiavi. Molto interessante la similitudine della "stia per polli" come meccanismo di annullamento naturale delle aspirazioni a progredire e migliorare da parte degli ultimi. La visione è estremamente pessimistica: non si salva nessuno e lo stesso protagonista, che è un assassino, sembra migliore di tutti gli altri.

Ho accennato al fatto che il corpo di mia madre era avvolto in una pezza di satin. Adesso le coprirono la faccia con questo tessuto; e ceppi di legno, tanti quanti potevamo pagarne furono impilati sopra il corpo. Poi il sacerdote diede fuoco n mia madre.
- Era una brava ragazza tranquilla quando è arrivata a casa nostra, - disse Kusum mettendomi una mano sulla faccia.
Non sono io che ho cercato la lite.
Mi tolsi dalla faccia la sua mano. Guardai mia madre.
Quando il fuoco cominciò a divorare il satin, un piede pallido schizzò fuori come una cosa viva; le dita, che si stavano sciogliendo per il calore, si arcuavano come se cercassero di porre resistenza a ciò che subivano. Kusum ricacciò il piede nel fuoco, ma continuava a non bruciare. Il cuore mi batteva all'impazzata. Mia madre non avrebbe lasciato che la distruggessero.
Sotto la piattaforma con la pila di legna da ardere, dove il fiume lambiva l'argine, c'era un gigantesco ammasso di fanghiglia nera. Era cosparso di ghirlande di gelsomino, petali di rosa, frammenti di satin, ossa carbonizzate; un cane dal manto pallido si aggirava nel fango fiutando i petali e il satin e le ossa carbonizzate. Io guardai quella melma, guardai il piede contratto di mia madre e capii. Era quel fango che le ripugnava, quell'ammasso di melma nera. Mia madre stava cercando di tenerlo lontano, quel fango nero; le dita dei piedi si contraevano nel tentativo di resistere, ma il fango la stava risucchiando, risucchiando. Era così denso, e aumentava sempre più ogni volta che il fiume lambiva il ghat. Presto anche lei sarebbe divenuta parte di quell'amnmasso nero, e il cane dal manto pallido avrebbe cominciato a leccarla.
Poi capii: è quello il vero dio di Benares, quel fango nero del Gange in cui ogni cosa muore e si decompone e rinasce per morire di nuovo. Sarebbe accaduto lo stesso a me quando fossi morto e mi avessero portato lì. Lì niente poteva liberarsi. Restai senza fiato. E per la prima volta in vita mia, svenni.
Da allora non sono mai tornato a vedere il Gange, lo lascio ai turisti americani!
[...]
Il corpo di un ricco è come un cuscino di cotone di prima qualità, bianco e soffice e immacolato. I nostri corpi sono diversi. La spina dorsale di mio padre era una corda attorcigliata, come quelle che usano le donne nei villaggi per attingere l'acqua al pozzo; le clavicole gli formavano intorno al collo un rilievo pronunciato, che faceva pensare al collare di un cane; tagli e graffi e cicatrici, come piccoli segni di frustate sulla pelle, gli correvano lungo il torace e la schiena, giu oltre le ossa del bacino, fino alle natiche. La storia della vita di un povero è scritta sul suo corpo, con una matita ben temperata.
[...]
Iqbal, che è uno dei quattro maggiori poeti del mondo- gli altri tre essendo Rumi, Mirza Ghalib e un altro che non ricordo, anche lui musulmano- ha scritto una poesia che dice questo a proposito degli schiavi:
«Rimangono schiavi perché non sanno vedere ciò che è bello in questo mondo».
E la cosa più vera che sia mai stata detta. Grande poeta, questo Iqbal, anche se era musulmano.
(A proposito, signor primo ministro: ha notato che tutt'e quattro i piu grandi poeti del mondo sono musulmani? Eppure tutti i musulmani in cui ti imbatti o sono analfabeti o coperti dalla testa ai piedi dai burqa neri o in cerca di edifici da far saltare in aria. E' un mistero, non trova? Se riesce a capirci qualcosa, mi mandi una mail.). Già da bambino sapevo vedere ciò che è bello in questo mondo. Non ero destinato a restare schiavo.
