Zona pericolosa - Lee Child

>> giovedì 26 agosto 2010

Tutto narrato in soggettiva, è un libro avvincente con tanti colpi di scena. 
Il protagonista (un ex-militare che ha deciso di deporre la divisa e di andare alla ricerca dei luoghi in cui sono vissuti gli artisti mito del blues e che purtroppo deve far fronte agli "imprevisti" che trova sulla sua strada) sembra un super eroe da fumetto per l'intelligenza e la forza usata nello sconfiggere i cattivi, risultando quindi poco credibile. Siamo lontani dai livelli di introspezione psicologica di Ellroy, tuttavia il ritmo scorre veloce e la lettura è molto piacevole. Si imparano un sacco di cose, tra cui un originale metodo per creare dollari falsi praticamente perfetti.

Ero stato addestrato da esperti, tipi sopravvissuti alla seconda guerra mondiale, alla Corea, al Vietnam, gente passata attraverso esperienze di cui io avevo solo letto nei libri. Mi avevano insegnato metodi, dettagli, tecniche. Soprattutto l'atteggiamento corretto. Mi avevano insegnato che le inibizioni mi avrebbero ammazzato. Colpire subito, colpire duro. Uccidere al primo colpo. Rappresaglia prima ancora di essere attaccati. Ingannare. I gentiluomini non potevano addestrare nessuno. Erano già morti.
[...]
"Sei in casa mia, grassone", dissi, "ma ti lascerò una scelta".
"Scelta di che?" domandò il colosso. Senza capire. Stupefatto.
"Scelta della strategia di uscita, grassone", ribattei.
"Sarebbe a dire?"
"Sarebbe a dire che tu te ne vai, questo è sicuro. La scelta è come te ne vai. Puoi andartene con le tue gambe oppure questi sacchi di lardo che ti porti appresso ti trascineranno via nel bugliolo".
"Ah, si?"
"Sicuro", dissi.
"Ora conto fino a tre, okay? Perciò farai meglio a decidere in fretta, okay?"
Mi fissò con gli occhi lampeggianti.
"Uno", contai. Nessuna reazione.
"Due" Nessuna reazione.
Poi imbrogliai. Invece di dire "tre", mi proiettai a testa bassa contro di lui colpendolo dritto in faccia e sfracellandogli il naso con la fronte. Un bel lavoretto. La fronte è un arco perfetto e solidissimo, il cranio in quel punto è molto spesso.
[...]
"L'economia americana, nel suo insieme, ha proporzioni enormi, un attivo e un passivo di grandezza incalcolabile. Trilioni di dollari. Ma quasi niente di questa somma colossale è rappresentata dai contanti. Quel signore vale mezzo milione di dollari, ma solo cinquanta di questi sono in banconote, tutto il resto è sulla carta o nei computer. Il fatto è che in giro il contante è scarso, in tutti gli Stati Uniti circolano attualmente centotrenta miliardi di contanti".
Alzai le spalle.
"A me non sembra tanto poco", osservai.
L'uomo mi squadrò severamente.
"Ma quanta gente c'è fuori? Quasi trecento milioni di individui, il che significa un misero quattrocentocinquanta dollari in contanti pro capite. E' questa la difficoltà con cui devono combattere le banche, quotidianamente. Ritirare dalla banca quattrocentocinquanta dollari sembra ben poca cosa, eppure, se tutti decidessero di fare un prelievo di quelle proporzioni, le banche della nazione intera rimarrebbero senza contanti in un batter d'occhio" dichiarò.

Read more...

Musica Dura - Micheal Connelly

>> mercoledì 18 agosto 2010

Dopo Ellroy ho voluto leggere Connely di cui avevo apprezzato Debito di Sangue, proprio per fare un confronto ravvicinato tra i due scrittori di genere. Musica Dura ha una lettura scorrevole ma purtroppo non è un libro particolarmente riuscito. Non ci sono paragoni con la profondità e la ricchezza di personaggi e situazioni che si trovano in Dalia Nera.

Bosch la ringraziò e raggiunse il tavolo dei poveracci. Posò un gettone da cinque sul numero sette e osservò la pallina di metallo rimbalzare sui numeri della ruota. Non gli fece alcun effetto. Per i veri giocatori quello che conta non è vincere o perdere, ma l'attesa. Che si tratti della carta seguente, della faccia di un dado o del numero su cui si ferma la pallina, è l'adrenalina che si scatena in quei pochi secondi di attesa e di speranza a eccitarli, a drogarli. Ma a Bosch non faceva né caldo né freddo.
[...]
Una brunetta alta, con un paio di jeans tagliati dietro a mostrare la parte inferio-re delle natiche e un top rosa shocking, sbucava ondeggiando dal sipario luccicante e cominciava a muoversi al ritmo della musica. Bosch rimase ipnotizzato. Perché lo fa?, si chiese. La ballerina era molto bella e lui aveva sempre creduto che la bellezza aiutasse le donne a evitare le cose peggiori della vita. E invece... Forse era proprio questo ciò che affascinava maggiormente gli uomini in sala. Non tanto il vederle nude, ma la consapevolezza della loro sottomissione, il brivido di sapere che la dignità di un'altra donna era stata piegata. A Bosch venne il dubbio di essersi sempre sbagliato sulle belle donne.
[...]
«Oh, quello è un vecchio trucco che usa la gente dello spettacolo.»
«Un trucco?»
«Ma certo, attrici, modelle, ballerine. Usano tutte quella pomata.»
Bosch la fissò, in attesa di ulteriori spiegazioni, ma siccome lei non ag-giungeva altro, chiese:
«Non capisco. Perché la usano?».
«Sotto gli occhi, detective Bosch. Lo sa che serve a ridurre il gonfiore, vero? Be', si spalmi la Preparazione H sotto gli occhi e anche le peggiori borse di una giornata faticosa non si vedranno più. Probabilmente metà della gente che compra questo prodotto nella nostra città lo usa sotto gli occhi, e non dove dovrebbe.

Read more...

Dalia Nera - James Ellroy

>> domenica 15 agosto 2010

Ottimo romanzo con una trama piena di colpi di scena e costruito su peronaggi multisfaccettati ricchi di contraddizioni. Difficile da etichettare: poliziesco, giallo, thriller, autobiografico, orrore,... il mix di temi è inaspettato e sicuramente non lascia indifferenti. 
Non mi convince sulle motivazioni che rende la Dalia Nera un ossessione per il protagonista (e per il suo socio), tuttavia ciò non scalfisce le qualità dell'opera. Di grande valore le parti che descrivono l'incontro di boxe tra i due poliziotti e la visita di Bleichert alla famiglia Sprague.

