Donna di Porto Pim - Antonio Tabucchi

>> giovedì 27 gennaio 2011

Donna di Porto Pim è una raccolta di racconti brevi, spesso troppo brevi per avere una propria ragione di esistere. Metaforici, evocativi, irrilevanti. Vi sono comunque due perle che meritano di essere colte: una è la caccia alla balena, che riesce magistralmente a descrivere con pochi tratti la dinamica dell'assalto ricco di concitazione e frenesia; l'altra è la visione degli uomini  da parte di una balena che ci mostra quanto può essere insulsa, incomprensibile e banale la nostra vita. La trascrivo di seguito.

Sempre così affannati, e con lunghi arti che spesso agitano. E come sono poco rotondi, senza la maestosità delle forme compiute e sufficienti, ma con una piccola testa mobile nella quale pare si concentri tutta la loro strana vita. Arrivano scivolando sul mare, ma non nuotando, quasi fossero uccelli, e danno la morte con fragilità e graziosa ferocia. Stanno a lungo in silenzio, ma poi tra loro gridano con furia improvvisa, con un groviglio di suoni che quasi non varia e ai quali manca la perfezione dei nostri suoni essenziali: richiamo, amore, pianto di lutto. E come dev’essere penoso il loro amarsi: e ispido, quasi brusco, immediato, senza una soffice coltre di grasso, favorito dalla loro natura filiforme che non prevede l’eroica difficoltà dell’unione né i magnifici e teneri sforzi per conseguirla. Non amano l’acqua, e la temono, e non si capisce perché la frequentino. Anche loro vanno a branchi, ma non portano femmine, e si indovina che esse stanno altrove, ma sono sempre invisibili. A volte cantano, ma solo per sé, e il loro canto non è un richiamo ma una forma di struggente lamento. Si stancano presto, e quando cala la sera si distendono sulle piccole isole che li conducono e forse si addormentano o guardano la luna. Scivolano via in silenzio e si capisce che sono tristi.

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Ferito - Percival Everett

>> sabato 22 gennaio 2011

Questo romanzo è un piccolo capolavoro di un autore poco noto in Italia ma identificato tra i più importanti scrittori emergenti americani. Ambientato nel West odierno e scritto in modo asciutto ed essenziale ricorda i romanzi di Cormac McCarthy da cui però se ne distacca per la molteplicità dei temi trattati all'interno di una storia che scorre semplice e senza forzature. Coinvolge e rende partecipi per come descrive le giornate ordinarie in fattoria e per come affronta il dolore non risolto del protagonista per la perdita tragica della moglie, la nascita di un nuovo amore, il razzismo (più o meno strisciate o esplicito nei confronti delle persone di colore e dei gay), il rapporto tra padre e figli. Di grande sensibilità e introspezione la descrizione delle reazioni del protagonista, eterosessuale, di fronte al bacio ricevuto da un altro uomo.

