Il giorno in cui decisi di diventare una persona migliore - Karen Duve

>> domenica 26 maggio 2013

La riunione del gruppo lettori si è tenuta questa volta in un luogo insolito: a tavola in un ristorante vegetariano/vegano. L'occasione è scaturita dal libro del mese Il giorno in cui decisi di diventare una persona migliore che affronta il tema dell'alimentazione in modo esperenziale. L'autrice, infatti, seguendo un po' le orme del documentario Super size me di qualche anno fa, decide di sperimentare su se stessa tre comportamenti alimentari differenti e di tenere quindi un diario su cui annotare sensazioni, valutazioni e conoscenze che acquisisce in questo cammino. 
Per due mesi sarà vegetariana, ponendo grande attenzione alla provenienza bio degli alimenti,  per due mesi sarà vegana, sposando completamente la filosofia di rifiuto dello sfruttamento degli animali che consiste anche nel rinunciare a scarpe e vestiti in pelle, e per due mesi sarà fruttariana, la forma più integralista delle diete perchè il rispetto viene allargato ad ogni forma vivente comprese quindi le piante i cui frutti sono consumati quando questi cadono naturalmente senza causare loro danno o stress. Alla fine del percorso sarà più matura e in grado di fare una scelta alimentare più consapevole. 
Il libro mi è piaciuto per tutte le informazioni sulle pratiche alimentari alternative che hanno una motivazione etica ma anche salutistica. A rigurado è molto interessante l'approfondimento sulle modalità di produzione degli alimenti in cui viene affrontato il tema degli allevamenti intensivi, di come gli animali sono trattati prima che si compia il loro inevitabile destino. Immaginare migliaia di polli stipati in gabbie che non consentono loro di muoversi se non zampettare nel loro stesso sterco porta ad interrogarsi sulla provenienza e qualità di ciò che mangiamo. E nel nostro paese non vi è molta informazione a riguardo.
Dopo la discussione sul libro, la cena: abbiamo assaggiato piatti vegetariani e vegani, mescolando portate dei due menù che il ristorante presentava giustamente distinti: crepes di erbe, polpette di fave novelle con contorno di verdure dell'orto (c'era anche il prezzemolo a foglia lunga) e maionese vegana, torta al rabarbaro. Tutto buono e gustoso anche se ciò nonostante molti di noi non riunceranno a carne e pesce :-)

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[SONDAGGIO] - Quali sono i film più belli del libro da cui sono tratti

>> sabato 20 aprile 2013




Risultati aggiornati al 28 Aprile 2013

Antonio
Le ali della libertà
Il miglio verde

Salvo
Io non ho paura

Barbara
Arancia meccanica

Graziella
Cronaca Familiare
Il Gattopardo

Michele
Il Signore degli Anelli

Simona
Orgoglio e Pregiudizio (versione 1995)
Chocolat

Roberta
Colazione da Tiffany
Fight Club
Espiazione
Il Signore degli Anelli
LA Confidential

Paola
Non ti muovere
Come un uragano

Daniele
Chocolat
Il miglio verde
Il Gattopardo

Irma
La ragazza con l'orecchino di perla

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L'Ultimo ballo di Charlot - Fabio Stassi

La serata che il gruppo lettori ha dedicato a L'ultimo ballo di Charlot è stata monopolizzata dalla discussione sui 5 Libri più belli letti nella propria vita. Ognuno di noi, spinto dalla curiosità ha chiesto informazioni su libri non conosciuti inseriti nella lista e ne è nato una vivace dibattito che ha portato a condividere ricordi, emozioni, conoscenze e da cui tutti siamo usciti più arricchiti.
Il libro di Stassi è quindi passato in secondo piano perchè ritenuto un po' leggero e non rispondente come biografia alla vita reale di Charlie Chaplin.
A me il libro è piaciuto per l'idea originale di far vivere la biografia del grande comico come se fosse una auto-biografia, con il racconto in prima persona, e per alcune storie-nella-storia che riporto di seguito (l'allenamento del pugile, l'annuncio di lavoro e il primo film, l'acrobata Estzer, la nascita del personaggio di Charlot,...), appassionanti e a tratti commuoventi.


