Lettera ad un bambino mai nato - Oriana Fallaci

>> martedì 21 dicembre 2010

Lettera a un bambino mai nato è un lungo monologo drammatico e poetico in cui la protagonista affronta i dubbi, le incertezze e le delusioni della sua maternità di donna sola. Sembra che la Fallaci lo abbia scritto al posto di un'inchiesta sull'aborto che le era stata commissionata dall'editore della rivista per cui lavorava. Sicuramente c'è molto di autobiografico perchè nel corso della sua vita ha vissuto lo stesso dramma narrato. Di enorme valore la parte iniziale, più prosaica invece quella finale. L'edizione in audiolibro, letto dalla stessa autrice con la sua voce grave, ha un ulteriore valore aggiunto. Uno dei libri più belli letti quest'anno.


La mia mamma, vedi, non mi voleva. Ero incominciata per sbaglio, in un attimo di altrui distrazione. E perché‚ non nascessi ogni sera scioglieva nell'acqua una medicina. Poi la beveva, piangendo. La bevve fino alla sera in cui mi mossi, dentro il suo ventre, e le tirai un calcio per dirle di non buttarmi via. Lei stava portando il bicchiere alle labbra. Subito lo allontanò e ne rovesciò il contenuto per terra. Qualche mese dopo mi rotolavo vittoriosa nel sole, e se ci sia stato bene o male non so. Quando sono felice penso che sia stato bene, quando sono infelice penso che sia stato male. Perché, anche quando sono infelice, penso che mi dispiacerebbe non essere nata perché‚ nulla é peggiore del nulla. Io, te lo ripeto, non temo il dolore. Esso nasce con noi, cresce con noi, ad esso ci si abitua come al fatto d'avere due braccia e due gambe. Io, in fondo, non temo neanche di morire: perché‚ se uno muore vuol dire che é nato, che é uscito dal niente. Io temo il niente, il non esserci, il dover dire di non esserci stato, sia pure per caso, sia pure per sbaglio, sia pure per l'altrui distrazione. Molte donne si chiedono: mettere al mondo un figlio, perché‚? Perché‚ abbia fame, perché‚ abbia freddo, perché‚ venga tradito e offeso, perché‚ muoia ammazzato alla guerra o da una malattia? E negano la speranza che la sua fame sia saziata, che il suo freddo sia scaldato, che la fedeltà e il rispetto gli siano amici, che viva a lungo per tentar di cancellare le malattie e la guerra. Forse hanno ragione loro. Ma il niente é da preferirsi al soffrire? Io perfino nelle pause in cui piango sui miei fallimenti, le mie delusioni, i miei strazi, concludo che soffrire sia da preferirsi al niente. E se allargo questo alla vita, al dilemma nascere o non nascere, finisco con l'esclamare che nascere é meglio di non nascere. Tuttavia é lecito imporre tale ragionamento anche a te? Non é come metterti al mondo per me stessa e basta? Non mi interessa metterti al mondo per me stessa e basta. Tanto più che non ho affatto bisogno di te.
[...]
Mi prendo la responsabilità della scelta.
Me la prendo senza egoismo, bambino: metterti al mondo, lo giuro, non mi diverte. Non mi vedo camminare per strada col ventre gonfio, non mi vedo allattarti e lavarti e insegnarti a parlare. Sono una donna che lavora ed ho tanti altri impegni, curiosità : te l'ho già detto che non ho bisogno di te. Però ti porterò avanti lo stesso, che ti piaccia o no. Te la imporrò lo stesso quella prepotenza che fu imposta anche a me, e ai miei genitori, ai miei nonni, ai nonni dei miei nonni: su fino al primo essere umano partorito da un essere umano, che gli piacesse o no. Probabilmente, se a costui o a costei fosse stato concesso di scegliere, si sarebbe
impaurito e avrebbe risposto non voglio nascere, no. Ma nessuno gli chiese un parere, e così nacque e visse e morì dopo aver partorito un altro essere umano cui non aveva chiesto di scegliere, e costui fece lo stesso, per milioni di anni fino a noi, e ogni volta fu una prepotenza senza la quale non esisteremmo. Coraggio, bambino. Pensi che il seme di un albero non abbia bisogno di coraggio quando buca la terra e germoglia? Basta un colpo di vento a staccarlo, la zampina di un topo a schiacciarlo. Eppure lui germoglia e tiene duro e cresce gettando altri semi. E diventa un bosco. Se un giorno griderai "Perché mi hai messo al mondo, perché? Io ti risponderò: "Ho fatto ciò che fanno e hanno fatto gli alberi, per milioni e milioni di anni prima di me, e credevo di fare bene".