[...]
Origliando io imparavo un sacco di cose sulla vita, sull'India e sull'America - e anche un poco di inglese. (Forse più di quanto abbia lasciato trasparire finora ... !) Molte delle idee migliori le ho prese a prestito dal mio ex datore di lavoro o da suo fratello o da qualcun altro che ho portato in giro. (Lo confesso, signor primo ministro: non sono,un pensatore originale, però sono un ascoltatore originale.). E vero che alla fine io e Mr Ashok abbiamo avuto qualche disaccordo in materia fiscale e le cose fra noi si sono fatte un po' tese, ma quel pasticcio viene molto più tardi nella storia. Al momento filiamo d'amore e d'accordo: ci siamo appena incontrati, lontano da Delhi, nella città di Dhanbad.
Giunsi a Dhanbad dopo la morte di mio padre. Era stato ammalato per qualche tempo, ma a Laxmangarh non ci sono ospedali, anche se ci sono tre diverse prime pietre per un ospedale, posate da tre diversi politici alla vigilia di tre diverse elezioni. Quando quella mattina cominciò a sputare sangue, io e Kishan lo portammo in barca al di là del fiume. Continuavamo a sciacquargli la bocca con l'acqua del fiume, ma l'acqua era cosi inquinata che lui sputava ancora più sangue. Sull'altra sponda del fiume c'era un conducente di risciò che riconobbe mio padre e ci portò tutt'e tre gratis all'ospedale pubblico. Sui gradini del grande edificio sbiadito erano accucciate tre capre nere; la puzza di sterco di capra si diffondeva attraverso la porta aperta. I vetri di gran parte delle finestre erano rotti; da una finestra ci fissava un gatto. Una targa all'ingresso diceva:
OSPEDALE GENERALE PUBBLICO DI LOHIA.
ORGOGLIOSAMENTE INAUGURATO DAL GRANDE SOCIALISTA
SANTA PROVA DEL FATTO CHE MANTIENE LE SUE PROMESSE
Io e Kishan portammo dentro nostro padre, calpestando lo sterco di capra disseminato sul pavimento come una costellazione di stelle nere. Nell'ospedale non c'erano medici. Dopo averci estorto dieci rupie, il ragazzo del pronto soccorso ci disse che forse la sera ne sarebbe arrivato uno. Le porte delle camere erano spalancate; dai letti spuntavano le molle metalliche, e quando entrammo nella camera il gatto cominciò
a soffiare.
- Nelle camere non è sicuro ... il gatto ha leccato il sangue. Due uomini musulmani avevano disteso un giornale sul pavimento e ci stavano seduti sopra. Uno di loro aveva una ferita aperta sulla gamba. Ci invitò a sederci con lui e il suo amico. Io e Kishan adagiammo nostro padre sui fogli di giornale e aspettammo lì.
Arrivarono due bambine e si sedettero alle nostre spalle; entrambe avevano gli occhi gialli.
- Itterizia. Me l'ha attaccata lei.
- No. Sei tu che l'hai attaccata a me. E adesso moriremo tutt'e due!
Un vecchio con una benda su un occhio venne a sedersi dietro le bambine. I due musulmani continuavano ad aggiungere fogli di giornale, e la fila di occhi malati, ferite a nudo e bocche deliranti continuava ad allungarsi.
- Perché non c'è un dottore, zietto?- domandai. - Questo è l'unico ospedale sulle due sponde del fiume.
- Le cose stanno cosi, - disse il più anziano dei due musulmani.
-C'è un incaricato del governo che dovrebbe sorvegliare che negli ospedali di campagna come questo vengano dei dottori. Ora, ogni volta che il posto di incaricato resta vacante, il Grande Socialista fa sapere ai dottoroni che bandisce un concorso pubblico per quel posto. Di questi tempi il prezzo medio per questo tipo di posti è di circa quattrocentomila rupie.
Restai di stucco: - Cosi tanto!