Per diventare l'attore che volevo essere, dovevo imparare a stare nella testa della gente, a cavarmela da solo, a guardare. A far nascere ogni movimento dall'osservazione della vita. Non ci sono scorciatoie. Se volevo essere credibile, dovevo restituire nella finzione ciò che in qualche modo era stato vero per me. I trucchi che conoscevo non servivano da questo lato dell'oceano.
Fu quel giorno che diventai Charlot, the Tramp, il vagabondo con la bombetta e il bastone di bambù, e non nel magazzino di uno studio cinematografico, tre o quattro anni dopo. La tournée che feci allora in giro per l'America, nei miei abiti trasandati, non fu una capriola da un teatro all'altro, come ho sempre lasciato credere, ma un lungo viaggio solitario tra gente che campava d'espedienti o che non campava affatto, nel cuore di un'umanità stralunata, eccentrica e miserabile. La vita che vivevano gli altri attori, lontano da tutto, concentrati soltanto sulla loro professione, non m'interessava. In pochi mesi appresi una grande quantità di altri mestieri, oltre a quelli che avevo già imparato a Londra, e conobbi
un numero imprecisato di situazioni e di temperamenti. Si può dire che feci scorta di idee per tutto il resto della mia carriera. La mia pelle acquisì più colori di una seppia o di un camaleonte. Fu l'apprendistato dei miei vent'anni e combaciò perfettamente con quello che avevo intrapreso durante l'infanzia.
Prima che il cinema si mettesse di traverso sulla mia strada, o io sulla sua, non l'ho ancora capito bene, pensai anche di allevare maiali e produrre salsicce. Sfruttando la mia statura, lavorai come fantino in un paio di ippodromi del Texas e del New Mexico, raccolsi tulipani nelle ore di luce e boxai in almeno una decina di palestre degli stati del Sud, un'attività dura ma redditizia: mi pagavano per prendere pugni per tutto l'incontro e andare al tappeto solo all'ultima ripresa.
Osservavo una dieta ferrea, viaggiavo in treno e mi lavavo molto, i denti soprattutto, per essere sempre fiero di ridere, anche se spesso cadevo preda di irragionevoli scoppi di collera e di malinconia. Quando capitava, ma solo l'ultima notte in cui dormivo in una città, giocavo a carte. La mia meta era la California. A Las Vegas provai persino a vendere aspirapolveri multiuso che si trasformavano in frullatori. Un mio brevetto. Mi presentavo sempre allo stesso modo, con il sorriso più largo e sfrontato che conoscevo: Buongiorno, dicevo, mi chiamo Charlie e ho un'idea che vi farà ricchi. Solo due immigrati tedeschi con un occhio strabico per uno e una piccola impresa di elettrodomestici mi proposero di produrre in serie il prototipo. Sono ancora convinto che se l'avessero fatto per davvero, il mio nome avrebbe sostituito per sempre quello di William Hoover, il re degli aspirapolveri.
Nelle pause, suonavo il violino. Avevo riparato la tavola armonica con una colla da ciabattino simile ai mastici che usava mio nonno e montato le corde a rovescio, perché sono mancino; in ogni città che visitavo rubavo qualche segreto ai musicisti locali e lo ripetevo sullo strumento. Non ci crederai, Christopher, non ci credo neppure io, ormai, ma allora feci anche l'imbalsamatore, l'allenatore di pugili e il tipografo. 
[...]
Mi trovo molto più a mio agio in una palestra che in una chiesa, signore, dissi, ed è per questo che sono entrato qua. Avevo la barba sfatta e la faccia stanca. Webster Duncan si strofinò una guancia con una mano stringendo la mascella. Da quant'è che non dormi? Non è facile dormire con lo stomaco vuoto: negli ultimi tre giorni non ho mangiato che una zuppa. Non mi stai prendendo in giro, vero? No, signore, sinora le ho detto solo la verità. Allora facciamo questo patto, noi due: io ti faccio portare un piatto di cavolo e manzo e ti lascio dormire nello spogliatoio, per stanotte. Tu domani ti lavi e togli il disturbo, d'accordo? D'accordo, dissi, sentendo un groppo di commozione stringermi la lingua.
Passò un mese prima che mettessi un dito fuori da quella palestra. Webster mi prese come tuttofare e quando mi vide all'opera con i guantoni e un paio di scarpe leggere decise che avevo un mucchio di cose da insegnare ai suoi ragazzi.
L'atleta più promettente che mi trovai tra i piedi fu un sedicenne con un pizzetto appena accennato sul mento e una cera pensierosa. Lo chiamavamo Balbetta Groogan, perché aveva un difetto di pronuncia e terminava a fatica una frase. Il suo fisico era del tutto inadatto per la boxe: le braccia corte, il torace stretto e le gambe più friabili di due grissini. Ma quando tirava di destro, gli potevi contare le vene gonfie sul collo magro. E un'occhiata gelida, dietro i pugni chiusi, che ti seccava le ossa, come se fosse stato assalito da una tristezza improvvisa e ora tutta questa tristezza volesse uscire dal suo corpo con una rabbia che non si poteva contenere.
Aveva un debole per i passerotti. Non so come facesse a catturarli: con delle molliche di pane, credo. Quando entrava in palestra ne portava sempre qualcuno nelle tasche, che accarezzava con i pollici. Li consegnava a Webster con riluttanza, prima degli allenamenti. Apriva le sue grandi mani, ch'erano due bestie calde, e dentro ci dormivano questi uccellini, con la noce del collo rotta, come delle marionette di legno. I suoi incontri li avrebbe potuti vincere solo con gli occhi, pensai la prima volta che mi venne incontro sul ring, con la guardia alzata. Un terrore irragionevole si propagò nelle mie braccia e a distanza di così tanto tempo non saprei ancora spiegarne il motivo. Balbetta Groogan ti faceva prendere coscienza di tutti i tuoi limiti e del luogo in cui ti trovavi in quel momento, del poco che nella vita avevi combinato sino allora e del niente che avresti combinato dopo. Questo ti squagliava irreparabilmente il coraggio. Era una dote che hanno soltanto pochi pugili. La molla che li fa ballare su un tappetino di gomma è diversa dalla musica che muove tutti gli altri. Non si tratta né di soldi, né di vanagloria, come per molti campioni. Sono sentimenti difficili da nominare, una spinta che viene da una profondità remota e riguarda la sconfitta piuttosto che la vittoria. I tipi alla Balbetta Groogan sono rari come un'azalea in un campo di papaveri. Il pubblico li riconosce sempre e se ne innamora, perché vede la fragilità prima della loro forza, e ogni volta che vincono gli sembra di assistere a un miracolo, a una ribellione all'ordine naturale delle cose. È come nelle comiche. Ma alla lunga, e loro stessi lo sanno per primi, la fragilità che li modella riprende fatalmente il sopravvento. Allenarli non è facile. Serve molta attenzione: non valgono le regole comuni. Ci vuole qualcuno che gli insegni a prendersi cura di sé. Questo fu il mio compito, per qualche settimana. Insegnare a Balbetta Groogan a difendersi, soprattutto dal proprio sconforto. Mi diedi una disciplina anch'io: mangiavo pane integrale, dormivo le ore necessarie alla mia salute e tenevo i muscoli in esercizio. Per la prima volta nella vita, dovevo essere da esempio a qualcuno. Ma non avrei potuto convincere a lungo neppure il più sprovveduto di quei ragazzini senza sale che giravano in palestra con i miei trucchetti da gabbamondo.
Webster Duncan apprezzava tuttavia il mio lavoro, perché era un uomo buono e aveva gli occhi di pane. Qualche volta veniva fuori dal suo ufficio per osservarci.
Io obbligavo il nostro campione a boxare con un paio di zoccoli sulla sabbia e gli mostravo tutti i movimenti che avevo imparato con gli Eight Lancashire Lads. Una miniera di finte che avrebbero disorientato qualsiasi avversario. Mi divertivo a nascondermi dietro di lui e a ricopiare i suoi stessi passi. Roteavo le braccia, mi ci aggrappavo da dietro, lo colpivo a tradimento. Si fermavano anche gli altri atleti, e scoppiavano a ridere. Volevo che saltasse come le sillabe delle parole che gli singhiozzavano in bocca per insultarmi senza trovare la strada. Nessuno, dopo di lui, seppe ballare a quel modo sopra un ring e bisognò aspettare Cassius Clay per rivedere qualcosa di simile. Un vero sand dancer. Certo che hai dei metodi originali, commentava Webster esaminando tutti i dondolamenti di Balbetta.
Sì, sapevo anche essere scorretto, se necessario. Prima che lo facesse qualcun altro, gli rovinai il profilo con un montante non annunciato e dopo lo mandai a piagnucolare davanti a uno specchio. Era quello che volevo: che sputasse la sua anima troppo giovane e delicata nel lavandino di uno spogliatoio e tornasse in palestra più nudo e sgualcito di un neonato. Non fare mai tramontare il sole dell'ira sul tuo orizzonte, gli dicevo, la rabbia è un dono.
Per giorni interi, lo sfinii con la corda e le finte di spalla e lo mandai a correre per il quartiere. Presto cominciò a somigliare a un autentico boxeur, con la sella del naso marcata e gli zigomi sporgenti. In capo a tre settimane eravamo giunti a buon punto e Balbetta Groogan era quasi pronto per 1a benedizione della campanella, come si dice in gergo. Mancava solo qualche dettaglio. A un mese esatto dal giorno in cui vi ero entrato uscii da quella palestra per andare, insieme a Webster e alla nostra giovane promessa, a un match di esibizione di Jack Johnson, il figlio di schiavi più famoso del  pianeta: un negro che ammirava Napoleone Bonaparte, amava l'opera italiana e quell'estate, alla quindicesima ripresa, di fronte a ventimila persone, aveva battuto quel latticino diJames J. Jeffries a Reno, in N evada. Anche il pugilato, a suo modo, era un circo di creature fuori misura, e come tutti i circhi richiamava sempre una gran folla. il cowboy di due metri che qualche anno dopo tolse a Johnson il titolo di campione del mondo avrebbe terminato la carriera al Wild West Show di Buffalo Bill. Ma quella sera sembrava che tutta San Francisco fosse venuta a rendere omaggio al gigante di Galveston.
[...]
Anche se mi ero licenziato dalla tipografia di Willie,decisi che non avrei smesso di coltivare la mia istruzione, che era ancora molto scarsa. Da quando non li facevo più, i libri iniziai a comprarli dai rigattieri. Ho avuto sempre un debole per le bancarelle piene di volumi ingialliti che odorano di cantina. Ora che conoscevo tutto il lavoro che c'era dietro, veder li abbandonati su un tavolaccio mi dava dolore, come un'ingiustizia. Sceglievo e mi facevo scegliere da quelli che costavano di meno - di solito vecchi trattati di filosofia o manuali di yoga - e li leggevo furiosamente, da capo a piedi, senza nessun ordine perché non avevo maestri. Lettere, dialoghi, frammenti, diari di seduttori ... I nomi di Epicuro, di Platone, Kierkegaard, Nietzsche mi divennero familiari come dei compagni di bevute. Molto più rapidamente di ogni previsione, però, spesi nei libri tutti i soldi che avevo guadagnato in quei mesi. Il giorno in cui avrei dovuto saldare l'affitto, in tasca mi erano rimasti soltanto dieci centesimi. Al signor Hood lasciai in pegno la valigia e tutte le mie cose, ma non il violino. Non so che farmene dei tuoi libri, mi disse. Ti do un giorno, altrimenti non rivedrai le tue mutande per il resto della vita.
Me ne andai a camminare senza meta per Carson Street. Quando mi sentii stanco, mi fermai su una panchina e analizzai la situazione. Un filare di torce, tra gli alberi, illuminava una piazzetta. Tutti i tavolini dei ristoranti erano affollati. La gente sembrava felice. Chissà cosa voleva dire sedersi a un ristorante senza avere controllato prima, con cura, il prezzo di ogni piatto e stabilito quale si può ordinare e quale no, nella migliore delle ipotesi. Ogni voce di donna, ogni tintinnio di bicchiere, mi provocavano un rimpianto lancinante per tutto ciò che non avrei mai provato. Avevo di nuovo lo stomaco vuoto e stavo quasi per mettermi a piangere quando vicino a me si accomodò un negro. Una folata di vento gli sollevò i capelli bianchi come se fossero stati piume. Da un lato, gli mancava la metà di un orecchio. Tuo padre è contento di te, amico? disse. Mi vennero i brividi. Che diritto aveva quell'uomo di farmi una domanda simile? Non so nemmeno perché, ma gli risposi.
Mio padre è morto, dissi. Il negro se ne restò in silenzio, ma non smise di fissarmi. Il suo fiato imperlava l'aria di alcol etilico e io non avevo mai visto degli occhi cosl gialli. Mi spazientii e gli diedi le spalle. Quell'ubriacone doveva essere stato mio padre in persona a mandarmelo, dall'inferno o da qualsiasi altro luogo fosse finito. Ma era improbabile: quando serviva, mio padre non c'era mai stato, e ora mia madre cuciva guanti in un manicomio, picchiava la gente e vedeva il Giordano scorrere sul pavimento ...
Il negro continuò a studiarmi. Ero già in piedi quando mi fermò con un braccio. Aspetta, amico, voglio farti un regalo. Oggi deve essere il tuo giorno fortunato, prendi questo. Tirò fuori dalla tasca un biglietto tutto sgualcito, lo stirò con due dita, poi me lo diede. Era un ritaglio di giornale, che si leggeva appena. Un'offerta di lavoro. Il negro lanciò intorno a sé una sonora risata. Guardai meglio. La Levy Fritz Mutoscope Company, c'era scritto su quel brandello di carta, cercava uno scrittore di didascalie. Mai letta un'inserzione più bizzarra di quella, da quando spulciavo gli avvisi economici. Se avessi la tua età, mi precipiterei. Io sono troppo vecchio per loro, ma tu no. Devi solo stare attento. Lo vedi questo orecchio mozzo? È stata una tigre a strapparmi la parte che mi manca. È un miracolo che mi abbia lasciato vivo. Stavo perdendo il mio tempo: quell'uomo era pazzo. È successo quando lavoravo al circo Barnum & Bailey, come domatore. Dei circhi non ti puoi fidare, prima o poi ti strappano il cuore. A me è andata bene. Ma il cinematografo è il circo più grande che sia mai esistito, ci succhierà a tutti l'anima. Okay, dissi, ora torna a casa, a dormire. La gente come me non ce l'ha una casa. Cercai i miei ultimi dieci centesimi nella giacca, ma inutilmente. Mi dispiace, mi devono essere caduti in un buco della tasca. Il negro alzò le spalle. Gli presi la mano e gli chiusi la moneta nel pugno. Scherzavo: sono tutto ciò che ho, dissi.
Anch'io, adesso. Ci mettemmo a ridere, come due bambini. Un'ultima cosa, prima che te ne vai. Non fidarti di quello che si dice in giro: il cinema non possono averlo inventato i bianchi. Lo so, amico. I denti gli scintillarono. Bene, disse. Ricordati che tutte le coincidenze hanno un'anima. Non lo scorderò. Mi strinse il braccio e i suoi grandi occhi gialli mi seguirono fino alla fine della strada. Era il mio ultimo nichelino e ci avevo comprato l'annuncio di un giornale che suonava come un biglietto della lotteria.
CERCASI SCRITTORE DI DIDASCALIE
PER IL CINEMATOGRAFO
LEVY FRITZ MUTOSCOPE COMPANY
TAMARIND AVENUE
Lo levai dalla tasca e rilessi il nome della società che offriva quello strano lavoro e l'indirizzo. Tamarind Avenue. Beh, per quella sera non avevo niente in programma, tanto valeva dirigersi da quella parte. Naturalmente, la sede della Levy Fritz Mutoscope Company si trovava dall'altro lato della città e Los Angeles, già allora, era una città troppo grande anche per delle gambe allenate come le mie. Ci impiegai quasi tre ore e non l'avrei mai trovata se una comitiva di irlandesi non mi avesse scortato per un suburbio di case basse e grigie, cantando a squarciagola una ballata che aveva a che fare con l'indipendenza della loro isola e il Regno Unito. Fossi stato inglese, mi disse uno, non saresti tornato indietro, stasera.
Lo salutai con le poche parole francesi che conoscevo. Tamarind Avenue non aveva niente di esotico o di tropicale. Odorava solo di morchia e di campagna, di buio pesto. Ne percorsi un tratto, attraverso una nebbiolina umida che mi bagnava il naso. I muscoli mi pesavano come se fossero stati di calcestruzzo, ma di tanto in tanto si aprivano nel cielo piccoli bagliori luminosi che mi distraevano.
[...]
Per riassumere una scena con una sola frase, bisogna essere veloci, asciutti, dissi, il pubblico deve capire con un'occhiata cosa è accaduto o sta per accadere, dove si svolge l'azione e quali sono i rapporti tra i personaggi. Molto è affidato al regista e agli attori, ma buona parte del successo di un film dipende anche da questi dettagli.
Andavo a braccio, sperando che quel mestiere fosse talmente nuovo che nessuno sapesse ancora in cosa consisteva. Ma era come pattinare sul ghiaccio. E poi non credevo affatto che la pantomima avesse bisogno di istruzioni. La pantomima è una danza. Avrei dovuto propormi come attore, ma il ricordo del fiasco di New York ancora mi bruciava la pianta dei piedi come un ferro da stiro pieno di ruggine. Ho licenziato il tuo predecessore, disse Mister Fritz, perché aveva commesso degli errori di grammatica al primo quadro. Nessuno di noi se ne era accorto, presi da tutto il resto. La gente ha cominciato a ridere e non ha più smesso. Doveva essere un film serio: è diventato una comica. Con la grammatica come te la cavi? Benone, Mister Fritz, ho corretto bozze in una tipografia e la letteratura è sempre stata la mia passione. Non sciupiamo altro tempo, allora. Abbiamo in progetto un film tratto da Dickens. David Coppeifield. Conosci la storia? A menadito.
Saresti in grado di cominciare a lavorarci sopra? La mia idea è di partire dalle didascalie, questa volta.
