Che la festa cominci - Nicolò Ammaniti

>> martedì 30 agosto 2011

Ammaniti ha una grande capacità di creare storie e caratterizzare i personaggi. Peccato che ad un certo punto sembra perdere le redini del racconto. Nella prima parte del libro le vicende dei due protagonisti, il leader della strampalata setta satanica e lo scrittore in crisi esistenziale-creativa, coinvolgono, intrigano, divertono. Poi con l'inizio della festa la trama si fa surreale, grottesca e sfida l'intelligenza del lettore. Magari la creazione di una riserva per la caccia alla volpe e alla tigre in uno dei più importanti parchi di Roma ci poteva anche stare. Ma il popolo dei rifugiati politici sovietici che da cinquant'anni vive nelle catacombe di Villa Ada lascia esterrefatti. Ad un certo punto gli eventi precipitano ma non si capisce come: finita infatti la rocambolesca (e divertentissima) corsa sugli elefanti, nei bivacchi degli invitati tutto è sottosopra e i coccodrilli fanno scempio di un ospite. Sembra di assistere ad un film che ha subito un taglio casuale di pellicola. Se si tralascia la trama (ma non è poco) il libro merita di essere letto per alcuni episodi che fanno ridere di gusto.

Il capo delle Belve, esasperato, sbatté le mani sul tavolo.
– Facciamo così. Datemi una settimana. Una settimana non si nega a nessuno.
– Che ci devi fare? – chiese Silvietta mordicchiandosil’anello sul labbro.
– Sto studiando un’azione esagerata. Una missione molto pericolosa… – Prese una pausa. – Però poi non potete tirarvi indietro. Perché a parlare sono tutti buoni. Ma quando arriva il rischio… – Fece una vocina lamentosa.– Non posso, scusami… Ho problemi di famiglia, mia madre sta poco bene… Devo lavorare –. E guardò in maniera particolare Zombie, che abbassò colpevole la testa sul piatto. – No. Si rischia tutti il culo nello stesso modo.
– Ma non ci puoi anticipare qualcosa? – domandò timidamente Murder.
– No! Vi posso solo dire che è un’azione che ci farà balzare di colpo in testa alla top list delle sette sataniche d’Italia.
Silvietta gli afferrò un polso.
– Mantos, dài ti prego,dicci qualcosina. Sono troppo curiosa…
– No! Ho detto di no! Dovete aspettare. Se fra una settimana non vi porto un progetto serio, allora grazie, ci diamo una bella stretta di mano e sciogliamo la setta. Va bene? – Si mise in piedi. Gli occhi neri gli erano diventati rossi, riflettevano le fiamme del forno delle pizze.
– Ora discepoli onoratemi! Gli adepti abbassarono il capo. Il leader sollevò gli occhi al soffitto e allargò le braccia.
– Chi è il vostro padre carismatico?
– Tu! – dissero in coro le Belve.
– Chi ha scritto le Tavole del Male?
– Tu!
– Chi vi ha insegnato la Liturgia delle Tenebre?
– Tu!
– Chi ha ordinato le pappardelle alla lepre? – fece il cameriere con una sfilza di piatti fumanti sulle braccia.
– Io! – Saverio allungò una mano.
– Non toccare che scottano. Il leader delle Belve di Abaddon si sedette e in silenzio cominciò a mangiare.
[...]
Con la fauna aviaria le cose furono un po’ più complesse. Stefano Coppé, steso accanto al suo Burgman250 dopo esser stato tamponato da una Opel Meriva sullo svincolo fra la Salaria e l’Olimpica, vide roteare sopra di lui uno stormo di avvoltoi e capi che le cose si stavano mettendo male. Una coppia di condor fece il nido sul balcone della famiglia Rossetti, in via Taro, e straziò Anselmo, il soriano di casa, che aveva tentato una difesa disperata del terrazzino. Gli atleti dell’Acqua Acetosa videro nibbi e barbagianni appollaiati sui pali delle porte di rugby. Il pescivendolo di via Locchi fu depredato di una spigola dì tre chili da un’aquila pescatrice. Pappagalli e tucani si spiaccicavano sui parabrezza delle macchine che correvano sulla tangenziale.
[...]
Fabrizio si accese una sigaretta. – Ora mi dici per favore che è successo?
Lei si tolse il cappello. – Samuel ci ha beccati,
– Chi cazzo è Samuel?
– Mio figlio. Ci ha beccati.
Fabrizio non capiva. – In che senso?
– Ci ha beccati… – Cristina prese aria come se facesse fatica a parlare. – … mentre facevamo l’amore in cucina.
– Cazzo! – Anche Fabrizio si sedette sul letto.
E se il ragazzino lo raccontava a Gelati? Ci metteva una mano sul fuoco che quel pezzente avrebbe messo tutto a tacere pur di non passare per cornuto. Per certi versi era meglio così. Quella storia doveva finire. Non avrebbe neanche dovuto inventare una palla per troncarla. E poi ora la sua mente funzionava come un missile teleguidato che ha un solo obbiettivo da colpire: Larita e il loro trasferimento a Maiorca.
Fabrizio si mise le mani nei capelli cercando di apparire costernato. – Porca miseria…
Mi dispiace tanto… Poverino, si deve essere traumatizzato.
Cristina fece un sorrisino a labbra strette. – Traumatizzato? Quello? Vuole un sacco di soldi se no la nostra scopata finisce su internet.
Forse Fabrizio non aveva capito bene. – Cosa hai detto?
– Ci ha ripreso con il telefonino.
– Ma scusa… Come cazzo si chiama… Tuo figlio non sta in collegio in Svizzera?
– Di solito sì. Solo che quel weekend era a Roma. Mi aveva detto che stava a casa di un amico al mare. Deve essere rientrato in casa e…
– Ma tu l’hai visto ’sto video?
– Me l’ha mandato per email.
– Ma che si vede?
– Io e te. Ci si vede benissimo. Sembra un film porno. La fine poi è terribile, tu mi scopi da dietro mentre io sto mantecando le pennette ai quattro formaggi.
– Pure quello ha ripreso?
– Sì.
[...]
Era pazzo di Serena ma non aveva modo di poterla avere. Lui era l’ultimo dei ragionieri e lei la figlia del padrone. Sfilava come una dea in minigonna attraverso i corridoi del mobilificio e Saverio sognava anche di poterle solo parlare. Lei però non lo degnava di uno sguardo. Anche se gli passava davanti tutti i giorni non lo aveva nemmeno notato. Ed era giusto così.
Una sera Saverio era in ufficio a ricontrollare per l’ennesima volta il bilancio semestrale. I suoi colleghi erano andati via ed era solo nel mobilificio. A un tratto aveva sollevato gli occhi e, dall’altra parte del corridoio vide Serena con un sacco di buste dello shopping in mano.
Il cuore di Saverio era esploso. Tremando si era tolto le cuffie e aveva timidamente sollevato una mano per salutare, ma lei non aveva nemmeno risposto.
Però poi era tornata indietro e aveva piegato la testa per osservarlo. – Tutto solo?
- bè.. si.. – era riuscito a dire cercando di tenersi dritto sulla sedia.
Lei era entrata nell’ufficio contabilità e si era guardata attorno come per controllare che veramente non ci fosse nessuno. Saverio non l’aveva mia vista così in forma.
- Ti annoi?
- No, - aveva risposto Saverio di getto, poi aveva pensato che nessuno sano di mente si diverte a controlare i bilanci semestrali e aveva corretto – Un po’. Ma tanto fra poco finisco.
Lei si era data una ravvivata ai capelli e gli aveva chiesto: - Ti va un pompino?
A Saverio era sembrato gli avesse chiesto se voleva un pompino. Ma doveva aver capito male. Doveva avergli chiesto se voleva un cappuccino.
- Il distributore è rotto. Dovrebbero ripararlo in settimana.
- Ti ho domandato se ti va un pompino.
Saverio non poteva credere alle sue orecchie. Forse i funghi nella pizza erano allucinogeni.
Continuava a guardarla a bocca spalancata, come un idiota.
- Allora? – Lei, masticando la gomma, aveva ripetuto la domanda proprio come se gli chiedesse se voleva un cappuccino.
- Come?
- Lo vuoi o no? – Serena cominicava a stufarsi.
- Come? – La mente di Saverio era in stallo.
- Non lo conosci? Il pompino è una pratica sessuale per cui io ti prendo in bocca l’uccello e lo ciuccio.
Perché stava facendo questo? Era ovvio. Era una trappola per poterlo accusare di molestie sessuali come nei film americani.
- Vabbè ho capito -. Serena era passata attorno alla scrivania, si era accucciata, si era data un’aggiustata ai capelli, si era tolta la gomma da masticare e gliel’aveva consegnata. – Tienila per favore.
Saverio aveva stretto il chewimng-gum fra le dita mentre la figlia del suo principale, con la stessa fredda abilità di un’infermiera che leva i vestiti a un ferito, gli slacciava la cinta e sbottonava la patta dei pantaloni.
- Potrebbe piacerti. – Gli aveva abbassato le mutande e osservato l’uccello senza fare commenti. Poi lo aveva soppesato e lo aveva strizzato come si farebbe con le mammelle di una vacca. Ma lo spettacolo non era ancora finito. Serena aveva spalancato la bocca, con la lingua piccola e appuntita si era umettata le labbra e poi lo aveva ingoiato tutto quanto, fino alle palle. Saverio era talmente terrorizzato da non poter neppure provare piacere, ma poi era bastato pensare che Serena custodiva nella sua bocca tutto il suo cazzo per strappargli un orgasmo esplosivo e imbarazzante.
Lei si era passata il dorso della mano sulla bocca, lo aveva guardato negli occhi e gli aveva domandato con voce soddisfatta: - Senti, domani mi accompagneresti da Ikea?
Lui aveva risposto un solo e semplice – Sì.
Ma quello era il primo sì. Primo di una sequela infinita.
Saverio Moneta, da quel giorno, da oscuro ragioniere si trasformò in sherpa durante le razzie che Serena compiva nei centri commerciali, in auto del suo Suv, fattorino, facchino, pony express, idraulico, riparatore di antenne paraboliche, marito e padre dei suoi figli.
Ah, quello fu il primo e ultimo pompino che ricevette in dieci anni di convivenza.
[...]
Il centroavanti si sporse dalla cesta, verso il conducente – Oh… niño…
Il filippino si girò e guardò in su. – Eh?
– ¡Descánsate! –
Il centroavanti mollò uno spintone al poveraccio, che perse l’equilibrio, sparendo senza un grido in un cespuglio di more. Con la sua proverbiale agilità Paco saltò sul collo dell’elefante e cominciò a menare cazzotti sulla testa del pachiderma. La bestia roteò l’occhio grosso come una padella e squadrò il calciatore, che però non smetteva. Allora sollevò la proboscide emettendo un barrito potente e partì al galoppo.
Paco, Milo e le fidanzate urlavano eccitati. Ciba vide l’elefante dietro di loro venirgli addosso come una locomotrice senza freni e poi i due animali cominciarono a prendersi a spallate. Le ceste ondeggiavano paurosamente.
– Che cazzo fate? – urlò lo scrittore, che per poco non cadde di sotto.
– Spostatevi, lumache! – Milo Serinov si stava proprio divertendo.
– Fatece passa’, – strillò Taja Testari, ma il ramo di una quercia secolare la colpì sul setto nasale e uno schizzo di sangue imporporò il vestito di Mariapia Morozzi.
– Ahhh! Che dolore! – urlò la modella afflosciandosi dentro il cesto.
– Meno uno! – strillò Ciba, che aveva perso il suo aplomb intellettuale e si stava eccitando.
Anche Paco sembrava un invasato. Niente poteva fermarlo. – ¡Ándale! ¡Ándale con juicio! – E li stava superando quando, a una decina di metri, veloce come una freccia rossa gli tagliò la strada la volpe, che chissà come era riuscita a farla ai suoi cacciatori.
Al suo passaggio tutti urlarono: – La volpe! La volpe!
– Questa è la caccia alla tigre. Che ci fa qui la volpe? – domandò Larita.
Il vecchio Cinelli si ridestò dal coma e con un colpo di mano afferrò il fucile dal fondo del cesto urlando anche lui: – La volpe! La volpe! – E cominciò a sparare a caso nella boscaglia.
I proiettili fischiavano da tutte le parti.
La cantante si rannicchiò con le mani sulle orecchie mentre Ciba acchiappò la canna del fucile cercando di strapparlo al vecchio rincoglionito, che continuava a premere il grilletto senza sosta. Un proiettile colpì la fibbia di metallo della cesta dell’elefante di coda. Il cinturone si aprì e il gruppo rock metal di Ancona si ribaltò. I musicisti finirono in un campo di ortiche.
Finalmente il fucile di Cinelli si scaricò. Il vecchio si guardò intorno. – L’ho presa, eh? L’ho presa?
La corsa degli elefanti continuava e travolgeva tutto. Rami, alberi abbattuti, cespugli.
Un urlo agghiacciante si levò dal bosco alla loro sinistra. In sella a uno stallone Paolo Bocchi galoppava roteando una sciabola come un ussaro alla battaglia di Marengo. Sfilò accanto agli elefanti e li superò gridando: – Savoia o morte! – Indossava solo i pantaloni da cavallerizzo. Il petto nudo era sfregiato dai rami e dalle spine. Al passaggio del destriero i due elefanti si imbizzarrirono ancora di più e accelerarono la corsa. Il chirurgo, veloce come il vento, saltò una siepe e sparì nel bosco. Un istante dopo una muta ululante di cani schizzò sotto le zampe dei pachidermi inseguendo Bocchi e la volpe. L’elefante guidato da Paco Jiménez inchiodò terrorizzato. Il centroavanti della Roma e la cesta schizzarono come proiettili e scomparvero nella vegetazione.
Un suono di corno inglese si levò dalle tenebre del bosco. E uno scalpiccio di zoccoli si fece sempre più vicino. Contromano si materializzarono trentotto cavalieri in giubba rossa assetati di sangue di volpe. Videro troppo tardi gli elefanti che gli sbarravano la strada. Tra le file dei cavalieri caddero in molti, altri furono trascinati con il piede incastrato nelle staffe per chilometri. Pochissimi ne uscirono illesi.
L’elefante con l’agente cinematografico Elena Paleologo Rossi Strozzi, lo stilista magrebino e il direttore della fiction Rai cappottò come una A 112 Abarth sul curvone di Monte Mario.
Fabrizio Ciba ancora in groppa all’elefante si accorse che il guidatore filippino era sparito. Provò a fermare l’animale colpendolo con il calcio del fucile, ma la bestia scartò di lato e parti verso il folto del bosco. Il vecchio Cinelli roteò su se stesso, volò indietro, rimbalzò su una chiappa dell’elefante e rimase appeso alla coda. Il nipote tentò un gesto eroico e disperato nello stesso tempo. Uscì dalla cesta e reggendosi con una mano al bordo cercava con l’altra di afferrare il nonno.
Il vecchio prese la mano del nipote. – Tira, tira!
I due ruzzolarono a terra tra i cespugli di pungitopo.
Ciba e Larita erano soli in groppa alla bestia impazzita.
[...]
Per fortuna quel trabiccolo era lento.
Mantos, senza più fiato, allungò una mano, si aggrappò al portellone posteriore e con un salto maldestro ci montò sopra. L’autista non si era accorto di nulla. Nel cassettone erano stipate delle grandi pentole da cui usciva un intenso odore di curry.
Ora doveva mettere fuori gioco il guidatore. Tirò su il cappuccio, si contrasse come un gatto e cacciando un ruggito alla Sandokan si lanciò sull’uomo, che sentendo quell’urlo bestiale e credendo fosse la tigre, inchiodò d’istinto.
Il leader delle Belve di Abaddon, spada nella mano, proseguì invece il volo, planò oltre il cofano della macchina e si schiantò a pelle di leone in mezzo alla strada. La Durlindana gli volò via. Il paraurti si fermò a venti centimetri dai suoi piedi. Mbuma Bowanda, originario del Burkina Faso, dove aveva fatto per anni il pastore, aveva visto una strana creatura librarsi sopra la sua testa, superarlo e scomparire davanti, al muso della macchina.
Nel suo piccolo villaggio vicino Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso, c’era l’antica credenza che nelle nottate di luna piena dal fango dei fiumi si formassero dei demoni alati, neri come la pece, che si rubavano le pecore e le vacche. Li chiamavano Bonindà. Lui non credeva a queste favole folcloristiche, eppure quell’essere era proprio tale e quale ai mostri di cui gli parlava sua nonna quando da bambino lo addormentava.
Si sollevò tremante sul sedile. Il demone era ancora steso davanti alla macchina.
Sembrava morto.
Ora gli passo sopra…
Ma non lo fece. Intanto non era sicuro che i demoni si potessero uccidere così, e comunque le ruote della sua automobile erano troppo piccole per potergli passare sopra.
Ingranò la retromarcia quando il demone nero si sollevò da terra, a testa bassa, poggiò le mani sul cofano e cacciò un urlò terrificante.
A Mbuma avevano raccontato che la gente si piscia addosso per la paura, ma gli era sempre sembrata un’esagerazione. Si dovette ricredere. Se l’era appena fatta nelle mutande.