La folla andò in visibilio schiamazzando e battendo i piedi sul pavimento. Lennon restò zitto finché il clamore non si quietò in un mormorio e poi dichiarò: «Stasera avranno luogo dieci round per la categoria pesi massimi. Nell'angolo bianco, in calzoncini bianchi, agente della polizia di Los Angeles con un record da professionista di quarantatré vittorie, quattro sconfitte e due pareggi. Peso  novantadue chili e trecento grammi. Signore e signori il grande Lee Blanchard. Blanchard si sfilò l'accappatoio e baciando i guantoni rivolse inchini in tutte le direzioni. Lennon lasciò che gli spettatori si sfogassero, poi sovrastò i clamori con la voce amplificata. «Nell'angolo nero, peso ottantotto chili, poliziotto di Los Angeles, mai sconfitto. Trentasei vittorie da professionista, ecco a voi l'astuto Bucky Bleichert.» Andai a raccogliere i miei evviva cercando di stamparmi nella memoria le facce assiepate attorno al ring. Mi comportai come se non avessi deciso di fare il tuffo. Puntai verso il centro del ring mentre i clamori della palestra si smorzavano. Blanchard si mosse a sua volta e l'arbitro biascicò qualche parola che non riuscii a intendere. Fuoco e io sfiorammo i guantoni. Ritornai al mio angolo con la fifa addosso. Fisk mi infilò in bocca il proteggidenti. La campana suonò e niente altro ebbe più importanza. Si andava a incominciare. Blanchard mi si avventò contro. Lo attesi al centro del ring e accennai a due diretti di sinistro mentre lui si chiudeva e muoveva la testa. Fallito il bersaglio con i diretti, mi spostai sulla sinistra senza accennare un tentativo di risposta, nella speranza di trovare uno spiraglio per il destro. Il suo primo colpo fu un gancio avvitato al corpo. Vedendolo arrivare, arretrai, allungandogli nello stesso tempo un sinistro corto alla testa. Schivai il gancio di Blanchard, un colpo davvero potente. La sua destra era ancora abbassata quando infilai un montante corto. Arrivò a segno e mentre Blanchard si copriva gli assestai un unodue ai fianchi. Mi ritrassi per evitare a mia volta qualche colpo al corpo, ma fui scosso da un sinistro sul collo. Mi ripresi subito e ricominciai a saltellare in circolo sulla punta dei piedi. Blanchard mi stava addosso, ma io cercavo di stare al di fuori della sua portata, tenendo sotto tiro la testa con diretti di sinistro. Stavo attento a non colpire troppo forte per non aprire la ferita sul sopracciglio. Blanchard si acquattava e poi usciva con dei ganci al corpo. Io indietreggiavo e contrattaccavo con qualche colpo. Mi bastò un minuto per sincronizzare i miei diretti di sinistro con le sue finte e quando copriva la testa lo colpivo con ganci veloci ai fianchi. Ballonzolavo in circolo, ribattendo i suoi attacchi, mentre Blanchard si faceva sotto cercando un'occasione per piazzare il colpo grosso. In chiusura della ripresa i bagliori delle luci e la cortina di fumo mi offuscarono la vista impedendomi di distinguere le corde. Mi concessi un solo attimo di disattenzione per sbirciare l'angolo alle mie spalle, ma mi bastò per ricevere un cazzotto in faccia. Indietreggiai barcollando verso l'angolo bianco mentre Blanchard mi inseguiva. La testa mi scoppiava e le orecchie ronzavano come se vi fossero precipitati bombardieri giapponesi in picchiata. Annaspai con le braccia per proteggere il viso. Blanchard cercò di farmele calare con una gragnuola di ganci di destro e sinistro, e io allora, con un barlume di lucidità, mi spinsi in avanti e placcai Fuoco con una presa da orso. Lo scorrere dei secondi mi restituì un po' di energie che utilizzai spingendolo verso il centro del ring. L'arbitro intervenne intimando il "Break!", ma non me ne diedi per inteso. Rimasi aggrappato a Lee finché l'arbitro non venne a separarci. Indietreggiai mentre il ronzio nelle orecchie svaniva. Blanchard si fece sotto appoggiando i piedi di piatto e a guardia scoperta. Fintai di sinistro e il grosso Lee sollevò macchinalmente il destro, ma finì pesantemente sul culo. Non so chi fosse il più scioccato dei due. Blanchard restò seduto a bocca aperta in attesa del conteggio dell'arbitro; io mi spostai in un angolo neutrale. Blanchard si rimise in piedi al sette. Adesso toccava a me di andare all'assalto. Fuoco mi aspettò a pie fermo, gambe divaricate, pronto a vendere cara la pelle, ma l'arbitro si intromise gridando: «Campana, campana». Tornai al mio angolo. Duane Fisk mi tolse la dentiera e mi rinfrescò con un asciugamano bagnato. Lanciai uno sguardo agli spettatori che acclamavano in piedi. Quelle facce mi dicevano ciò che già sapevo. Avrei potuto stendere Blanchard quando volevo. Fisk, che mi stava addosso, mi infilò la protezione. «Evita il corpo a corpo. Tieni le distanze, lavora di sinistro.» Suonò la campana. Fisk uscì dal ring; Blanchard aveva assunto una posizione eretta e mi teneva a distanza lavorando di sinistro, muovendosi in avanti un passo alla volta, cercando di prendere le misure per un colpo grosso di destro. Io mi muovevo in punta di piedi e gli lanciavo dei diretti di sinistro piuttosto inefficaci perché caricati troppo da lontano. Cercavo di darmi un ritmo che portasse Blanchard a scoprirsi.La maggior parte dei miei colpi andava a segno, ma BlanchardBlanchard aveva cura di proteggere il mento dai miei sinistri. Raccolti in difesa, ci colpivamo sulle braccia e le spalle. Blanchard era più potente di me, ma io non mi sottraevo ai colpi, proponendomi di assestarglieneBlanchard fece un passetto all'indietro e mi calò un sinistro sul ventre, un colpo pesante che mi fece indietreggiare. Sentendo le corde rialzai la guardia, ma prima di riuscire a sgusciare di lato fui colpito ai reni da un destro-sinistro. Abbassai la guardia e il gancio sinistro di Blanchard si abbattè sul mio mento. Rimbalzai contro le corde e finii al tappeto sulle ginocchia. La mascella e il cervello erano investiti da ondate di dolore. Vidi, comunque, che l'arbitro tratteneva Blanchard e lo spediva in un angolo neutrale. Mi rialzai su un ginocchio aggrappandomi a una delle corde inferiori, ma persi l'equilibrio e caddi in avanti. Blanchard aveva raggiunto l'angolo neutrale e si protendeva in avanti per vedere meglio ciò che mi stava succedendo. Respirai a fondo e la boccata d'aria fresca mi schiarì il cervello. L'arbitro riprese a contare. Al sei mi feci forza. Un po' malfermo sulle ginocchia, riuscii comunque a rimettermi in piedi. Blanchard stava lanciando baci ai suoi tifosi mentre io respiravo con tanta foga da rischiare di sputare fuori la dentiera. All'otto l'arbitro asciugò i miei guantoni sulla sua camicia e diede a Blanchard il segnale di riprendere il combattimento. Blanchard si fece sotto a corpo scoperto, i guantoni aperti, come se non valessi la pena di una botta. Travolto dalla collera, umiliato come un bambino, andai verso di lui a testa bassa. Non appena fui a portata di tiro gli lanciai un diretto sgonfio che Blanchard riuscì a schivare facilmente. Stava caricando il destro per finirmi, ma fui più lesto io a schiacciargli il mio destro sul naso. La testa gli rimbalzò all'indietro e io raddoppiai con un