Il primo passo è mio? Potrebbe. Non risposi subito. Non volevo fargli capire quanto mi interessasse quel lavoro. Ma a Mister Fritz serviva qualcosa di più di un semplice scrittore di cartelloni, voleva solo pagarlo poco. Puntuale arrivò la sua proposta. Sedici dollari la settimana ti vanno bene? Sono venuto in California perché sarà qui che il cinematografo metterà le sue radici. Ma a sedici dollari la settimana per me non verrà su nessun raccolto. Sei un tipo intraprendente, Chas. Nelle questioni finanziarie lo sono sempre stato. Quanto vuoi? Venticinque dollari e comincio subito. Gli altri se la prenderanno se ti pagherò cosi tanto. In fondo, nemmeno ti conosciamo. E allora lei mi assuma a sedici dollari, con un mese d'anticipo. Ma alla consegna del suo Copperfield mi aumenta lo stipendio a venticinque. Mister Fritz si appoggiò allo schienale. Credetti che la sedia sarebbe crollata da un momento all'altro. Le sue scarpe nere e lucide da uomo d'affari scricchiolarono.
D'accordo, disse. Mi alzai e mi esibii nel migliore inchino di cui fossi capace.
La biblioteca di Los Angeles aveva delle larghe tende azzurre. La sala di lettura, a forma di emiciclo, ricordava un teatro. Io sedevo sempre allo stesso posto, nel tavolo sotto la prima finestra, e cercavo di inventarmi un metodo di lavoro. Avevo chiesto tutto quello che possedevano su Dickens e David Copperfield e una bibliotecaria a cui piaceva sentirmi parlare di Londra nelle ore del pranzo mi lasciava portare in albergo un libro per notte, all'insaputa dei colleghi.
Tornai al Las Alamitos Hotel ma solo per ritirare le mie mutande e saldare il conto. La faccia del signor Hood non la volevo più vedere. Trovai una stanza a poco prezzo a Bunker Hill e la presi per un mese. Meglio essere cauti e non offendere la buona sorte. Di notte, la coperta puzzava un poco di ammoniaca, ma per qualche giorno quello fu per me il letto più comodo del mondo. Per il momento, con i soldi dell'anticipo non ebbi più problemi a salire su un autobus. Lasciavo i decini liberi di navigare nella tasca e sentirli sbattere tra loro quando camminavo mi rendeva allegro. Mi ero comprato naturalmente della biancheria, e una giacca lunga usata con i polsini e il collo di velluto verde perché la mia era troppo lisa e non si adattava più al nuovo lavoro. L'avevo strappata per qualche dollaro a un rigattiere di Hancock Park, attenendone uno sconto
purché ascoltassi alcune sue poesie. Mi era parso un patto ragionevole. Da pochi giorni anche per me le parole avevano
un prezzo. Gli proposi di invertire qualche aggettivo e cambiare i titoli. N e fu così contento che mi scalò un altro mezzo dollaro dal costo della giacca. Il tempo in biblioteca passava veloce. Il problema era la sera, in camera. In una sola settimana avevo riletto per intero il romanzo e imparato a memoria buona parte dell'ultimo capitolo. Dopo cena lo recitavo alla moglie del mio albergatore, una donnina con le orecchie accartocciate che piegava sempre la testa da un lato, ma non avevo nessuna idea su quale fosse la cosa giusta da fare. Acquistai due piccoli quaderni e scelsi di tentare due strade diverse. Sul primo quaderno cominciai a scriverei di tutto, disordinatamente: il nome dei personaggi, il colore dei loro capelli, la data di nascita, gli aggettivi che Dickens usava più spesso e le frasi che mi erano piaciute. Il secondo quaderno lo lasciai invece bianco, per il testo definitivo. Man mano che uno si riempiva, l'altro restava comunque vuoto, e io mi innervosivo due volte: perché sul primo scrivevo troppo e sul secondo non scrivevo affatto. Mi ero ripromesso di compendiare novecento pagine in dieci quadri. Poche lettere su uno sfondo nero. Sapevo quali sarebbero state le prime. C'era una volta ... tutte le storie cominciano così, non si rischia di sbagliare. Ma poi? Mi affidai all'istinto. Decisi che dovevo isolare gli oggetti che apparivano nel libro e che si sarebbero potuti riprodurre nei capannoni di Mister Fritz.
I libri sono sempre pieni di cose, ma per estrarle bisogna trattare ogni capitolo come se fosse uno scantinato o un solaio, con i cimeli di famiglia, gli arnesi abbandonati e quelli che si continuano ancora a usare. Persi due giorni, ma alla fine avevo steso una lista lunga quattro pagine. La rilessi. In cima avevo segnato queste due parole:
BARCA CAPOVOLTA
Era la casa del fratello di zia Peggy, la governante di Copperfield. Un barcone rovesciato sulla spiaggia e usato come alloggio. L'unico luogo felice di tutta la storia. Pensai che doveva esserci una relazione tra quella felicità e il fatto che la casa fosse sottosopra. E che la gente l'avrebbe capita. Avevo la mia prima didascalia:
C'era una volta
una barca capovolta ...
Faceva anche rima. Tre giorni più tardi, salivo le scale dello studio di Mister Fritz. Lui era in piedi alla finestra e guardava fuori. Gli edifici cadenti della periferia. E i depositi di legname che circondavano i suoi studi. Cominciò a parlare senza nemmeno voltarsi. Bisogna essere dei pazzi per credere che si possa fare dei soldi con un lenzuolo bianco appeso a un muro. In molti ci stanno riuscendo, Mister Fritz. Lo so. Ma siamo perseguitati dalla malasorte, Chas. Ieri l'attore principale del nostro prossimo film è caduto da una scala e si è rotto una gamba. Il suo contratto prevedeva un'assicurazione contro gli infortuni. Riceverà il suo stipendio per altri due mesi, ma intanto il film resterà fermo. Era il progetto su cui contavo di più. Un piccolo ragno nero attraversò il suo tavolo. Le ho portato quello che mi ha chiesto, Mister Fritz. Lascia tutto sulla scrivania, disse lui. Si tratta soltanto di due pagine. Le ho battute su una macchina da scrivere a gettone della biblioteca di Los Angeles. Due pagine ? Ti pago sedici dollari la settimana soltanto per due pagine?
Se fossi riuscito a ridurlo a una pagina avrebbe dovuto pagarmi molto di più, Mister Fritz. Non lo sa che ci vuole più tempo a scrivere una lettera breve piuttosto che una lunga? Ti ho già detto, Chas, che sei un grande impertinente. La natura mi ha fatto abbastanza basso perché non debba mettermi in ginocchio davanti a nessuno. Mister Fritz si mise a ridere. Doveva essere la prima balsamica risata di quella mattina di cielo cupo. Hai ragione, scusa, mi girava male. Il vecchio mi aveva chiesto scusa. Avrebbe potuto licenziarmi per la mia alzata di scudi, e invece mi aveva chiesto scusa. Domani cominceremo a girare il tuo film, Chas. Non potrei sopportare la voce di mia madre cbe ripete: te l'avevo detto, piccolo Abraham, il cinematografo è un giocattolo cbe si romperà presto.
Il ragno si calò da una zampa del tavolo. Ti do due settimane e l'aumento cbe mi avevi chiesto. Per cosa, Mister Fritz?
Che diamine: per girarlo, Chas. Non mi hai detto che hai lavorato come aiutoregista a Chicago? Beh, questa è la tua occasione. Non è quello che vogliono tutti in questo paese? Hai abbastanza carattere per riuscirei. Non serve altro a un regista. Maledissi la mia lingua, molto più lunga di me. Sapevo a malapena indicare Chicago sulla carta geografica.
Intende dire che dovrei essere io ... ? Non conosci il proverbio? Per quanto tu ti nasconda, il destino ti trova sempre. Te lo sarai girato questo film nella testa, in questi giorni. Il mondo si era rovesciato, come la barca di David Copperfield.
Ma ... gli attori? Non li pago certo per assistere alla convalescenza di un loro collega. Userai la troupe che è rimasta bloccata, ma dovrai impiegarci al massimo due settimane, non un giorno di più. Mettiti subito al lavoro. Vai da Henry e chiedigli tutto quello che ti serve. Te lo darà. Quel posto era infestato di pazzi impastati di pazzia, pensai, o di disperati, se si affidavano a uno sconosciuto trovato a dormire per terra, una mattina, davanti al cancello del loro manicomio. Vado a conoscere la squadra, dissi con decisione. Ma la voce mi uscì rauca e incerta. Mister Fritz mi augurò buon lavoro.
[...]
The Ballad of the Upside Down House è un cortometraggio fuori dal comune. Ci racconta la vera storia di David Copperfield e non la favola zuccherata che tutti conosciamo. Ogni scena è al tempo stesso intensamente visionaria e dolorosamente realistica. I personaggi di Dickens rivivono con una forza sconosciuta il loro destino e il film acquista, fotogramma dopo fotogramma, dignità e bellezza. Tutti gli occhi degli spettatori presenti all'Empire Theatre sono rimasti fissi sullo schermo fino all'ultimo quadro, alternando il divertimento alla commozione. Dopo un lungo silenzio dovuto alla sorpresa e al coinvolgimento è scoppiato nella sala un applauso spontaneo e interminabile. Siamo sicuri che alcuni episodi resteranno impressi nella memoria di questa nuova arte che inizia soltanto adesso a scoprire le sue straordinarie possibilità espressive. La lunga sequenza che descrive la morte del padre di Copperfield prima della sua nascita è un'innovativa intrusione della fantasia del regista sul canovaccio romanzesco. E così anche la scena nella quale l'usuraio Uriah Heep sfida ai dadi tutti gli uomini del suo quartiere e luciferinamente gli vince l'anima. Oppure quella in cui una donna dai lunghi capelli corvini somministra una cura di sanguisughe al piccolo David durante un attacco di febbre o il viaggio lungo una cupa campagna inglese verso Dover su un calesse ... il film soddisfa le migliori aspettative e incontrerà di sicuro il favore del pubblico e dei critici. Possiamo già affermare che il giovane regista di questa malinconica ma anche spassosissima Ballata si impone come una delle più talentuose promesse del cinema americano al pari di David Wark Griffith. Segnatevi il suo nome. Il produttore mi ha detto che si chiama Chas Chaplin. Per il futuro, potete tranquillamente scommettere su di lui.
[...]
Sapevo anche che non avevi mai scritto una sceneggiatura né una didascalia in vita tua ...
E allora perché, Mister Fritz?
Perché? Non lo so, è stata una scommessa. Chiamalo fiuto per gli affari. Eri l'unico che aveva abbastanza fegato
per andare fino in fondo e tornare indietro con i miei sogni intatti. Hai un mucchio di idee in quella testa, e la cosa che apprezzo di più in un uomo è l'inventiva. Ma sapevo anche che a cinque anni eri salito su un palcoscenico, e che avevi lavorato in un circo ... Questo è il tuo nuovo contratto: dodici cortometraggi fino alla fine del prossimo anno. Dovrai solo controllare la tua immaginazione, il resto è fatto.
Non la pensava così, la prima volta che ha visto il film.
Ho avuto paura.
Non conosco ancora il mestiere, Mister Fritz.
Sei tu ad avere paura adesso.
Quant'è lo stipendio?
Ti do un aumento di dieci dollari a settimana.
Venti.
Non se ne parla.
Neppure per me. Arrivederci, Mister Fritz.
Dodici, non uno di più.
Diciotto, non uno di meno.
Ci mettemmo d'accordo su quattordici. In un mese,
il mio bilancio era passato da dieci centesimi alla vertiginosa cifra di trentanove dollari la settimana. Fuori Henry e Ricardo mi aspettavano. Un sorriso fiorì a entrambi sulla bocca come un'orchidea.
[...]
Alcuni insetti si posarono sulle radici della quercia. Quella giornata prendeva una musica triste, che non mi piaceva. Poi Makrouhie fece una cosa strana. Inarcò lentamente la schiena, per quello che l'età le consentiva, e lasciò cadere il bastone a terra. I primi tempi lo facevo sempre, disse rimettendosi diritta con fatica. Venivo ogni settimana e le portavo un
bastone. Se la settimana dopo non lo trovavo più, ne portavo un altro, e dopo un altro ancora. Per un anno, non gliene feci mai mancare uno. Pensavo che le sarebbe servito, perché nessuno sa quanto si deve camminare nella morte. E lei aveva una gamba inutile.
La nostalgia macchiava la voce di Makrouhie allo stesso modo in cui la vecchiaia le aveva guastato il volto. Di colpo mi sentii esausto. TI mio viaggio finiva lì, in quel campo, intorno a quella pietra ricoperta d'erba. Makrouhie continuò a parlare, ma non l'ascoltavo più. All'inizio nessuno a Yo-Town ha creduto alla sua storia. La credevamo pazza. Come si può credere a una zoppa che arriva in un paese e con poche parole sbagliate dice di essere un'acrobata? Si misero a ridere tutti. Non l'ascoltavo più, e non ne avevo voglia. Provavo solo un gran vuoto allo stomaco, più che sul pallone aerostatico, il giorno prima. Ma ci sapeva fare coi fiori. Per quello aveva talento. Li legava insieme con rapidi movimenti sicuri, glielo aveva insegnato sua nonna. Nessuno, a Yo-Town, ha mai confezionato un mazzo di rose o un'orchidea meglio di lei. Me ne accorsi e le suggerii di aprire un negozietto di fiori a South Avenue insieme alla mia amica Viola, che era cieca e non sapeva come tirare avanti. Eszter disse: una zoppa e una cieca, va bene. Non ci avrebbe scommesso nessuno, ma l'idea funzionò.
Ormai la voce di Makrouhie la registravo solo involontariamente. Una sera mi chiese di accompagnarla. Andammo in riva al fiume, lei sempre con il suo passo stentato, incerto. C'era una bella luna, che illuminava la campagna. Sull'argine si sciolse i capelli. Erano rossi come le foglie di questi alberi. Lunghi. Mi lanciò il suo bastone. Non se ne era separata mai, fino ad allora, almeno davanti a me. Rimase su una gamba sola, come una cicogna. E ora guarda, disse. Prima cominciò a volteggiare, facendo leva soltanto sulle braccia e sull'unica gamba, ruote, salti, capriole, poi si tuffò nell'aria e per pochi minuti si trasformò in un pesce che guizzava sulla superficie delle cose, un essere senza peso che danzava sulla luce e attraversava le ombre, era tutto quello che non ti aspettavi di vedere, un'anomalia, una disubbidienza, la nota più alta di un violino, l'orgoglio di chi torna a essere se stesso da un'altra parte del mondo, su un altro fiume, a migliaia di chilometri dal luogo dove è nato, e questo lo capivo, lo sentivo sulla pelle, e avrei voluto scendere su quella riva e mettermi a saltare anch'io, con la stessa improvvisa e benedetta leggerezza, ma i miei piedi sono sempre stati pesanti, e le mie gambe non valevano neppure mezza delle sue. Non ho mai imparato ad ammaestrare le storture, i danni, il rimpianto, il fiato mi incatenava al luogo da cui osservavo quella scena, ma la sua ribellione mi faceva bene, un po' di quella gioia mi ricadeva addosso come una medicina, strappava le funi che ci legano a terra. Poi Eszter riunì i capelli con un nastro e riprese il suo passo intermittente e le sue sembianze di sempre.
[...]
 L'indomani mi ritrovai di fronte a un uomo con due lunghi drappi neri al posto delle sopracciglia, la mascella squadrata e la bocca carnosa. Nessuna cultura, ma un entusiasmo trascinante e irresistibile per tutto quello che gli piaceva. Sei troppo giovane per il cinema, mi disse Sennett la prima volta che ci parlai. Posso invecchiare quanto vuole, risposi. La battuta gli piacque. Mi diede una sonora manata sulle spalle e mi ingaggiò per un periodo di prova.
Quel pomeriggio di pioggia del 19I4 in cui cercavo nello spogliatoio maschile della Keystone un costume per una scena che stavamo girando, tenevo bene a mente quello che mi aveva detto Fred Karno, che in tutte le storie ci vuole un pizzico di malinconia. Per me non era difficile trovarla: la portavo già negli occhi, nelle mani, nel sangue. A sentire le donne, avevo un poco di tristezza anche negli inguini, ma questo finiva sempre per affascinarle. Pensai che se avessi potuto metteme un briciolo in una comica, forse avrei potuto sedurre chiunque. Era il comune senso delle proporzioni che dovevo stravolgere.
Scelsi così un paio di calzoni sformati, mi abbottonai a fatica un gilè e una giacca troppo stretti e calzai due scarpe enormi e logore. Mi guardai allo specchio. Non mi ero mai sentito così a mio agio. Il mio vestito era una disubbidienza. Ci aggiunsi una bombetta, un bastone, una cravatta a farfalla. Mancava solo un ultimo dettaglio: mi agitai i capelli e mi incollai sotto al naso un paio di baffetti neri e per la prima volta seppi qual era la mia faccia.
Quando uscii dalla baracca del trucco e mi avvicinai alla cinepresa con questo costume miserabile, mi bastò muovermi di fronte a quella volpe di Mack Sennett come se avessi avuto i pidocchi sotto le ascelle. Sennett cominciò a ridere in una maniera così esagerata e nervosa che gli venne la tosse, gli uscirono le lacrime e per poco non si soffocò. Lo tenevo in pugno. Gli mulinai il bastone sotto il naso come mi aveva insegnato Marceline e corsi via con i piedi piatti e l'aria impacciata, imitando l'anda tura di un vecchio cocchiere londinese che insieme a mia madre spiavamo tutte le sere dalla nostra soffitta di Pownall Terrace. Avevo l'impressione di pattinare su una gamba sola o di stare in verticale sull'orlo del Gran Canyon. Arricciai i baffi e strizzai gli occhi a tutte le signore presenti, ma mi tremavano le mani. Per dieci minuti non feci altro che inciampare seguendo la scia di ogni gonna che passasse, poi entrai con l'aria di un miliardario in vacanza in un set che riproduceva la hall di un albergo, ma di nascosto rubai una caramella a un bambino, mi attaccai a una boccetta d'alcol e chiesi scusa a una sputacchiera per averla urtata ... Quando finii a gambe levate per terra dopo avere preso un cane per la coda non rideva più soltanto Sennett, ma anche i macchinisti, le donne delle pulizie, i manovali, le comparse. Non ridevano di quello che accadeva, per quanto potesse essere buffo o comico, ridevano di me, delle conseguenze che ogni cosa che capitava aveva sul mio volto, della mia spaventosa inconciliabilità con il mondo, perché non dipende dal costume se si è davvero ridicoli.