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Hanno tutti ragione - Paolo Sorrentino

>> mercoledì 24 agosto 2011

In Hanno tutti ragione, prima opera letteraria del regista Paolo Sorrentino, l'autore ha sviluppato un personaggio che aveva introdotto nel film "L'uomo in più" del 2001. Nel film il protagonista era interpretato da Tony Servillo che dieci anni dopo è stato chiamato a leggere il libro. E questa è stata una vera fortuna perchè l'audiolibro ha un grande valore aggiunto rispetto al volume scritto. La lettura di Servillo, con il suo accento marcatamente napoletano, le pause e le accelerazioni strategiche, le sottolineature fatte con la voce che cambia tono, ha dato colore e verve al lungo monologo che costituisce l'opera e che in molti tratti rischia di annoiare. Rispetto al film, Sorrentino ha caricato il protagonista di maggiore cattiveria, misantropia, disincanto, fatalismo.  E' interessante a livello sociologico la trasposizione dell'Italia medio-alto borghese dei fine anni settanta-inzio ottanta con i suoi cantanti melodici (il protagonista Tony Pagoda pare sia ispirato alle figure di Califano e Gagliardi), i suoi riti, le sue mode. E le sue contraddizioni e miserie. Complice la lettura di Servillo in parecchi casi si ride. Tutto procede sufficientemente bene fino all'insulso finale. Riporto di seguito le tre parti che mi sono piaciute di più: le lezioni sulla seduzione, la cattura del pipistrello e la descrizione del primo impatto di Pagoda con il Brasile popolato da  donne bellissime e scarafaggi onnipresenti.
Per farsi un'idea della differenza tra il libro scritto e l'interpretazione che ne dà Servillo si può guardare il video sulle sue prove.