gancio sinistro al corpo. Questo gli fece abbassare la guardia e io infilai un gancio corto. La campana prese a suonare mentre lui si aggrappava alle corde. La folla urlava ritmando: «Buck-kie! Buck-kie! Buck-kie!» Dal mio angolo risposi al saluto. Sputai la dentiera e boccheggiando inalai più aria che potevo; guardai i tifosi. Le scommesse erano ribaltate, avrei potuto fare polpette di Blanchard, beccarmi il posto alla Squadra Mandati, mettere le mani sui dollari della vincita e mandare il vecchio all'ospizio con quei soldi. Duane Fisk urlò: «Fallo fuori! Fallo fuori!» Gli alti papaveri delle prime file mi sorridevano e io, dimentico dei denti sporgenti, li gratificai del mio miglior sorriso. Fisk mi ficcò in bocca una bottiglia d'acqua. Risciacquata la bocca, sputai nel secchio. Il mio secondo mi passò quindi sotto il naso un bastoncino di ammoniaca. Mi aveva appena infilata la dentiera quando suonò la campana. Adesso si trattava solo di muoversi d'astuzia, la mia specialità. Nei quattro round successivi mi limitai a danzare, fintare e lanciare diretti da lontano, utilizzando il vantaggio della lunghezza delle mie braccia, senza lasciarmi allacciare da Blanchard e farmi chiudere alle corde. Mi concentrai su un solo obiettivo, la cicatrice sull'occhio, e lì sopra battevo e ribattevo con i guantoni. Quando il mio diretto arrivava a segno, Blanchard sollevava la guardia e io piazzavo un gancio di destro sul bacino scoperto. La metà delle volte Blanchard mi centrava al corpo e ogni colpo che arrivava a segno mi toglieva un po' di agilità nelle gambe e di fiato. Verso la fine del sesto round cominciò a scendergli un rivolo di sangue dalle sopracciglia. A me dolevano i fianchi per tutta la loro lunghezza. Ansimavamo tutti e due. Il settimo round ebbe il carattere di una guerra di trincea combattuta da guerrieri esausti. Mi sforzai di tenere le distanze e lavorare con il diretto sinistro; Blanchard teneva alti i guantoni per ripulirsi gli occhi dal sangue e proteggere le ferite da altri colpi. Tutte le volte che mi facevo sotto mirando ai guantoni e allo stomaco, lui mi colpiva al plesso solare. L'incontro si stava trasformando di nuovo in una guerra di posizione. In attesa dell'ottavo round notai che alcune gocce di sangue imbrattavano i miei calzoncini. Gli urli "Buck-kie! Buck-kie!" mi trafiggevano le orecchie. Dal lato opposto del ring il secondo stava ripulendo le sopracciglia di Blanchard con una penna emostatica e applicava delle strisce sottili di adesivo sui brandelli di pelle. Mi abbandonai sullo sgabello e lasciai che Duane Fisk mi versasse l'acqua in bocca e mi massaggiasse le spalle. Tenni lo sguardo fisso su Fuoco per tutti i sessanta secondi. Per caricarmi e fare una scorta di odio per i prossimi nove minuti mi convinsi che somigliava al mio vecchio. Suonò la campana. Mi mossi verso il centro del ring sulle mie gambe legnose. Blanchard, raccolto in difesa, mi venne addosso. Anche le sue gambe tremavano. Le lacerazioni si erano richiuse. Allungai un debole diritto di sinistro. Blanchard lo incassò ma continuò ad avanzare. Le mie gambe si rifiutavano di indietreggiare. Mentre il mio guanto gli riapriva la ferita e la faccia di Blanchard si copriva di sangue, ebbi lo stomaco devastato da un colpaccio. Sentii le ginocchia piegarsi. Sputai la dentiera. Barcollai ali'indietro contro le corde. Un bomba di destro si stava abbattendo su di me. Mi dava l'idea di venire da molto lontano e pensai di avere tutto il tempo per contrario. Caricai il mio destro di tutto l'odio di cui disponevo e picchiai sulla ferita sanguinolenta che avevo di fronte. Sentii il rumore della cartilagine che si spappolava, poi tutto diventò nero e giallo. Mi resi conto che mi sollevavano per le braccia. Poi Duane Fisk e Jimmy Lennon si materializzarono. Sputai sangue e biascicai: «Ho vinto». Lennon mi rispose: «Stasera no, ragazzo. Hai perso per k.o. all'ottava ripresa.»
[...]
Suonai il campanello di casa Sprague alle otto in punto. Mi  ero vestito di tutto punto in blazer blu, camicia bianca e pantaloni grigi di flanella, anche se progettavo di spogliarmi al più presto, non appena Madeleine e io fossimo arrivati a casa mia. Nonostante la doccia, ero ancora rincitrullito da dieci ore filate di lavoro al telefono. Avevo l'orecchio sinistro ancora indolenzito per il chiacchiericcio incessante su Dalia e non mi sentivo del tutto a mio agio. Venne ad aprire Madeleine in gonna e maglietta di cashmere attillate, una visione da togliere il fiato. Mi prese per mano dicendo: «Scusa il contrattempo, ma ho accennato a te con mio padre e lui ha insistito perché ti fermassi a cena. Gli ho detto che ci siamo conosciuti a quella mostra allo Stanley Rose's Bookshop e se ti saltasse in mente di verificare il mio alibi, fallo con un po' di tatto, d'accordo?» «Ma certo» risposi prendendola sottobraccio e lasciandomi guidare dentro. Se l'esterno era Tudor, l'atrio era spagnolesco. Sui muri rivestiti di tappezzerie spiccavano delle spade d'acciaio incrociate, il pavimento incerato era coperto da tappeti persiani. L'atrio dava su un'enorme soggiorno arredato con gusto virile: poltrone di cuoio, tavolini bassi, divani, un enorme camino di pietra, tappetini orientali multicolori disseminati ovunque sul pavimento di quercia. Ai muri rivestiti in legno di ciliegio erano appesi ritratti di antenati e vecchie foto di famiglia. Notai uno spaniel imbalsamato che teneva fra i denti la copia ingiallita di un giornale. «Questo è Balto» mi spiegò Madeleine. «Il giornale è il Times del 1 agosto 1926, il giorno in cui papà seppe di avere messo assieme il primo milione. Balto era il nostro cane. Il commercialista aveva chiamato papa per annunciargli: "Emmett, sei milionario!" proprio mentre lui stava pulendo le pistole. Balto entrò in quel momento con il giornale in bocca e mio padre, per consacrare quell'attimo, gli sparò. Se osservi da vicino noterai il foro nel petto del cane. Trattieni il fiato, tesoro, ti presento la famigliola.» Lasciai che Madeleine mi introducesse in un salotto dai muri ricoperti di vecchie foto incorniciate. Lo spazio interno era interamente occupato da tre Sprague, seduti su poltrone identiche. Alzarono lo sguardo, ma nessuno si alzò in piedi. Sorrisi senza mettere in evidenza i denti e salutai: «Buonasera». Madeleine fece le presentazioni e io rivolsi un inchino a quella sorta di natura morta. «Bucky Bleichert, ti presento la mia famiglia. Mia madre Ramona Cathcart Sprague, mio padre Emmett Sprague. Mia sorella Martha McConville Sprague.» Il quadretto si animò di piccoli cenni e sorrisi. D'un tratto Emmett Sprague si alzò in piedi e mi porse la mano. «È un piacere conoscerla, signor Sprague» dissi stringendogli la mano e guardandolo fisso negli occhi. Il patriarca, un uomo di bassa statura, dal petto robusto, la faccia abbronzata e una massa di capelli bianchi che un tempo dovevano essere stati bruni, mi restituì lo sguardo. Giudicai che doveva essere sulla cinquantina e la sua stretta di mano lasciava intuire una certa dimestichezza con il lavoro fisico. L'accento scozzese