- Perché no? Nel servizio pubblico girano parecchi soldi! Ora, immagina che io sia un dottore. Chiedo in prestito dei soldi e li dò al Grande Socialista, toccandogli pure i piedi. Lui mi dà il lavoro. Io giuro su Dio e sulla Costituzione indiana e poi vado a scaldare una scrivania nella capitale dello stato. - Sollevò i piedi e fece mostra di posarli su un tavolo immaginario. - A quel punto convoco nel mio ufficio tutti i giovani dottori che dovrei sorvegliare. Tiro fuori il grosso libro mastro del governo e comincio: «Dottor Ram Pandey». Puntò un dito verso di me e io assunsi il mio ruolo nella recita: - Sissignore! .
Mi tese la mano col palmo rivolto in su.
-Prego, dottor Ram Pandey, posa gentilmente un terzo del tuo stipendio sul palmo della mia mano. Bravo ragazzo. In cambio, io faccio questo. - Fece una crocetta sull'immaginario libro mastro. - Puoi tenere per te il resto dello stipendio e andare a lavorare in un ospedale privato per il resto della settimana. Dimentica il villaggio. Perché secondo questo libro mastro tu ci sei già andato. Hai curato la mia gamba ferita. Hai guarito l'itterizia delle due bambine.
- Ah, - dissero i pazienti. Anche gli infermieri, che si erano radunati intorno per ascoltare, fecero cenni di apprezzamento col capo. Le storie di disonestà e corruzione sono sempre le migliori, dico bene?
Quando Kishan gli mise del cibo in bocca, papà lo sputò fuori insieme al sangue. Il suo scheletrico corpo nero fu preso dalle convulsioni, e il sangue cominciò a schizzare dappertutto. Le bambine con gli occhi gialli si misero a piagnucolare. Gli altri pazienti si allontanarono.
- Tubercolosi, vero? - chiese il musulmano più anziano scacciando le mosche dalla ferite sulla gamba.
-Non lo sappiamo, signore. E un po' che tossisce, ma non sappiamo cos'ha.
-Oh, è Tbc. Non è il primo conducente di risciò che se la prende. Il lavoro li fiacca. Chissà, magari stasera arriva un dottore. Non arrivò. Quel giorno intorno alle sei, come senza dubbio è accuratamente riportato nel libro mastro del governo, mio padre guarì per sempre dalla tubercolosi. Gli infermieri ci fecero ripulire tutto prima di lasciarci rimuovere il corpo. Entrò una capra e si mise a fiutare l'aria, e quelli del pronto soccorso la carezzarono e le diedero una carota succulenta mentre noi strofinavamo il sangue infetto di nostro padre dal
pavimento.
[...]
È bene che le spieghi due o tre cose sulla casta. Anche gli indiani fanno confusione con questa parola, soprattutto gli indiani colti delle città. Hanno una gran difficoltà a spiegare di cosa si tratta. Ma in realtà è molto semplice.
Partiamo da me.Allora: Halwai, il mio nome, significa «pasticcere». E la mia casta, il mio destino. Nelle Tenebre chi sente il mio nome sa subito tutto di me. Ecco perché io e Kishan ovunque andassimo trovavamo lavoro in chioschi e pasticcerie. Il proprietario pensava: «Ah, sono Halwai, il tè e i dolci ce li hanno nel sangue».
Ma se eravamo Halwai, perché mio padre non faceva i dolci e invece tirava un risciò? Perché sono cresciuto spezzando il carbone e pulendo i tavoli invece di mangiare gulab jamun e pasticcini ogni volta che mi andava? Perché ero magro e scuro e scaltro, e non grasso, color crema e sorridente come dovrebbe essere un ragazzo cresciuto a dolciumi? Vede, all'epoca della sua grandezza, quand'era la piu ricca nazione della terra, questo paese era come uno zoo. Uno zoo pulito, ordinato e ben tenuto. Tutti al loro posto, tutti contenti. Qui i fabbri. Qui i mandriani. Qui i possidenti. L'uomo chiamato Halwai faceva i dolci. L'uomo chiamato mandriano teneva le vacche. Gli intoccabili pulivano i cessi. I possidenti erano gentili con i propri servitori. Le donne si coprivano il capo con un velo e tenevano gli occhi bassi quando parlavano con gli estranei.