LEZIONE NUMERO UNO SULLA SEDUZIONE
Il ritmo
Mi rivolgo a voi, a quelli che, come me, bellissimi non lo sono mai stati. Quelli, insomma, che non è che una passa e vi muore dietro, magari non vi nota neanche e allora, è palese, resta una sola e unica arma nel vostro bagaglio, ma un'arma che può essere possente e smisurata e può smuovere le montagne: la parola.
I belli e i bellissimi possono saltare a piè pari questa lezione, non ci interessate, senza alcuna invidia eh! Però, sapete com'è, bellissimi, voi vi mettete là e quelle arrivano, non dovete fare un cazzo di niente, vi crogiolate e vi alimentate solo del vostro esser belli. Allora sì, avete i lineamenti a posto, ma non avendo avuto lanecessità di sviluppare altre doti che cosa succede? Succede che per il resto siete insignificanti ed indifferenti, non avete il senso dell'umorismo perché nella vita non vi è servito, non vi spremete il cervello per il senso della conquista e questo fa di voi delle personcine aride e silenziose. L'unica arrampicata di pensiero che riuscite a organizzare è quella demente dello sguardo finto tenebroso. Siete patetici e mi fate piangere o ridere non so. Non ci interessate. Tenebroso di che? Cazzoni. Ci sono delle eccezioni, questo lo devo dire visto che mi sto momentaneamente occupando di saggistica. È il caso del mio maestro Mimmo Repetto, che non si è mai seduto sugli allori della sua straordinaria bellezza e ha sviluppato a tutto tondo fascino e seduzione, massime argute e canzoni fantastiche. È un uomo che ha sofferto Mimmo e la sua bellezza la fa passare in secondo piano. Ma è un'eccezione.
Torniamo a noi.
Non è che basta solo saper parlare bene.
Incontrate un professore universitario, quella risma lì sa proferire, altro che,
chiacchiera in apnea, senza bombole, come in una catena di sant'Antonio che tiene in mano solo lui, insomma non passa mai la palla, come i figli unici quando giocano a pallone. Però succede che al secondo capitolo della sua conversazione la donna, dall'altro capo, per quanto interessata, potete giurarlo, non sa scegliere se morire d'angoscia o di noia. Tiene le smanie alle gambe, le muove in preda a convulsioni epilettiche, come quando sei incastrato nella sedia del cinema e danno un film che ti fa cagare fino all'inverosimile. E, in quel momento, state pur tranquilli, intelligentoni, quella donna ha un unico pensiero, questo: sapere che ore sono. Vorrebbe sbirciare il suo orologio, ma pare brutto. Allora getta l'occhio al vostro di orologio, ma in prospettiva il quadrante appare capovolto rispetto a lei e così non è facile capire che ora è, e io lo so, voi state là imbalsamati e compiaciuti, credendo che vi sta studiando le mani, origliate le premesse delle carezze, pensate che di lì a poco vi dirà che le tenete belle e lunghe, mani affusolate, sagge e pelose. Questo credete che sta per dirvi e lei, invece, snervata e straziata da questa vocina vostra lenta e patetica, ora cavernosa, ora da frodo, insomma lei agli sgoccioli, si fa coraggio e vi chiede:
"Scusa, mi diresti l'ora?".
Questo vi chiede. Voi non lo ammetterete mai perché siete froci dentro nello spirito, intelligentoni, ma è così.
Insomma tutto questo per dire varie cose, innanzitutto che non ci interessano né i belli né questi pensatori da serie C2, girone B. Cosa resta? Un po' di cose e un po' di chance. Tanto per cominciare, è meglio sparare la più grossa cazzata del millennio piuttosto che tribolare nel luogo comune. Tutto ciò che è luogo comune non va detto. Sembra una banalità, ma non lo è, visto che quando ci piace qualcuna l'emozione viaggia ad alta quota e quando l'emozione si comporta in questa guisa ecco che il cervello riesce ad elaborare solo frasi fatte. E più sparpagliate frasi fatte, più vi giudicate negativamente, più vi fate impacciati, più vi deprimete, più tallonate l'arrendevolezza, più captate il fallimento, più giustificate in malafede la vostra necessità, menzogna, di una vita in solitaria. No. Impedite a voi stessi questa spirale. No. Ora non si deve mollare. Su questo c'è da lavorare, bisogna impegnarsi. A ritmi serrati, come gli schiavi. Dobbiamo essere di caucciù. Flessibili. E tenaci, come tutti i falliti del mondo quali siamo.
Solo il belloccio può permettersi di dire: "Carino questo ristorante".
Tu dovrai dire: " 'Sto posto che ho scelto va bene per gli zingari".
"Che significa?" dice lei con leggero stupore. Lo stupore va bene, la preoccupazione di non aver capito non giova semplicemente perché lei non penserà mai di non aver capito, a questa prospettiva ne preferisce
sempre un'altra: che siete voi che non sapete quello che dite. "Significa che io e te siamo liberi come zingari, io però, per grazia di dio, ci ho una casa, oltre alla roulotte." Questo lo dovete dire sotto tono, non come se fosse la battuta del secolo. Lei sarà ancora un po' intontita, non sa che pesci prendere ed ha già un obiettivo, capire che pesci dovrà prendere con voi e forse sorriderà. Ma subito dopo, rapidi come puma, si cambia registro. Il vero segreto è quello di non darle il tempo di pensare a lungo. Perché noi non siamo belli e se la lasciamo sola a pensare lei arriverà in quattro e quattr'otto alla conclusione che non vuole stare con voi.
In linea di massima la vostra lei scende di casa con la netta convinzione che non succederà niente, anche se le piacete di partenza, lei pensa sempre che non succederà un emerito nulla. Sta a voi far crollare il muro, sta a voi cambiare la rotta della sua decisione vecchia e precostituita. Sui rapporti amorosi mi pare di capire che, di base, le donne hanno una pigrizia interna. Un imperativo che gli frulla perennemente nel cervello è una cosa del tipo: "No, non voglio, non ora, no grazie". Madri apprensive le hanno allenate come atlete olimpioniche ad organizzare sfaccettate forme di rifiuto. Hanno colonizzato i cervelli delle ragazze perché ci odiano a noi uomini esterni, strepitosi predatori del sesso spinto. È tutta una negazione, all'inizio. Un no che si trasformerà in un sì tondo e pulito e una bocca semiaperta che penderà dalla vostra prossima battuta. Ma se mi state a sentire però. Perché noi dobbiamo vincere le madri. Che non è impresa da poco. Ingombrano per sempre, le madri, fino alla morte delle loro figlie. Dobbiamo sconfiggere l'affetto apparentemente disinteressato di quelle donne macigno fatte in ghisa. Dobbiamo dargli un'altra angolazione della vita, un'altra prospettiva su cui contare, ogni santa volta. Farle affacciare al mondo, come se quello lo avessimo inventato noi. Il bluff è il motore della nostra seduzione. Ma un bluff col sapore della verosimiglianza. Niente Goldrake del cazzo e Fantastici Quattro. Non dovete farla pensare per un po'. In quel po' dovete darci dentro. Ironia con la pala. Se non avete ironia non è detto che siete fottuti. Ma niente barzellette, per dio. E non vi mettete a fare i comici proprio adesso se in tutta la vostra vita non lo siete mai stati. Solo dopo che avete sparato il cinquanta per cento dei vostri colpi le date tregua con una pausa silenziosa nella quale lei penserà che non siete niente male, ripenserà a quello che vi siete detti, magari ve ne andate a fare in culo un attimo in bagno così riflette più distesa. Ma potete andare in bagno solo se avete accocchiato una battutina come si deve o un pensierino arguto. Dicevo che se non avete ironia non è detto che siete fottuti. C'è un trucco elementare per sopperire alla mancanza di ironia, ed è il ritmo del dialogo, dovete dargli un ritmo convulso, elettrico, agitato ma non troppo, altrimenti diventa snervante, vorticoso ed insensato. Le viene l'emicrania e il suo unico desiderio è trasformarvi in un Optalidon. Ma voi non siete Tony Binarelli e non potete trasformarvi in un Optalidon. Dovete saltare di palo in frasca soffermandovi massimo per una decina di battute su ogni fatto, argomento o stronzata qualsiasi. Non più di dieci battute a meno che l'argomento non sia uno dei suoi preferiti. Inoltre le dieci battute è il massimo che potete permettervi perché delle cime di certo non lo siete. Il ritmo, si diceva. Tutti i sentimenti della vita scaturiscono da questo segreto: il ritmo delle cose. E ci vuole pochissimo per mancare l'amore, quando le cose si dispiegano troppo lente o troppo veloci.
Se parlate al rallentatore è meglio che ve ne state a casa. Siete spacciati, oppure vi toccherà una demente psicopatica prossima al ricovero, in corsia però, perché tanto stanze private non se le può permettere perché i soldi veri nella vita non li ha fatti. La lentezza della vostra conversazione è direttamente proporzionale alla sua entrata nel club delle persone che non vi vorranno mai più vedere in vita loro. Se poi cominciate al ralenti con troiate tipo "Sai cosa penso..." o "Io ritengo che al giorno d'oggi..." allora potete anche sventolare il fazzoletto bianco e guardare coi vostri occhi la vostra lei che si allontana sulla nave popolata da tutti gli uomini del mondo, tranne che da voi, unici sciocchini rimasti a terra sul molo. Sedurre è come scrivere una bella canzone, tutto tecnica e ritmo, tecnica e ritmo. Il talento dell'ironia è una freccia supplementare che non sempre potete avere al vostro arco. In questo caso ci vuole tanto ritmo. Un battito che, perlopiù, viene fornito dagli aggettivi. Spiazzanti e convincenti, iperbolici e precisi. Se sono rari e poco usati nella lingua è ancora meglio e fate più bella figura. Le donne non si seducono né con i complimenti, né con i fiori, né con gli sguardi a pesce lesso. Queste sono puttanate da cofanetto Sperlari. Tutti ne parlano, tutti le vogliono, ma nessuno se le compra queste caramelle Sperlari. Gli aggettivi seducono, i sostantivi annoiano. Questo è il grande segreto. Gli aggettivi li dovete dispensare con generosità, en passant, e a ritmo sostenuto e vedrete che andrete a letto con chiunque, a meno che non avete di fronte una lobotomizzata assoluta che non capisce neanche il suo nome. In quel caso non ne vale neanche la pena. Per voi ci vogliono donne intelligenti. Perché il sesso, in fin dei conti, è poca roba. Ve lo dico io che pure frocio non lo sono mai stato. E sedurre è tanto. Le cretine lasciatele andare coi cretini. Voi non siete belli, ecco perché non siete neanche cretini.
Insomma, a riepilogare, il ritmo dev'essere elettrico ed elettrizzante, mai convulso, mai lento come in un documentario su inutili animali che cazzeggiano nella tundra o nella steppa.
È consentito un solo rallentamento, è quando dovete dire la parolina magica, il sim sala bim del colpo finale, un colpo duro e maestoso, quando cioè le dovete dire o che la amate o che la desiderate o che vi piace assai o che ci volete andare a letto. Ma per il sim sala bim non c'è formulina magica, la frase migliore la dovete trovare voi a seconda di chi ci avete di fronte, l'importante è che lo dite bello e buono, magari stavate parlando della mozzarella di bufala e toh, rallentamento, occhiata rapida, voce un paio di toni più bassi e giù con un "Mi piaci mica poco, tu". E poi coltivare una sana speranza.
È pure superfluo che vi sottolinei che se avete davanti a voi un puttanone fenomenale non potete scegliere lo stesso colore, cioè non dovete dire robe del tipo "ti scoperei". Se fate questo passetto qua siete proprio dei dementi in saldi. La donna di fronte a voi è sempre un elastico tesissimo, voi non potete allungarlo di più.
Dovete solo ridurre la tensione, questo è il vostro compito. Quindi, al puttanone rifilate il "ti amo". Alla romanticona del secolo scorso osate pure il "ti legherei alla spalliera del mio letto, e mica ci si libera così... è ottone massiccio". Che ve lo dico a fare? Scendono di casa, sfilano lungo l'androne con gli stronzi neon, aprono il portone, vi vengono incontro e quello che vogliono dimostrare non sono. Sono l'opposto. Ci potete fare un'equazione sopra. Questa è matematica. È così. È così che vanno le faccende dei sessi opposti.
Ci ha il vestitino a fiorellini? State sicuri che non vede l'ora che la prendete per la testa e la sbattete sette otto volte contro il calcestruzzo. Si è messa i quintali di rossetto infuocato per fare la bocca a cerchio preciso alla Giotto? Allora dormite pure fra diciotto guanciali che per avere un pompino vi dovrete mettere a fare l'elemosina su un tappetino di ceci organizzato da preti sadici. A volte le cose vanno in maniera del tutto diversa e imprevedibile, ma è raro, in quel caso è possibile che vi trovate di fronte a una razza superiore. Potrebbe essere la donna della vostra vita. Tutt'altro registro. Si può pensare di lavorarla ai fianchi per giorni e giorni per sposarsi e fare figli. Ma col tempo, vi faccio vedere io se poi non ci rimanete male. Ci rimarrete malissimo, altro che. Un'ultima regoletta, se siete uno che fa un lavoro non c'è male, del tipo artistico, che ne so, cantante come me, attore, pittore, musicista, allora durante il primo incontro fatele sapere che lavoro fate ma non attaccate a entrare nello specifico della vostra attività. Questo privilegio glielo dovete far sudare. Fate i brillanti su altri temi così lei penserà, faccio un esempio cretino: "Gesù, se questo sa tutte queste cose su come si fa la parmigiana di melanzane pensa quando arriverà a parlarmi del suo ultimo spettacolo teatrale che io ho visto e in cui lui faceva la parte di Amleto e sapeva pure tutta la parte a memoria... mmm... mi devo ricordare di chiedergli come fa a ricordarsi tutto a memoria". Se pensa cose così allora è più facile che digerire la pasta cruda. E fatta! E direi che per ora la lezione number one si può dire anche conclusa. Non vi scoraggiate, su, anche voi potete sedurre, che sono quelle facce? Siate up e sorridete, ma sappiate che io già sono in lutto per i vostri sorrisi. Ora andate.
E seducete!
[...]
È mezzanotte. Arrivo al rione Sirignano. Busso alla porta della baronessa. Mi apre
Marcello il maggiordomo, con un candelabro che ospita tre candele striminzite.
Sembra Dracula.
Io dico: "Che? È andata via la luce?".
Lui: "No, risparmiamo".
Non sono mai stato di sera a casa della baronessa. Tutta un'altra storia. Altri panorami. Una tenebra. Mi irrigidisco e ho paura. Penso ai fantasmi in bicicletta.
Balbetto: "Dimitri è arrivato?".
E Marcello: "Ha chiamato. Dice che non viene. Che sta stanco. Ha detto pensaci tu al pappagallo".
Scelgo mentalmente l'arma più efficace e che mi fa meno impressione con la quale uccidere l'indomani Dimitri.
Rientro nella realtà e dico: "E dove sta il pappagallo?".
"Pare, nella biblioteca."
"Andiamo insieme."
"Ho paura."
"Perché io no Marcello? O ti pensavi che ho familiarità coi pappagalli che fanno le violazioni di domicilio?"
"Va bene, ma vai avanti tu."
"E perché?"
"Perché tu sei giovane. Io no."
Il ragionamento non fa una piega. Ci appropinquiamo. Io e il vecchio Marcello. In preda ad un terrore di marmo. Valichiamo un numero imprecisato di stanze, illuminate fiocamente da quel candelabro. Si esaurisce il mozzicone di una delle tre candele. Si vede ancora meno di prima. Tutto fa paura, pure i divani e l'argenteria sui tavolini.
Chiedo, poiché il silenzio mi terrorizza: "E la baronessa dove sta?".
"Si è chiusa nella sua stanza da letto. Ha paura."
Io lo intrattengo e mi intrattengo: "Ma avete lasciato qualche finestra aperta?".
"Qua le finestre non si aprono da un paio d'anni."
"Ma da dove cacchio è entrato 'sto pappagallo?"
"Mistero" dice lui "come molte cose di questa casa."
"Così non mi aiuti, Marcello. Se continui su questa linea di risposta prendo e me ne vado" dico in preda a una paura pura, limpida e cristallina. Poi commetto un errore gigantesco. Imperdonabile. Domando: "Si sono sentite oggi le biciclette sul tetto?".
E lui, con una semplicità disarmante: "Certo che si sono sentite. Si sentono tutti i giorni".
Sto per morire. Mi sono cacciato in un dialogo senza uscita. Imploro: "Vabbè, però si sentono di giorno, mica di sera?". Lui non lascia cadere, insegue la precisazione e si fa solerte: "No, no, alle volte si sentono pure di sera".
Ho la lingua avvolta in un jeans. Dico con la tonalità dell'ischemico di fresco: "Stasera no, però?".
Lui, implacabile: "Mi pare di sì, invece".
Mi faccio definitivo: "Marcello, mi sto fottendo dalla paura, io accendo la luce".
Non me la conta giusta, perché, serafico, consiglia:
"Sì, sì, accendi pure. Te la sei portata la lampadina?".
"Che significa?"
"Significa che la baronessa le ha tolte tutte da mezzo le lampadine, perché le cameriere accendevano di nascosto."
Rifletto lucidamente e mi dico mentalmente: stasera strangolo la baronessa, domani Dimitri. E lo penso seriamente, mica scherzo. Nel frattempo, la febbre da insolazione mi è svanita dentro. Finalmente approdiamo alla lugubre biblioteca. Siamo oppressi da librerie di legno scurissimo che contengono enormi volumi scurissimi. Insomma, una bara di settanta metri quadrati. A terra, meravigliose piastrelle a scacchi bianche e nere. Ma con questa luce, anche le mattonelle bianche sembrano nere. Un mausoleo. Io e Marcello siamo sospesi come due barche senza bussola in mezzo alla stanza quando un sibilo ci sfiora le orecchie facendoci gustare il sapore di ciò che accade subito prima dell'ictus.
È passato vicinissimo, veloce come un condor, il pappagallo. Poi, un rumorino sordo ci lascia intuire che è rimbalzato contro il vetro della finestra. Silenzio. Lungo. Macabro. Mi faccio ottimista: "Sarà morto. Hai sentito che botta?".
Marcello si fa pessimista: "Non ci scommetterei".
Naturalmente scopro l'acqua calda quando dico che in questa vita i pessimisti hanno sempre ragione e gli ottimisti sempre torto. Infatti non solo non è morto, ma non è neanche un pappagallo. È qualcosa che io non auguro di incontrare neanche a Dimitri o a Mussolini se
fosse ancora vivo. Perché è un pipistrello. Impazzito. Selvaggio.
E ora ha il radar malandato che sta dando i numeri, perché percepisce ostacoli e pareti dappertutto e gli suona nel cervello ogni mezzo secondo. Dunque, l'animale si palesa nuovamente e prende a volteggiare e a sbattere dovunque, lasciandoci morire lentamente a tutti e due dalla paura. Io e Marcello ci accovacciamo all'unisono, come in una gara a chi si fa il bidet più velocemente. Ma anche accosciati percepiamo un pericolo troppo imminente. Cosicché, scomposti, repentini, improvvisi, ci sdraiamo letteralmente per terra. Ma nel compiere questa operazione Marcello commette un errore che mi fa venire voglia di piangere.
Si lascia cadere da mano il candelabro e le due candele si spengono. Ora, buio totale. E quell'essere maledetto che continua a volteggiare come Satana. Come cazzo si fa adesso? Non ci può salvare nessuno. Neanche il fantasma in bicicletta saprebbe come cavarsela.
"Che facciamo?" ululo io con un piede nella fossa. Marcello, nell'oscurità, mi dà una risposta che poi, semplicemente, diventerà una delle poche barzellette non sconce, ma molto in voga. Mi dice serio: "Dobbiamo aspettare che muore di vecchiaia".
Non rido.
Ma quello, il pipistrello, ha altri progetti piuttosto che morire di vecchiaia. Opta per un'altra scelta. Si lascia andare in picchiata e si ferma direttamente nei miei capelli. Si è impigliato. Lui non sa come uscirne. Io non so come uscirne. Vedo il coma nei paraggi, tanto è il terrore che mi sta avviluppando. Mi scalmano, come un tarantolato. Piango veramente, adesso. La breve vita che ho vissuto mi si srotola davanti agli occhi in pochi istanti, culmina nella bella immagine della bellezza nuda di Ventotene e muoio. Ma invece non sono morto. Sono solo svenuto. E allora si ristabiliscono degli equilibri. Perché non si diventa maggiordomi per caso. Si diventa maggiordomi perché si è in grado di risolvere una pletora di problemi piccoli e grandi. E allora quando riprendo i sensi, riprendo anche a tornare a vivere normalmente. Scorgo dal pavimento Marcello seduto all'indiana. Illuminato dal candelabro che ha ripristinato. E piange. Io sono smarrito. Piange come un bambino e si guarda le mani. Guardo pure io. Tra le mani ha il pipistrello. Morto. Mi dice con una partecipazione commovente: "Tony, ma non ti fa una grande pena?".
"Molta" dico io permeato di una felicità che mi risplende di nuovo in tutto il corpo. Ci solleviamo, puntiamo la spazzatura in cucina per buttarci dentro il cadavere del pipistrello quando un vocione baritonale tuona come dall'aldilà e dice: "Carissimo". Con otto "s" strascicate. Marcello mi guarda e dice professionale: "La baronessa ti vuole ringraziare. Vai. Tieniti il candelabro, che io me ne vado a dormire".
[...]
Ai brasiliani è estraneo il concetto della fretta. È una caratteristica che alligna con facilità laddove è elevato il tasso di disoccupazione. In questo, il Brasile sa essere imbattibile. Impadronirsi dei gesti di questi uomini lenti fino al punto di credere che quei gesti sono tuoi. Acquattarsi sulla sdraio e studiare le manovre di avvicinamento dei ragazzi alle ragazze e delle ragazze ai ragazzi. E io lì a ridacchiare col mio sorriso carico del già visto. Un bonario sorriso di superiorità. Hanno il sesso in testa, quelli lì, giustamente. Però, attraverso la ginnastica più popolare della storia, sperano di innamorarsi, di godere, di ridere, di non sentirsi più soli. È sconvolgente la quantità di speranze che la gente giovane ripone nel sesso. Un'idea mal ripagata di panacea per tutti i malesseri, ma è solo adrenalina che pompa a tremila per sette minuti e ti accantona pure il raffreddore per quegli istanti, poi tutto riprecipita nel prima, un po' peggio di prima, visto che non hai l'autonomia necessaria per ricominciare immediatamente con la giostra.
Ma anche la spiaggia, alla lunga, ti intontisce come un anestetico di noia. Sulle prime te la godi, poi il rumore delle onde è sempre quello, diventa una ninna nanna che ti ferma il respiro, soprattutto se l'insonnia ti aggredisce. Anche lo spettacolo di osservare ragazzini di dodici anni, ingenui funamboli del pallone e futuri consapevoli dopati in Europa, all'inizio ti appare meraviglioso, poi diventa un circo triste.
M'ingozzavo di frutti di mare mirabolanti e giganteschi come cocomeri. Anche quella vertigine lussuosa giunge alla frutta. Non si può trascorrere tutta la vita davanti al mare. Hai voglia a ingannare il prossimo, Loredana, con lo struggimento del mare d'inverno e i cavalloni giganteschi che ti riconciliano con le forze secche e brutali della natura, poi scorgi dietro il muretto le controindicazioni meteorologiche. D'inverno, a mare, butta un vento che ti deprime e ti spacca il fisico contemporaneamente. Poche storie. E sotto la pioggia che cade in orizzontale non c'è ombrello che tenga. Il cattivo tempo in Brasile è peggio che in Islanda. La sabbia si innalza senza contegno e ti chiude le palpebre e ti fa una sfinge di un metro e settanta. Si posiziona sotto le unghie e dentro i peli sotto le braccia. Ci ha i problemi del K2 il mare d'inverno. E l'oceano mette una paura ancestrale. Diventa un nemico da abbattere che non puoi abbattere, ci mancherebbe. Alla lunga, il mare è vuoto. Il bel panorama è un peso. Ho una dimestichezza limitata con le bellezze della natura. Devo stare, scava scava, dove gli uomini muoiono e faticano. Non necessariamente in quest'ordine. Ma non è neanche questo. È che io stanziale lo sono fino ad un certo punto. Ci ho il nomadismo al posto del deodorante sotto le ascelle, io. Alla fine, semplicemente, si cambia tanto per cambiare. Mica c'è da scomodare dio davanti ai gesti miserabili degli esseri umani.
Così mi sono trasferito a Manaus, il cittadone nel cuore dell'Amazzonia. Dove, tra l'altro, fattore non secondario, i charter degli italiani più volgari del mondo faticavano ancora ad atterrare, mentre Natal, invece, mi stava già diventando una succursale di Castelvolturno e di Bellaria Igea Marina. Però ci ho messo poco, venendo a Manaus, a capire un fatto sempliciotto: che volevo complicarmi la vita. Qui, gli uomini convivono patriarcali e democratici con gli scarafaggi. Enormi e puzzolenti. Sembrano cani patinati. Neri lucidi come la palla numero otto del biliardo. Inquietanti nella loro programmatica assenza di latrati, gli scarafaggi. Attraversano i marciapiedi guardando prima a destra e poi a sinistra per evitare di finire sotto le macchine. Sono operosi e hanno fretta. Schizzano in tutti i quartieri con una velocità olimpionica e non ti abitui mai alla loro presenza.
Mi mettevano paura il primo giorno che sono arrivato, mi hanno fatto la stessa identica paura fino all'ultimo giorno del diciottesimo anno di permanenza in Brasile. Coabitano con te dietro al letto e si lavano nel tuo lavandino. Guardano il ddt e ridono beffardi come camorristi di punta. Se ne fottono del ddt, gli scarafaggi di Manaus. Se lo inalano come aperitivo senza noccioline a tutte le ore. È una guerra persa che, tra l'altro, combattevo solo io, perché gli indigeni, e in questo hanno la mia stima totale, si mostrano completamente indifferenti al problema. Ignorano gli scarafaggi, mantenendo saldo un complesso di superiorità che li porta ad una nobile, chic noncuranza della loro presenza. Come i monegaschi con i poveri. Allora, dopo poche settimane e qualche domandina in giro, avevo imparato un mezzo trucchetto: sistemare sotto i piedi del letto quattro bacinelle piene d'acqua, per impedire loro l'accesso alla cassaforte del mio sonno. Ma quelli niente. Freddi e logici come una dotatissima équipe medica di Houston nel momento dell'emergenza, guardavano il problema, analizzavano il problema, risolvevano il problema. Impiegando, in termini di ragionamento, da uno a tre secondi. Mai una frazione in più. Una cosa sconvolgente che ti conduceva lentamente alle pesanti lacrime della sconfitta e dell'impotenza. Una roba che ti avrebbe anche fatto spalancare la bocca carica di meraviglia, che però poi si evitava di fare per la semplice ragione che c'era il rischio che lo scarafaggio ti saltasse dritto dritto tra le labbra come un popcorn. Si tuffavano, andavano in apnea, nuotavano nella bacinella senza maschera e boccaglio e via ad arrampicarsi indefessi in verticale lungo il piede del letto.
Preparati, atletici e testardi come i giovanotti del battaglione San Marco. Sanno fare tutto gli scarafaggi. Tutti gli sport e tutte le guerre. Ma che cazzo sono questi qui? Io non lo so. Campioni di decathlon. Il giorno che li inviteranno a partecipare alle Olimpiadi, i neri di Chicago avranno gli attacchi di panico. Lo scarafaggio sa fare tutto. Lo scarafaggio di Manaus è dio. Senza iperboli. Però devo essere sincero, quello che ti stupisce per tutta la vita, la considerazione perenne che ti poni, la cosa che non finisce mai di lasciarti come davanti a un ufo è la loro grandezza. Gli scarafaggi di Manaus sono monumentali. Travalicano la definizione di insetti per sfociare, pericolosamente, nella categoria dei felini. Più ti mettono paura per le loro dimensioni, più masochisticamente ti affascinano come la donna della tua vita. E come vivere tutti i giorni allo zoo. Non ci si abitua alla giraffa, manco per il cazzo. La giraffa è uh mistero vivente pure per la giraffa stessa. Uguale con gli scarafaggi. Ti sorprendono sempre le stesse cose. E la loro rapidità di movimento ti emoziona come davanti al record del mondo dei cento metri. Tutti i giorni così, a tutte le ore. Alle volte, di notte, poi, l'incontro fatale: lo scarafaggio è su di te. Ma non fai in tempo a saltare giù dal letto che quello ha già guadagnato il battiscopa. Veloce come un ghepardo, anzi di più. Si prende gioco di te e ti ricorda costantemente che non puoi sconfiggerlo. Non si vince mai la battaglia con la velocità. Tu ti meravigli nel cuore della notte sudaticcia di aver evitato l'ictus e quello, lesto come una stella cadente, sta già a casa della signora del piano di sopra. Allora poi lo cerchi dappertutto questo stronzo di merda preistorico, ma quello non c'è più. Finisci per mormorare terrorizzato, senza coscienza, antiche litanie lamentose che tua madre esternava invece per vezzo, tipo: "Anima di quei quattro, venite a quattro a quattro". Metà degli anni trascorsi a Manaus sono stati occupati da un unico, insistente pensiero: dove sta lo scarafaggio?
Poi qualcuno riesci ad assassinarlo, ma è una soddisfazione gambizzata, perché sai benissimo che non hai risolto e mai risolverai il problema. Ne uccidi uno per ritrovartene cento. Non attecchisce il maoismo, in Amazzonia. Niente attecchisce, solo animali arcaici e mostruosi e piante rampicanti che ti fasciano gli avambracci. Quando dormi, si scatenano incubi e deliri, pensi che gli scarafaggi prenderanno il sopravvento, li scorgi al bar, attaccati alle birre, che brindano alla concessione di un leasing da parte di uno scarafaggio borghese che fa il concessionario di automobili, li spii al ristorante che flirtano, che pasteggiano col Veuve Clicquot, che fanno rifornimento alle pompe di benzina e tutti gli uomini, invece, a strisciare a quattro zampe, ma con una goffaggine che non fa ridere nessuno, neanche gli scarafaggi, ormai austeri e classisti proprietari del mondo.
Gli scarafaggi, a Manaus, ti tollerano. Non viceversa. Sono operosi come le api, veloci come i ghepardi, furbi come le volpi, prudenti come le formiche, affamati come gli avvoltoi, assennati come gli scoiattoli e non dormono mai. Mai. Ve lo giuro. Non ho mai visto uno scarafaggio dormire. Non ne hanno il tempo, devono conquistare il mondo e hanno deciso che questa espansione irreversibile comincerà esattamente da dove vivo io adesso. Dal terzo piano di un appartamentino in un quartiere anonimo e qualsiasi leggermente periferico rispetto al centro di Manaus. È il loro quartier generale prima di una serie ininterrotta di colpi di stato in giro per il mondo. Vogliono passare alla storia, gli scarafaggi, ma senza strombazzarlo sui giornali e senza la vanità di andare in televisione. Come una loggia massonica. Gli scarafaggi non sono vanitosi, proprio come le iene e gli sciacalli.
Quando hai un unico, immenso progetto nella vita non puoi contemplare la vanità. È un orpello che intralcia.
L'altro orpello che intralcia ininterrottamente a Manaus è l'umidità. Se parlate ad un locale della parola venticello questo vi guarda come in una fiaba senza finale. Vi prende per ET-telefono-casa. Non capisce. Non è mai esistito, neanche casualmente, il soffio d'aria a Manaus, circondata com'è da miliardi di alberi dell'Amazzonia alti trenta trentacinque metri. L'ossigeno è come sospeso in una pozzanghera vecchia. Galleggia immobile e finisci per respirare quello di miliardi di anni fa, sempre lo stesso. Inali la roba dei dinosauri e dei licheni. Esiste solo l'umidità, gli scarafaggi e le donne più belle del pianeta. Nel passato, orde di tedeschi in cerca di caucciù hanno cercato anche le brasiliane dando loro figlie mulatte con gli occhi azzurri. Queste sono oggi le donne di Manaus. Il più grande spettacolo meticcio del mondo. Ma solo lo sprovveduto ingenuo potrebbe pensare che si tratti di una gioia, di un sollievo, di una ricompensa a una vita affollata solo di scarafaggi e calore appiccicoso. Non è così. Perché, queste divinità umane non le puoi guardare per più
di tre secondi che subito interpreti te stesso come un complesso d'inferiorità che deambula. A tonnellate, vagano incoscienti della loro bellezza in mezzo alla città. Uno spettacolo di successo di Broadway che si produce per ventiquattr'ore di seguito. Perché anche a notte fonda le trovi in giro, dal momento che l'umidità e gli scarafaggi non le fanno dormire. Se il concetto di perfezione esiste, ecco quello ha trovato la sua camera d'albergo proprio qua, in mezzo alle donne di Manaus. Sepolte vive in mezzo a una natura fatiscente e invalicabile. Ti tolgono il respiro per sempre, producendo un tale carico di bellezza da inibire il desiderio. Una bellezza di tale, inaudita potenza da paralizzarti. Nessuno desidera scopare con la Venere del Cranach. La guardie basta, senza credere che sia potuto accadere veramente. È lo stesso con queste creature. Le guardi e basta. E quando ti lasciano capire che c'è spazio per accedere a loro, tu non sei pronto. Perché vuoi solo continuare a guardare. Non si violentano le opere d'arte, non s'infila il cazzo dentro i dipinti di Caravaggio. No, questo non si fa. Non si tocca la perfezione, mai. Potrebbe condurti dritto dritto al suicidio. Questo è come la penso io. E non ve l'aspettavate. Ma solo le teste di cazzo possono credere che la mia reticenza alla frequentazione del museo e della cultura in senso lato mi impedisca di conoscere e amare la Venere del Cranach. Tutti gli uomini sono sorprendenti. E io anche un po' di più. E la Fonseca ci aveva scandalizzato con l'istruzione a me e a Dimitri il Magnifico. Bisogna stare accorti, comunque, a Manaus, con le donne e con gli scarafaggi e se fai la gita fuori porta mica ci sta la trattoria dei Castelli, macché, ci sono i piranha e le anaconda, le vedove nere e insetti mai catalogati da nessuno che, con un rutto, ti avvelenano una volta e per tutte.
I dintorni di Manaus sono la guerra di dio contro l'uomo. Un duello senza storia. Su quello si era cautelato a dovere l'amico, era stato accorto, e si era detto che se avesse voluto ci faceva morire tutti quanti in Amazzonia. Basta un colpo di coda del coccodrillo e puoi andarti a depositare disinvolto dentro una bara su misura. E sperare che qualcuno si ricordi di chiuderla se no sono sicuro che già avete capito chi verrà a farvi compagnia dentro la cassa anche da morti. Ma certo! Sempre loro. Queste maledette cacche nere con le zampette.