se possibile era più pronunciato della imitazione che ne aveva fatto Madeleine. «L'ho vista combattere con Mondo Sanchez» mi disse «quella volta in cui lo ridusse a uno straccio. Ma lo sa che lei avrebbe potuto diventare un altro Billy Conn?» Ripensai a Sanchez, un peso medio stupido e goffo che il mio manager era andato a pescare per costruirmi la reputazione di stendimessicani. «La ringrazio signor Sprague.» «Grazie a lei per avermi fatto godere di quell'eccezionale esibizione. Che cosa ne è stato di lui?» «E morto per un'overdose di eroina.» «Dio l'abbia in gloria. Peccato che non sia morto sul ring, avrebbe risparmiato un dolore alla famiglia. A proposito di familiari, le presento i miei.» Martha Sprague si alzò in piedi. Era bassa di statura, bionda, grassottella e somigliava moltissimo al padre. Gli occhi azzurri erano così chiari da sembrare bianchi, il collo coperto di foruncoli era arrossato dall'eccessivo grattare. Aveva ancora addosso la ciccia dell'infanzia e l'aria di un'adolescente la cui bellezza non era sbocciata. Le strinsi la ma no con un senso di pena. La ragazza dovette percepire immediatamente ciò che mi stava passando per la testa perché si ritrasse e il suo sguardo pallido si accese per un attimo. Fra i tre, Ramona Sprague era l'unica a somigliare vagamente a Madeleine. Senza di lei avrei supposto che la ragazza fosse stata adottata. Aveva la stessa capigliatura corvina e la pelle chiara di Madeleine, ma meno smaglianti, e a parte ciò non aveva nulla di attraente. Si era messa solamente il rossetto e il suo viso flaccido appariva sghembo. Stringendomi la mano mi disse con tono strascicato: «Madeleine ci ha parlato di lei in termini molto lusinghieri». Il fiato non puzzava di alcol, ma mi sorse il dubbio che fosse imbottita di pillole. Madeleine sospirò. «Papa, andiamo a mangiare? Bucky e io vorremmo andare allo spettacolo delle nove e mezzo.» Emmett Sprague mi mollò una pacca su una spalla. «Obbedisco sempre agli ordini della mia figlia maggiore. Bucky, perché non ci racconta qualche aneddoto sulla sua carriera di pugile o di poliziotto?» «Mi sforzerò di farlo fra un boccone e l'altro» gli risposi. Sprague mi mollò un'altra pacca sulla spalla. «Mi da proprio l'idea che lei, come Fried Allen, di colpi alla cabeza ne abbia ricevuti pochi. Andiamo, la cena è servita.» Entrammo in una sala da pranzo con i muri rivestiti di legno. Al centro spiccava una tavola di dimensioni ridotte con cinque posti già apparecchiati. Da un carrello portavivande posto accanto alla porta emanava l'aroma inconfondibile di corned beef e cavoli. Il vecchio dichiarò: «II cibo genuino fa crescere la gente sana, la haute cuisine fa crescere degenerati. Si serva, amico mio. La cameriera va alle riunioni voodoo alla domenica sera, e rimaniamo solo noi bianchi.» Presi un piatto e lo riempii di carne. Martha Sprague si versò il vino e Madeleine si servì di una modesta porzione di entrambe le portate. Si accomodò a tavola facendomi cenno di sedere accanto a lei e io accettai volentieri. Martha disse: «Voglio sedere davanti al signor Bleichert, così potrò ritrarlo.» Emmett incrociò il mio sguardo e ammiccò. «Bucky, dovrà assoggettarsi a una crudele caricatura. La matita di Martha non perdona. Ha solo diciannove anni, ma è già un'artista quotata. Maddy è più graziosa, ma Martha ha preso il mio genio.» Martha abbozzò. Si sistemò proprio di fronte a me posando la matita e il taccuino sul tovagliolo. Ramona Sprague si sedette accanto a lei e le posò carezzevole una mano sul braccio. Emmett, in piedi accanto alla sedia a capotavola propose un brindisi: «Al nostro nuovo amico e al grande sport della boxe». «Amen» soggiunsi e infilata con la forchetta una fetta di carne la trangugiai. Era grassa e secca, ma dichiarai lo stesso in tono deliziato: «Eccellente». Ramona Sprague mi lanciò un'occhiata inespressiva e Emmett commentò: «Lacey, la nostra cameriera, crede nel voodoo, o perlomeno in una variazione cristiana dello stesso. Con ogni probabilità ha operato un sortilegio sulla carne e chiesto l'intercessione del Gesù nero per renderla tenera e succosa. A proposito di marmaglia, che emozioni ha provato stendendo quei delinquenti neri, Bucky?» Madeleine mi sussurrò: «Assecondalo». Emmett colse il sussurro e ridacchiò. «Ma sì ragazzo, mi assecondi. In effetti bisognerebbe sempre assecondare i ricchi sulla sessantina. Potrebbero ricordasene nel testamento.» Scoppiai a ridere mettendo in evidenza i denti sporgenti. Martha afferrò subito la matita. «Non ho provato niente di particolare. Si trattava di noi o di loro.» «E il suo collega? Quel tipo biondo con cui si è battuto l'anno scorso?» «Lee l'ha presa peggio di me.» «I biondi sono sempre molto sensibili» commentò Emmett. «Lo so perché anch'io lo ero. Per fortuna ci sono due bruni in famiglia con una certa tendenza al pragmatismo. Maddy e Ramona hanno quella tenacità da mastini che a Martha e a me manca.» Il cibo che avevo in bocca mi impedì di scoppiare in una risata. Pensai alla ragazza viziata, frequentatrice dei bassifondi che più tardi mi sarei scopato e guardai la madre che mi sorrideva scioccamente. L'impulso di ridere si fece più pressante. Riuscii a trangugiare il boccone, ruttai invece di sbellicarmi dalle risa e sollevando il bicchiere dissi: «Alla sua salute signor Sprague. Era una settimana che non ridevo così di gusto.» Ramona mi lanciò un'occhiata infastidita; Martha si concentrò sulla sua opera d'arte. Madeleine mi faceva piedino sotto la tavola e Emmett rispose al mio brindisi chiedendomi. «Ha avuto una settimana pesante?» Ripresi a ridere. «Molto. Sono stato distaccato alla Ornicidi per il caso Dalia Nera. Mi hanno tolto i giorni di riposo, i] mio collega sta perdendo la testa su questa faccenda e attorno al caso brulica una quantità di mitomani e di scarafaggi. Siamo in duecento impegnati su un singolo caso, è assurdo.» «Tragico, direi» ribadì Emmett. «Ma lei che idea si è fatto? Chi può avere fatto un tale scempio di un essere umano?» Poiché la famiglia non era al corrente dei legami sia pure tenui che fossero, di Madeleine con Betty Short, decisi di non approfondire l'argomento del suo alibi. «Secondo me è stato un assassinio casuale. Quella Short era una ragazza , come dire, piuttosto facile, oltre che irrimediabilmente bugiarda. E frequentava centinaia di uomini. Solo il caso ci consentirà di catturare l'assassino.» «Speriamo che riusciate a beccarlo e a trovargli un ricovero in una di quelle stanzette verdi di San Quentin» commentò Emmett. Facendo scorrere le dita sulla mia coscia Madeleine disse con tono imbronciato: «Papa, stai monopolizzando la serata. Lascia mangiare Bucky in pace.» «Quando siete arrivato negli Stati Uniti?» gli chiesi incuriosito. Emmett assunse un'espressione raggiante. «Sarò felice di raccontarle la mia storia di immigrato. E il suo, Bleichert, che razza di nome è? Olandese per caso?» «Tedesco» lo corressi. Emmett sollevò il bicchiere. «Un grande popolo il vostro. Forse Hitler ha esagerato un po', ma temo che un giorno rimpiangeremo di non esserci alleati con