Poi, grazie a tutti quei politici a Delhi, il 15 agosto I947 - il giorno in cui gli inglesi se ne andarono - le gabbie vennero aperte e gli animali presero ad aggredirsi e a sbranarsi l'un l'altro, e la legge della giungla soppiantò la legge dello zoo. I più feroci, i più affamati, divorarono tutti gli altri, e misero su pancia. Adesso è quella  l'unica cosa che conta, le dimensioni della pancia. Non importa se sei una donna, o un musulmano, o un intoccabile: puoi salire in alto, purché tu abbia la pancia. Il padre di mio padre dev'essere stato un vero Halwai, un pasticcere, ma mi sa che quando mio padre ha ereditato la bottega un membro di qualche altra casta gliel'ha fregata, probabilmente con la complicità della polizia. Mio padre non aveva la pancia per farsi valere. Ecco com'è sprofondato sempre piu nel fango, fino allivello di conducente di risciò. Ecco come mi è stato sottratto il mio destino di ragazzo grasso, color crema e sorridente.
Per riassumere: ai vecchi tempi in India c'erano mille castee mille destini.
Adesso ci sono solo due caste: Uomini con Grandi Pance e Uomini con Piccole Pance.
E due destini soltanto: mangiare o essere mangiati.
[...]
Ora, dico che mi avevano assunto come «autista». Non so come siate organizzati in Cina con i vostri servi, ma in India, o quantomeno nelle Tenebre, i ricchi non hanno autisti, cuochi, barbieri e sarti. Hanno semplicemente servi. Il che significa che ogni volta che non ero al volante dell'auto dovevo spazzare il cortile, preparare il tè, togliere le ragnatele con una lunga scopa o cacciare via una vacca dal giardino.
[...]
Aveva una malattia della pelle: la vitiligine gli aveva tinto le labbra di un rosa vivido, in mezzo a una faccia nera come il carbone. Meglio spendere due parole su questa malattia che affligge così tanti poveri nel nostro paese. Non so in che modo si prende, ma quando la prendi la pelle cambia colore dal marrone al rosa. In nove casi su dieci si tratta di qualche chiazza rosa sul naso o sulle guance, come una stella esplosa sulla faccia, oppure di uno sfogo rosa sull'avambraccio, come se uno si fosse bruciato con l'acqua bollente, ma a volte tutto il corpo cambia colore, e quando vedi uno così pensi: «Un americano!» Ti fermi a guardare esterrefatto, vorresti avvicinarti per toccarlo. Poi capisci che è uno di noi, affetto da quell'orribile malattia. Nel caso di questo autista, dato che la chiazza rosa gli aveva scolorito soltanto le labbra, sembrava un pagliaccio con le labbra dipinte. A guardarlo in faccia mi si rivoltava lo stomaco. Ma era l'unico fra gli autisti che mi trattava con gentilezza, perciò gli restavo vicino.
Eravamo fuori da un centro commerciale - una decina di chauffeur - ad aspettare che i nostri padroni tornassero dallo shopping. Ovviamente l'accesso al centro commerciale ci era vietato, non c'era neanche bisogno di dircelo. Avevamo formato un cerchio su un lato del parcheggio, e ce ne stavamo li a fumare e chiacchierare, e ogni tanto qualcuno sputava uno schizzo rosso di paan dalla bocca. Dato che veniva anche lui dalle Tenebre - naturalmente si era accorto subito delle mie origini - l'autista con le labbra infette mi fece un corso accelerato di sopravvivenza a Delhi, in modo che non mi caricassero su un autobus per rispedirmi
nelle Tenebre.