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La Rosa dei Venti e il segreto del Monte Rosso - Piero Fabris

>> lunedì 15 agosto 2011

Il valore di questo libro risiede nelle descrizioni delle origini di alcune tradizioni e di luoghi storici di Bari. Per il resto è una fiaba (o meglio due fiabe che occupano due grossi capitoli, antefatto e fatto), poco coinvolgente, fiacca e un pò sgangherata. Vi sono innesti di episodi, come la lotta con il lupo mannaro, che non portano alcun valore aggiunto alla storia se non contraddire la figura dell'esile protagonista che si rivela un atleta capace di rompere le mascelle alla bestia e riprendersi miracolosamente da morsi e graffi come se nulla fosse accaduto. Un ulteriore grosso difetto, infine, è nella scrittura: tanto è stato bravo Pennacchi nel suo Canale Mussolini ad usare il linguaggio per caratterizzare i personaggi legandoli indissolubilmente alle loro origini, tanto è incapace Fabris con il suo lessico ricercato e asettico nel collegare i personaggi al territorio, rendendoli avulsi dal contesto. L'uso limitatissimo del dialetto barese (poche parole che si contano sulle dita: tiella, luponne, sgagliozze... ) e l'italianizzazione dei soprannomi e delle frasi degli abitanti del centro storico di Bari ha probabilmente la pretesa di rendere più commestibile una storia molto esile anche a lettori non autoctoni. Purtroppo sortisce l'effetto opposto ed evidenzia solo i limiti di quella che poteva essere un'operazione culturale interessante.

L'oste era sicuro che il giovane forestiero sarebbe passato dalle sue parti e si impegnò davanti ai fornelli per preparare "orecchiette ai broccoletti di rapa con alici salate".
Lavò e pulì le rape accuratamente, le mise a cuocere in molta acqua salata e a metà cottura aggiunse le orecchiette. A parte, in una padella con l'olio fece cuocere le alici, che aveva lavato e diliscato, sino a quando non gli sembrò di vederle disfarsi.
Quello doveva essere il miglior piatto di orecchiette ai broccoli di rapa che l'avrebbe consacrato ai suoi occhi miglior cuoco della città; scolò bene le orecchiette e le rape e le versò nei piatti. Versò la salsa di alici, aggiunse il pepe e mescolò.
[...]
Giuseppe era seduto vicino al Fortino di Sant'Antonio, un vento gelido spingeva le nuvole una sull'altra. Incurante del tempo che scorreva, in un abito d'angoscia, scrutava le onde dalle quali sbocciavano gabbiani.
La luna apparve silenziosa, avvolta in un'aurea multicolore, le stelle erano lampade che si dondolavano attaccate alla volta celeste. La notte si fece azzurra e improvviso il mare si scatenò in una tempesta capace di afferrare la luna.
Tra le reti d'acqua salata e le scudisciate dle vento Giuseppe precipitò tra schiuma e scogli; sicuro di morire si lasciò sbattere come un relitto, un vortice di alghe lo inghiottì precipitandolo nelle viscere della terra.

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Canale Mussolini - Antonio Pennacchi

>> domenica 7 agosto 2011

Sono convinto che questo romanzo sia da considerare tra le grandi opere della letteratura italiana. E questo perchè ha tre grandi meriti. 
Il primo, fondamentale, è quello di raccontare tramite la saga di una famiglia uno specifico importante evento (la bonifica delle paludi dell'agropontino) e con questo la storia d'Italia e del fascismo dagli anni venti ai quaranta. A scuola non si studia (esperienza personale) o si studia male e la mia generazione e quella successiva rischia di perdere un pezzo insostituibile di conoscenza che è utile anche come chiave di interpretazione del presente soprattutto nei momenti in cui, come dice Pennacchi, "cambia il vento".
Il secondo è il modo originale, coinvolgente, ironico con cui le vicende sono narrate. Merito anche del linguaggio che alterna un italiano volutamente semplice, da persona che lavora la terra, al dialetto veneto. 
Il terzo è quello di aver creato personaggi memorabili, dagli improbabili nomi di battesimo (Pericle, Armida, Temistocle, Adelchi,...), caratterizzati magnificamente e che, anche se immaginari, si intersecano alla perfezione con personaggi storici esistiti e fatti realmente avvenuti. 
Come marmo levigato che poco per volta inizia a mostrare crepe sempre più grandi, quella che all'inizio sembra un'agiografia del fascismo si evolve nel corso del libro in una critica che culmina con la descrizione delle nefandezze commesse in Africa. Il tutto rimane in un sottofondo smorzato nei toni a volte comici del libro ed è coerente con il punto di vista dei protagonisti che, come la maggioranza degli italiani, era rimasta affascinata dai vantaggi efficacemente propagandati dal regime totalitario.  Interessante la chiave di lettura che Pennachi dà della nascita del fascismo, delle sue adiacenze e diversità dal socialismo, delle cause degli attriti tra le due ideologie e di come una ha prevalso sull'altra e ha attecchito in un Italia scossa dalla prima guerra modiale.