lui contro i rossi. Da quale parte della Germania arriva, amico mio?» «Ah, Monaco. Mi sorprende che se ne sia andato» disse Emmett. «Se fossi nato a Edimburgo o in qualche altra grande città a quest'ora porterei ancora il kilt. Ma sono di Aberdeen, un posto dimenticato da Dio e sono stato costretto a venire in America subito dopo la fine della prima guerra mondiale. Ho ammazzato una quantità di tedeschi durante la guerra, ma ho un'attenuante, loro cercavano di uccidere me, per cui credo di essere giustificato. Ha visto Balto nel soggiorno?» Annuii. Madeleine sospirò. Ramona Sprague ebbe un sussulto e infilzò una patata. Emmett soggiunse: «Lo ha imbalsamato il mio amico Geòrgie Tilden. Quel Geòrgie era un tipo geniale. Eravamo nello stesso reggimento scozzese durante la guerra e gli ho salvato la vita sottraendolo alle baionette di un gruppo di suoi connazionali. Geòrgie andava matto per il cinema. Tornati a casa ad Aberdeen dopo l'armistizio trovammo che la città era un mortorio e Geòrgie insistette perché partissi per la California con lui. Voleva lavorare nell'industria del cinema muto, ma temeva di non riuscire a combinare nulla senza di me. Dato che ad Aberdeen non c'era futuro gli dissi: "D'accordo Geòrgie, California sia. Magari facciamo soldi a palate. E se no, almeno saremo già dove tramonta il sole."» Ripensai al mio vecchio, che era venuto in America nel 1908, anche lui carico di speranze. Ma si era sposato subito con la prima tedesca che aveva trovato e si era ridotto a lavorare con un salario da fame per la Pacific Gas and Electric. «E poi come è andata?» lo sollecitai. Emmett Sprague picchiò la forchetta sul tavolo. «Arrivai al momento giusto. Hollywood era ancora un pascolo per vacche, ma il successo del cinema era nell'aria. Geòrgie andò a lavorare come assistente alle luci, io invece mi misi a costruire case a buon mercato. Dormivo sotto le stelle e investivo tutto, fino all'ultimo centesimo, nel mio lavoro. Chiesi prestiti a tutte le banche e a tutti gli usurai disponibili. Con quel denaro comprai degli ottimi terreni a buon mercato. Geòrgie mi fece conoscere Mack Sennett e lavorai ai suoi teatri di posa negli studios di Edendale. Poi gli chiesi un finanziamento per comprare altre proprietà. Il vecchio Mack aveva fiuto per la gente capace di farsi strada e me lo concesse a patto che entrassi in un progetto di urbanizzazione che gli stava a cuore, Hollywoodland, proprio sotto quell'enorme insegna alta trenta metri sul Mount Lee. Il vecchio Mack sapeva far fruttare i dollari. La gente che lavorava per lui faceva il doppio lavoro. Andavo a prendere le comparse sul set con un autocarro e quelli, dopo dieci o dodici ore di lavoro nei teatri di posa, si facevano altre sei ore nell'edilizia a lume di torcia. A me capitò persino di lavorare come aiuto regista in un paio di film. Il vecchio Mack era felicissimo di come riuscivo a spremere i suoi schiavi.» Madeleine e Ramona continuavano a mangiare con aria imbronciata, come se avessero sentito la storia chissà quante volte prima. Martha mi fissava e continuava a disegnare. «E del suo amico che ne è stato?» gli chiesi. «Purtroppo per ogni storia di successo ce n'è una di fallimento. Geòrgie frequentò la gente sbagliata. Non riuscì a indirizzare bene il suo talento naturale e non combinò nulla. Nel '36 restò sfigurato in un incidente e adesso è ridotto a una larva. Gli ho dato qualche lavoretto, fa il guardiano in alcune mie proprietà e lavora allo scarico dei rifiuti per il comune.» Alzai lo sguardo verso l'altro lato del tavolo udendo un rumore stridulo. Ramona aveva sbagliato mira e invece di infilare la patata aveva fatto scivolare la forchetta sul piatto. «Mamma, ti senti bene? Il cibo è di tuo gradimento?» disse Emmett. Tenendo lo sguardo abbassato, Ramona rispose: «Sì papa». Martha le posò una mano sul gomito. Madeleine riprese a farmi piedino e Emmett soggiunse: «Mamma, tu e quella tua figlia di genio non siete state di compagnia con il nostro ospite. Perché non vi degnate di partecipare alla conversazione?» Stavo cercando una battuta per alleggerire l'atmosfera, ma Madeleine mi distrasse toccandomi la caviglia con il piede. Ramona Sprague infilò un boccone fra le labbra e masticandolo con degnazione disse: «Sapevate che il Ramona Boulevard ha preso il nome da me, signor Bleichert?» Aveva un'espressione molto sussiegosa e pronunciava le parole con una strana dignità. «No, signora Sprague» risposi. «Non lo sapevo.» «Quando Emmett mi sposò, per mettere le mani sul denaro di mio padre, beninteso, promise alla mia famiglia di usare le sue conoscenze nella municipalità per dedicare una strada a mio nome. Non aveva nient'altro da offrire: aveva investito fino all'ultimo centesimo nei terreni. Non gli erano restati neanche i soldi per comprare l'anello. Papà pensava a una bella strada residenziale, ma Emmett riuscì a ottenere solo una strada in un quartiere malfamato, nel distretto di Lincoln Heights. Conosce la zona signor Bleichert?» Adesso il tono si era fatto spigoloso e rasentava la collera. «Ci sono cresciuto, signora» le risposi. «Allora saprà che le prostitute messicane si espongono in vetrina per attirare i clienti. Bene, quando Emmett riuscì a ottenere che la Rosalind Street fosse rinominata Ramona Boulevard, mi portò a fare un giro da quelle parti. Le prostitute lo salutavano per nome. Alcune lo chiamavano con dei nomignoli anatomici. La cosa mi ferì alquanto, ma me ne feci una ragione. Quando le ragazze erano piccole organizzavo piccole rappresentazioni, qui in giardino. Usavo i bambini dei vicini come comparse e mettevo in scena delle vicende del passato del signor Sprague, che lui avrebbe forse preferito dimenticare...» La tavola tremò sotto il pugno del padrone di casa. I bicchieri si rovesciarono e i piatti tintinnarono. Abbassai lo sguardo per dare ai miei ospiti il tempo di recuperare la loro dignità e vidi che Madeleine aveva afferrato il ginocchio del padre. Con l'altra mano strinse anche il mio: con una forza dieci volte maggiore di quanto pensavo fosse capace. Seguì un silenzio imbarazzante. Ramona Cathcart disse infine: «Papa, sono disposta a fare la padrona cordiale quando vengono a cena il sindaco Bowron o il consigliere Tucker, ma non me la sento di farlo con i gigolò di Madeleine. Un semplice piedipiatti. Mio Dio, Emmett, che scarsa considerazione hai di me.» Udii delle sedie strisciare sul pavimento, sentii delle ginocchia che urtavano contro la tavola e dei passi che si allontanavano dalla sala da pranzo. Mi accorsi di stringere la mano di Madeleine, la quale mi sussurrava: «Mi dispiace Bucky, mi dispiace». Una voce mi chiamò: «Signor Bleichert?» Alzai la testa perché il tono mi era parso allegro e normale. Era Martha McConville Sprague. Reggeva in mano un foglio di carta e me lo porgeva. Lo presi con la mano libera e Martha se ne uscì sorridente. Madeleine mormorava ancora qualche parola di scuse mentre io lasciavo cadere un'occhiata sul disegno. Eravamo noi due nudi. Madeleine era a gambe spalancate, io la penetravo e la mordevo con i miei dentacci.