Continuarono a ridere per anni, senza potersi fermare, e io firmai un contratto dopo l'altro, fino ad arrivare a essere l'attore più pagato di tutti i tempi: 670.000 dollari l'anno, più di 10.000 la settimana. Non passò molto che ebbi così tanti soldi da costruire i miei studios e i miei teatri di posa a sole due miglia da quelli di Mister Fritz, in un lotto di cinque acri di alberi d' arancio. Acquistai pure una Locomobile azzurra, dai copertoni bianchi, e assoldai un autista giapponese di nome Kono. Le sere in cui osservavo dai marciapiedi i ristoranti a Carson Street erano lontani anni luce; adesso potevo pranzare tutti i giorni da Armstrong Carlton, da Musso o dovunque avessi voluto a Hollywood Boulevard. Salmone, aringhe affumicate, cuore di pecora o pasticcio di fegato. Da quel momento in poi il cinematografo assorbì ogni mia energia. Avevo la pazienza di un asino. Ero capace di ripetere fino a cento volte la stessa scena e certe sere dovevano mettermi a letto ancora truccato, perché non avrei smesso mai. Per tenermi in forma, mi allenavo in palestra o in piscina prima di cena, e di giorno andavo dal pedicure, perché ho sempre provato per le mie mani e i miei piedi una grande devozione. Ormai avevo imparato a rispettare rigidamente gli orari, non giocavo mai a carte, bevevo appena un bicchierino di porto, di tanto in tanto, ma solo perché i miei nuovi colleghi non pensassero che fossi un monaco astemio e serio come avevano creduto gli attori della compagnia di Karno.
[...]
Arléquìn?
Qui tutti lo credono un po' tocco, ma gli consentono di dipingere e di parlare da solo. È un suo parente?
No, dissi a fatica. Una volta ho lavorato con lui, ma ero un bambino.
Gli farà piacere rìvederla, ma non ci stia troppo a lungo.
D'accordo.
E non sì impressioni.
Ho già visto altre persone nel suo stato.
A volte stringe i pugni, come se gli facessero male le mani, poi si getta nel letto e prende a tremare.
È per questo che non termina i suoi disegni?
Non lo so. A me piace credere che la sua sia una guerra personale contro tutte le cose che sono perfette
e poi si guastano. È per questo che disegna cavalli a due zampe, e uomini con un occhio solo, e soldati senza un braccio ...
Forse ha ragione, sarebbe stato meglio se si fosse venuti al mondo già storti dall'inizio.
Già.
Imparare a perdere la perfezione è troppo crudele e ìnseguirla per tutta la vita un gesto inutile e superbo.
Sembra un verso di Shakespeare.
Non mi ricordo più a chi appartiene.
[...]
Poi lentamente le ruote di ferro cominciarono a girare. Una di seguito all'altra.
Tetén tetén.
Tetén tetén.
Non terminarono tre giri che io sapevo la mia destinazione.
A Sacramento avrei comprato un altro biglietto per la First Transcontinental Railroad.
Tetén tetén.
Fino a Omaha.
Tetén tetén.
E dopo a Youngstown.
Tetén tetén, tetén tetén, tetén tetén.
Il treno ormai correva in mezzo alla campagna piena di brina.
Youngstown. Di colpo, sentii le mani di Naima che curavano i lividi di tutti quegli anni e mi insultai in ogni lingua che conoscevo per la mia ottusità. Se da qualche parte del mondo avevo un appuntamento con qualcuno, era con lei. Mi sentii come prima di girare la scena chiave di un film, con la stessa elettricità addosso per averla solo immaginata, quella scena ... Dall'agitazione, cominciai a ridere senza potermi frenare. Un signore mi cedette il posto e si allontanò velocemente, temendo di dover viaggiare accanto a uno squilibrato che rideva come Chaplin.
Youngstown mi accolse una settimana dopo con il suo solito aspetto incurante. Le case avevano lo stesso colore della prima volta, bianche e rugginose, il tram sferragliava sempre nel mezzo della strada principale, occupata da molte più autovetture ai bordi dei marciapiedi, e il cartello che dava il benvenuto sbatteva ancora al vento, ma con gli angoli di legno smagliati, come un messaggio passato di moda. Non so cosa mi aspettassi, ma tutto era in movimento per proprio conto e si mostrava indifferente al mio ritorno. Solo la panchina dove mi ero già seduto una volta aveva l'aria di una vedova che mi aspettava nella piazza alberata. Mi ci accomodai pesantemente. Con una certa soddisfazione osservai la sede della DOLLAR BANK che non mi scherniva più con gli enormi caratteri della sua insegna in cima al palazzo di fronte. Ora le mie tasche erano piene di dollari, eppure non ero felice. Percorrere la distanza da quella panchina fino al negozio di fiori di Viola e di Eszter mi costò una grande fatica. Le gambe mi pesavano più del piombo ed ebbi paura di essere divenuto come il personaggio di una favola che mi leggeva sempre mia madre: solo una creatura più leggera di una piuma avrebbe potuto salvarmi. Imboccai South Avenue sopraffatto dalla stanchezza e mi fermai davanti al negozio, ma dall'altro lato della strada.
Naima era in piedi. Potevo vederla, oltre la vetrina. Parlava con una cliente, una donna alta, dal viso allungato, che dava l'idea di non avere tempo. Le mostrava i fiori, le consigliava quali scegliere. Sollevò un mazzo di gardenie e mi accorsi soltanto allora di quanta delicatezza fosse capace ogni suo gesto. Trattava con rispetto tutte le cose, come se tutte le cose ne avessero bisogno, e restituiva importanza e dignità al mondo, con la sua cura discreta. Come avevo fatto a non capirlo prima? Era lei tutto quello che restava di Eszter. L'acrobata doveva averle insegnato ogni segreto, come a una figlia. Tutti i suoi trucchi da equilibrista, il mistero della sua leggerezza. Fui di colpo sicuro che se lo avesse voluto, Naima sarebbe stata in grado di esibirsi su quello stesso marciapiede in una serie mozzafiato di salti mortali. I capelli li teneva legati in una coda sulle spalle e i denti bianchi le illuminavano ogni espressione del viso. Indirizzò gli occhi verso di me, con uno sguardo che mi penetrò in ogni fibra, si spinse dentro ai miei capelli arruffati, alle mie piccole gambe nervose, nelle pieghe della mia giacca scucita, e di colpo ebbi pena di me, di come dovevo apparirle, di quello che ero e di quello che sarei stato. Della mia infelicità, nonostante il successo planetario. Mi augurai che non si ricordasse. Ma con terrore la vidi posare con calma le gardenie, liquidare con gentilezza la donna alta, uscire dal negozio e venirmi incontro. Si avvicinò lentamente, poi mi prese la mano e la tenne a lungo tra le sue.
... Tu?
Non ci fu bisogno di dire altro, per quella mattina. Quando la accompagnai a casa e lei rigirò la chiave nella serratura, mi stupii che non ci fosse nessuno, dentro. Devi promettermi una cosa, Charlie, mi disse Naima. Finché sarai qui, non mi farai nessuna domanda. Come vuoi. È un patto, allora? È un patto. Naima mi guidò oltre il vestibolo, attraverso il salottino dove ero stato accolto la prima volta, fino alla stanzetta che mi aveva ospitato pet quasi un mese. Indovinai il letto e l'armadio, e la finestra, dietro la tenda. N aima si girò dalla mia parte e mi diede una carezza sul viso. Credo fosse la prima v eta carezza che ricevevo da una donna da molto tempo. Divetsa da quelle di tutte le altre ragazze che avevo incontrato in quegli anni. Qualcosa si sciolse dentro di me, come una noce di ghiaccio. Rimasi Il in piedi, stordito dal buio e dal calore della sua mano in mezzo a tutto quel silenzio. Ti ricordi quanto eri malconcio quando ti portarono qui, quel giorno? Per la vetità, non mi ricordo molto. Chi lo avrebbe detto, allora: il più sconosciuto attore del mondo ... Eri tutto tumefatto, il viso ti era diventato grande quanto una zucca, gli occhi neri, i capelli impiastricciati, ma facevi ridere anche così.
[...]
Feci un passo avanti. Lessi il nome di Makrouhie Dolmayan, nata a Hrazdan nel 1831 e morta a Youngstown nel 1916. Poi quello di Viola Baldwin: Chicago, 1848 Yo-Town, 1917. La stele di Eszter Neumann era a pochi metri di distanza.
All'ora del tramonto, e nei giorni di sole, l'ombra di quella quercia le abbraccia tutte e tre, disse Naima. Il
custode di questo luogo è stato molto gentile e mi ha concesso di seppellirle vicine. Com'è successo?
Sono rotolate via una dietro l'altra, nel giro di pochi mesi, vinte da una malattia silenziosa e senza sintomi. Le ho viste sciogliersi giorno dopo giorno, consumarsi come due candele. Sono morte allo stesso modo: prima se ne sono andate le loro parole, poi tutto il calore che avevano nel corpo. Dai piedi, dalle gambe, dalle mani. Solo la pelle intorno al cuore è rimasta ancora calda, e gli occhi sbarrati, per catturare quel poco che si può ancora catturare della luce. Anche quelli di mia madre, che erano ciechi. Alla fine è rimasto solo il loro respiro. Per ore. Un fischio forte come una protesta, poi semplicemente un soffio. Finché non sono cadute nell'inesistenza. Come quando ci si immerge nell'acqua e si va sotto. Mia madre ha avuto una contrazione finale e ha teso le sue dita in un ultimo saluto. Chinai gli occhi, per pudore.
Che si possa smettere di colpo di vedersi, di parlare, di toccarsi, e che quest'assenza durerà per sempre, continuò Naima, è una cosa incomprensibile. Quasi ogni giorno, a casa, mi ritrovo a conversare con una sedia vuota.
Mi dispiace, Naima. Avevo molte cose da chiedere a entrambe, me ne rendo conto solo adesso. Mia madre diceva che qualsiasi domanda le avessi fatto, la tua risposta ero io, e che un giorno lo avresti scoperto.
[...]
Caro Christopher, che il desiderio fosse il tema della vita l'ho fatto dire anche all'ultimo clown che ho interpretato. Ma lo pensava pure Monsieur Verdoux, una delle maschere più sfuggenti che rubai alla cronaca, un tipo che aveva l'abitudine di bruciare le vecchie signore che sposava nella stufa della cucina e che portò alle estreme conseguenze la logica omicida del capitalismo. Semplicemente, senza desiderio non c'è mai stata vita per me. Ti diranno che sono i traumi del sesso a incidere la personalità. Non gli dare retta: il sesso è una malattia solo per i borghesi. Il vero trauma è la miseria, credimi. Da giovane, mi ero ripromesso di avere una ragazza per ogni lettera dell'alfabeto inglese. Agnes, Barbara, Carole, Dorothy ...
L'amore sarebbe stato il mio dizionario. Da quel momento in poi non c'è .mai stata una donna di cui non mi sia chiesto se mi sarebbe piaciuto o no baciare. È una domanda .che continuo a farmi anche ora, non te la prendere, non per questo voglio meno bene a tua madre. Eppure, da qualche tempo, mi ritrovo spesso a pensare che sia sempre il desiderio di qualcuno o di qualcosa a originare tutta la stupidità, la volgarità, la crudeltà e l'infantilismo degli esseri umani. Il desiderio mi ha reso tante volte ridicolo non solo agli occhi del mondo ma anche ai miei, mi ha fatto diventare sordo, e idiota, mi ha messo in pericolo. Come ha scritto un poeta, sono arrivato al punto di desiderare di non desiderare più niente. Vorrei metterri sull'avviso, ma è inutile. L'ipocrisia vuole che non se ne parli, ma è la forza più potente che esiste e nessuno ne è al riparo, a nessuna età. I tuoi I 5 anni valgono i miei; ho solo il vantaggio dell'esperienza, ma sono vulnerabile quanto te. Le cose  stanno così. Sei ancora un ragazzo, Christopher, e ti innamorerai molte volte, e anche tu dovrai inventarti l'imperfezione di qualche equilibrio. Io, tutta questa esuberanza, tutto questo vivere, insieme alla mia disperata timidezza, alla fine li ho riversati nel cinema, e il cinema mi ha salvato.
La prima volta che gabbai la Vecchia, Christopher, sei anni fa, fu la più difficile. Era venuta a prendermi, come sapevo dal 1910, ma trovò Charlot a riceverla. Uno Charlot di ottantadue anni, con una nuvola di capelli sulla testa e una geografia di rughe intorno ai baffi. Agitai il bastoncino e sollevai la bombetta in segno di saluto. Poi iniziai a girare in tondo per la stanza, con il mio passo di sempre, da pinguino, i piedi larghi e le scarpe fuori misura. Replicai tutte le mie antiche gag e trovate, anche se era una vita che non le facevo più. Ma la Vecchia se ne restò gelida a osservarmi e riprovai il panico che mi aveva preso la prima volta che andai in scena a New York, insieme a Stan Laurei, quando il Nuovo Mondo ci battezzò con un fiasco. Mi sforzai di fare delle facce buffe, ma mi veniva da piangere, perché non ti avrei visto crescere, Christopher, i baffi posticci mi si staccarono dallé labbra e mi caddero per terra, e quando mi chinai per raccoglierli gli acciacchi dell'età mi misero definitivamente al tappeto. Restai lì, con la schiena a metà, incapace di raddrizzarmi, vinto, decrepito e dolorante. Fu in quel momento che la Vecchia cominciò a ridere, come Mack Sennett negli studi della Keystone, come qualsiasi altro mi abbia visto all'opera nei miei giorni di grazia. Non è certo una signora apatica, bisogna riconoscerlo: il suo lavoro lo ha sempre svolto con un certo entusiasmo. Ah, Ah! Fai ancora ridere, Chaplin, mi disse con la sua voce cavernosa, ti do un altro anno, te lo sei guadagnato: ci vediamo il prossimo Natale. E sparì dalla mia poltrona. Mi ci vollero parecchi impacchi d'acqua calda e una pomata al pino mugo per rimettermi dal mio mal di schiena, ma ero ancora vivo.
Da allora, approfittai di ogni pretesto che mi offriva la vecchiaia: l'abbassamento della vista, la perdita della memoria, il rimpianto della giovinezza. La mia stessa condizione mi offriva un repertorio inesauribile di soluzioni. Il trucco è sempre lo stesso: fare in modo che qualcosa vada storto e che il mondo appaia rovesciato, sottosopra. Il meccanismo della comicità è un meccanismo sovversivo. Se un gigante cerca in ogni modo di aprire una porta e non ci riesce, ma subito dopo la porta si apre a un gatto, a un bambino, a un povero vagabondo o a un vecchio senza nessuno sforzo, noi ridiamo. Perché è tutto il contrario di quanto accade nella vita. La comicità è una capriola, un uomo che si rialza dopo un capitombolo o un altro che sta sul punto di cadere ma non cade mai. La comicità è mancina come me, Christopher. Irride i ricchi, rimette le cose a posto, ripara le ingiustizie. Come diceva Frank Capra, chiude le porte ai prepotenti e le fa aprire ai deboli e agli indifesi, anche se solo per il lampo di un sorriso. È quest'incredulità che ci riempie gli occhi di lacrime. Sin dall'inizio, da quando cantai la canzone di Jack Jones al posto di mia madre, suscitare il riso e le lacrime è stata la mia infantile protesta contro la miseria, la malattia e il disprezzo, e il mio rifiuto dell'odio e di tutte le forme sbagliate che finiscono per governare le relazioni umane. È stupefacente, a pensarci, quanto sia facile a contagiarsi l'allegria e quanto triste e malato sia invece il mondo.
Ogni Natale, fino a questo, sono riuscito a strappare alla Vecchia almeno una risata e a salvarmi. Ma stasera fallirò, Christopher. Proprio stasera che mi sento terribilmente a posto e Ìni sembra di essere tornato agli splendori di un tempo. Sono sicuro che sarò capace di una gag perfetta, al primo ciak, come neppure nei film migliori. Non c'è ancora nessuno che sa fare l'ubriaco meglio eli me. Mi fumerò per l'ultima volta un fiammifero al posto della sigaretta. Ma la Vecchia non riderà, me lo sento. La gente non ama la perfezione, e io non posso migliorare più di così.
Domani ti porteranno nella mia stanza, e mi vedrai lì steso su un letto. Quando mi condussero da mio padre, all'ospedale di St. Thomas, scappai via, ma ero più piccolo di te, e avevo di fronte un estraneo. La pietà per lui mi sarebbe venuta dopo, quando ebbi anch'io paura di perdere tutto. Mia madre, invece, l'accompagnai quasi per mano. L'avevano ricoverata per un'infezione, solo qualche mese dopo la prima proiezione del Circo. L'ultimo giorno la sentii rivolgere un complimento a un'infermiera, per una collana di perline di vetro e di legno che aveva al collo. Le promisi che sarebbe guarita e la feci ridere per ore. Ma di notte lei si mise a sedere sul letto e mi disse Aiutami, Charlie. Sul certificato scrissi che era nata un anno dopo di quello reale perché potesse barare anche nell'aldilà. Lo so, tutto questo è troppo sentimentale. Mala musica avrebbe detto il mio amico Picasso. Ma è la mia musica, Christopher, e non posso più cambiarla. Non ho scritto più di dodici lettere in tutta la mia vita, ma ho avuto il tempo per questa, e mi basta. La Vecchia è già arrivata. È qui davanti, nella poltrona sotto la finestra, mi aspetta. Sa che non esco da questa villa da due mesi, da quando ti ho portato a vedere l'inconfonclibile tendone del circo Knie, a ottobre. Tra poco verrete a chiamarmi, tu, e tua madre, e i tuoi fratelli e nipoti, per la cena, ma io sarò già a spasso con lei, sulla luce indecente della Luna o chissà dove. Ma non stare in pena per me, non ho paura. Mi sono sempre sentito sull'orlo eli un trasloco.  Siamo ai titoli eli coda, caro Christopher, e non posso che esserti grato per la tua funambolica pazienza se hai resistito sin qui a tutte queste chiacchiere. Per una volta non sono stato fedele al mio principio che ogni storia dovrebbe essere come un albero che si scuote e tutto quello che non serve si fa cadere a terra, lasciando solo l'essenziale. Questa lettera non è un film, e io volevo che sapessi tutto, anche le cose superflue, perché non mi ricordo più dove ho nascosto la verità. Sarebbe bello dissolversi con un ultimo abracadabra. Su un'aeronave, un treno o una mongolfiera. Ma in fondo sono contento di andarmene a cavalcioni solo delle mie parole. Dicono che l'universo sia nato da una grande e incomprensibile esplosione. Secondo me, deve essere successo sulla pista di un circo. Una donna volteggiava in aria e un uomo ne catturò il movimento in una scatola magica, e lo riprodusse all'infinito, fino a popolare di ombre la terra, e a riempirla di segatura, di risate, di lacrime. Non può che essere andata così, Christopher, perché solo nel disordine dell'amore ogni acrobazia è possibile.