Mussolini è stato grande, ha conquistato tutti. Il capolega non aveva fatto in tempo a dire: «Vi presento il compagno Mussolini», che lui un altro po’ si era mangiato i vetri di tutte le finestre sulla piazza. Non si è messo a sputare sul tricolore come il Rossoni in America, ma poco c’è mancato, creda a me. Lei non ha idea di quello che è stato capace di dire a quei quattro mascalzoni, specie al Giolitti «piemontese falso e cortese», il peggio di tutti secondo lui: «Con tutta la fame che abbiamo qua, e con tutti i poveracci che vengono ogni giorno sfruttati e cavati il sangue dai preti e dai signori, andiamo ad aggredire quei poveri baluba per fare schiavi pure loro? Vergognève!» disse il Mussolini, «Specie il Giolitti e il Bissolati». Come diceva mio nonno, quello era uno che quando doveva dire una cosa la diceva papale papale, non ci stava mica a pensare sopra, non aveva peli sulla lingua.
Una volta – mi pare a Losanna, in Svizzera, quando era scappato anche lui per una condanna – a un prete che sparlava in giro lo fece una pezza da piedi davanti a tutti. Poi da sopra il palco – levatosi l’orologio dal taschino e messolo bene in evidenza sulla balaustra del palchetto – disse proprio: «Ma adesso è ora di farla finita anche con il suo principale, Dio non esiste e ve ne do una prova. Lo sfido. Se esiste, gli do tre minuti di tempo per fulminarmi stecchito su questa pubblica piazza. Se invece non succede niente, vuol dire che non esiste. Tre minuti ho detto, punto e basta», restando in silenzio con l’orologio tirato su per aria, per tre lunghissimi minuti. Ora come lei sa tre minuti, a dirli così, sembrano una cosa da niente; ma si metta in silenzio ad aspettare e veda come sono lunghi. E anche a dire «Io sono ateo; Dio non esiste» non ci vuole niente. Ma lei mi deve credere: quella volta sopra al palco a Losanna era tutto pieno di socialisti atei e mangiapreti, ma appena il Mussolini ha detto «Gli do tre minuti di tempo», la gente piano piano s’è stretta e allontanata; attorno a lui s’è fatto il vuoto.
E lui imperterrito ad aspettare i tre minuti e appena sono passati s’è rimesso l’orologio piano piano nel panciotto riavvolgendo la catenella e ha detto soddisfatto: «Che v’avevo detto io? Sono sano e salvo: Dio non esiste». È scoppiato un applauso che lei non ha idea. Ma anche un sospirone generale di sollievo: «Aaaah».
Comunque finito il comizio – quello nostro del 1911 e della Libia – sceso dal palco, la gente gli si è fatta intorno a salutarlo e coi più stretti sono andati a bere un bicchiere come si fa di solito. Pure mio nonno ha fatto il gesto di avvicinarsi per salutarlo, anche se era un po’ intimidito perché pensava che non si ricordasse. Invece come lo ha visto, il Mussolini ha strillato: «Peruzzi! Am dispiase propi ma stavolta n’an pòi vegnèr a manzàr da valtri, ch’ago d’andar via. Ma nol mancarà ocasiòn, t’al sicuro».
E perché ride adesso? Cosa dice? Lei dice che non può essere che Mussolini parlasse così, perché lui era romagnolo di Predappio, tutto un altro dialetto, un’altra inflessione?
Lei la deve smettere con queste fesserie, io mica sto qui a raccontare barzellette. Cosa vuole che ne sappia io di quale dialetto e con quale inflessione parlasse Mussolini? Quelle sono però le cose che ha detto – la sostanza – e io gliele ridico parola per parola esattamente nello stesso dialetto in cui le hanno dette a me. Io non cambio niente.
[...]
Poi c’è stata Caporetto come lei saprà, coi tedeschi che hanno rotto il fronte e tutti noi a scappare davanti a loro che avanzavano: chi buttava i fucili, chi abbandonava i cannoni e chi sparava addosso ai propri ufficiali che cercavano di trattenerli. Solo alcuni però degli ufficiali. Alcuni altri si suicidarono, per il disonore. Ma la maggior parte sono scappati per primi, gli alti gradi degli stati maggiori e gli ufficiali di truppa; poi alla fine – quando è stata la fine – la colpa era solo dei soldati, e gli ufficiali si sono salvati tutti, più belli e più tronfi di prima e hanno fatto pure carriera come Badoglio, che fu tra i primi responsabili di Caporetto. I soldati che erano scappati, invece, li hanno ripresi e fucilati tutti. O meglio, tutti no. I reparti che interi s’erano dati alla fuga – i plotoni, le compagnie, i battaglioni – i carabinieri li mettevano in fila e poi contavano «Uno, due, tre, quattro, cinque: tocca a te», e quello era fatto: «Al muro!». Agli altri gli era andata bene. Decimazione si chiamava. Pure a zio Temistocle a un certo punto era preso il panico a Caporetto, perché la paura è contagiosa. Più vedi gente intorno a te che ha paura, e più ne viene pure a te, è un fatto di rassicurazione, di determinazione nel convincimento. Prima magari pensavi dubbioso: «Chissà se è il caso di avere qualche preoccupazione». Però non lo dicevi – lo tenevi per te – anche per non fare con gli altri la figura di quello che non ha coraggio. Ma appena vedi che hanno paura gli altri, allora subito ti dici: «Ah, ma qui c’è davvero da avere paura» e ti metti le gambe in spalla e via. Tu appresso agli altri e gli altri appresso a te. E così pure zio Temistocle – a vedere i tedeschi che venivano avanti come demoni, e i nostri invece indietreggiare come lepri e buttare i fucili per poter correre più forte – pure lui a un certo punto ha voltato le spalle ed è scappato. Lui però non ha buttato il fucile, non se l’è sentita. «Non si sa mai» ha pensato. E difatti gli è venuto buono dopo, quando ha trovato un gruppetto che diceva: «Dove andate, vigliacchi» e a quelli senza fucile li fucilavano lì sul posto. Ma a lui il “vigliacco” lo aveva smosso nell’orgoglio, e s’è fermato pure lui a opporre resistenza al nemico «Male che va, i me cópa» – e hanno messo in piedi un tentativo di ripiegamento ordinato. È lì che gli hanno poi dato la medaglia di bronzo, anche se lui diceva che gliel’avevano data giusto per far vedere, perché lui non è che abbia fatto atti di particolare eroismo quella volta. Lui lì s’era fermato e basta. Ce ne voleva molto di più a scattare – come aveva fatto tante volte prima, e pure dopo – dalle trincee all’arma bianca, all’assalto, a scannare tedeschi col pugnale. Lì invece – a Caporetto – fu più la gente nostra che scannò, italiani, disertori, e anche a lui toccò stare nei plotoni d’esecuzione, e ogni volta pensava che era solo per un pelo che non c’era lui, al muro, al posto di quello.
Dopo tre anni che si stava in guerra, l’Italia era ridotta allo stremo. E non solo per la fame, i viveri e tutto quanto. Oramai non c’era quasi più gente da mandare in battaglia. E allora, per tirarsi su da Caporetto, hanno dovuto chiamare alle armi anche i ragazzini, le ultime classi, il 1899, la classe di mio zio Pericle, diciotto anni: «Un putìno» diceva mia nonna, «un tosatèo».
Era un po’ cresciuto rispetto a prima, ma ancora mica tanto. Mingherlino, magrolino, biondino, aveva solo questi occhi che sembravano elettrici, occhi azzurri che non stavano mai fermi; ti guardava di qua e di là, era tutto scatti e nervoso come un’anguilla. Gli è toccato partire anche lui. E a mio nonno gli si è stretto il cuore: «Va’ in malora alla guerra e a mì che l’ho voluta».
Lui invece – zio Pericle – era tutto contento perché chissà quante volte, mentre guidava i buoi in campagna, s’era sognato a occhi aperti le scene di guerra e lui che saltava a sbaragliare il nemico. Dentro di sé, sicuramente, un po’ di paura ce l’aveva, però non la lasciava vedere, faceva il gradasso. È partito contento, allegro – o almeno pareva -coi fratelli e le sorelle ad accompagnarlo fino in fondo allo stradone, fino alla strada grande. Sono andati tutti eccetto zio Adelchi che è rimasto a casa – «Ghe xè da lavorar, qua» – sia i più grandi che i più piccoli, coi più piccoli che strillavano per farsi prendere in braccio o a cavalluccio, sulle spalle, per l’ultima volta. E quando alla fine sulla strada grande è passato uno dei carri che ogni giorno andavano verso Adria e poi a Rovigo, avanti e indietro coi bidoni del latte, zio Pericle ha fatto un segno con la mano e il conducente ha detto: «Salta su».
Allora ha dato un bacio uno per uno a fratelli e sorelle, dal più piccolo al più grande, e poi ha abbracciato la madre, mia nonna, e lei ha detto: «Torna a casa figlio, torna sano e salvo» e glielo ha detto con la voce incrinata, non piangeva, però la voce era incrinata, ne aveva due alla guerra adesso e non sapeva più se le preghiere potessero bastare, e sempre con quel pensiero fisso del prete, che non bisogna mancar loro di rispetto e che prima o poi si paga, certe cose non possono non portare male – «Sto bene io a pregare» – neanche un presentimento ma una certezza, quasi, di sciagure.
Lui invece rideva, la abbracciava e rideva: «Non state a preoccuparvi mamma, vado là, vinco la guerra e torno». Ma forse faceva solo finta di ridere. Poi ha abbracciato il nonno per ultimo, mentre il carrettiere insisteva: «Salta su, che il cavallo mi perde il passo», e non si sono detti una parola padre e figlio, solo stretti forte, evitando anche di guardarsi negli occhi, tutti e due sapendo già cosa ci fosse scritto. E poi, con un balzo, a eassetta e il carro è partito e lui ha ristrillato alla madre: «Non stì a preocuparve mama, l’erba cativa n’al more mai. Mì al torno vinsitor». E infatti è tornato vincitore.
Sono andati lui e quelli come lui – i ragazzi del ‘99 – e hanno vinto la guerra. Sì lo so che non l’hanno vinta solo loro, c’erano anche gli altri, ma allora si diceva così: «L’hanno vinta i ragazzi del ‘99». Ragazzini di diciotto anni schierati sul Piave e poi all’assalto, sotto le bombe, gli shrapnel, i gas. E si sono fatti grandi così.
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Erano venuti quelli della lega contadina – i rossi, i socialisti della camera del lavoro -a dire che ogni mezzadro doveva prendersi la sua quota di braccianti, “imponibile di mano d’opera” lo chiamavano. C’era tanta disoccupazione, tanta fame, e allora quelli avevano detto: «Ogni tot di ettari di terra, ci deve stare un tot di operai a giornata e tutti i mezzadri li debbono assumere». Ora io capisco che detta così può sembrare anche giusta, perché anch’io sono d’accordo con lei che il lavoro – come la ricchezza – andrebbe diviso tra tutti quanti. Ma noi sulla terra nostra non avevamo bisogno di tutti questi operai. Chi li pagava? Va bene che eravamo a mezzadria: il padrone metteva la terra, noi il lavoro e si divideva il raccolto. Ma anche le spese andavano divise in due: le sementi, le scorte e gli eventuali operai esterni, i braccianti. Anche per questi andavano divise le spese. E chi ce li dava a noi questi soldi? Certo, quando proprio servivano un po’ di braccianti perché il lavoro era troppo o c’era fretta, pure noi li avevamo sempre presi, mica eravamo scemi. Se devi fare un raccolto e il tempo è stretto, mica ci stai a pensare sopra, chiami la gente di fuori e via. Ma un conto è che lo decido io – ovvero mia nonna – quand’è che serve davvero, un altro conto è che arrivi tu e dici: «Da oggi in poi devi mettere a lavorare in campagna Tizio e Caio». E se a me non serve? Ti chiamo a lavorare a te – e ti debbo dare pure i soldi, perché lo dice la lega – e intanto i figli miei li tengo a casa a non fare niente? E che me li sono fatti a fare allora tutti questi figli? Dov’è che li mando a lavorare? Che gli do da mangiare a loro, se lo do a te? Ho capito che bisogna dividere, ma bisogna dividere quello che si ha, non quello che non si ha. «Noi ne abbiamo a sufficienza solo per noi» aveva detto mio zio Temistocle a quelli della lega, dopo essersi consultato al volo – con lo sguardo – con la madre e i fratelli.
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Come dice, scusi? perché ci chiamassero cispadani e perché soprattutto il fascio avesse dato le terre prosciugate a noi – facendoci venire dall’Altitalia – e non a loro che erano già qui? A lei pare un’ingiustizia? Lei dice che il motivo forse è che quelli di queste parti non fossero abbastanza fascisti? No, questo no. Erano fascisti come in tutta Italia. C’era il fascio locale fin dall’inizio dappertutto e s’erano fatti la marcia su Roma anche loro come tutti gli altri. Certo, pure loro prima avevano avuto i socialisti e le camere del lavoro. Ma come dappertutto, a un certo punto era cambiato il vento pure qui – oggi va di moda una cosa, domani un’altra – e tutti erano diventati fascisti. Né più né meno degli altri. Lei ha presente come ancora pochi anni fa – in tutto il Norditalia – erano tutti democristiani o comunisti e il giorno dopo tutti della Lega o berlusconiani? Se lei va a vedere uno per uno quelli che cucinano la bistecca, salsiccia e fagioli alle feste della Lega, la maggior parte li hanno già cucinati alle feste dell’Unità. Così va il mondo, che vuole da me? Innanzitutto però a noi dissero che era per ripagare il Triveneto dei danni e dolori subiti nella guerra ‘15-18. Secondopoi, quelle nostre erano le zone più povere d’Italia, i più morti di fame e disoccupati che riempivano le navi degli emigranti per le Americhe. Chiusasi quella emigrazione – là non ci volevano più, esattamente come noi oggi con gli extracomunitari – da qualche parte ci dovevano mandare. Ci hanno mandato qua. Eravamo gli extracomunitari dell’Agro Pontino. E poi però – come le ho già detto – all’Opera servivano mezzadri o coltivatori diretti, che sapessero fare tutti i lavori e che risiedessero stabilmente sul podere. Questi qui invece erano abituati a tornare ogni sera al paese loro. Chi ce li faceva restare di notte – con la paura della malaria – appresso alle bestie nella stalla? La mezzadria in Italia era praticata solo in Toscana, Umbria, Marche e Valpadana. Nel Lazio – negli Stati della chiesa -non c’era mai stata, c’era solo e sempre stato il feudalesimo e il primo in assoluto che avesse introdotto la mezzadria nelle terre sue nel Lazio, a Magliano Sabina, era stato proprio il conte Cencelli. Anche per questo, forse, il Rossoni lo aveva consigliato al Duce per l’Opera combattenti.
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I miei zii oramai erano in contatto col fascio di Ferrara e quello era un periodo caldo. Alla fine di agosto – il 30 di agosto del 1920 per la precisione, anche se i miei zii non lo sapevano ancora, in quel momento, che la cosa li avrebbe potuti in qualche modo interessare – erano cominciate le occupazioni di fabbrica da parte degli operai di Torino, e poi s’erano estese a Milano. Era la Fiom, il sindacato dei metalmeccanici, che aveva messo su dei Consigli di fabbrica tali e quali ai soviet. C’era appena stata la rivoluzione in Russia e loro la volevano fare anche qui. Intanto avevano cominciato con queste occupazioni per prendersi le fabbriche e diventare loro padroni – il proletariato – e mandare i padroni a lavorare. Era pressappoco quello che volevamo anche noi sindacalisti rivoluzionari nella settimana rossa del ‘14 e loro quella volta avevano detto: «Non è possibile. Bisogna fermarsi qua» e così perdemmo. Adesso invece erano loro a dire: «Facciamo la rivoluzione, occupiamo le fabbriche» e tutto questo periodo – i due anni che vanno dal 1919 fino agli inizi del ‘21 – lei sui libri di storia lo trova proprio scritto “biennio rosso”. Scioperi, occupazioni di fabbrica, manifestazioni e violenze ogni giorno. Non s’era mai vista una cosa del genere in Italia e lo stesso senatore Agnelli – dopo che gli avevano occupato la Fiat ma anche l’Ansaldo, la Pirelli, e tutto il fior fiore dell’industria e del capitalismo italiano – s’era oramai rassegnato anche lui e aveva deciso, d’accordo coi più stretti collaboratori: «Va bene va’, non c’è più niente da fare, siamo con l’acqua alla gola. Chiamateli e mettiamoci d’accordo: io gli do la fabbrica in proprietà comune, mia e loro, e da adesso in poi la portiamo avanti insieme, io e loro». Sono stati i collaboratori a dirgli: «Senato’, la scongiuriamo, aspetti ancora qualche giorno».