- La cosa più importante da sapere su Delhi è che le strade sono buone e la gente è cattiva. La polizia è  totalmente corrotta. Se ti beccano senza cintura di sicurezza, devi ungerli con cento rupie. Anche i nostri padroni non sono granché. Quando vanno a un party la sera tardi, per noi è un inferno. Dormi in macchina, e le zanzare ti divorano. Se sono le zanzare della malaria va ancora bene, ti limiti a delirare per un paio di settimane, ma se sono quelle del dengue allora sei davvero nella merda, ci lasci la pelle. Alle due del mattino
il padrone ricompare, batte sui finestrini urlando per svegliarti, puzza di birra e scoreggia per tutto il viaggio di ritorno. A gennaio fa un gran freddo. Se sai che il padrone andrà a una festa, portati dietro una coperta, cosi in macchina ti puoi scaldare. Serve anche per le zanzare. Ora, a un certo punto ti annoierai ad aspettare che il padrone torni. Ho conosciuto un autista che a forza di aspettare è impazzito. Perciò hai bisogno di qualcosa da leggere. Tu sai leggere, vero? Bene. Questa è in assoluto la cosa migliore da leggere in macchina. Mi passò una rivista con una copertina molto allettante: c'era una donna in reggiseno e mutandine sdraiata su un letto, sopra la quale incombeva l'ombra di un uomo.
[...]
Non so come siano progettati gli edifici nel suo paese, Eccellenza, ma in India in ogni condominio, ogni casa, ogni albergo ci sono gli alloggi della servitù, a volte sul retro, a volte (come nel caso del Buckingham Towers B Block) sottoterra. Un dedalo di stanze dove tutti i domestici, gli autisti, i cuochi, le cameriere e lo staff condominiale possono riposare, dormire, aspettare. Quando i padroni avevano bisogno di noi, un campanello elettrico si metteva a squillare in tutto il seminterrato, e noi correvamo a un tabellone per verificare il numero dell'appartamento vicino al quale lampeggiava la luce rossa.
[...]
Signore, quando lei arriverà qui, le diranno che noi indiani abbiamo inventato tutto, da Internet alle uova sode alle navi spaziali, prima che gli inglesi ci rubassero l'idea. Sciocchezze. Il massimo che questo paese abbia prodotto in diecimila anni di storia è la Stia per Polli.
Vada nella vecchia Delhi, dietro la Jama Masjid, e guardi come tengono i polli li al mercato. Centinaia di galline biancastre e galli a colori vivaci, ammassati in gabbie di fil di ferro, schiacciati uno sull'altro come vermi in uno stomaco, a beccarsi a vicenda e cagare uno addosso all'altro, ad azzuffarsi per conquistare un minimo di spazio vitale. Dalla gabbia si alza una puzza orrenda: puzza di pennuti terrorizzati. Sulla tavola di legno posata sopra la stia siede un giovane macellaio ghignante, che esibisce la carne e le interiora di un pollo appena macellato, ancora ricoperto di una patina oleosa di sangue scuro. I galli nella stia sentono l'odore del
sangue. Vedono le interiora dei loro fratelli sparse intorno. Sanno di essere i prossimi. Eppure non si ribellano. Non cercano di uscire dalla stia. I n questo paese si fa esattamente la stessa cosa con gli esseri umani. Osservi le strade di Delhi la sera; prima o poi vedrà un uomo su un risciò a pedali che arranca trascinandosi dietro un letto a due piazze, o un tavolo, legato sul carretto. Ogni giorno quell'uomo consegna i mobili a casa della gente. Un letto costa cinquemila rupie, anche seimila. Aggiunga le sedie e un tavolino da salotto e fanno dieci o quindicimila. Un uomo arriva col suo carro a pedali e ti porta il letto, il tavolo e le sedie, un pover'uomo che non guadagna più di cinquecento rupie al mese. Ti scarica tutti quei mobili, e tu gli dài i soldi in contanti, una mazzetta di banconote spessa come un mattone. Lui se la mette in tasca, o nella camicia, o nella canottiera, torna dal suo capo e gli consegna i soldi senza aver toccato una sola rupia! Ha sotto mano il salario di un anno, forse di due, e non prende neanche una rupia.