L'importante é non cambiare idea ricordando che gli esseri umani non sono alberi, che la sofferenza di un essere umano é mille volte più grande della sofferenza di un albero perché‚ é cosciente, che a nessuno di noi giova diventare un bosco, che non tutti i semi degli alberi generano alberi: nella stragrande maggioranza
vanno perduti. Un simile voltafaccia é possibile, bambino: la nostra logica é piena di contraddizioni. Appena affermi qualcosa, ne vedi il contrario. E magari ti accorgi che il contrario é valido quanto ciò che affermavi.
Il mio ragionamento di oggi potrebbe essere rovesciato così, con uno schiocco di dita. Infatti ecco: mi sento già confusa, disorientata Forse perché‚ non posso confidarmi con nessuno al di fuori di te. Sono una donna che ha scelto di vivere sola. Tuo padre non sta con me. E non me ne dolgo sebbene, ogni tanto, il mio sguardo cerchi la porta da cui egli uscì, col suo passo deciso, senza che io lo fermassi, quasi non avessimo più nulla da dirci.
[...]
Bambino, io sto cercando di spiegarti che essere un uomo non significa avere una coda davanti: significa essere una persona. E anzitutto, a me, interessa che tu sia una persona. E una parola stupenda, la parola persona, perché‚ non pone limiti a un uomo o a una donna, non traccia frontiere tra chi ha la coda e chi non ce l'ha. Del resto il filo che divide chi ha la coda da chi non ce l'ha, é un filo talmente sottile: in pratica si riduce alla facoltà di maturare o no una creatura nel ventre. Il cuore e il cervello non hanno sesso. Nemmeno il comportamento. Se sarai una persona di cuore e di cervello, ricordalo, io non starò certo tra quelli che ti ingiungeranno di comportarti in un modo o nell'altro in quanto maschio o femmina. Ti chiederò solo di sfruttare bene il miracolo d'essere nato, di non cedere mai alla viltà. E una bestia che sta sempre in agguato, la viltà. Ci morde tutti, ogni giorno, e son pochi coloro che non si lasciano sbranare da lei. In nome della prudenza, in nome della convenienza, a volte della saggezza. Vili fino a quando un rischio li minaccia, gli umani diventano spavaldi dopo che il rischio é passato. Non dovrai evitare il rischio, mai: anche se la paura ti frena. Venire al mondo é già un rischio. Quello di pentirsi, poi, d'esser venuti.
[...]
Dopo l'esercito inglese venne l'esercito americano. Tutti dicevano che gli americani sarebbero stati più cordiali, più buoni, e la ragazzina sperò che fosse vero giacché‚ molti di loro ridevano grasse risate colme di umanità. Presto però s'accorse che con le loro risate grasse, colme di umanità, anch'essi violentavano e corrompevano e si comportavano da padroni: il domani era una paura nuova. La fame invece era la stessa. Per placarla alcune donne si prostituivano, altre lavavano i panni dei nuovi padroni. Ogni terrazza, ogni cortile era un ciondolar di uniformi e calzini e magliette; un vantarsi di chi ne lavava di più. Sei paia di calzini, un pane a cassetta. Tre maglie, una scatoletta di carne e fagioli. Una uniforme, due scatolette di carne. Il padre della ragazzina non permetteva che sua moglie e sua figlia toccassero quei panni sporchi. Diceva che bene o male il domani era incominciato e bisognava difenderlo con dignità. Per dimostrarlo invitava a mangiare gli "amici" e gli dava la sua razione di cibo fresco. Una sera gli dette perfino il suo orologio d'oro, pronunciando un bel discorso dove ricordava i prigionieri aiutati per il domani che restava una causa comune. Gli amici presero l'orologio d'oro e, per risposta, offrirono panni da lavare. La ragazzina si offese. Ma la fame é una bestia piena di tentazioni: pochi giorni dopo, di nascosto a suo padre, essa ci ripensò e chiese di lavare i panni. Giunsero due sacchi. Uno conteneva roba sporca e uno il cibo. Quello del cibo fu subito aperto e vuotato di tre scatolette di fagioli col sugo, due pani a cassetta, un vasetto di noccioline, un barattolo intero di gelato alla fragola. Quello della roba sporca fu aperto più tardi. E quando la ragazzina lo rovesciò nel lavatoio, arrossì di rabbia. Erano tutte mutande sporche.