«Va bene, aspettiamo ancora qualche giorno» perché ogni tanto i collaboratori bisogna pure farli contenti, anche se lui – dopo un mese d’occupazione – s’era messo l’anima in pace ed era oramai pronto a trattare: «Almeno finisce questa storia e ripigliamo a lavorare, meglio che gliela dia io in fin dei conti, prima che me la prendano loro con un calcio nel sedere; un direttore gli servirà sempre». Ma anche questa volta – tale e quale alla settimana rossa del ‘14 -chiacchiere e basta, altro che rivoluzione. Tanto è vero che neanche dopo un mese – alla fine di settembre – in cima alle fabbriche di Milano e di Torino hanno tolto le bandiere rosse con la falce e martello dei Consigli di fabbrica, i nuovi soviet, e hanno fatto tornare buoni buoni gli operai a lavorare sotto gli stessi padroni, agli ordini degli stessi identici capi. E non solo senza avere fatto la rivoluzione o preso il potere, ma alle stesse identiche condizioni di prima. Anzi, i capi erano pure più boriosi e i collaboratori più stretti del senatore Agnelli sono andati poi avanti anni a rinfacciargli: «Ah, se non c’eravamo noi quella volta! Se era per lei avevamo perso tutto». Tanto che alla fine gli ha dovuto dire: «E mo’ basta! Il prossimo che lo dice un’altra volta lo caccio sui due piedi». Ora però anche un bambino sa che se chiami in continuazione la gente alla lotta senza fargli mai ottenere risultati tangibili, quelli alla lunga ti mollano e non ti ascoltano più: «Al lupo, al lupo». Anzi, più li hai fatti lottare senza un costrutto, e più a quelli gli passa la voglia di rilottare un’altra volta: «Ma che sono scemo? Vado a ripigliare le bastonate gratis?». E comunque quel biennio rosso è andato avanti tutto il 1920 – dal 1919 che era iniziato – fino al 1921, che è stato pure peggio perché è arrivato il “riflusso” delle lotte, come lo chiamava Lenin (lei non so se lo sa che il Lenin e Mussolini s’erano conosciuti in Svizzera prima della guerra -esuli squattrinati tutti e due – nel 1903 o ‘4. Si incontravano in giro per Losanna, che era piena di rivoluzionari che ogni volta per la strada si chiedevano l’un l’altro: «Ghètu un franco da prestarne?». Adesso non so se ci fosse anche il Lenin quando Mussolini sfidò Dio – «Vieni qua e fulminami» – con l’orologio in mano. Comunque nel 1917 quello fece la rivoluzione in Russia e prese il potere, e Mussolini leggendolo sul giornale disse: «Va’ il Lenin va’, son contento par lù». Quando invece nel 1922 ha fatto la marcia su Roma ed è andato su lui, il Lenin disse proprio a Stalin: «Va’ il Mussolini, va’! L’avevo sempre detto io, che l’unico rivoluzionario in Italia era lui». Ed era tutto incazzato con la sinistra nostra italiana che se lo era fatto scappare). Ma oltre al riflusso loro c’è stata la reazione nostra, e oramai era lotta a coltello, con sparatorie, incendi, morti e feriti. Rossi di qua e neri di là. E noi stavamo con i neri – anzi, eravamo i neri – e una volta anche i miei zii sono tornati con zio Pericle, steso sul pianale del carro.
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Noi però oramai stavamo col fascio di Ferrara, dipendevamo da lì. E a Ferrara comandava Italo Balbo. Il Rossoni invece stava a Milano a dirigere i sindacati fascisti e con il Balbo non si è mai potuto pigliare. Il Balbo era uno che, dove c’era lui, doveva comandare tutto lui. Anche al Mussolini – fino all’ultimo – gli ha sempre detto: «Tu comandi su tutto e io obbedisco. Ma nel poco che mi dai da comandare a me, ci comando solo io e neanche tu ci metti bocca». E difatti anche col Mussolini – pure dopo che è diventato Duce – non è che ci si sia mai tanto preso. Il Duce alla fine non lo poteva proprio più vedere, perché era l’unico che anche in Gran Consiglio continuava a dargli del tu. A quello gli rodeva. Gli sembrava che non rispettasse il grado e lo ha mandato in Libia: «Va a fare il Governatore là, fora dai piè». Anzi, si dice che – ma i miei zii non ci credevano e neanche io ci credo – fosse stato lui a dare l’ordine alla contraerea di sparare, altro che sbaglio, quella volta che Balbo tornava da un volo sull’Egitto. Era appena scoppiata la Seconda guerra mondiale e dalla San Giorgio – una nave da battaglia che era stata interrata apposta, per proteggere meglio la piazzaforte di Tobruk – vedendo questo apparecchio che arrivava, si sono creduti che era un apparecchio inglese e allora via tutti a sparare Fino a che non lo hanno preso ed è caduto giù. E subito i marinai a tirare i berretti in aria per la contentezza: «O ghémo ciapà, o ghémo ciapà», perché pare che poi la San Giorgio non ne abbia più preso uno solo di apparecchio nemico. Né prima né dopo. Tutti passavano e non gli succedeva niente – l’antitriangolo delle Bermude – e s’era sparsa la voce tra i piloti britannici: «Passiamo sulla San Giorgio che lì non ci prendono neanche se viene giù Cristo». Solo quello hanno preso d’apparecchio in vita loro. E non gli pareva vero. Poi però, quando sono andati a vedere, era il Balbo; avevano buttato giù lui, i lo ghéva copà. E la gente in Italia diceva che non era stato un errore – era stato un tradimento – perché il Duce era geloso e aveva paura che il Balbo gli levasse il posto. Queste sono tutte chiacchiere naturalmente, ciàcole dicevano i miei zii, anche se adesso s’è scoperto che quel giorno in rada c’era pure lo Scirè – un sommergibile famoso per le operazioni speciali supersegrete – e aveva sparato pure lui senza dire niente a nessuno. Era arrivato la sera prima ed è ripartito il giorno stesso, neanche un’oretta dopo che l’aereo del Balbo era stato abbattuto. Poi faccia lei; però rimane il fatto che quello, il Balbo, era un grande organizzatore, una macchina piena d’energia e fu lui che nel 1924 – quando oramai Mussolini stava nel pallone per il caso Matteotti – fu lui che gli diede la scossa e lo resuscitò come Lazzaro. O Frankenstein. Tutti lo attaccavano in parlamento oramai. Era rimasto solo come un cane, aveva poche ore – dicevano tutti quan ti – si doveva dimettere perché il caso Matteotti era trop po grosso ed era lui il mandante. O meglio, lui diceva che non era vero e lo dicevano anche i miei zii: «È stato il Dumini che ha sbagliato tutto». Ora però sarà pure vero che forse ha sbagliato il Dumini e che loro non volessero uccidere, gli volevano solo dare una lezione e basta al Matteotti che il 30 di maggio del 1924, in parlamento, a Mussolini gliene aveva dette di tutti i colori. Lo aveva fatto diventare una bestia, tanto che appena uscito dal parlamento – proprio lì sul portone dell’aula, rosso di brace, tutto infuriato e fumante – Mussolini aveva urlato a Cesarino Rossi, il segretario particolare suo che sapeva vita morte e miracoli e ogni più piccolo impiccio suo: «Che fa il Dumini?». Ed era incazzato nero. Questa è storia. Loro il Dumini a Roma ce lo tenevano apposta – pagato e stipendiato dal Viminale con tutta la squadraccia sua, la “Cèka nera” come la chiamavano – proprio per questo tipo di evenienze. Così quando il Cesarino Rossi è andato dal Dumini a ridirgli: «Ma che cosa ci stai a fare tu? A mangiare e bere a tradimento? Che stai ad aspettare? Che fa il Dumini! ha detto il Duce» quello ha capito al volo e ha chiamato tre o quattro dei suoi. Sono partiti con la macchina. Hanno preso il Matteotti al Lungotevere. Lui non voleva salire. S’è difeso. Quelli hanno cominciato a menare. Lo hanno caricato a forza. Ma lui si difendeva pure in macchina. E quelli hanno rimenato più forte. Erano partiti per dargli solo una lezione – almeno così hanno detto – ma a un certo punto hanno tirato fuori un pugnale e una lima e lo hanno ammazzato a coltellate. S’erano portati appresso i pugnali. Poi lo hanno nascosto e sotterrato in un bosco. È stato ritrovato – il povero Matteotti – solo due mesi dopo, il 16 di agosto, e Mussolini era di nuovo incazzato: «Ma che avete fatto?».
«Ma me lo hai detto tu» gli rispondeva il Cesarino Rossi: «Che fa il Dumini?».
Allora – nel 1924 – il Mussolini dipendeva ancora dal parlamento e il parlamento lo ha messo in croce. Era additato per tutta Italia come un assassino, un presidente del consiglio parlamentare che se un deputato gli ha parlato contro, gli manda i mazzieri e gli assassini sotto casa. Tutta la nazione scandalizzata lo stava lasciando solo. Tutti sull’Aventino. Tutti i giornali a dire: «Il caso Matteotti di qua, il caso Matteotti di là». E anche un
sacco di fascisti se ne stava andando e anche un sacco di gente che s’era messa dalla parte sua ma che adesso – vedendo la mala parata – si rivoltava già da un’altra parte: «Eh no, queste cose non si fanno», come se prima non lo avessero saputo che al potere c’era arrivato così, con le schioppettate, e da che mondo è mondo funziona così, il potere mica è pulito, diceva mia nonna. Se tu sei pulito, al potere non ci vai, fai un altro mestiere, non ti metti a cercare il potere. Guardi anche adesso: ma secondo lei Pecorelli si è suicidato? A quello gli hanno sparato. È vero che la magistratura ha detto che erano tutti innocenti – Andreotti e Vitalone – ma quello mica si è suicidato. Il potere funziona così, e finché stai in sella, tutti dicono che tu non c’entri niente, che ti hanno solo messo in mezzo; anzi, sono tutte calunnie inventate dai tuoi nemici per screditarti. Ma se poco poco fai la finta di scivolare, tutti quelli che prima facevano finta di niente adesso dicono subito: «Eh no, queste cose non si fanno», e sono i primi loro adesso a darti addosso.
E così era per il Mussolini alla fine del 1924. Solo come un cane. Gli ultimi giorni dell’anno girava come un matto per tutte le stanze della presidenza del consiglio. Girava per i corridoi bianco come un lenzuolo e gli uscieri si aspettavano da un momento all’altro di sentire un colpo di pistola dalla sua stanza, quando restava da solo. È stato così – tra Natale e san Silvestro, mentre lui stava in balìa tra la vita e la morte, tra la fuga e la resa – che Italo Balbo s’è presentato all’improvviso alla presidenza del consiglio insieme a un gruppetto di altri ras, messi insieme da lui, e gli ha detto a brutto muso: «Adesso basta, devi reagire. E se non lo fai tu con le buone o le cattive, lo faccio io e me lo prendo io il potere». Lui era ancora titubante, pareva un ragazzino: «Ma l’opposizione…». «L’opposizione una mona!» lo ha strapazzato il Balbo: «Per cosa lo abbiamo preso a fare il potere allora, per ridarglielo indietro alla prima occasione?». E lui si è fatto coraggio. Si è tirato su con le spalle — pure per non far vedere agli altri ras che aveva paura del Balbo – e un paio di giorni dopo, il 3 gennaio del 1925, ha fatto il discorso alla camera dove ha detto: «Adesso basta, mi assumo io la responsabilità del caso Matteotti, ma chi è dentro è dentro e chi è fuori è fuori: sciolgo i partiti, chiudo i giornali e faccio le leggi eccezionali. Da inquò, da oggi, la democrazia è finita in Italia, comandi solo mè. Xè ditatura».
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Comunque il Rossoni ha detto: «Sentite Peruzzi… per arrivare al potere e cambiare qualche cosa, dobbiamo fare i patti anche col diavolo, anche col re. Pure il Papa se serve. Poi dopo, arrivati al potere, ribaltiamo tutto e ci pigliamo le terre, facciamo una seconda ondata. Ma prima dobbiamo arrivare nella stanza dei bottoni».
«La stansa d’i boton?» ha fatto zio Pericle pensando lì per lì a una cosa pressappoco come quando le sorelle si riunivano nella stessa stanza tutte insieme, a riattaccare i bottoni caduti da braghe e camicie. Poi ci ha pensato e ha detto: «Va bèn Rossoni, rivémo int’la stansa d’i boton». Questa stanza dei bottoni non era per la verità una pensata tutta nostra, dei fascisti o del Mussolini. Era di un amico suo – Pietro Nenni, romagnolo come lui – che si conoscevano da giovani quando erano rossi. Anzi, il Mussolini era rosso, socialista e rivoluzionario. Il Nenni invece – quando si sono conosciuti e sono andati la prima volta in galera assieme – era ancora repubblicano. Poi erano stati interventisti assieme ed è dopo la guerra, coi fasci di combattimento, che si sono divisi. Pietro Nenni nel ‘21 diventò socialista e poi è stato anche segretario ed è stato lui che nel 1963 – sessantanni dopo che lo aveva detto Giolitti – è riuscito a portare i socialisti al governo con la Dc, e ancora andava dicendo: «Adesso sì che entriamo nella stanza dei bottoni». «Ma cos’èia, Pierìn, questa stansa d’i boton?» lo prendeva in giro il Mussolini quando ancora stavano in prigione assieme: «A me mi servirebbe proprio un bottone nuovo» faceva mostrando la camicia sporca e sbrindellata. Per il Nenni il potere era la stanza dei bottoni, una camera dove tu entravi – al palazzo del governo o dal re – e c’era un tavolo grande con tutti i bottoni e tu ne schiacciavi uno e partivano automaticamente gli ordini. C’era il bottone delle banche, quello dei negozi, l’esercito, le guardie, la marina, le fabbriche, le centrali elettriche. Per ogni cosa c’era un bottone che diceva sì o no, bastava schiacciarlo e il treno del Paese andava di qua o veniva di là. «Tutto sta ad entrarci, nella stanza dei bottoni» diceva il Nenni, «poi li schiacci e li manovri e si fa quello che dici tu.» Lui c’è entrato nel 1963. Mussolini invece lo ha anticipato e ci è entrato nel 1922. Poi quello che ci abbiano trovato – dentro quella stanza dei bottoni – lo sanno solo loro. Comunque i miei zii hanno creduto al Rossoni – si sono fatti convinti – perché era convinto per primo lui che fosse quella la strada più giusta per ottenere il riscatto e la giustizia sociale che sognavamo da sempre: «Sapessi tu, a me, come mi sta sullo stomaco quel Balbo, con i suoi agrari e quella sua barbetta da cavrìn». E così finalmente nel 1922 – con la marcia su Roma – siamo entrati nella stanza dei bottoni. «Maestà» gli ha detto il Mussolini al re: «Vi porto l’Italia di Vittorio Veneto» che voleva dire che erano tutti i combattenti – il proletariato contadino che aveva fatto e vinto la guerra – e stavano tutti dietro di lui. A Vittorio Veneto era stata vinta l’ultima battaglia prima dell’armistizio con gli austriaci il 4 novembre 1918. “I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo, risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza. Firmato Diaz” c’era scritto sul bollettino della vittoria che stava oramai attaccato dappertutto, e lei non ha idea di quanta gente in quegli anni, poi, quando gli nasceva un figlio correva subito all’anagrafe: «Firmato! Questo qua lo ciamémo Firmato come il Diaz». Era pieno di Firmati in giro. I miei zii invece – quando magari all’osteria avevano appena detto chissà cosa d’importante – ogni tanto concludevano anche loro: «Firmato Peruzzi!», assestando un bel pugno sul tavolo. Ma anche quando calavano l’asso. Specie mio nonno: «Firmato Peruzzi!».
[...]
E invece questo canchero – a mezzanotte passata, con tutto quel che c’era da fare l’indomani – le si era infilato dietro. «Ma mì lo cópo» e già aveva preso con la mano il coltello grosso del pane. Zio Pericle di là dal tavolo – lei stava di qua, davanti alla tenda che copriva l’ingresso dello sgabuzzino – le ha ridetto piano, perché nessuno sentisse dalle altre stanze: «Agò da parlarte».
«Va’ via! N’agò gnènte da dirte!» ha sibilato piano piano pure lei.
«Ma agò da dirtelo mì» ha insistito zio Pericle quasi pregando, e intanto superava il tavolo e le si avvicinava.
«Va’ via!», ha detto più forte lei minacciandolo con il coltello.
Lui le ha messo una mano sulla bocca – per tappargliela – e con l’altra l’ha stretta forte per un braccio tirandola a sé: «Agò copà un cristiàn, un prete! maladéto mì», e appena finito di dire «maladéto mì» è scoppiato a piangere. E s’è nascosto il viso tra le mani.
In quel mentre – attratto da quell’abbozzo d’urlo della ragazza – s’è affacciato alla porta della cucina un parente del morto, un cugino, che appena ha visto di spalle mio zio singhiozzare ha pensato: «Ma guarda tu quanto bene che gli voleva il Pericle a mio cugino. Chi lo avrebbe mai detto?». Lei subito gli ha fatto segno tranquilla con la mano: «Vai, vai, ci penso io» e quello se ne è andato.
Neanche hanno chiuso la porta. Lei gli ha solo toccato le mani per scostargliele dal viso, per farlo smettere di piangere. Ma appena c’è stato il contatto c’è stata la scossa. Non ha capito più niente nessuno dei due. Mio zio ha rivisto per un attimo il prete e subito ha risentito il «Toc» sordo del cranio che si rompeva sotto il suo bastone e i rantoli e il cattivo odore che subitaneo s’era emanato dallo sfintere non più sotto controllo. L’Armida anche lei ha risentito gli odori del morto suo e il capo che – rivestendolo – senza più vita ondeggiava di qui e di là ad ogni movimento ed il calore che man mano se ne andava, e si faceva gelido, quell’uomo che ancora a pranzo era nel pieno delle forze e la pigliava in giro. E mentre dal corridoio giungeva sommesso il coro delle litanie
Santa Maria. Ora pro nobis.
Santa Dei Genetrix. Ora pro nobis.
Santa Virgo Virginum. Ora pro nobis.
loro si sono buttati oltre la tenda dello sgabuzzino tenendosi strette le braccia. Lei con la mano, da dietro, s’è solo sincerata che la tenda – un cotone sdrucito e rammendato più volte anche da lei stessa – non si fosse per caso impigliata nella madia, senza richiudersi a dovere. E si sono presi con furia, in piedi, appoggiati alla parete di fianco allo scaffale delle bottiglie di pomodoro.
Mater Divinae Gratiae. Ora pro nobis.
Mater Purissima. Ora pro nobis.
Mater Castissima. Ora pro nobis.
continuava il coro delle litanie, con le voci flebili in falsetto delle donne e i toni bassi e forti delle voci maschili
Turris Eburnea. Ora pro nobis.
Ianua Coeli. Ora pro nobis.
mentre zio Pericle le diceva: «Spèteme!» pensando a tutti gli anni di carcere. «Aspettami, Armida, non posso più star sènsa tì.»
E lei ansimando «At spèto, at spèto», rispondeva a ogni colpo andandogli ogni volta più forte incontro: «At spèto par sempre, maladéta mì».
E quando hanno finito – «Amen» diceva intanto il coro -mio zio s’è sentito svuotarsi l’anima, entrare tutta dentro di lei e poi tornare nuova e mondata in lui. E allora ha pensato: «Oggi ho generato dentro di te tutti i miei figli e le mie generazioni». Ma non lo ha detto, perché aveva paura di quel che aveva pensato.
Pure lei però – pure l’Armida – quando lui s’era svuotato, aveva sentito entrare in sé il fiume sacro delle sue generazioni: «Oggi ho concepito dentro di me come le mie api tutti i tuoi figli, che conserverò gelosamente e metterò uno per uno, come le mie api, quando sarà l’ora al mondo».
Poi zio Pericle ha detto: «Spèteme al ponte», ha salutato i vivi e il morto, è uscito ed è andato lì e da allora in poi - per tutta la vita - ogni tanto la sera lei, girata dall’altra parte per dormire dopo avere fatto l’amore, gli ha chiesto dubbiosa nel buio: «Ma se ti dicevo di no quella volta, tu che facevi?». E lui immancabilmente duro: «At còpavo anca tì». Lei gli risaltava addosso, e rifacevano l’amore.