Ogni giorno, nelle strade di Delhi, qualche chauffeur è al volante di un'auto vuota con una valigetta nera posata sul sedile posteriore. Dentro la valigetta ci sono un milione, due milioni di rupie; piu soldi di quanti lo chauffeur ne vedrà in tutta la vita. Se prendesse quei soldi potrebbe andarsene in America, in Australia, ovunque, e cominciare una nuova vita. Potrebbe dormire negli alberghi a cinque stelle su cui ha sempre fantasticato ma che ha sempre visto solo da fuori. Potrebbe portare la famiglia a Goa, o in Inghilterra. Invece
porta la valigetta nera dove vuole il suo padrone. La ripone dove gli è stato detto e non tocca una rupia. Perché? Perché gli indiani sono il popolo piu onesto del mondo, come la brochure del primo ministro non mancherà di informala?
No. Perché il 99,9 per cento di noi sono imprigionati nella Stia per Polli, proprio come quei poveri galli al mercato. La Stia per Polli non sempre funziona quando si tratta di minuscole somme di denaro. Non metta alla prova il suo chauffeur con una o due rupie, quelle potrebbe rubarle. Ma lasci un milione di dollari davanti a un servo e lui non toccherà un centesimo. Faccia una prova: lasci una valigetta nera con un milione di dollari in un taxi di Mumbai. Il tassista chiamerà la polizia e restituirà i soldi il giorno stesso, glielo garantisco io. (Se poi la polizia li restituirà a lei o meno è un'altra storia, signore!) In questo paese i padroni affidano ai servi anche i diamanti! E vero. Ogni sera il treno in partenza da Surat, il centro mondiale del taglio e della lucidatura dei diamanti, è gremito di servi dei mercanti con valigette piene di diamanti tagliati da consegnare a qualcuno a Mumbai. Perché nessuno di quei servi sparisce con la valigetta piena di diamanti? Nessuno di loro è un Gandhi, sono uomini qualunque, come lei e me. Ma sono chiusi nella Stia per Polli. L'affidabilità dei servi è la base dell'intera economia indiana.
La Grande Stia per Polli Indiana. In Cina avete qualcosa di simile? Ne dubito, Mr Jiabao. Altrimenti non avreste bisogno del Partito Comunista per sparare alla gente e di una polizia segreta che fa irruzione di notte nelle case e arresta le persone. Qui in India non abbiamo bisogno di una dittatura. E nemmeno di una polizia segreta. Perché noi abbiamo la stia. Mai prima nella storia dell'umanità cosi pochi hanno dovuto cosi tanto a cosi tanti, Mr Jiabao. In questo paese una manciata di uomini ha addestrato il restante 99,9 per cento
- uomini altrettanto forti, abili e intelligenti - a vivere in un perenne stato servile; uno stato servile radicato al punto che se dài a un uomo la chiave della sua emancipazione lui te la scaglia addosso con un insulto.
Bisogna vederlo con i propri occhi, per crederci. Ogni giorno milioni di persone si alzano all'alba, affollano autobus luridi per raggiungere le eleganti case dei loro padroni; poi puliscono i pavimenti, lavano i piatti, tagliano l'erba, dànno da mangiare ai bambini, massaggiano i piedi, e il tutto per una miseria. Non invidio i ricchi americani o europei, Mr Jiabao: non hanno servi. Non immaginano neppure cosa significa fare la bella vita. Ora, un uomo pensante come lei, Mr Jiabao, dovrebbe porsi due domande.
Primo: perché la Stia per Polli funziona? Come fa a tenere in trappola in modo tanto efficace milioni di uomini e donne?
Secondo: è possibile fuggire dalla stia? Se ad esempio un giorno un autista prendesse i soldi del suo datore di lavoro e scappasse? Come sarebbe la sua vita? Risponderò per lei a entrambe le domande, signore.
La risposta alla prima domanda è che l'orgoglio e la gloria della nostra nazione, la depositaria di tutto il nostro amore e tutti i nostri sacrifici, l'oggetto di uno spazio senza dubbio considerevole nella brochure che le passerà il primo ministro, e cioè la famiglia indiana, è la ragione per cui siamo intrappolati senza scampo nella stia. La risposta alla seconda domanda è che solo un uomo pronto a vedere la propria famiglia distrutta - perseguitata, massacrata di botte, bruciata viva dai padroni - può fuggire dalla stia. E questa persona non può essere un uomo normale, ma solo un mostro, uno scherzo di natura. Insomma, una Tigre Bianca. Quella che lei sta ascoltando è la storia di un imprenditore sociale, signore.