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[SONDAGGIO] - I 5 più bei libri letti nella propria vita

>> sabato 30 marzo 2013



Primi Risultati
Aggiornamento al 19 Aprile 2013

Antonio
Le Benevole (Jonathan Littell);
L'Isola sotto il Mare (Isabel Allende);
Una Fortuna Pericolosa (Ken Follett);
Timeline (Micheal Crichton);
Mucchio d'ossa (Stephen King)"

Barbara
la " trilogia " di Italo Calvino (Il barone rampante, Il cavaliere inesistente, Il visconte dimezzato); 
Vita di Galileo di B. Brecht; 
Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro; 
Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters; 
Revolutionary Road di Yates.

Anonimo
L'insostenibile leggerezza dell'essere di Kundera"

Daniela
Anonima viennese. Il diario di una giovinetta
Emilio Lussu. Un anno sull'altipiano
Joseph Roth. La marcia di Radetzky
Pamela Moore. Cioccolata a colazione
Carlo Lucarelli. L'ottava vibrazione"

Francesca
Venuto al mondo (Margaret Mazzantini)
A un cerbiatto somiglia il mio amore (David Grossman)
Un uomo (Oriana Fallaci)
I pilastri della terra (Ken Follet)
Due di due (Andrea De Carlo)"

Nella
Il nome della rosa (Umberto Eco),
L'insostenibile leggerezza dell'essere (m. Kundera),
Un uomo (O. Fallaci),
Il cacciatore di aquiloni (K. Hosseini),
L'armata perduta (V. M. Manfredi)"

Sonia
Ti prendo e ti porto via di Niccolò Ammaniti
Le ceneri di Angela di Frank McCourt
Non avevo capito niente di Diego De Silva
Venuto al mondo di Margaret Mazzantini
Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon"

Sonja
Due di due – Andrea De Carlo
Non ti muovere – Margaret Mazzantini
La versione di Barney – Mordecai Richler
L’eleganza del riccio – Muriel Barbery
L’insostenibile leggerezza dell’essere – Milan Kundera"

Lucia
Stoner di John E Williams
L'altra Grace di Margaret Atwood
Follia di Patrick McGrath
La cena di Herman Koch
La parte dell'altro di Eric-Emmanuel Schmitt

Tommaso
Nick Hornby: Febbre a 90°
Irvine Welsh: Colla
Keno Don Rosa: la storia di Paperon de' Paperoni
Marcus Du Sautoy: L'enigma dei numeri primi
Fedrico Buffa: Black Jesus

Eliana
Il   Giardino dei Finzi- Contini/  Bassani Giorgio
La  Nausea/Jean Paul Sartre
Nessuno al mio fianco / Gordimer Nadine
Medea/  Wolf Christa
Il  Maestro e Margherita / Bulgakov, Mihail Afanas'evic "

Fabio
Colazione da Tiffany - Truman Capote
L'Immoralista - André Gide
I Pitard - Georges Simenon
La Neve dell'Ammiraglio - Alvaro Mutis
Diario del 71 e 72 - Eugenio Montale
 
Luca
Le affinità elettive - Goethe
Gli anni della nostalgia - Kenzaburo Oe
Scritti corsari - P.P. Pasolini
La Caverna - Saramago
Alice nel paese delle meraviglie - Carroll

Daniela
Non avevo capito niente (Diego de Silva)
In viaggio contromano (Michael Zadoorian)
La bambina prodigio (Nikita Lalwani)
Stoner (John Williams )
La valle delle donne lupo (Laura Pariani)

Graziella
Collodi, Pinocchio
Calvino, Il barone rampante
Manzoni, I promessi sposi
Yehoshua, Viaggio alla fine del millennio
Garcia Marquez, Cronaca di una morte annunciata

Maria
Il grande mare dei Sargassi (Jean Rhys)
 Il partigiano Johnny (Beppe Fenoglio)
 La luna e i falò (Cesare Pavese)
 La vita agra (Luciano Bianciardi)
 Ritratto dell'artista da giovane (James Joyce)

Maura
Irene Nemirovsky    IL BALLO
Benedetta Cibrario  ROSSOVERMIGLIO
Lidia Ravera   ETERNA RAGAZZA
Christa Wolf   MEDEA
Laura Pariani   LA VALLE DELLE DONNE LUPO

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La valle delle donne lupo - Laura Pariani

>> venerdì 29 marzo 2013

Il libro che il Circolo Lettori ha discusso ieri sera ha incontrato un apprezzamento unanime. Il romanzo trae ispirazione dai racconti tramandati oralmente dagli anziani delle alte valli piemontesi registrati dall'autrice su nastro nel corso degli anni. La scrittura è molto particolare perchè unisce l'italiano al dialetto italianizzato. La storia della protagonista, ormai anziana, emerge poco per volta nell'intervista che questa concede ad una giornalista con la quale ripercorre, dall'adolescenza ai giorni nostri, le sue vicende e quelle della sua famiglia e delle persone del piccolo paese in cui vive.  Lo sfondo è quello epico e leggendario delle valli ma l'umanità che le abita non ha nulla di bucolico e idiliaco, anzi. Sin dalle prime pagine si delinea il ritratto di una società rude, opprimente, fortemente maschilista. Il ruolo della donna è quello della serva silente su cui sfogare ogni genere di impulso. Peggior sorte è destinata alle "balenghe", quelle che uniscono alla sventura di essere nate donne un comportamento fuori dagli standard che si può manifestare con la testa un po' per aria o con un timido desiderio di emancipazione. Nel migliore dei casi queste sono mandate al riformatorio, nel peggiore all'ospedale psichiatrico o trucidate. Molto bella a riguardo la storia di Anna che riporto integralmente di seguito.
Il pessimismo è assoluto e tutto il romanzo è permeato da dolore, freddo, violenza e solitudine. L'uomo è più cattivo del più cattivo degli animali che per antonomasia è il lupo e che viene a sua volta riabilitato da un originale processo di straniamento che lo accomuna alle balenghe e al loro tragico destino.
    