[...]
Erano le zanzare il maggiore pericolo e questo all’Opera – ma anche le maestre a scuola – non facevano che ripeterlo: era lei che pungendoti trasmetteva la malaria. Come dice, scusi? No, no, non si trattava delle zanzare normali che si vedono in giro ancora adesso. Era la zanzara anofele ed era un po’ più grossa, ma non era lei che faceva nascere dentro di sé il bacillo della malaria. Lei quando nasceva era sana. Era solo portatrice e il bacillo lo pigliava andando a succhiare il sangue ai cristiani già ammalati. Quando poi riandava a mordere i sani, l’attaccava a loro. Nelle Paludi Pontine era pieno di gente ammalata. Pure da noi in Valpadana c’era un po’ di malaria, ma non come qui, qui era un’ira di Dio e c’erano tutti i tipi della malattia, non solo quella più endemica, normale, che t’ammazzava piano piano con grandi febbroni periodici e con l’avvelenamento del fegato, l’epatite. Il fegato man mano s’ingrossava e vedevi tutta questa gente qua – e anche i pastori ciociari e abruzzesi e i butteri cavallari di Cisterna – con la pancia grossa grossa. Gonfia. “Panzarotti” li chiamavano, e poco a poco morivano. Ci si curava con il chinino. Passavano i cursori della Croce Rossa a cavallo a distribuirlo in pasticchette, che pigliavamo pure come misura preventiva. In ogni borgo c’erano le dispense, dove appunto «dispensavano» il chinino e dove vendevano anche i sali e tabacchi, perché allora il chinino, il sale e il tabacco erano tutti e tre privative dello Stato. Poi i primi commercianti ci hanno messo anche i generi alimentari, la pasta, l’olio di semi e poi la mescita del vino, l’osteria, il gioco delle bocce e così ancora adesso – che sono cinquant’anni che non s’è più visto un malarico o una pastiglia di chinino – da noi le botteghe d’alimentari continuano a chiamarsi “dispense”. Erano veri e propri general store come i saloon della conquista del West. Lei ci poteva trovare pure le vanghe e i chiodi, se le servivano.
C’erano però anche le forme più pericolose di malaria -la perniciosa o la terzana – che erano capaci d’ammazzarti nel giro di quarantotto ore, con febbri improvvise di oltre quarantadue gradi.
Non c’era il Ddt allora, non c’era niente. Dovevi solo corrergli appresso con la paletta alle zanzare. O meglio: c’erano i pipistrelli – grandi torrette di legno piene di buchi rotondi, messe un po’ qua e un po’ là per tutta la palude in via di bonificazione – in cui i pipistrelli facevano il nido. Ce li avevano portati da tutt’Italia perché il pipistrello è ghiotto di zanzare e le prende al volo meglio di un caccia intercettore. Un F-16. Alle donne facevano un po’ schifo – non è tanto bello il pipistrello, diciamo la verità, e se ti si attacca ai capelli non si stacca più – ma appena hanno cominciato a impiantarsi da soli i nuovi nidi sotto le cantinelle dei cornicioni dei poderi o sulle capriate d’ogni stalla, la gente gli ha fatto gli altarini, gli ha steso i tappeti all’ingresso e li trattava meglio dei bambini in fasce. Le donne mancava poco gli portassero il latte coi biscotti e se solo ti vedevano con la mazzafionda in mano davanti alla stalla – il pomeriggio, quando loro dormono attaccati in fila a testa in giù nell’angolo più buio della capriata – ti schiacciavano di botte più che a una zanzara. È un animale sacro in Agro Pontino e guai ancora adesso a fargli torto.
Però non era Dio, il pipistrello. Da solo non ce la poteva fare in questo universo di zanzare anofeli. L’unico modo per batterle era sterminare dentro l’acquitrino i figli prima che nascessero. Era quella la cerniera del fatale trinomio «anofele-acquitrino-uomo malarico», perché l’anofele – quando fa le uova – le deposita sul filo umido e caldo dell’acqua stagnante, tra dentro e fuori. Ma deve essere acqua ferma, non corrente, se no le uova se le porta via e arrivederci e grazie. Lì l’ovetto si fa tutto il suo percorso di larva e quando è ora rompe il guscio, sale a galla, si dà un scrollatina alle alucce, comincia a svolazzare e il primo cristiano che incontra – malarico o non malarico – si mette a mozzicare a rotta di collo, succhiando e alfin mischiando i sangui.
Per questo bisognava fare la bonifica e asciugare ogni pozza, ogni stagno, ogni padule e scavare canali. Solo acqua corrente doveva esserci, neanche più un bicchiere lasciato all’aperto con una goccia d’acqua ferma. Era peccato mortale – quando siamo arrivati – dimenticarsi per caso un secchio o una bacinella la sera con un po’ d’acqua all’aperto. Ti rimpacchettavano – l’Opera controllava tutto, i fattori facevano avanti e indietro a ogni ora del giorno e della notte, il nostro pretendeva che spazzassimo pure il fondo delle scoline in fianco alla strada, non gli bastava che ne falciassimo l’erba – ti rimpacchettavano e spedivano indietro con tutta la famiglia. Altroché l’ecocidio di cui parlano alcuni, per i quali la palude sarebbe stata un ecosistema che avremmo dovuto ad ogni costo proteggere. E sì, no? Mo’ proteggevamo le zanzare e la malaria?
Come dice, scusi? che così però non vengono più neanche le poiane e gli altri uccelli migratori? Ma che vada in malora anche lei e le poiane. Adesso una poiana ha più diritto a vivere di me? Io vorrei vedere lei al posto nostro, se ci stava lei nelle Paludi Pontine con la malaria. Perché non se le alleva dentro casa sua le zanzare?
Comunque la bonifica non è che si sia fatta dalla sera alla mattina. Ci sono voluti dieci anni per prosciugare e sistemare tutto, da Cisterna a Terracina e dai monti al mare. Bonificavamo un pezzo alla volta e neanche tanto piano piano, ma proprio di corsa. E mentre già c’erano i coloni dentro i poderi nelle aree bonificate, contemporaneamente a valle c’era ancora la palude melmosa e tu correvi il rischio che gli operai – che stavano appunto a scavare i nuovi canali -ti morissero di malaria per le zanzare ancora vive e vegete nel
padule superstite. Nemmeno si sa con precisione quanti siano stati i morti per malaria durante i lavori e tanto meno quanti – presa la malaria qui – se ne siano poi tornati a morire a casa loro in Toscana da dove erano partiti, o anche dalla Calabria, Ciociaria, Sicilia, Bergamasca e tutta Italia.
Più di centocinquantamila furono gli operai impiegati da Opera e Consorzi, e non meno del dieci per cento – quindici o ventimila – debbono essere morti per malaria. Si davano il cambio, facevano un periodo di lavoro e poi subito scappavano con la poca paga a casa loro. E poi Dio vede e provvede. Quelli che invece – «Zac!» – li pigliava all’improvviso la terzana e restavano la mattina in baracca stesi sopra il letto a saltare con la febbre a quaranta, quelli li caricavano su una lettiga e via di corsa a morire a Velletri, in ospedale, perché non risultassero morti di malaria in palude. “Meningite” o “infarto”, scrivevano poi sui certificati di morte, e “Velletri”, non “in palude”, perché il fascio «la malaria l’aveva debellata». Ma che debelli, se poi invece la gente ci muore?
Quelli morivano a Velletri mentre a noi – sugli acquitrini – il fascio faceva spandere manti di carburo misto a sabbia e polvere di strada. Il manto polveroso restava per un po’ a galla e l’anofele – quando cercava di deporre le uova sull’acquitrino – non riusciva a penetrarlo e rimaneva fregata, le uova restavano a seccarsi nella polvere e addio figli. Ma non era con la polvere di strada che potevi debellare la malaria. Era poca roba. Funzionava un giorno o due. In America ci buttavano il petrolio. E quello sì che funzionava. Ma loro il petrolio ce lo avevano. Noi no, noi neanche per accenderci i lumi, si figuri per buttarlo sugli stagni. E la lotta contro le zanzare e la malaria l’abbiamo fatta con la polvere di strada, i pipistrellai, un po’ di «flit» – una specie di insetticida che spruzzavamo con la pompa a mano e un barattoletto attaccato in fondo; ma era più un ricostituente, una Ferrochina Bisleri, per le zanzare che ne andavano ghiotte e ci si ingrassavano come maiali – e soprattutto le carte moschicide che tutte nere pendevano dai soffitti. Oltre naturalmente alle
palette di fil di ferro e alle ciabatte per schiacciare al muro le zanzare, quando le trovavi.
Questa è stata in Agro Pontino la lotta antimalarica fino a tutti gli anni Quaranta e i primi Cinquanta – quando continuavamo ancora ogni tanto a prendere la malaria – finché non è arrivata la Seconda guerra mondiale con gli americani. Allora sì che è davvero finita la malaria, perché se al resto d’Italia hanno portato come si suole dire libertà e democrazia, a noi – che di libertà non ne avevamo mai vista e masticata tanta neanche prima del fascismo, anzi pure peggio – a noi gli americani hanno portato soprattutto il Ddt. Loro lo avevano appena inventato e non lo avevano ancora sperimentato su larga scala. Così quando sono arrivati qui hanno detto: «Provémolo qua!». Hanno riempito un paio di Dakota – certi apparecchioni loro – con tutti questi bidoni di Ddt e avanti e indietro per l’Agro Pontino finché non lo hanno allagato tutto quanto di Ddt. L’esperimento è riuscito – «Orca, se l’è riusìto!» deve avere detto a Truman il generale suo – e non s’è più vista una zanzara anofele in tutto il Lazio e neanche s’è più visto un ammalato di malaria, nemmeno a pagarlo oro. A Velletri hanno dovuto chiudere il reparto. Così gli americani – verificato che a noi cristiani non avesse fatto niente, perché il Ddt sarà anche non-biodegradabile ma sull’uomo non ha alcun effetto negativo; forse, chissà, ce l’ha positivo – gli americani ci si sono tranquillamente andati a disinfestare tutte le paludi loro: «Testato in Agro Pontino» hanno detto. Adesso il Ddt è vietato in tutto il mondo. Perché non è biodegradabile. Resta nel ciclo alimentare e non si dissolve più. Lo hanno trovato perfino nel tessuto adiposo delle foche al Polo Nord. Allora hanno detto: «Basta col Ddt, non si può più fare». Ma a noi ci ha salvati dalla malaria e se non era per il Ddt, noi non ci vivevamo in cinquecentomila su questo territorio.
[...]
Come dice, scusi? perché ci chiamassero cispadani e perché soprattutto il fascio avesse dato le terre prosciugate a noi – facendoci venire dall’Altitalia – e non a loro che erano già qui? A lei pare un’ingiustizia? Lei dice che il motivo forse è che quelli di queste parti non fossero abbastanza fascisti?
No, questo no. Erano fascisti come in tutta Italia. C’era il fascio locale fin dall’inizio dappertutto e s’erano fatti la marcia su Roma anche loro come tutti gli altri. Certo, pure loro prima avevano avuto i socialisti e le camere del lavoro. Ma come dappertutto, a un certo punto era cambiato il vento pure qui – oggi va di moda una cosa, domani un’altra – e tutti erano diventati fascisti. Né più né meno degli altri. Lei ha presente come ancora pochi anni fa – in tutto il Norditalia – erano tutti democristiani o comunisti e il giorno dopo tutti della Lega o berlusconiani? Se lei va a vedere uno per uno quelli che cucinano la bistecca, salsiccia e fagioli alle feste della Lega, la maggior parte li hanno già cucinati alle feste dell’Unità. Così va il mondo, che vuole da me?
Innanzitutto però a noi dissero che era per ripagare il Triveneto dei danni e dolori subiti nella guerra ‘15-18. Secondopoi, quelle nostre erano le zone più povere d’Italia, i più morti di fame e disoccupati che riempivano le navi degli emigranti per le Americhe. Chiusasi quella emigrazione – là non ci volevano più, esattamente come noi oggi con gli extracomunitari – da qualche parte ci dovevano mandare. Ci hanno mandato qua. Eravamo gli extracomunitari dell’Agro Pontino. E poi però – come le ho già detto – all’Opera servivano mezzadri o coltivatori diretti, che sapessero fare tutti i lavori e che risiedessero stabilmente sul podere. Questi qui invece erano abituati a tornare ogni sera al paese loro. Chi ce li faceva restare di notte – con la paura della malaria – appresso alle bestie nella stalla? La mezzadria in Italia era praticata solo in Toscana, Umbria, Marche e Valpadana. Nel Lazio – negli Stati della chiesa -non c’era mai stata, c’era solo e sempre stato il feudalesimo e il primo in assoluto che avesse introdotto la mezzadria nelle terre sue nel Lazio, a Magliano Sabina, era stato proprio il conte Cencelli. Anche per questo, forse, il Rossoni lo aveva consigliato al Duce per l’Opera combattenti. Ora però è anche evidente – come dice giustamente lei -che qui prima di noi non è che non ci fosse proprio mai stato nessuno. Le Paludi Pontine erano un inferno – un deserto paludoso-malarico – però ci stava pure qualcuno qua sopra, prima di noi. E questa è la verità. C’erano innanzitutto i cisternesi – i butteri – che a cavallo proprio come i cowboy andavano appresso al bestiame del principe Caetani o delle altre famiglie nobili romane, i Borghese, i Colonna, gli Annibaldi. Era tutto loro qua, tutto dei nobili e soprattutto dei Caetani. C’era però anche gente dei monti Lepini in palude. Questi in realtà – per la maggior parte – il mangiare se lo procuravano lassù in montagna. Quelli di Cori il grano lo piantavano a Tirinzania e fin sul monte Lupone. A Sezze idem: il frumento per tutto l’anno se lo facevano in montagna, ai Casali e nelle Valli di Suso, che vuol dire proprio «valli di sopra», sopra al paese. Non di sotto. Di sotto, in palude, ci venivano solo i morti di fame, i ricchi no – e neanche quelli non ricchi ma non proprio proprio disperati – a contendersi appunto fame e morte con la palude e la malaria. Però qualcuno ci veniva; a caccia di ranocchie, alla pesca di frodo nelle piscine, a provare a coltivarsi un campicello nascosto da qualche parte. E poi a raccogliere il legnatico e allevarsi qualche porco. I bassianesi – quelli di Bassiano – vantavano un diritto di proprietà secolare collettivo, chiamato università agraria, su parecchie terre della duna quaternaria, nella zona dove adesso c’è Borgo San Donato. Qui diverse famiglie -anche qualche centinaio di persone – risiedevano nei mesi freschi dentro le lestre, che erano gruppi di capanne pressappoco come i casoni nostri del Veneto, fatte di pali, rami, legni, canne ed erbe palustri. E qua i bassianesi ci piantavano il granturco. Ma soprattutto il guadagno loro – sempre se si può dire guadagno, perché non è che fosse proprio un pozzo di petrolio – le popolazioni dei monti Lepini lo facevano coi pecorai che ogni anno calavano dai monti della Ciociaria e dell’Abruzzo. Era la transumanza verticale. I pastori d’estate tenevano le greggi a pascolare in montagna, in altura, e a metà settembre le guidavano a valle: «Settembre, andiamo. È tempo di migrare./Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori / lascian gli stazzi e vanno verso il mare». Alla fine dell’inverno poi – quando in palude ricominciava a fiorire la zanzara anofele e sui monti, invece, iniziava il disgelo, le nevi si scioglievano e rifiorivano i nuovi e freschi pascoli – pecore e pastori ritornavano su: «Ci rivediamo a settembre». C’è ancora oggi – ad attraversare la piana dell’Agro Pontino dai monti fino alla duna quaternaria – una strada che si chiama appunto “strada dei Bassianesi” ed è quella che percorrevano i pastori nella loro transumanza dalla Ciociaria e dall’Appennino a qui e su cui si metteva, armata, la guardia dei Bassianesi a fargli pagare uno per uno ingresso, passaggio e pascolo di pecore e cristiani.
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Quello che più colpì mio zio Adelchi di Addis Abeba quando vi entrò per la prima volta alla testa delle truppe vittoriose subito dietro al maresciallo Badoglio, furono gli eucalypti. «Varda i calìps» disse al suo amico e compare Franchini di Cisterna che marciava al fianco suo – a passo romano e moschetto spall’arm – nell’ultima fila in fondo del plotone d’onore della compagnia Camicie nere “Littoria”, subito dietro alla bandiera di combattimento: «Varda i calìps come ch’i vièn!». Era il 5 maggio 1936 e loro stavano nell’ultima fila perché erano i più alti. «Zitto e marcia, compa’» gli rispondeva però Franchini, «che qua ci puniscono un’altra volta.»
«Ma guarda i calìps come sono grandi, Franchìn! Varda che bestie ch’i vièn.» Bestie appunto da quaranta metri d’altezza. Con dei tronchi che non ce la facevano due uomini grandi ad abbracciarli, e mio zio e il compare Franchini ci si provarono pure. Era tutto un bosco d’eucalypti Addis Abeba, una macchia scura in cui si nascondevano tra i tronchi le abitazioni e da cui emergevano in altezza – fra i rami e le fronde – solo i tetti e le coperture in lamiera dei palazzi più grandi e degli edifici pubblici.
Mai visti prima, ripeto, eucalypti così, perché da noi -appena arrivati – non erano che piantine d’un metro, messe a dimora il giorno prima. Anche i miei zii erano andati a piantarli per conto dell’Opera nei mesi invernali – pagati a giornata per integrare il reddito – lungo tutte le strade, fossi e canali. I primi furono proprio quelli in cima all’argine del Canale Mussolini, piante piccoline appunto, che facevano anche pena a vedersi, fragili e striminzite, con questi filini di foglie allungate come spine di pesce: «Ma sono foglie queste? Sono alberi?». Poi arrivi ad Addis Abeba e trovi queste bestie. «Orca!» aveva detto mio zio Adelchi.