Fu lavando le mutande sporche degli altri che me ne resi conto: il nostro domani non era giunto, e forse non sarebbe mai giunto. Avrebbero sempre continuato a imbrogliarci con le promesse: in un rosario di delusioni alleggerite da falsi sollievi, miserandi regali, pietose comodità per tenerci quieti. Giungerà mai per te il mio domani? Ne dubito. Sono secoli, sono millenni che la gente mette al mondo figli fidando nel domani, sperando che domani essi stiano meglio di loro.
[...]
Ha preoccupazioni? . Gli ho risposto sì. Ha avuto qualche trauma psicologico, che so un dispiacere? Gli ho risposto sì. Mi ha fissato senza chiedere che specie di trauma, che specie di dispiacere, poi mi ha esposto la sua tesi. A volte le preoccupazioni, le ansie, gli shock sono più pericolosi delle fatiche fisiche perché‚ causano spasmi, contrazioni uterine, e minacciano seriamente la vita dell'embrione o del feto. Non dimenticassi che l'utero é in relazione con l'ipofisi, che ogni stimolo si trasmette subito agli organi genitali. Una sorpresa violenta, un dolore, una collera, possono provocare il distacco parziale dell'uovo. Lo può addirittura un nervosismo costante, un perpetuo stato d'angoscia. Al limite, e lungi da lui l'intenzione di sconfinare nella fantascienza o nella fantapsicologia, si poteva parlare di un pensiero che uccide. Al livello inconscio, s'intende, e per questo dovevo assolutamente impormi d'esser tranquilla. Dovevo rigorosamente evitare ogni  emozione, ogni pensiero nero. Serenità, placidità erano le parole d'ordine. Dottore, ho risposto, é lo stesso che chiedermi di cambiare il colore degli occhi: come faccio ad essere placida se la mia natura non lo é? Mi ha squadrato di nuovo con freddezza: Questo é affar suo. Si arrangi. Ingrassi . Poi mi ha prescritto antispastici e altre medicine. Se per caso appare una goccia di sangue, corra da lui. Sono impaurita. Ed anche adirata con te. Cosa credi che sia: un contenitore, un barattolo dove si mette un oggetto da custodire? Sono una donna, perDio, sono una persona. Non posso svitarmi il cervello e proibirgli di pensare. Non posso annullare i miei sentimenti o proibirgli di manifestarsi. Non posso ignorare una rabbia, una gioia, un dolore. Ho le mie reazioni, io, i miei stupori, i miei scoramenti. Anche se potessi, non vorrei disfarmene per ridurmi allo stato di un vegetale o di una macchina fisiologica che serve a procreare e basta! Quanto sei esigente, bambino. Prima pretendi di controllare il mio corpo e privarlo del suo più elementare diritto: muoversi. Dopo pretendi addirittura di controllare la mia mente e il mio cuore: atrofizzandoli, neutralizzandoli, derubandoli della loro capacità di sentire, pensare, vivere ! Accusi perfino il mio inconscio. Questo é eccessivo, é inaccettabile. Se vogliamo restare insieme, bambino, dobbiamo scendere a patti. Eccoli. Ti faccio una concessione: ingrasso, ti regalo il mio corpo. Ma la mia mente no. Le mie reazioni no. Me le tengo. E con quelle pretendo una mancia: i miei piaceri spiccioli. Infatti ora bevo un abbondantissimo whisky, e fumo un pacchetto di sigarette, una dopo l'altra, e riprendo a lavorare, ad esistere come persona e non come barattolo, e piango, piango, piango: senza chiederti se ti fa male. Perché‚ sono stufa di te!

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Lettura di Sciascia in biblioteca

5 Marzo ore 20,30, Biblioteca Castiglione delle Stiviere

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