Nel maggio successivo alla morte della Tilde, la Grisa scappa per la prima volta. Il cancello dell’orto è rimasto socchiuso: un vecchio sportellino cigolante che non serra bene. La bambina – che va per i tre anni – si inoltra a passettini incerti nel prato deserto, puntando poi dritto verso il bosco. Chi lo sa cosa l’attrae? Forse il canto di un uccello, un battere d’ala di farfalla, il muschio verde e cedevole, il balenio di una pietra sotto un raggio di sole che filtra tra i rami, una pigna che cade pesante per terra; o magari l’ombra della Tildina che le è sembrato vedere muoversi tra i rovi... Un passo dietro l’altro, sempre piú nel folto.
La sera, quando il Biâs e la Terésia chiamano per la cena, della piccolina non c’è traccia. Frugano tutti gli angoli della casa, sotto i letti, negli armadi, nel grotto che funge da cantina. Madonna Santa, non c’è. Le voci scannarozzate echeggiano per la valle, con angoscia crescente:
«Grisa, dove sei?»
Di corsa i quattro becchini si portano di casolare in casolare, fino al Paese Piccolo. Niente di niente. Tornano indietro col fiatone. In coro, con la paura del peggio in fondo al cuore, spolmonandosi:
«Griiisa! Griiisaaaa!»
I richiami si perdono tra i burroni scoscesi della riàle, da balma a balma. Nessuna risposta. Solo il lamento dei primi uccelli notturni e la voce bassa dell’acqua che corre nel buio dei prati. Piú tardi, con alcune lanterne, si addentrano nel bosco. Il bagliore rosso dei lumini rischiara il volto chiuso dei tronchi, il groviglio minaccioso delle rame, le erbe gravi di rugiada. Una civetta piange: uccello che porta male. Quella notte si sente l’ululato di un lupo, vicino vicino. Il Biâs rabbrividisce, la Terésia caragna.
Qualche mese dopo, il miracolo: dei cacciatori trovano sotto una balma, nei pressi della cascata, l’ingresso di una caverna nascosto da un macchione di lamponi. Con una torcia fanno lume e vedono un paio di lupacchini che mostrano i denti e spalancano degli occhi verdegialli al raggio di luce e alle grida di sorpresa. Gli uomini li tirano fuori: uno è proprio un lupatto, l’altro è la Grisa. Deve essersi amicata alla caverna e alla nuova famiglia lupa, perché fa un verso che non è umano:
«Uuuuuuuuh».
In paese è festa grande. La piccola sta bene, sana e robusta piú di prima, tranne per il fatto che non parla, neanche quelle brevi frasi ingarbugliate come tutti i piccinàja della sua età, che prima di scomparire sapeva pronunciare. Quando ci si rivolge a lei, si limita a scuotere la testa bionda in segno di no. A niente valgono implorazioni carezze bomboni; menochemài le botte. Guarda sopà e somà come le fossero estranei. In casa striscia le mani lungo le pareti, quasi cercasse una sensazione di fresco, oppure sta cucciata vicino alla porta; raccoglie ossi dal cesto della spazzatura, li nasconde sotto il letto, quando nessuno la guarda se li rigira tra le mani, si direbbe che li stia contando. Poi, appena le danno il permesso di uscire, corre al gabbiotto dove hanno rinchiuso il lupatto catturato insieme a lei, infila le mani nei buchi della rete e il suo antico compagno di caverna le lecca le dita, quasi con tenerezza, fissandola con le iridi giallastre. Se poi qualcuno la stacca di lí a viva forza, apre la bocca in uno strano verso di denti digrignati, i capelli le si rizzano per il nervoso, le braccia si irrigidiscono e diventano gelide. Però la notte, ogni volta che il lupatto rinchiuso prende a ululare, la Grisa balza a sedere sul letto, le orecchie tese; allora una specie di sorriso le rischiara il viso attento e ulula di rimando:
«Uuuuuuuuh».
Naturalmente viene chiamato il medico che scuote la testa senza sapere che fare. Si chiede il parere della biszía Ginòria, una carampàna lamentosa che non esce di casa da piú di quarant’anni, ovverossía da quando il sò Lipèt scomparve in una battuta di caccia al lupo, lasciandola in patema a occhieggiare invano il suo ritorno. La vecchia sospirosa dà il suo parere invocando a testimone la santa Verità: che si tratta di opera del diavolo Tartàifel; che non c’è niente come i lupi per trasmettere alle persone la loro dannazione bestiale; che i lupi portan tríboli a crepacuore, come ben dimostra la scomparsa del pòer Lipèt.
Un mattino d’inverno trovano il lupatto morto, rattrappito in un cantone. Il Biâs lo estrae dal gabbiotto e lo getta sul letamaio. Quando la Grisa ne scopre il corpo freddo e rigido, si siede vicino a lui e lo struca forte a sé, quasi per trasmettergli un poco del sò calore, grattandogli insistentemente la testa tra gli orecchi e mugolando di tenerezza. Poi, stupita e spaventata del silenzio dell’amico e del fatto che non le faccia festa, corre dai grandi, gli occhi gonfi di lagrime, Uuuuuuuuh, li trascina fino al luogo dove la bestia giace immobile.
E sopà:
«È morto, non toccarlo. Appena ho tempo, lo scuoierò e poi tomà ti farà un bel paio di pantofoline».
Ma la Grisa, desolata, continua a ululare. La sgridano. Va a rannicchiarsi in un angolo, sconcertata. Tira fuori da un nascondiglio che nessuno conosceva una grande quantità di ossi e si mette a lisciarli carezzandoli uno per uno. Pare che la cosa la quieti, anzi si addormenta stringendo al petto il suo tesoretto. Si sveglia che è quasi buio, si dirige a passetti verso il letamaio, ma la bestia non c’è piú. La cerca ovunque senza trovarla, urla con voce spezzata:
«Uuuuuuuuh».
Naturalmente il Biâs va su tutte le furie:
«Múccala di far versi, era solo una bestia, un lupo... Deograzie che è morto, e tu sei ’na cristiana. Piantala di comportarti come un’insensata!»
La trascina nella stanza da letto e, patàf patàfa, la batte con rabbia per farla smettere. La debole lampadina sul comodino illumina il viso paonazzo della piccola, la bocca urlante. D’un tratto la Fenísia che, rintanata in un cantone, ha seguito la scena tremando, fa un fischio per richiamare l’attenzione della cuginetta. Le strizza l’occhio con complicità, poi alza le mani: le basta un semplice movimento delle dita, ed ecco che l’ombra disegna sul soffitto la testa di un lupo che muove le orecchie aprendo e chiudendo la bocca. A quella magia la piccola Grisa smette di gridare, si infila il pollice in bocca e si lascia mettere a letto senza ulteriori proteste. Succhiandosi il dito, lo sguardo fisso al soffitto dove la testa del lupo continua a ingrandirsi e rimpicciolirsi, si addormenta.
La Terésia partorisce un’altra bambina a cui viene dato il nome di Tilde: vive solo poche ore. Il trambusto che ne deriva sembra calmare per un attimo la Grisa: diviene piuttosto taciturna, neanche una parola o un piccolo guizzo di riso. Un paio di settimane piú tardi cerca nuovamente di scappare e prendere la strada del bosco, finché sopà la lega con una catena al cancello del cimitero, perché non si perda un’altra volta. Quando il Biâs fa scattare la serratura del lucchetto, la Terésia scoppia a caragnare. Ma lui la zittisce:
«Quando non c’è rimedio, la carezza fa piú male che bene».
Parole che ripete continuamente, quasi voglia convincere soprattutto se stesso; come se temesse che un cedimento di fronte alle lagrime della moglie possa portare altri guai e dolori.
In genere la piccola se ne sta ingrugnita dove le si dice di mettersi, e con torpidi movimenti delle dita rigira il sò mucchietto di ossi, studiandoli e odorandoli. Alla Fenísia la cosa sembra divertente: le piacerebbe tanto imitare la cugina, ma ha paura di finire alla catena pure lei; tanto piú che in casa tutti insistono:
«Mi raccomando, da’ il buon esempio alla Grisa! Non scalciare, non gridare, non fare la pazza come lei! Vedi bene che fastidi ci dà quella là con il suo brutto vizio di urlare come una lupa. Invece tu sei una brava fiòla, ormai quasi una donnina...»
Eccosí, anche se a lingua legata, la Fenísia impara a rispondere sí: che ubbidirà prontamente, che non si butterà per terra a sguignire di dolore, che sarà composta, che non avrà «brutti vizi».
[...]
Un mattino di marzo, la Fenísia viene mandata in busca della Grisa, perché non la trovano da nessuna parte. La ragazza cerca la cugina nel cimitero tra le lapidi. La scorge nell’orto, imbambolata a fissare un folto di alberi di mele. Chiama, ma l’altra non risponde. La Fenísia si avvicina indispettita. Solo allora si accorge che il melo piú vecchio ha un ramo innaturalmente piegato, e non è per il peso della fioritura. C’è una figura bianca che pende dal ramo. Una donna con un lungo camicione: i piedi nudi sono leggermente sollevati da terra, come fosse una fata capace di levitare.
Le ci vuole un po’ a capire che è la Terésia che si è impiccata.
Il curato ha parole tremende contro la Terésia. La ribellione di una sposa, anche nel caso di una convivenza trista, è per lui inammissibile. Pazienza e mansuetudine sono virtú che sbandiera crudamente nella predica della domenica successiva:
«C’era un uomo che aveva l’indole e l’aspetto di una fiera selvaggia: una malattia che pativa da gran tempo lo metteva in uno stato perenne di furore. Vero cuore di ferro che respingeva con ferocia la moglie che gli si faceva dappresso per portargli del conforto o una vivanda delicata. Invasato da furia, afferrava i piatti che la moglie gli porgeva e glieli sbatteva in faccia villanamente. A ogni atto brutale, la donna chinava il capo e si ritirava offrendo la sua pena a Domineddio... Questa è la vera sposa cristiana: paziente, sottomessa, lavoriera, che si lascia mansuetamente mettere in croce. Guai alla donna che si fa prendere dalla collera, che getta fiamme dagli occhi! Il barometro del suo cuore segna cattivo tempo, la disobbedienza coniugale discende sempre piú in basso e l’ultimo grado di abbassamento è la tempesta: perdita di ogni divozione, ferali proponimenti... Non c’è bisogno che l’indetti io: sapete tutti che non si potrà darle sepoltura al cimitero».
La pazienza è una virtú che non è mai abbondata in casa della Fenísia, ma adesso il Biâs col suo viso legnoso, fermo in una smorfia di disgusto, fa veramente paura. Sulla fronte la cicatrice della lontana ferita di guerra gli diventa viola quando va in furia, proprio lí, dove sotto non ha piú l’osso ma una placca di metallo, che gli hanno messo i dottori. Si impizza per una malòmbra, a volte per dargli fastidio basta un colpo d’unghia sull’orlo di un bicchiere.
Una sera la Grisa, stanca dei maltratti che dopo la morte della Terésia si sono moltiplicati, riprova a scappare da casa. Sopà la riacciuffa sulla strada che scende in città: la agguanta per i capelli in cima alla testa e la trascina indietro. La ragazzina si dibatte, digrigna i denti dalla rabbia.
Il Biâs perde la sintèresi:
«Ah sí? Vuoi mordermi? Tu con me non ce ne puoi. Non ti rendi conto che ti posso piegare come voglio, ché sono io quello che comanda!»
Fa pena la Grisa tenuta per i capelli. La Malvina – che da quando la Terésia è morta viene spesso al cimitero a dare una mano nei lavori – implora il Biâs:
«Per l’amor di Dio, lasciatela stare, non è cosí che si fa con una creatura...»
E lui:
«Macché creatura. Questa l’è una lupa. E coi lupi di carezze e zuccherini non c’è di bisogno».
Sostiene che occorre levarle il brutto vizio di ribellarsi, che lui alla fine saprà farla rigare dritto. I padri comandano e i bocia devono obbedire. Il padre insegna. Il figlio impara.
[...]
Al filo della mezzanotte di San Giovanni, come tutte le nubili della valle, la Fenísia riempie una scodella d’acqua e la lascia fino all’alba sul davanzale, dopo averci versato dentro una chiara d’uovo, perché si rapprenda con la rugiada. Il pronostico sembra buono. I benís vengono dunque distribuiti. Lei prepara il buché, la velettina blu, il vestito da festa col collo abbottonato alto; lui compra gli ori. Allo sposalizio le parole di don Adolfo la inquietano – «Prometti di onorare tuo marito...» – ché quella parola «onorare» è uguale a quella che il parroco precedente tirava fuori per reclamare l’obbedienza a un padre che picchia senza amore.
Finita la funzione, si dà il via a una pacciatòria memorabile, tanto che alla fine della soarè le comari raccontano ridendo l’antica favola degli sposi che passarono la prima notte a fare una tale spropter-màgnam di confetti, che dovettero tornare a casa dai parenti a farsi curare con una purga l’infesciatura dei sò visceri.
Il Billio compra un casale fuori dal Paese Piccolo: con tutte le comodità, dal bagno alla televisione. Il luogo è piuttosto isolato ma va ben cosí, sostiene il barba «Didòn»: ché la Fenísia non è remissiva né di primo pelo, epperciò la convivenza con la cognata Dolinda avrebbe portato complicazioni: chi vuol viver e stare sano, dai parenti stia lontano. Eppoi il casale è in un’ottima posizione: nonostante la valle sia stretta e piuttosto buia, lassòpra batte il sole per parecchie ore; in piú non c’è vento, la casa è protetta da una balma; senza contare che si gode la vista della riàle d’acqua schiumosa e gagliarda che scompare in forre nere, per poi riapparire trasparente tra colonnate di larici.
Da vecchia la Fenísia tornerà spesso col pensiero alle speranze di quei mesi. Ché la vita spillícchia le carte poco a poco, per cui spesso è impossibile vedere il marcio all’inizio: ogni rapporto nelle prime fasi ha un aspetto attraente, quando il pomo offre la sua buccia di bei colori, addormentando i presentimenti, finché una poracrista si brusca il proprio pelo.
I proverbi dicono che per conoscere un uomo, bisogna mangiarci insieme uno staio di sale; e, d’altra parte, che il male non vien mai tanto tardi, che non sia troppo presto... La Fenísia è spaventata dalla meschinità del Billio e dalle sue insistenze a farsi intestare la dote di lei; ma soprattutto dalla grossolana brutalità dei suoi rapporti sessuali e dalla volgarità con cui la prende in giro per la sua ritrosia a letto: lui sí che ha visto il mondo, ché le donne in Germania sono vere femmine babiloniche e mica fanno storie a calarsi le mutande per lasciarsi speronare, eppoi la danno cosí cosà... Questi modi suscitano nella Fenísia una progressiva ripugnanza nei confronti del marito. È una lenta guerra che si va manmano inasprendo, perché lei rifiuta di fingere quell’espressione di grata beatitudine a cui il maschio nella sò boria quasi sempre crede, anche se è malrecitata. Di rimbalzo, lui passa sempre piú tempo fuori: la casa sembra gli serva solo per il rifocillo quando la sera torna dal lavoro eppoi via, al bar a giocare a soldi, purtroppo senza la protezione di san Macario. Lei resta sola in casa davanti al televisore: per compagnia, le inchieste del commissario Maigret e le sventure di David Copperfield.
La Fenísia si spaventa trovando in un cassetto del Billio un pacchetto di polvere bianca. Bicarbonato, sostiene lui. Ma, all’odore, lei sospetta ben altro. Per precauzione rispolvera i contravveleni della nonna e sta in campana.