Lì ce le aveva fatte mettere nel 1896 l’imperatore Menelik II Negus d’Etiopia – subito dopo averci sconfitto ad Adua - perché i ginepri che c’erano prima s’erano seccati. «Qua non ci cresce più niente» pare gli avessero detto i tecnici nostri qualche anno prima, quando ancora andavamo d’amore e d’accordo. Poi invece avevamo cambiato idea rispetto all’amore e all’accordo, lo volevamo tutto noi l’impero suo. Allora lui ci aveva bastonato e al posto dei tecnici nostri erano arrivati quelli inglesi: «Prova gli eucalypti» gli avevano detto. «Proviamo» aveva fatto Menelik, e questi eucalypti si erano adattati lì meglio che a casa loro.
Da noi nel 1935 – in Agro Pontino, quando zio Adelchi era partito per l’Africa Orientale – erano arrivati a quattro metri, che non è la fine del mondo ma che è comunque già un alberello, non più solo il cespuglio dell’anno prima. E tutti pieni di foglie odorose. E quando poi lui è tornato a casa due anni dopo, erano già più alti del podere: «Ma tu varda sti casso de calìps» diceva a tutti, ammirato, mio zio Adelchi.
In realtà l’unica che li guardasse ammirata quanto lui era l’Armida – la moglie di zio Pericle – per via delle sue api che andavano pazze per questi eucalypti. Non le aveva mai viste così. Un miele da cui esalava un profumo che era la fine del mondo. Tutti gli ormoni in ebollizione, le api. Se vedevano una rosa la schifavano, oramai. Solo i calìps. E l’Armida s’era dovuta far fare due arnie nuove da zio Iseo - che era il più bravo nei lavori di falegnameria – più una per la moglie di lui: «Ti insegno» le aveva detto, perché andavano d’accordo come due amiche, ancora più che sorelle. Insomma, arrivate qua e trovato questo eucalyptus cor le foglioline allungate e i fiori che sembravano pallini da caccia, le api erano impazzite dalla gioia, fottevano dalla mattina alla sera – «Brutte maiale», faceva l’Armida – e in capo a tre anni tutti gli alveari avevano figliato due o tre volte l’anno. Da una, adesso c’erano quattro arnie di legno con i tettucci ognuna d’un colore diverso, sotto l’argine del t anale Mussolini al confine del nostro podere 517. Lei però vada pure a chiedere in giro, non è solo un fatto di quantità, è che proprio non c’è – a questo mondo – un miele migliore di quello d’eucalyptus.
Oggi gli eucalypti si trovano dappertutto in Italia e perfino foreste intere, o filari e fasce frangivento che non finiscono mai. Ma ogni eucalyptus che lei trova disseminato anche nella landa più sperduta e deserta della Sicilia o della Sardegna, è un segno permanente e tangibile di quella che allora si chiamava «Era Fascista».
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Tornando però all’Africa, se lei permette, a noi avevano dato un podere, anzi due per meglio dire. Anzi tre e pure quattro o cinque, se contiamo i Dolfin, i Lanzidei e i parenti della nonna. E tu non ti volevi sdebitare andando in Africa? Abbia pazienza, qualche Peruzzi ci doveva andare in guerra, e quando è arrivato a casa nostra, il Barany ha trovato le porte aperte. Questo Barany era un tecnico dell’Opera, un perito agrario coi fiocchi. Era nato a Paullo, tra Lodi e Milano, ma era di origini ungheresi. Difatti si chiamava Hindart Barany di cognome: Camillo Hindart Barany. Suo nonno se ne era partito a suo tempo dall’Ungheria per venire in Italia a combattere insieme a Garibaldi. Partecipò alla spedizione dei Mille in Sicilia. Poi è rimasto qua e Camillo – il nipote – è stato anche lui garibaldino in Messico e nelle Argonne, al comando di non so quale nipote di Garibaldi, qualche figlio di Menotti o di Ricciotti, non so. Credo che in Messico abbiano combattuto con Pancho Villa o con Zapata. Fatto prigioniero poi nella grande guerra 1915-18, evase dal campo di concentramento austriaco, tornò a combattere e dopo la guerra passò nell’antiguerriglia contro i libici, poi legionario a Fiume, squadrista e Marcia su Roma. Un vero patriota, e tra una guerra e l’altra faceva l’agronomo. Aveva partecipato alla bonifica di Maccarese, poi a quella di Mussolinia di Sardegna – ora Arborea – e alla fine in Agro Pontino. Insomma, o stava in guerra o faceva bonifiche. Tertium non datur. Ed era pure di religione ebraica. Era ebreo. Ebreo-ungherese. Che i miei zii a vederlo così – e chissà come si immaginavano che dovesse essere invece un ebreo – si dicevano sempre tra di loro: «Ghètu visto ‘l Baranì? Non sembra gnànca un zudèo». In Agro Pontino poi, tra una badilata e l’altra, tra lo squadro d’un terreno e la messa a punto d’una qualche nuova tecnica colturale, il Barany aveva messo su con i coloni alcune attività al dopolavoro – una compagnia di teatro amatoriale che faceva quasi sempre commedie di Goldoni, un coro di canti folkloristici alpini – e soprattutto la locale e neonata compagnia Camicie nere della Milizia, la compagnia «Littoria». Pure i miei zii ne facevano parte e ogni sabato pomeriggio – il sabato fascista – andavano a fare le marce e le esercitazioni al Borgo o anche a Littoria. Lui gli diceva sempre: «Più siete in gamba qui, e più sarete in gamba nei campi. Avanti o camerati, eia eia alalà!». «Alalalà!» gli rispondevano i miei zii, sia perché erano fascistissimi come lui, sia perché gli volevano bene – e lui si sapeva far volere bene – e anche perché, non dico soprattutto ma certo nemmeno per ultimo, era l’agente agrario dell’Opera combattenti.
Comunque appena è scoppiata la guerra d’Abissinia e ha sentito la voce della patria, il Barany non ci ha visto più: «La Patria chiama». Ha buttato all’aria tutti gli strumenti, gli squadri, le livelle, le provette dell’Opera combattenti ed è corso ad arruolarsi per andare di nuovo a combattere insieme a tutta la compagnia «Littoria» sua. Venne a prenderci casa per casa, podere per podere uno per uno: «All’erta camerati, a conquistar l’Impero! Chi viene di voi?». «Comandi, qualcuno vegnerà» rispondemmo tutti quanti. Non è difatti che si dovesse insistere troppo per trovare volontari a Littoria. Anzi, parecchi li rimandarono pure indietro: «Siamo troppi». Quelli – le ripeto – ci avevano dato la terra e mo’ che la patria chiamava, tu manco volevi rispondere: «Volontario!»? Li abbiamo riempiti di volontari fino all’ultimo battaglione «M» della Rsi, fino alla X Mas. Ora lasci stare – le ripeto – che pure agli Abissini li chiamava la patria loro; anzi, eravamo noi che andavamo ad invadergliela. Ma noi credevamo così, punto e basta, è inutile stare ad insistere, il dramma della condizione umana è proprio questo: sei quasi perennemente condannato a vivere nel torto, pensando peraltro d’avere pure ragione. E noi mandammo zio Adelchi: «Toca a lù stavolta» perché era l’unico, dei fratelli grandi, che non fosse ancora sposato e con figli. E «Toca a mì stavolta» aveva detto subito lui stesso peraltro – prima ancora che i fratelli parlassero -perché qui c’era da lavorare dalla mattina alla sera e un po’ d’avventura, pensava lui, e vedere il mondo non gli avrebbe fatto male. E così quando il Barany venne a casa la sera a dire «Chi viene?», zio Pericle non lo fece neanche parlare e gli chiese solo: «Andrebbe bene l’Adelchi?».
«Certo che va bene l’Adelchi» rispose Barany, perché gli stava simpatico. E poi, diciamoci la verità, zio Adelchi era fatto proprio per la divisa. Ai Peruzzi le bestie – come si suole dire – ai Benassi i trattori, agli Adelchi i galloni. A zio Adelchi la divisa era sempre piaciuta. Fin da bambino non aveva fatto che dire alla madre, mia nonna: «Da grande voglio diventare carabiniere». O non so se fosse stata proprio lei, invece, a dirgli da piccolo: «Ah, tu bisogna proprio che fai il carabiniere». Lui era il cocco della nonna, il preferito. Lei se lo ricorderà sicuramente, era alto e moro moro. Nella nostra famiglia o biondi o mori – alternati quasi ogni due anni, maschi e femmine – un biondo ed un moro, un biondo ed un moro: zio Pericle biondo e zio Adelchi moro moro. E anche da piccoli non è che si prendessero molto, lo riempiva di pugni in testa mio zio Pericle, che invece era legatissimo a zio Iseo, quello venuto subito dopo zio Adelchi. La forza d’un leone però ce l’aveva anche zio Adelchi, e le spalle ampie, il sorriso largo sui denti bianchi, il viso perfetto con le ciglia scure, i capelli neri foltissimi col ciuffo ad onda che portava sempre da una parte – una criniera appunto, sempre curata e lucidissima di brillantina Linetti – e lo sguardo allegro e fiero che diceva al mondo: «Mondo, son qua per far contento te». E con questo sguardo -diceva mia zia Bìssola – pare che fosse uscito direttamente, già a suo tempo, dal ventre di sua madre. Come si faceva a non innamorarsene? Ora zio Adelchi lo sapeva benissimo, naturalmente – e lo sapeva benissimo anche mia nonna – che non era lui il primogenito. Il primo maschio da noi – quello in cui immediatamente dopo mio nonno risiedeva la massima potestas -era zio Temistocle, e il fatto che sua moglie non piacesse a mia nonna era secondario. Non le piaceva però se la teneva, era lei – volere o volare – la donna che avrebbe preso il suo posto. Poi appena arrivati qui e avuti due poderi e mio zio Temistocle il suo tutto per lui, mia nonna non ci aveva pensato un attimo a dirgli: «È il tuo e fai tutto per te, per parte tua». Lui aveva pure tentennato: «No, no, mamma. Siamo una famiglia sola, siamo pure tanti, continuiamo a fare tutti insieme una famiglia sola». «No, no, è giusto così» e mia nonna dentro di sé era al settimo cielo, perché con la moglie di Pericle invece andava d’amore e d’accordo, come ci andavano anche tutti i cognati eccetto le femmine. E così zio Temistocle aveva fatto famiglia per conto suo e a quel punto – come è giusto che fosse – subito dopo mio nonno la potestas era passata a zio Pericle, senza neanche bisogno di dirlo. Lo sapevamo già tutti. Lo sapeva quindi pure zio Adelchi di essere solo il terzo maschio, e mai gli è passato in mente di porlo in discussione. Anzi, quando appena divisi con zio Temistocle, zio Pericle aveva detto: «Va bene, mamma, adesso siamo qui, e terra nuova vita nuova. Da oggi in poi tutti i più giovani bisogna farli studiare, debbono diventare qualcuno, perché nessuno possa più imbrogliare i Peruzzi come hanno fatto gli Zorzi Vila», subito zio Adelchi aveva fatto cenno di sì, che lui era d’accordo. Pure il nonno da un canto diceva di sì con la testa. Solo mia nonna provò a dire: «Ma i schèi? Quanto ne costerà? Come faremo?».
«Faremo, faremo!» disse subito zio Adelchi, manco l’idea fosse stata la sua.
«E se n’i gà la testa?»
«Gliela faccio venire io a calci.»
E fu così che mandarono i miei zii più giovani a scuola. Quando stavamo su, sì e no che si faceva la seconda o terza elementare. Invece qui – finite le elementari al Borgo – ci mandarono tutti i giorni a Littoria in bicicletta, creature di dieci o dodici anni come zio Cesio e zia Ondina, sotto l’acqua d’inverno. E quando facevano storie, davvero zio Adelchi ce li mandava a calci: «L’è pel vostro bèn, desgrassià».
«Ma mì ago fredo!»
«Viaaa!» mandava uno strillo acuto allora, perché quando strillava – non so se gliel’ho detto – la voce gli si faceva aguzza.
[...]
Come dice, scusi? che il Barany però era un fascista?
Ho capito. Però è sempre un mio Antenato e quella notte che è caduto c’era pure mio zio Adelchi con lui sull’Amba Aradam. O meglio, non proprio sopra ma sulle falde. Sopra c’erano ancora gli etiopi – e tutto intorno – e se mio zio diceva di non avere mai visto i gas, diceva però anche che quella notte sull’Amba Aradam, nascosto in una fossa col compare Franchini, aveva sentito a un certo punto, a un rapido mutare del vento, un forte e persistente puzzo d’aglio e di cipolla che, lei sa, è l’odore appunto dell’iprite.
[...]
Erano passati tre mesi dall’attentato e mio zio Adelchi e il compare Franchini stavano tranquilli negli acquartieramenti. In un giorno di maggio però li hanno caricati sui camion e in serata – insieme ai colleghi loro – hanno circondato Debra Libanos, che era costituita da due grandi chiese in muratura e un migliaio di tucul in cui abitavano i religiosi. Nei giorni seguenti hanno fatto tutto un mucchio di questi preti, sottopreti, vescovi, abati, diaconi, seminaristi, studenti di teologia, chierichetti, monache, suore, educande e qualche pellegrino, e ne hanno portata una parte sulla riva di un canyon lì vicino – nella piana di Laga Wolde – in fondo al quale scorreva un fiume che era quasi secco. Li hanno fatti mettere in fila sullo strapiombo e con le mitragliatrici li hanno falciati tutti. Poi sono passati a dare i colpi di grazia, una spinta e giù nello strapiombo. Era il 21 maggio 1937 e alle quattro del pomeriggio lì da loro -da noi saranno state le tre – era tutto finito. Mio zio stava in un plotone di guardia messo di fianco alle mitragliatrici e doveva sparare con il moschetto a quelli che eventualmente provassero a scappare.
«Ma questi sono preti, compa’» faceva il povero Franchini.
«Sì, ma i xè rètici! Non l’hai sentito il cappellano? Tasi e spara Franchìn, non star farte sentire che qui ne cópa a nantri.»
Quelli avanzati invece – l’altra parte che era rimasta sotto sorveglianza a Debra Libanos – li abbiamo portati cinque giorni dopo a Engechà, verso Debra Berhàn, dove avevamo già scavato con le ruspe due grandi fosse. Ce li abbiamo messi davanti – erano quasi tutti diaconi questi: ragazzini, giovani seminaristi – e anche loro con le mitragliatrici e via.
«Ma questi so’ preti compa’, so’ chierichetti» continuava a fare piano piano, sconsolato, Franchini.
«Tasi Franchìn, tasi, maladéto!» imprecava mio zio.
L’avessero fatta a noi cattolici una cosa così, staremmo ancora a pregare tutti i giorni in piazza san Pietro. Li avremmo fatti tutti santi e io non la vorrei disilludere, ma guardi però che tra portare la democrazia in giro sulle canne dei fucili e portarci gli imperi, non c’è poi tanta differenza. Pure il Duce diceva di farlo per il bene loro: «Agh portèmo la civiltà».
Ora poi – come lei sa – in quell’impero non trovammo un solo chilo di ferro o di carbone, neanche una materia prima, non parliamo del petrolio. Petrolio ce n’era quanto ne avremmo voluto in Libia, ma non ci riuscì mai di trovarlo. Lo trovarono solo dopo. E anche di terra per farci emigrare i contadini ne trovammo quasi quanta l’oro il ferro il piombo, ossia niente. Le terre fertili erano poche, la maggior parte era pietraia. Dia retta a me: la prossima volta che l’aquila imperiale – con tanto di Imperium tra gli artigli – si rimette a svolazzare sui colli fatali nostri, ci conviene chiamare a raccolta l’Arci-caccia e farle sparare subito come al peggior colombaccio.
[...]
In Africa Orientale non è che fosse andata meglio che in quella Settentrionale. Subito dopo l’offensiva nostra difatti, gli inglesi avevano fatto affluire dall’India e dal Sudafrica rinforzi di uomini e mezzi. Truppe fresche e ben equipaggiate. Noi avevamo trecentomila uomini lì. Loro sessantamila. Ma non c’era paragone. L’aviazione nostra era rimasta indietro non solo come velocità, manovrabilità ed armamento dei velivoli; ma anche proprio come numero, perché molti dei vecchi aeroplani di Balbo – divenuti oramai inutilizzabili per l’usura – non erano stati sostituiti. E così le truppe a terra. Eravamo stati i primi a fare una guerra meccanizzata in Africa, usando autocarri e carri armati; ma pure quelli erano rimasti gli stessi. Anzi, non avevamo nemmeno i ricambi di gomme e camere d’aria. I pezzi d’artiglieria erano quasi tutti superati e il munizionamento risaliva in buona parte al 1918. Molte granate – una volta sparate – poi non esplodevano. Le lanciavi e «Puf», niente, non succedeva niente. Gli inglesi invece arrivarono armati fino ai denti e con tutte le armi e gli armamenti all’ultimo grido. Gli mancavano solo i Ray-Ban. Noi a piedi coi moschetti e loro con un mare d’aerei che li coprivano dal cielo, e in terra carri armati, autoblindo e camionette fuoristrada – le antesignane della Land Rover – con tanto di cannoncino e mitragliatrice. “Gazelle Force” la chiamavano. Nel gennaio del 1941 sferrarono un attacco simultaneo da nord e da sud. Erano sessantamila, le ripeto. Noi trecentomila. Ma trecentomila pellegrini. In Africa Orientale non abbiamo potuto chiamare in soccorso i tedeschi. Non potevano arrivare. Suez era chiuso anche per loro. Se no avremmo allungato l’agonia anche lì. Non arrivò nessun soccorso e neanche più un rifornimento dalla madrepatria. Resistemmo il più possibile e ci battemmo anche con valore. Il duca d’Aosta si asserragliò sull’Amba Alagi e resistette fino al 17 maggio 1941. Quando ci arrendemmo, gli inglesi ci concessero l’onore delle armi.
Il Duce disse: «Ritorneremo! L’impero sta là, è nostro e nessuno ce lo tocca. Mo’ vinciamo la guerra in Europa, gli spezziamo per sempre la schiena e poi andiamo lì e ce lo ripigliamo».
Che le debbo dire? Noi davvero gli credevamo ancora. Certo c’era il dispiacere e soprattutto il pensiero e l’ansia per quelli che erano lontani e di cui non si avevano notizie. Mica c’era internet allora – o i telefonini satellitari – e la posta aerea, lei capisce, se la supremazia inglese era totale non poteva certo passare. A un certo punto anche le comunicazioni radio per la truppa erano saltate. Mesi e mesi senza sapere niente. Solo i bollettini di guerra e i proclami del Duce: «Ritorneremo!». Ma che fine avessero fatto i miei zii, solo Dio lo sapeva, diceva mia nonna.

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Lettura di Sciascia in biblioteca

5 Marzo ore 20,30, Biblioteca Castiglione delle Stiviere

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