[...]
La Stia per Polli era di nuovo all'opera. I servi devono impedire agli altri servi di diventare innovatori, sperimentatori, imprenditori. Sì, è questa la triste verità, signor primo ministro. La stia è sorvegliata dall'interno.
[...]
Tornai alla schiera dei cagatori. Uno di loro aveva finito e se n'era andato, un altro aveva preso il suo posto.
Mi accovacciai alloro fianco con un ghigno sul volto. Alcuni distolsero immediatamente lo sguardo: erano ancora esseri umani. Altri mi fissarono con un volto inespressivo, come se per loro il pudore non avesse piu ragione di esistere. Poi notai un tizio magro e nero che mi guardava sogghignando, fiero di quel che stava facendo. Sempre accucciato, mi spostai verso di lui, ostentando un enorme sorriso. Lui fece lo stesso.
Poi scoppiò a ridere, e scoppiai a ridere anch'io, e ben presto tutti i cagatori ridevano.
- Ci faremo carico noi delle spese del matrimonio, - gridai.
- Ci faremo carico noi delle spese del matrimonio! - gridò lui.
- Ci scoperemo anche tua moglie al posto tuo, Balram!
- Ci scoperemo anche tua moglie al posto tuo, Balram!
Continuava a ridere, a ridere a crepapelle, tanto che cadde con la faccia in avanti, mostrando il culo sozzo al sozzo cielo di Delhi.
Mentre tornavo indietro, i centri commerciali stavano aprendo. Mi lavai la faccia nel bagno comune e mi tolsi dalle mani la sporcizia dello slum. Scesi nel parcheggio, trovai una chiave inglese e provai un paio di volte a brandirla nell'aria, poi me la portai in camera. Un bambino mi aspettava vicino alletto. Stringeva fra i denti una lettera, e si stava abbottonando i calzoncini. Si girò quando mi senti, e la lettera gli sfuggi dalla bocca cadendo a terra. A me invece cadde di mano la chiave inglese.
- Mi hanno mandato qui. Ho preso l'autobus e il treno, ho chiesto alla gente e sono arrivato qui. - Batté le palpebre. - Dicono che ti devi occupare di me, che devi far diventare autista anche me.
- Chi diavolo sei ?
- Dharam, - disse. - Sono il quarto figlio di zia Luttu. Mi hai visto l'ultima volta che sei venuto a Laxmangarh. Avevo una camicia rossa. Mi hai baciato qui -. Indicò la sommità della testa.
Raccolse la lettera e me la porse.
«Caro nipote, è passato molto tempo dall'ultima volta che ci sei venuto a trovare, e ancor piu tempo, un totale di undici mesi e due giorni, dall'ultima volta che ci hai mandato dei soldi. La città ha corrotto la tua anima e ti ha reso egoista, borioso e malvagio. Sapevo fin dall'inizio che sarebbe accaduto, perché eri un bambino perfido e insolente. Appena potevi, andavi ad ammirarti davanti allo specchio, e dovevo tirarti le orecchie per farti lavorare. Sei uguale a tua madre. Hai preso la sua natura, e non la natura mite di tuo padre. Finora abbiamo sofferto in silenzio, ma ora basta. Devi riprendere a mandarci i soldi. Se non lo fai, lo diremo al tuo padrone. Abbiamo anche deciso di organizzare il tuo matrimonio, e se tu non vieni, ti mandiamo la ragazza con l'autobus. Ti dico queste cose non per minacciarti, ma per amore. Dopotutto non sono la tua nonna? Come ti ingozzavo di dolci! Inoltre è tuo dovere badare a Dharam e prenderti cura di lui come fosse tuo figlio. Ora bada alla salute e ricorda che ti sto preparando dei buoni piatti di pollo da mandarti per posta, insieme alla lettera che scriverò al tuo padrone.
La tua affezionata nonna, Kusum»
Piegai la lettera, me la infilai in tasca, poi diedi al bambino uno schiaffò cosi forte che barcollò all'indietro, batté contro il fianco del letto e ci cadde sopra tirando giu la zanzariera.