Read more...

Caos Calmo - Sandro Veronesi

>> martedì 10 agosto 2010

Questo libro appartiene a quei casi letterari che dividono i lettori in due fazioni equamente distribuite di detrattori ed entusiastici. Ho iniziato a leggerlo proprio spinto dalla curiosità di capire chi avesse ragione. Alla fine sono andato a rafforzare le file dei secondi: per l'acutezza nell'analisi delle situazioni e dei personaggi è un dei libri più belli usciti negli ultimi anni. Tanto bello il libro quanto pessimo il film che ne è stato tratto. Riporto di seguito la lettera che accompagna le dimissioni del direttore del personale dell'azienda che viene acquistata, che è tra le parti più riuscite del libro.

Che cos'è una fusione? Una fusione è il conflitto di due sistemi di potere atto a crearne un terzo, realizzata per finalità finanziarie. E' concepita per creare valore, ma la creazione di valore è un concetto buono per gli azionisti, o per le banche d'affari, non per gli esseri umani che lavorano nelle aziende, per i quali una fusione è, al contrario, il trauma lavorativo più violento che possa essere loro inflitto.
Una volta che si è trovato l'accordo sulla transazione, cosa che non è affatto facile, si ha la tendenza a credere che il più sia fatto. Questa convinzione deriva dalla storica sottovalutazione che il mondo dell'economia riserva al fattore umano e, più in generale, alla psicologia. Ma è sbagliata. I problemi più grossi di una fusione non sono legati al documento che la sancisce.
Prima che di cifre, infatti, un'azienda è fatta dagli uomini che ci lavorano, cioè dai suoi dipendenti, e dopo l'annuncio di una fusione la reazione di qualsiasi dipendente a qualsiasi livello è l'incertezza. Che cosa mi aspetta? Resterò o verrò mandato a casa? La mia funzione cambierà? Di chi mi devo fidare? Come verranno risolti i miei problemi? Riuscirò a mantenere i privilegi che mi ero conquistato? A nessuno importa granché della creazione del valore fintantoché il nuovo assetto non avrà risposto a queste domande, garantendogli una nuova legittimità.
Durante una fusione bisognerebbe parlare con i dipendenti, informarli e aggiornarli tutti il più spesso possibile; il dipendente ha bisogno di fiducia, di sentire che non è considerato solo una pedina. Invece gli viene riservato un discorso-standard, buttato giù una volta per tutte da un paio di consulenti in comunicazione interna, che ha il solo effetto di accrescere le sue preoccupazioni. Quelle dichiarazioni asettiche su future sinergie che non toccheranno il personale sono ipocrisia bella e buona, poiché tutti sanno che l'unica garanzia concreta per creare valore sui mercati è la riduzione dei costi aziendali, e le riduzioni dei costi sono realizzate all'80% con tagli del personale.
Così i dipendenti durante un periodo di fusione entrano in una zona di costante turbolenza. Si tratta di un periodo assai critico, che per le grandi fusioni può durare molto a lungo, e durante questo periodo il sentimento dominante diventa l'ansia. Un'ansia che, se trascurata, da individuale può farsi collettiva, o addirittura trasformarsi in panico.
L'esperienza a contatto col personale durante una fusione insegna che l'impatto è duplice. Sul piano fisico la macchina umana tende ad avvertire maggiormente stress e stanchezza ed ad accentuare ogni naturale tendenza alla somatizzazione, con un sensibile incremento di allergie, disturbi respiratori, cistiti, cefalee, dermatiti e, tra le donne, candidosi, amenorree e disminoree; mentre su quello psicologico la mente viene invasa dall'insicurezza, qualsiasi evento suscita emozioni ansiogene quali paura, angoscia, scoraggiamento e frustrazione, che a loro volta producono gravi sintomi di depressione, tanto più gravi quanto più il soggetto è spinto istintivamente a rifiutarli, poiché la cultura alla quale appartiene è una cultura di pura performance, nella quale l'esistenza di simili disagi non è nemmeno concepita.
Tale impatto è più devastante per la fascia d'età che va dai quaranta ai cinquant'anni, quando le riserve d'adattamento sono minori ed il rischio di perdere qualcosa nel cambiamento è molto più alto. Si ha l'impressione di regredire, si percepisce un senso d'ingiustizia. Il trauma da assorbire è enorme: si era attaccati ad una cultura aziendale, ad una squadra, a colleghi con cui si lavorava con piacere, con spirito di corpo. Quando ci si ritrova faccia a faccia con gli altri è dura. Anche se viene premesso che sono loro le "vittime", si tratta pur sempre del nemico che si materializza. Fino a ieri eravamo in dura competizione con loro; all'improvviso, eccoli entrati nel nostro ambiente. Ci si sente invasi, foss'anche soltanto fisicamente, e si sente il desiderio di mandarli a farsi fottere, di dirgli che ce la cavavamo bene anche senza di loro. Invece ci si deve lavorare insieme, e lo shock è grande. Si sono visti dirigenti provenienti da aziende classiche, dove i titoli e la gerarchia sono sacri, non riuscire a sopportare d'esser messi in gruppi di lavoro insieme a personale proveniente dall'altra azienda, di rango gerarchico nettamente inferiore, in nome di una comune competenza contingente.
E' una situazione altamente destabilizzante, e ci sono solo tre categorie di persone che riescono a reggerla: i fedelissimi, i voltagabbana e i collaborazionisti. Tutti gli altri rischiano di andare a picco. Bisogna sviluppare una grande resistenza, fisica e psicologica, per non crollare, e solo pochi sono in grado di farlo senza adeguata assistenza. Ma un'assistenza del genere non esiste. Così, il risultato più comune durante le fusioni è che una grande quantità di ottimi elementi lascia volontariamente il proprio incarico, prima ancora che la fusione sia compiuta; cosa che viene miopemente considerata con favore in quanto alleggerisce la successiva azione di taglio del personale, ma che invece rappresenta una perdita secca. Perché gli uomini e le donne che se ne vanno si portano dietro le proprie conoscenze e le proprie capacità tecniche, ed a fronte del valore virtuale creato sui mercati, il risultato reale è uno spaventoso impoverimento. Ecco perché non si è ancora vista una sola grande fusione che non sia fallita, porca della madonna, nel giro di un anno o due.