Perché l’ha sposato? Per cercare di avere una vita diversa, col desiderio di non svegliarsi piú nel cuore della notte con la voce della Ghitín che le sussurra nell’orecchio: «Questo è un segreto da non dire a nessuno»; con la voce della Grisa che le singhiozza nell’orecchio: «Questo è un segreto da non dire a nessuno»; con la voce del parroco che le tuona all’orecchio: «Bisogna onorare il padre»; come se onorare fosse importante, la sola salvezza, come se la vita diventasse meno triste per il fatto di onorare. Lei che per tutta l’infanzia avrebbe avuto voglia di chiedere al curato: «Perché onorare chi batte la propria figlia?...» Somà e sonònna non le avevano mai chiesto di onorarla.
In paese si mormora che il «Pal-de-fèr» ronzi da mesi intorno alla Cít, che ha ventun anni; lui dimostra una cera da galletto, la voglia visibilmente in punta. Una volta che la Fenísia scende dal tabacchino per compere, la Centina la prende da parte e, facendo finta di spurinarla – «poverina qui», «poverina là» – ma bagnandosi il savoiardo nelle disgrazie dell’altra, le spiattella la schifenza dell’adulterio senza usare lunghi giri di perifrasi. La Fenísia si sente mancare il fiato: gambe di pezza, nebbia in testa. Cerca comunque di dominare il tremito mordendosi le labbra.
Si ritrova poco dopo a camminare verso casa, come lottando con un’aria che si è fatta cosí spessa da mozzarle il respiro. La gola le brucia, la lingua impastata. Un po’ d’acqua, per carità. I piedi la portano automaticamente verso un fontanino, ma quest’estate è secco, ne sgorga solo un filino d’acqua, i sassi quasi asciutti. Nessun sollievo. Perfino il pianto non viene, neanche una lagrima da bere.
Chi sa come ritrova l’uscio di casa. Si siede in cucina. Le solite vocine: «Non urlare! Non scalciare! Fa’ la brava...» Le ci vuole un po’ per sciogliersi in uno squasso di pianto. Negli occhi gli oggetti della cucina spallidiscono, tremano. Piangere, urlare, scalciare: oh, come le fa bene sta caragnata. S’è alzato il vento, alle finestre le tende prendono a muoversi debolmente: un piccolo sollievo dopo la gran sudata del ritorno a casa. La Fenísia sospirando si impone di affrontare con durezza il marito, appena rientrerà: gli chiederà conto. Si sdraia sull’alto lettone matrimoniale, rigida, a occhi sbarrati.
Le marcolfe linguacciute hanno di nuovo su che ricamare finezze da trobàr cortés: il Billio è scappato con la Cít. Carezzandosi gli orecchi con grande mormorazione di lingua e dardeggiando sguardate d’intesa, la Centina «Portapía» sentenzia:
«Si vede che lui per la Fenísia non provava piú niente, ché l’amore all’inizio fa passare il tempo e poi il tempo fa passare l’amore. Eh, verità verissima, certi uomini di donne non ne hanno mai a basta: piú di Maometto hanno bisogno di averne. Mica come il pòer Dionigi che la femmina non gli tira la sò maschilità, e lo posso ben dire io perché all’ora di scegliere un pasticcino dal cabarè sul bancone del bar, slunga la mano solo per la dolcería a forma tubolare».
Le sorelle Ferretto rivangano maliziosamente la storia scabrosa con la Grisa e la triste nomea di settespiriti che grava sulla malarazza della Malvina:
«C’era da aspettarselo: di pelo rosso non è buono neanche il capretto, figurarsi una donna; tanto piú con quegli anni tra i barabítt che ha alle spalle. Lui alla fine ha afferrato l’antifona e se l’è squagliata».
E, visto che nessuno vede la Fenísia piangere, la Dolinda «Senzatètt» commenta:
«Ha il cuore di pietra. L’avevo detto io che pelo rosso, cattiva lana».
Vero, la Fenísia non piange, chiusa com’è in un pensiero fisso: che basta un niente, e le sicurezze che una persona si costruisce faticosamente si sgretolano come farina che si perde da un sacco bucato. Alle linguesporche non risponde. Per non fare il loro gioco, l’unica linea di condotta possibile le pare il continuare nel solito atteggiamento cortese, come se nulla fosse accaduto. Ché le comari gongolerebbero a vederla ferita.
Le viene la notte una penosa sensazione allo sterno, stretto come in una morsa. Rabbrividisce perché comincia a vedersi doppia, un’altra con la sua stessa voce. La sera, spente le luci, rimane a parlare tra sé. Ma non è piú il gioco della Fenísia bambina, quella prima del «collegio», che aveva vicino la Grisa che l’ascoltava. Non è neppure la Fenísia tornata al paese dopo la reclusione, sempre all’erta sul chi-va-là. Adesso c’è un’altra Fenísia ancora, che si osserva dal di fuori, come se nella stanza ci fossero veramente due persone: una sbandata in lunghi conversari verso l’altralèi invisibile che ascolta. Sta per caso diventando matta come sò cugina? A volte si chiede se è cosí che la morte fa luce nella testa della gente.
Il pensiero della fine solitaria della Ghitín le spírita nella mente. Madre... Non riesce a ricostruirne l’immagine, non la vede, non sa cercarla, non ha mai imparato a cercarla. Si sente i piedi impigliati nelle radici del sò sangue in lutto, ma non conosce la strada per andare avanti. Se somà venisse a illuminarla...
Durante uno dei suoi vagabondaggi inquieti si ritrova in un prato fiorito di aconito blu. «Cappucci di monaco» li chiamano qui in valle. La Malvina raccomandava di tenersene lontani: è una specie di arsenico vegetale; se si viene a contatto con la pianta, bisogna lavarsi accuratamente le mani prima di toccare qualsiasi cibo. La Fenísia quasi senza pensarci affonda le dita nella terra, ne carezza la radice grumosa, quasi tastasse l’uovo a una gallina. Basterebbe metterla in bocca, masticarla: tempo un minuto e la sarebbe finita.
Spesso si ferma alla cappelletta che sta ai margini del prato delle Balenghe: ché se tutti hanno dimenticato le donne senza nome che stanno sepolte quassòpra, non cosí la Madonna, che femmina era pure lei e di incomprensioni ne sapeva qualcosa. Chissà chi eresse la cappellina proprio qui? quale mano pietosa, quale sfantasía di pincisanti ambulante concepí questa rozza immagine? Ha la testa un po’ piegata su una spalla, sta Madre Santa, una spada infilzata nel cuore, la bocca severa su cui si intravede la compassione: col volto solido delle donne di questa valle, che lavorano duro cominciando la sò giornata al barlume della stella boàra.
Alla mente della Fenísia riaffiora la preghiera accoracuore che per tutta l’infanzia ha sentito ripetere da sonònna Malvina:
«Per quel dolore amarissimo che quasi vi ridusse alle agonie, o Inconsolabile, quando doveste rendere a Nicodemo l’unico oggetto dei vostri amori...»
[...]
«Fenísia, non le fa impressione avere sulla porta di casa l’immagine del Giorno del Giudizio?»
No, non le ha mai dato fastidio sto affresco. Qui lei è sempre stata nel suo naturale. Eppoi ha mai pensato che il mondo dei morti fosse cosí. Per lei, morte significa ossa bianche, polvere, vialetti ordinati, il cipresso che vigila. È il mondo dei vivi che è terribile. Comunque di questo lavoro hanno campato tutti i suoi, per generazioni. E lei lo stesso, finché è durato il Paese Piccolo.
Se non le pare insolito questo lavoro per una donna? Chi lo sa. Tutti i mestieri dan da mangiare. La vita è fatta di tante cose che non si scelgono. Il padre, la madre, uno se li sceglie? Il posto dove uno nasce? Eccosí succede per il mestiere. Mica uno può cambiare. Sarebbe bella che il destino fosse come un paio di braghe che, se ti van corte o strette, ne puoi mettere delle altre. Comunque lei trova che il lavoro del becchino sia molto vario: si tratta mica solo di scavare le fosse o di curare le tombe; prima i morti vanno ripuliti e vestiti. Quella è la parte piú delicata del lavoro. La Fenísia si è abituata a seguire sopà nelle case in lutto. Mal sottile, cancrene, infarti, piaghe non hanno avuto segreti per lei. Ha imparato osservando sopà nella preparazione dei corpi da chiudere nella bara. L’anticamera del nulla le è diventato familiare.
Nella lavatura dei cadaveri, che ha eseguito per anni, lei non ha mai provato schifo, anche quando si macchiava le sottane nere coi loro umori putridi: macchie grasse, come i succhi marci della frutta quando casca a terra per la sò maduranza. Sopà le raccomandava continuamente di non dimenticare di lavarsi le mani quando aveva finito, soprattutto se i parenti del morto le offrivano da mangiare, come si usava da queste parti.
Cosa provava? Cosa vuole che provasse? Quante domande curiose fa sta sciura milanese. Chiaro che certe cose la Fenísia non può contarle per filo e per segno. Come si fa a spiegare quel che si sente lavando i cadaveri e preparandoli per la cassa? Come si fa a raccontare quel momento in cui il corpo già rigido pare tremare sotto le dita, come se avesse un ultimo soprassalto di vita?... L’importante comunque è, mentre si compone il corpo nella cassa, continuare a ripetere il nome del morto. È l’usanza. Primo, perché i non-piú-vivi non devono aver l’impressione di traversare la grande frontiera da soli; secondo, perché il morto se lo ricordi eternamente, nel caso che qualcuno dall’altra parte glielo domandi. Eggià. La sola cosa che l’ha sempre inquietata era lo sguardo vuoto dei cadaveri: quell’enormità di nulla che vi intravedeva a dispetto dei ricami di parole – la resurrezione di Lazzaro e il destino di luce che ci attende – distillati dal curato durante i funerali. Quella consolazione promessa che invita alla pazienza, perché verrà il giorno che le lagrime si asciugheranno: ball de Pèder gall... Comunque sopà le ha insegnato a non tirarsi mai indietro, ché pulire i morti l’è la carità piú granda. Lui si disperava solo del fatto di non aver potuto accomodare nella bara il sò povero fratello, il Martino. Disperso in guerra, nell’inferno gelato della ritirata di Russia, tra genti che lo consideravano un nemico e di sicuro non hanno provato nessuna pietà. Una morte senza funerali, senza lagrime, senza preghiere. Perché Domineddio non ha previsto neanche un briciolo di compassione per chi muore da nemico. Lasciato a marcire senza neppure una pietra che gridi al mondo il sò nome. Ché dopo la guerra sono venuti al paese a mettere un cippo a tutti i poveri pistapàuta caduti. E c’eran dei politiconi, di quelli che si vedeva che paciottavano alla benbene. E nella spatafiàda che han propinato alla gente, patapín e patapàn, uno ha detto che quelli come il Martino avevano dato la propria vita in sacrificio contro la barbarie russa. Ma si capiva, tutti i presenti capivano, che la barbarie erano loro, con le loro mani guantate, i loro visi ben sbarbati, la boria delle scarpe belle lustre. Ah, la Fenísia proprio ne ha piònda di quella gentaglia lí...
Purtroppo cosí va il mondo: chi le fa piú sporche, è bravo. Ci sono tombe ingiustamente dimenticate e tombe ingiustamente onorate. Lei si ricorda che tutti gli anni, nell’anniversario della morte di un gran malamènti, un porco carognone, la sua lapide si copriva di fiori. Che vergogna. E lei non parla soltanto di quelli della valle: tutto il mondo è paese e, in materia di forca, tanto strozza la seta che la canapa. Mascalzoni, intrallazzisti, sautabànchi capaci di ogni tipo di discorso a trucco, rimangono nel ricordo della gente; e nessuno se ne sdegna. Invece per i poveretti, nisba: neanche un fiore, un cero. Esiste forse la tomba dell’inventore del pane? Quella dell’uomo che ha costruito la prima sedia o il catino? Eppure sarebbero da riverire, ché son loro i veri benefattori del mondo.
«...»
Il destino taglia i fili quando vuole. Un cacciatore risparmia le bestie piccole, il pescatore ributta in acqua il pesce che non ha ancora compiuto il suo ciclo. Ma quel che trova nella sua rete, il destino se lo tiene senza misericordia. Ma il tremendo è che a volte gioca al gatto col topo. La sciura ha mai visto un gatto quando ha a portata di zampa la sò preda e sa che non può sfuggirgli? I baffi gli vibrano di soddisfazione, come se pregustasse già il sapore della plücca, di quel bomboncino di carne fresca, senza ancora sfoderare le unghiette dallo sciampíno di velluto, ma con i nervi e muscoli ben tesi, la coda che cerca il punto di appoggio perché tutto il corpo prenda lo slancio e salti... Cosí fa il destino.
«Fa una certa impressione sentirla parlare in questo modo, Fenísia. Come se non ci fossero consolazione o giustizia possibili».
Uno prende la purga e l’altro va di corpo: questa è la prima regola della vita. Quanti vanno alla forca che non ne han né mal né colpa. Cosí va il mondo. Si fa per la meglio; alla peggio ci siamo. Si vive da ottenebrati. Quel che i tuoi occhi non stanno vedendo oggi può darsi che dovrai soffrirlo come colpa posdomani. Per non sbagliare non bisognava nascere.
[...]
L’estate è smeraldo: boschi, lucertole, perfino le pietre sono verdi. Anche la casa sembra invasa da una luminosità di quel colore: sarà per il profumo della menta e della camomilla appese in fasci alle travi. L’acqua bevuta dalla secchia col mestolo di ferro lega gradevolmente i denti e sa di radici profonde.
Seduta sulla panca addossata al muretto del cimitero, la Grisa ascolta la Fenísia che chiacchiera rivangando la comune infanzia:
«Perché i padri picchiano le figlie e si giustificano che è per il loro bene, per punire il loro “brutto vizio”, e che da grandi le figlie intenderanno? Ma intendere cosa?... Perché le botte e le cinghiate? E alla fin fine cos’era sto brutto vizio?»
Il fischio di un uccello chiama la pioggia. La Fenísia continua dandosi da sé una risposta:
«Era semplicemente che, quand’una nasce, la famiglia è già pronta con uno stampino, come quello delle torte. Ma evidentemente qualche bambina ha una forma che non si adatta allo stampo. Per questo la pestano cosí tanto: perché non si rassegna, non si arrende».
[...]
La Fenísia ha già coperto il mucchio di ricci con la sabbia: cosí le castagne resteranno fresche fino a primavera. Ora sta preparando la riserva di legna per l’inverno: da dietro casa si alza il rumore secco del mazzuolo quando viene battuto sul cuneo.
Lavora da sola, perché la Grisa ha da fare nel capanno degli attrezzi, affianco alla legnaia, dove ha installato una specie di laboratorio. È sempre stata brava a riparare un contatto elettrico saltato dopo un cortocircuito, con l’aiuto di un temperino sa rimettere in moto un meccanismo che si è fermato; ma adesso l’impegno che le prende quasi interamente la giornata è la costruzione di strani apparati. Si tratta di «macchine» – cosí le chiama la Grisa – dall’utilità fantastica. C’è presèmpio, la macchina «per far passare la paura»: un’armatura di plastica e legno, a cui sono legati vari fili elettrici, con due fori per le mani a cui sono applicati i meccanismi di un paio di macinini a manovella. Oppure quella «per non far volar via le parole e i pensieri»: una specie di passamontagna di lamiera da infilarsi intorno al capo. Ché la Grisa è molto preoccupata della possibilità che qualcuno le entri nella testa e la derubi dei propri pensieri; sostiene che le parole scendono dal cervello fin giú nella bocca ma che, nel momento in cui arrivano alla lingua, un non meglio specificato «nemico» le prosciuga. La sua speranza è di riuscire a fabbricarsi una testa nuova.
Adesso, infagottata in una vecchia tuta maschile da lavoro con ampie tasche laterali gonfie di attrezzi, la Grisa è tutta intenta alla costruzione di un grosso cubo in legno di ciliegio a cui vuole applicare un motorino: l’ha chiamato la macchina «per fabbricare tempeste».