- Alzati, - dissi. - Ti devo picchiare di nuovo.
Raccolsi la chiave inglese e la alzai sopra la sua testa ... poi la gettai sul pavimento. Il bambino era livido, aveva un labbro rotto e sanguinante, eppure non aveva fiatato. Sedetti sotto la zanzariera, sorseggiando una mezza bottiglia di whisky. Lo osservai. Ero sull'orlo del precipizio. Ero pronto ad ammazzare il mio padrone. L'arrivo del bambino mi aveva salvato dall'omicidio (e dall'ergastolo).
[...]
Ora, signor primo ministro, ogni giorno migliaia di stranieri sbarcano dall'aereo nel mio paese in cerca di illuminazione. Poi vanno sull'Himalaya, o a Benares o a Bodh Gaya. Si mettono in pazzesche posizioni yoga, fumano hashish, si sbattono due o tre sadhu e pensano di aver raggiunto l'illuminazione. Ah!
Se siete venuti in India in cerca dell'illuminazione, dimenticate il Gange, dimenticate gli ashram, andate dritti al
National Zoo, nel cuore di New Delhi. Io e Dharam guardammo le cicogne dal becco d'oro appollaiate
sulle palme nel mezzo di un lago artificiale. Scesero in picchiata sull'acqua verde del lago, mostrandoci le
screziature rosa delle ali. Sullo sfondo si vedevano le mura diroccate del Vecchio Forte. Iqbal, il grande poeta, aveva ragione. Quando ti accorgi di cosa c'è di bello in questo mondo, smetti di essere schiavo. Al diavolo i naxaliti e i loro fucili forniti dalla Cina. Se si insegnasse a dipingere a tutti i poveri dell'India, per i ricchi sarebbe la fine.
Mi assicurai che Dharam apprezzasse la maestosa sagoma del forte, l'azzurro del cielo che faceva capolino dalle feritoie, le antiche pietre che scintillavano nella luce del sole. Camminammo per mezz'ora, passando di gabbia in gabbia. Il leone e la leonessa se ne stavano ciascuno per conto proprio, senza parlare, come una vera coppia di città. L'ippopotamo era sdraiato in una gigantesca pozza di fango; Dharam avrebbe voluto fare quel che facevano gli altri - tirare una pietra all'ippopotamo per farlo muovere - ma io gli spiegai che sarebbe stato crudele. Gli ippopotami se ne stanno sdraiati nel fango senza far niente, è la loro natura.
Lasciamo che gli animali vivano da animali, e che gli uomini vivano da uomini. Ecco, in una sola frase, la mia intera filosofia.
[...]
Stati Uniti: ha reso la sodomia perfettamente legale nel suo paese, e adesso gli uomini si sposano uno con l'altro invece che con le donne. L'hanno detto alla radio. Questo sta portando al declino dell'uomo bianco. Inoltre i bianchi,usano troppo il cellulare, e il cellulare spappola il cervello. E un fatto risaputo. I telefonini causano il cancro al cervello e seccano i testicoli. I giapponesi li hanno inventati per attentare al cervello e alle palle degli uomini bianchi. L'ho sentito una sera alla fermata dell'autobus. Fino ad allora ero molto fiero del mio Nokia, lo facevo vedere a tutte le ragazze dei call center dentro cui speravo di ficcare il becco, ma l'ho subito buttato via. Adesso se qualcuno mi vuole chiamare, mi deve chiamare al fisso. Per la mia azienda è un danno, ma il cervello è troppo importante, signore: è l'unica cosa su cui può far conto un uomo pensante.
Vivrò abbastanza a lungo da vedere la fine dell'uomo bianco. Ci sono anche i neri e i rossi, ma non ho idea di come se la passino, la radio non ne parla mai. La mia umile previsione è questa: nel giro di vent'anni al vertice della piramide ci saremo noi uomini gialli e uomini marroni, e domineremo il mondo.
Dio abbia pietà di tutti gli altri.

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Lettura di Sciascia in biblioteca

5 Marzo ore 20,30, Biblioteca Castiglione delle Stiviere

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