Read more...

La Casa degli Spiriti - Isabel Allende

>> lunedì 9 agosto 2010

Il libro è costruito su tanti personaggi le cui storie si intrecciano nell'arco di una generazione. Le descrizioni sono eccellenti e i personaggi sembrano vivi: si gioisce e ci si emoziona con loro. Interessante l'utilizzo in alcune parti della prima persona in cui si spiega il punto di vista del protagonista principale.

Nessuno mi leverà dalla testa l'idea che sono stato un buon padrone. Chiunque avesse visto Le Tre Marie ai tempi dell'abbandono e le vedesse ora, che è un'azienda modello, dovrebbe essere d'accordo con me. Per questo non posso tollerare che mia nipote venga a parlarmi della lotta di  classe, perché, se stiamo ai fatti, quei poveri contadini stanno molto peggio adesso che non cinquant'anni fa. Ero come un padre per loro. Con la riforma agraria siamo stati fottuti.
Per togliere Le Tre Marie dalla miseria avevo investito tutto il capitale risparmiato per sposarmi con Rosa e tutto quello che mi mandava il capocantiere dalla miniera, ma non è stato il denaro a salvare quella terra, bensì il lavoro e l'organizzazione. Corse la voce che alle Tre Marie c'era un nuovo padrone e che stavamo togliendo le pietre con buoi e arando i campi per seminare. Immediatamente cominciarono ad arrivare uomini a offrirsi come braccianti, perché io li pagavo bene, davo loro pasti abbondanti. Comprai animali. Gli animali erano sacri per me e benché dovessimo passare un anno senza assaggiare carne, non venivano uccisi. Così crebbe l'allevamento. Organizzai gli uomini in squadre e dopo avere lavorato nei campi, ci mettevamo a ricostruire la casa padronale. Non erano falegnami né muratori, ho dovuto insegnar loro io ogni cosa con l'aiuto di qualche manuale che avevo comprato. Con quest'aiuto riuscimmo a fare persino il lavoro da idraulico, aggiustammo i tetti, dipingemmo tutto a calce, ripulimmo fino a rendere la casa splendente dentro e fuori. Distribuii i mobili tra gli operai, tranne il tavolo della sala da pranzo, che era ancora indenne nonostante le tarme avessero infettato tutto, e il letto di ferro forgiato a mano che era stato dei miei genitori. Rimasi a vivere nella casa vuota senz'altri mobili che quelle due cose e alcune casse sulle quali mi sedevo, finché Férula non mi mandò dalla capitale i mobili nuovi che le avevo ordinato. Erano mobili grossi, pesanti, pomposi, adatti a resistere per molte generazioni e consoni alla vita della campagna, prova ne sia che ci volle un terremoto per distruggerli. Li sistemai contro le pareti, pensando alla praticità e non all'estetica, e una volta che la casa fu confortevole, cominciai ad abituarmi all'idea che avrei trascorso molti anni, forse tutta la vita, alle Tre Marie. Le donne dei mezzadri si davano il turno per servire nella casa padronale e si occupavano del mio orto. Presto vidi i primi fiori nel giardino che avevo tracciato con le mie stesse mani e che, con pochissime modifiche, è lo stesso che c'è oggi. A quell'epoca la gente lavorava senza fiatare. Credo che la mia presenza avesse restituito loro la sicurezza e videro che a poco a poco quella terra si trasformava in un luogo rigoglioso. Era gente buona e semplice, non c'erano ribelli. C'è anche da dire che erano molto poveri e ignoranti. Prima che io fossi arrivato si limitavano a coltivare i loro piccoli poderi familiari che producevano l'indispensabile perché non morissero di fame, sempre che non fossero colpiti da qualche catastrofe, come siccità, gelata, grandine, formiche o lumache, allora le cose si mettevano molto male per loro. Con me tutto questo cambiò. Recuperammo i terreni a uno a uno, ricostruimmo il pollaio e le stalle e cominciammo a tracciare un sistema d'irrigazione affinché le semine non dipendessero dal clima, ma piuttosto da qualche meccanismo scientifico. Però la vita non era facile. Era molto dura. Talvolta io andavo in paese e tornavo con un veterinario che controllava le vacche e le galline e, al tempo stesso, dava un'occhiata ai malati. Non è detto che io condividessi il principio che se le conoscenze del veterinario erano sufficienti per gli animali potevano servire anche per i poveri, come dice mia nipote quando vuol farmi imbestialire. Il fatto è che non si trovavano medici in quelle terre sperdute. I contadini consultavano una fattucchiera indigena che conosceva il potere delle erbe e della suggestione, nella quale avevano una grande fiducia. Molto più che nel veterinario. Le partorienti davano alla luce i figli con l'aiuto delle vicine, della preghiera e della levatrice che non arrivava quasi mai in tempo, perché doveva fare il viaggio su un asino, ma che serviva sia per far nascere un bambino sia per tirar fuori da una vacca un vitello podalico. I malati gravi, quelli che né gli incantesimi della fattucchiera né le pozioni del veterinario potevano guarire, venivano portati su un carretto, da Pedro Secondo García o da me, all'ospedale delle monache, dove talvolta c'era qualche medico di turno che li aiutava a morire. I morti andavano a riposare le loro ossa in un piccolo cimitero vicino alla parrocchia abbandonata, ai piedi del vulcano, dove ora c'è un cimitero come Dio comanda. Una o due volte all'anno trovavo un sacerdote che veniva a benedire le unioni, gli animali e le macchine, a battezzare i bambini e a dire qualche preghiera in ritardo per i defunti. Gli unici diversivi erano castrare i maiali e i tori, le lotte dei galli, il gioco del mondo e le incredibili storie di Pedro García, il vecchio, che riposi in pace. Era il padre di Pedro Secondo, e diceva che suo nonno aveva combattuto nelle file dei patrioti che avevano scacciato gli spagnoli dall'America. Insegnava ai bambini a lasciarsi pungere dai ragni e a bere orina di donna gravida per immunizzarsi. Conosceva tante erbe quasi quante la