Alla Fenísia gli apparati della cugina fanno una strana impressione: tra l’addobbo di un albero di Natale e un’armatura degna dell’armata Brancaleone. Comunque non le spiace che la Grisa quasi non l’aiuti nei lavori di casa, anzi la asseconda: è convinta che se una ha passato piú di trent’anni all’inferno ha ben diritto di tornare bambina. Certe sere, quando la chiama per la cena, la vede venir fuori dal capanno degli attrezzi, con la faccia arrossata, tutta un sudore.
La Fenísia borbotta inquieta:
«Perché affannarsi cosí tanto? Che fretta c’è?»
L’altra ride e scuote la testa. La Fenísia corre a prepararle una maglia asciutta e una tazza di latte caldo.
Nel laboratorio il notes della Grisa si va riempiendo della sua magra grafia: per lo piú sono progetti di «macchine», tracciati con inchiostro blu, un po’ sbavato; ma soprattutto schegge di pensieri o ricordi. Pagine di frasi misteriose:
«Un’altra volta è entrato nonsoché nel dito. La Cosa può nascondersi anche in una roba piccolissima. Nella gola, nel petto, nella pancia».
«Quando non ci sono morti sul soffitto, si può fare il giro della stanza».
«Se le parole non scappano dalla bocca, la Cosa non le può mangiare».
Prima di dormire, davanti alla stufa accesa, una tazza fumante di decotto. Il profumo del genepí si spande per la stanza: scalda forte e fa bene.
La Fenísia ha preso l’abitudine di leggere alla cugina qualche pagina a voce alta. Dei pochi libri che stanno in casa, il preferito è la Bibbia: un vecchio volume con severe illustrazioni: Caino il peccatore, che si guarda alle spalle; l’arca di Noè carica di animali; la moglie di Lot trasformata in statua di sale; la caduta delle mura di Gerico al suono delle trombe; la bellissima Ester in ginocchio davanti al re; la magica scritta «Mane, Tekel, Fares» sul muro del palazzo del re ingiusto; Giuditta nella tenda di Oloferne... La Grisa ha preso la solita pastiglia e ha un’aria rilassata, ché via via che la medicina fa effetto, il diavolío di pensieri dolorosi che spesso la prendono alla sera si attenua: come alle fiere di paese quando, dopo un giro vorticoso di manovella, la ruota della fortuna coi bigliettini dei premi prende a rallentare. Nella testa le immagini traballano e frenano la corsa, il soffitto si fa sempre piú lontano, l’aria si addensa.
La Fenísia alza gli occhi dal libro. La luna piena imbianca il cimitero. I fiori di ghiaccio brillano sui vetri. Dice:
«Che luce, là fuori. Non sembra neppure notte».
Poi zittisce, accorgendosi che l’altra si è addormentata sul divano in un sonno tranquillo, il braccio destro piegato sotto la nuca.
Sul notes la Grisa stasera ha scritto:
«Gesú stava nel cortile del Tempio. Vennero gli scribi farisei a portargli una donna. Dissero: Guarda, Figlio dell’Uomo, questa è una pazza. La Legge dice che quelle come lei vanno rapate.
E lui si mette a scrivere con un dito nella polvere.
Allora quelli dàgli a insistere: Cosa fai di bello, Figlio dell’Uomo, cosa ci dici di bello?
Amen».
[...]
«Allora torniamo a quel prato delle Balenghe».
Per lei è un luogo di storie. Non sue, sia chiaro. Narrazioni che lei ha sentito da bambina nelle stalle, quando le vecchie filavano in circolo. Storie di fatica, di patate da cavare con le mani sgrabelate, di lupe che urlano di fame, di figli ingrati, di gente capace di accoltellarsi per una fascina di legna. Lei ne ha sentite tante, ma proprio tante. Eh, il sangue di una vecchia la sa lunga.
Perché il prato si chiama cosí? Ste Balenghe chi erano? Donne che vivevano da sole. Donne che, secondo la comunità, avevano qualcosa di strano: albine, presèmpio, o gobbe o strabiche o mancine... Insomma, che avevano caratteristiche fuori dal comune oppure che soffrivano del morbo della malinconia. Ognuna balenga per il sò particolare motivo. La sciura vuole sentirne una?
C’era l’Anna. Balenga, le dicevano tutti: balenga, perché non sapeva neppure dire quante paia fanno tre mosche. Innocente, forse cosí l’avrebbero chiamata se fosse vissuta in un altro posto. Ma qui in valle la gente è di legno. Nuca dura e mano quadra. Lo scherno come regola. Ché, a contarla intera, la pecca dell’Anna era semplicemente il fatto che fin dalla nascita non parlava né sentiva. Viveva in un mondo tutto suo, vuoto di suoni: ci volavano le nuvole, i falchi, le foglie portate dal vento; scendeva a valle la riàle, verdeggiavano i prati a ogni primavera, veniva la tormenta di neve alla sò stagione; ma tutto per lei succedeva in silenzio.
Innocente: non aveva conosciuto l’uomo, non doveva niente a uno sposo, come le altre femmine; mai la cannetta della schiena le si era piegata in una riverenza davanti a un maschio per cui spazzare, cucire, fare ordine, dare conforto. Ma non offendeva nessuno, anzi sorrideva sempre. Per tutta risposta, la gente le faceva intorto prendendola in giro: ché gli asini non conoscono i confetti. Per i giovanotti poi era uno spasso: le gridavano dietro le frasi piú sconce. Perfino i bambini usavano canzonarla. Ma lei sempre a rispondere solo con gli occhi di un verde sabbioso che non sapeva il rancore; la bocca infantile, con una piega agli angoli, che pareva tremare di continuo, non si capiva se di riso o di pianto.
L’unica parente era una zia che abitava in un villaggetto all’altro capo della valle. Una brava donna di nome Gnetta. L’Anna saliva a trovarla una volta al mese, a portarle i suoi sospiri; restava là un paio di giorni, poi tornava giú a riprendere il suo lavoro di canestraia. Chi le voleva bene veramente era un canlupo nero che la seguiva dovunque andasse.
Si combatteva a quel tempo là. Ché di guerre ce n’è sempre una, con un prete pronto a benedire le bandiere: non fu mai altrimenti né mai sarà. Con i montagnini che non ce ne possono: ché, vinca l’uno o l’altro, sempre di padroni si tratta, che ci fan da giudice, ci guardano come fossimo ladri e non ci lascian altro che grattarci con comodo i maroni, con rispetto parlando. Insomma era una di quelle guerre che venivano da lontano, di là dalle montagne. La valle era, come adesso, di difficile accesso, ma delle soldataglie erano riuscite comunque a arrivarci. Lungo il sentiero che da un paesino all’altro procede lungo la scarpata, si snodavano in fila, con vociare e grida, il cacafuoco sottobraccio, lo staffile al fianco. Lo sa Dio cosa cercavano: ché tra le nostre montagne non c’è niente che possa far gola, qui è un posto di vita accontentata, mica come a Milano dove anche i moroni fanno uva.
Gli invasori guardavano con aria superba le donne e i vecchi inginocchiati nella polvere. Avevano lineamenti differenti dai nostri, una voce sprezzosa: entravano nei villaggi, facevano suonare le campane e pretendevano ruote di pane, brente di vino, rosticciana d’agnello. Chi non donava veniva ammazzato, stalle e ovili bruciati: la vita dei paesani valeva quanto una foglia che si può accartocciare tra le dita. Le donne, che in un colpo solo perdevano la roba i mariti e l’onore, si rotolavano per terra dalla disperazione, mordendosi le mani. La paura prendeva tutti alle busecche appena sentivano avvicinarsi un drappello di quei plúfferi. Tutti meno l’Anna, ché il silenzio in cui viveva la chiudeva come in una fortezza. Era la sua fortuna: ché se c’è anche un Signúr dei ciucchi, ci sarà bene anche quello dei lucchi.
Era novembre. Già fioccava a pelo di gatto. Una coltre di neve soffice copriva il sentiero, mentre lei saliva a trovare la zia. Un silenzio piú vasto del solito. Le faceva piacere camminare nella caligine del mattino. In un varco di nebbia ogni tanto occhieggiava il lumino lontano dell’ultimo villaggio della valle. Il canlupo sempre dietro a lei.
Dapprima vide il campanile, alto sopra i boschi. Poi la casa, un po’ discosta dalle altre. Salí i gradini della scaletta di pietra, bussò. Le aprí una donna sconosciuta che le spiattellò in faccia:
«Tua zia l’è morta e sepolta da due settimane».
La ragazza però non intese; anzi, cominciò a far la riverenza, come per ringraziare. Finché si ritrovò seduta sui gradini, con le braccia intorno al collo del canlupo. La porta chiusa sprangata; di fianco a lei stava una cassetta di sbarlafusi appartenuta alla vecchia Gnetta: tutta la sua eredità. Quando finalmente intese, scese stranita gli scalini insieme alla bestia.
Corse col canlupo attraverso la neve profonda. Solo quando fu in mezzo al bosco, si acquietò. In pace, mentre il suo silenzio interno si fondeva col bianco della neve. Il canlupo le leccò le mani per compatirla. Camminò in fretta, la bestia sempre trotterellando al suo fianco e ficcando il naso tra i cespugli carichi di neve. Il pomeriggio intorno a lei era tranquillo.
Giunse in vista del Paese Piccolo, il cammino le aveva messo una gran fame. Incrociò un ragazzo che, aggrottando le sopracciglia, le gridò qualcosa che però lei non capí. Avanti, avanti, un passo dietro l’altro, affondando nella neve. Sul motto che dominava il gruppo di case che si stringevano intorno alla chiesa, si fermò presa da un’insolita paura. In basso, vicino ai fienili del Rosualdo, dove fin dai tempi di Adamo si tenevano le riunioni, si affollava la gente: pugni rabbiosi si sollevavano sopra le teste e gli stivali dei pastori calpestavano un picia-pucia di neve e fango; il vapore denso delle respirazioni aleggiava sulla folla. Dal lato opposto stava un gruppo di soldati stranieri; due di loro tenevano per le braccia l’Emiliona, la locandiera del paese.
Era successo che un soldato l’aveva accusata di avergli ripulito le tasche. La gente gridava:
«Confessa, troia! Sempre hai venduto la micca scrocca, ma derubare un soldato è davvero troppo!»
L’Emiliona confessò cupamente che sí era colpevole, sputando sulla neve il sangue delle bastonate ricevute.
«Ammazzarla, ci vuole, quella figlia di cagna», urlavano le donne, che ce l’avevano con lei perché oltre al vino l’Emiliona vendeva ai loro mariti anche altri favori di porcheria di cui la decenza è solita tacere.
Comparve il Rosualdo. Era il capo della comunità: ché, siccome avareggiava alla grande, possedeva le stalle e gli ovili di mezza valle. Tagliò il frastuono con la mano orizzontale e tutti si tacitarono di colpo. Alto una testa piú degli altri e forte come un toro; ma piú che altro tutti lo temevano per la lingua tagliente e il cuore di sasso. Un uomo senza angelo custode: gli altri, come acqua li beveva, come erba li calpestava; ché chi fa e guasta diventa maestro. Disse:
«Ammazzarla non se ne parla nemmeno. Primo, perché penso che l’Emiliona abbia imparato l’antifona e non ripeterà piú quello che ha fatto; secondo, non ci conviene consegnarla a questi soldati: in fondo qui in valle fa il suo bel servizio».
Poi, infilando tre volte l’indice destro nella sinistra chiusa a pugno, fece un gesto sconcio. Quindi riprese fiato guardando verso il motto da dove in quel momento l’Anna scendeva verso il villaggio. La seguí per un attimo a occhi socchiusi, mentre sul viso gli si disegnava una smorfia volpina; poi continuò:
«Comunque son d’accordo con voi che non si può lasciare passare liscia una faccenda simile: ogni delitto va punito severamente e, per distogliere la gente cattiva dall’idea di ripetere un furto, non c’è che la morte. Il peccato si uccide insieme al peccatore: come esempio e perpetuo timore di chi ci voglia riprovare».
Tutti intorno a lui assentirono con la testa, nella maggiore sospensione.
«Tanto piú che bisogna dare soddisfazione agli offesi»,
aggiunse il Rosualdo, accennando ai soldati foresti che formavano un cerchio intorno a loro. Poi proseguí:
«C’è però da considerare un altro lato della questione: di puttane ne abbiamo una sola, mentre di pecoraie o canestraie ne abbiamo tante. È piú facile per questo scopo rinunziare a una di loro piuttosto che all’Emiliona».
Nel dire questo additò l’Anna che aveva ormai raggiunto il gruppo. E rise:
«Batt i pàgn, fœra la stría...»
Lo pensarono tutti: era orfana, disgraziata, buona soltanto da fà la zuppa. Nessuno l’avrebbe pianta. Non ci voleva la zingara per indovinarle la sorte.
Detto fatto, tutti si adeguarono al parere del Rosualdo. A nessuno venne in mente di discutere la sua proposta: era la colpevole che ci voleva, perché la comunità aveva bisogno della sua colpa.
Giusto in quel momento l’Anna era arrivata allo spiazzo davanti ai fienili, dove la gente stava radunata. La ragazza si accorse che tutti la guardavano truci. Sorrise voltandosi a dritta e a manca, ma i visi di tutti continuarono a fissarla allo stesso modo.
Il Rosualdo le puntò l’indice contro:
«Rassègnati, tanto non puoi farci niente lo stesso».
E tutti fecero coro.
Però lei non sentiva. Si meravigliò delle braccia tese da tutte le parti a brancicarla per le vesti. Cercò di serrarsi nel suo scialletto, ma glielo strapparono via. Si agitò senza comprendere, mentre la folla la trascinava fuori dal villaggio. Il canlupo abbaiava, rizzando il pelo; lo presero a pedate.
L’Anna vedeva le bocche che si aprivano in smorfie paurose e orrende; si lasciava trascinare con impaccio. Camminarono nella neve intatta dell’ultimo prato prima del burrone. Davanti i bambini curiosi, dietro i vecchi zoppicando sul bastone. I soldati foresti seguivano a breve distanza il gruppo di paesani vocianti e osservavano la scena, impassibili.
La spinsero sotto il noce. Siccome il canlupo le girava intorno spaventato, lei si chinò a carezzargli il capo. Era l’ultimo prato prima dell’orrido. Veniva sera, il cielo fiammeggiava rosso. L’Anna aspirò l’aria fredda, sentí la neve bruciarle le caviglie ché nel camminare, a furia di spintoni, aveva perduto le zoccole. Sentiva l’odore dei fiati intorno a lei, acidi di vino rabbia e paura. Il sorriso le si spense in bocca quando incontrò lo sguardo del Rosualdo. Chi sa se comprese il suo destino. Giunse le mani, intorno a lei il silenzio era totale, puro come il bianco della valle.
I paesani la circondavano con il braccio alzato, una pietra in ciascun pugno. A lei parve un cerchio di mostri. Il primo sasso la colpí alla spalla e ruzzolò pesantemente ai suoi piedi. Volse gli occhi increduli a chi aveva tirato. Si accorse che il canlupo aveva il pelo ritto, slungò il braccio per raggiungerlo. Poi non guardò piú. Cadde. Morse la neve, ci affondò il viso. Il sangue si raffreddò in fretta sull’erba gelata. Presto ci fu un cumulo di pietre sopra il cadavere. Un grande mucchio, quasi che tutta la comunità volesse assicurarsi che il suo corpo non potesse scapparsene via e svanire nel crepuscolo del mondo.
Il cielo si scuriva; si accesero le torce. Una vecchia appese a un ramo del noce lo scialletto nero che aveva strappato alla ragazza. Dal bosco, dove il canlupo era fuggito quando la sassaiola era cominciata, si levò un ululato minaccioso, che fece rizzare i capelli a tutti. Le donne si segnarono, una vecchia disse:
«Il sangue chiama il cielo».





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Lettura di Sciascia in biblioteca

5 Marzo ore 20,30, Biblioteca Castiglione delle Stiviere

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