fattucchiera, ma si confondeva al momento di decidere della loro applicazione e commetteva qualche errore irreparabile. Per togliere i molari, tuttavia, riconosco che aveva un sistema insuperabile che gli aveva procurato giusta fama in tutta la zona, era una mistura di vino rosso e di padrenostri, che faceva sprofondare il paziente in un trance ipnotico. A me aveva tolto un molare senza farmi male e, se fosse vivo, sarebbe il mio dentista. Ben presto cominciai a sentirmi a mio agio in campagna. I miei vicini più prossimi stavano a una buona distanza a dorso di cavallo, ma a me non interessava la vita sociale, mi piaceva la solitudine e inoltre avevo molto lavoro per le mani. Stavo trasformandomi in un selvaggio, dimenticavo le parole, mi si era ridotto il vocabolario, ero diventato molto autoritario. Siccome non avevo bisogno di far bella figura davanti a nessuno, mi si era accentuato il cattivo carattere che avevo sempre avuto. Tutto mi irritava, mi arrabbiavo se vedevo i bambini girare nelle cucine per rubare il pane, se le galline schiamazzavano in cortile, se i passeri invadevano i campi di granoturco. Quando il cattivo umore cominciava a darmi fastidio e mi sentivo a disagio nella mia stessa pelle, andavo a caccia. Mi alzavo molto prima dell'alba e partivo con un fucile in spalla, il mio tascapane e il mio bracco. Mi piacevano le cavalcate al buio, il freddo dell'alba, i lunghi appostamenti nell'ombra, il silenzio, l'odore della polvere da sparo e del sangue, sentire l'arma rinculare con un colpo secco contro l'omero e vedere la preda cadere scuotendo le zampe, tutto questo mi tranquillizzava e quando tornavo da una partita di caccia, con quattro miserabili conigli nel tascapane e qualche pernice così sforacchiata che non serviva per essere cucinata, mezzo morto di fatica e pieno di fango, mi sentivo sollevato e felice.Quando penso a quei tempi, mi viene una grande tristezza. La vita mi è passata molto in fretta. Se dovessi ricominciare non farei certi errori, ma in genere non mi pento di niente. Sì, sono stato un buon padrone, su questo non ci sono dubbi.
[...]
Alla morte di sua madre, Férula si era trovata sola e senza niente di utile cui dedicare la sua vita, in un'età in cui non s'illudeva di potersi sposare. Per un certo tempo era andata a visitare i rioni popolari ogni giorno, in una frenetica opera pia che le procurò una bronchite cronica e non portò alcuna pace alla sua anima tormentata. Esteban avrebbe voluto che viaggiasse, che si comprasse abiti e che si divertisse per la prima volta nella sua malinconica esistenza, ma lei aveva l'abitudine dell'austerità ed era stata troppo tempo chiusa nella sua casa. Aveva paura di tutto. Il matrimonio del fratello la immergeva nell'incertezza, perché pensava che sarebbe stato un motivo in più di allontanamento per Esteban, che era il suo unico appoggio. Temeva di finire i suoi giorni lavorando all'uncinetto in un ricovero per zitelle di buona famiglia, perciò si sentì molto felice quando scoprì che Clara era incompetente in tutte le cose di carattere domestico e ogni volta che doveva affrontare una decisione assumeva un'aria distratta e vaga. "È un po' idiota", aveva concluso Férula soddisfatta. Era evidente che Clara era incapace di amministrare la grande casa che suo fratello  stava costruendo e che aveva bisogno d'aiuto. In modo sottile e indiretto fece sapere a Esteban che la sua futura moglie era un'inetta, e che lei, col suo spirito di sacrificio così ampiamente dimostrato, avrebbe potuto aiutarla ed era disposta a farlo. Esteban non seguiva la conversazione quando prendeva questa piega. A mano a mano che si avvicinava la data del matrimonio e si presentava l'urgenza di decidere la sua sorte, Férula cominciò a disperarsi. Convinta che con suo fratello non avrebbe ottenuto nulla, cercò l'occasione di parlare da sola con Clara e la avvicinò un sabato alle cinque del pomeriggio quando la vide passeggiare per strada. L'invitò all'Hotel Francese a prendere il tè. Le due donne si sedettero circondate da pasticcini alla crema e porcellane di Baviera, mentre in fondo al salone un'orchestra di signorine interpretava un malinconico quartetto d'archi. Férula osservava con dissimulazione la sua futura cognata, che sembrava avere quindici anni e che aveva ancora la voce stridula, per via degli anni di silenzio, senza sapere come affrontare l'argomento. Dopo una lunghissima pausa durante la quale mangiarono un vassoio di paste e bevvero due tazze di tè al gelsomino a testa, Clara si sistemò una ciocca di capelli che le cadeva sugli occhi, sorrise e diede un colpetto affettuoso con la sua mano su quella di Férula.
"Non preoccuparti. Vivrai con noi e noi due saremo come due sorelle" disse la ragazza. Férula ebbe un sussulto, chiedendosi se non fossero veri i pettegolezzi sull'abilità di Clara di leggere nel pensiero degli altri. La sua prima reazione fu di orgoglio e avrebbe rifiutato l'offerta non foss'altro che per la bellezza del gesto, ma Clara non gliene diede il tempo. Si chinò e la baciò sulle guance con un candore tale, che Férula perse il controllo e scoppiò in singhiozzi. Era molto tempo che non piangeva più e constatò stupita il bisogno che aveva di un gesto di tenerezza. Non ricordava l'ultima volta che qualcuno l'aveva toccata spontaneamente. Pianse a lungo, sfogando molte tristezze e solitudini passate, tenendo per mano Clara, che l'aiutava a soffiarsi il naso e tra un singhiozzo e l'altro le dava altri pezzi di dolce e sorsi di tè. Rimasero a piangere e a parlare fino alle otto e quella sera, all'Hotel Francese, sigillarono un patto di amicizia che durò molti anni.  

Read more...

Lettura di Sciascia in biblioteca

5 Marzo ore 20,30, Biblioteca Castiglione delle Stiviere

  © Blogger templates Shiny by Ourblogtemplates.com 2008

Back to TOP