Il cavallo non dovrebbe prendere decisioni. Questa è la regola numero uno. La regola numero due è che le decisioni dovrebbe prenderle il cavaliere. Se il cavallo ti anticipa, rischi di restare indietro. È un vecchio proverbio. Quindi ogni tanto devi cambiare direzione al cavallo, rompere la routine, farlo passare in mezzo a dei espugli senza alcuna ragione apparente. Non lasciarlo partire al galoppo su una collina ripida.
Non appena l'addestratore vede che il cavallo che gli hanno affidato prova ad alzare il muso, deve mettergli la martingala da caccia. Se gli lascia sollevare il muso, allora è troppo tardi per mettere gli anelli.
[...]
"Ti piacciono i miei occhi, Hunt?", ha chiesto lei.
"Perché, pensi di avere gli occhi da mucca?".
"Ti piacciono?", ha chiesto di nuovo.
"Se ti dico che sono buoni e dolci, sembrerà che per me hai gli occhi da mucca", ho risposto. Dove stavo andando a parare?
"Ti piacciono?".
"Certo che mi piacciono, Morgan". Ho rovesciato indietro il cappello e l'ho guardata negli occhi. "Si può sapere che c'è?".
"Adoro Gus", ha detto lei, "ma non è per lui che vengo a trovarvi tanto spesso". Mi stava guardando dritto negli occhi., "Mi piacciono i tuoi occhi, John. Mi piacciono molto".
Mi sembrava quasi in preda al panico. "Eh, me ne sono accorto", ho detto io.
"Allora?".
"Allora cosa?".
"Sto perdendo tempo?".
"Cosa vuoi da me? " ,le ho chiesto. "Siamo amci, no?".
"Siamo amici", ha ripetuto Morgan. Era rassegnata. È smontata da cavallo, ha mollato le redini e si è allontanata di qualche passo.
Ho fatto passare la gamba destra sopra la sella e sono scivolato giù. "Morgan", le ho detto avvicinandomi lentamente. Le ho appoggiato le mani sulle spalle e l'ho fatta girare. In quel momento sembrava così docile e così stranamente fragile. "Lo so che ci è voluto un bel coraggio per dirlo".
"Hip hip, urrà. Appendimi una medaglia sulle tette che non guardi mai e vediamo chi rende gli onori".
"Senti, io sono molto attratto da te", le ho detto. "Davvero, Morgan. Ma ... lo so che non vuoi sentirtelo dire ... ma continuo a pensare ad altre cose".
"Susie è morta, Hunt".
[...]
Mentre riportavo il cavallo verso la stalla, ho pensato che il mio vecchio corpo non poteva permettersi tante altre cadute da cavallo. Mi ha preso un'ondata di panico e ho sentito il cavallo reagire: i muscoli possenti si sono tesi. Ho lasciato che il mio corpo si distendesse e il cavallo si è rilassato all'istante. Ho contratto i muscoli di proposito e non c'è stata reazione. Ho cercato di ripensare a quello che stavo pensando prima che Crimen schizzasse via. Mi era venuto in mente qualcosa di sgradevole, forse a proposito della morte di mia moglie, non ricordavo, ma di sicuro avevo pensato a qualcosa di brutto. Non riuscivo a credere che il cavallo potesse essersene accorto. Ho ripensato alla morte di Susie. Niente. Ho pensato di chiamare il fratello di Wallace Castelbury. Niente. Ho pensato di fare sesso con Morgan, e Crimen si è irrigidito. Ero incredulo. Avrei dovuto addestrare questo cavallo tollerare i cattivi pensieri del cavaliere.
[...]
Sono uscito dal negozio e forse stavo guardando altrove o non stavo guardando per niente perché sono andato a sbattere contro qualcuno. Mi sono scusato e poi ho visto la faccia ossuta di uno di quelli che avevano attaccato briga con David e Robert. L'ho riconosciuto subito. La faccia del compare lo seguiva a ruota.
"Guarda dove vai, negro", ha detto quello.
Io sono bello che cresciuto e ho una buona capacità di autocontrollo,così l'ho ignorato e sono andato alla jeep.
"Ho detto: 'Guarda dove vai, negro'.", ha ripetuto e mi ha rifilato una manata alla spalla.
Non mi sono disturbato a spiegare a quella creatura deforme che aveva scelto l'uomo sbagliato nel giorno sbagliato per dire la cosa sbagliata. Se l'avessi fatto, forse non sarebbe rimasto così sorpreso dal sinistro fulmineo che ho fatto partire, sparato da
una molla caricata per anni. La benda sulla mano si è arrossata di nuovo, ma questa volta il sangue non era il mio, peerché il naso di quell'idiota è esploso contro il mio cazzotto. Il suo amico scimmiesco mi si è avventato contro, ma sarà stato per lo sguardo iniettato di sangue o per il sangue che avevo sul pugno, fatto sta che si è bloccato. Quello più grosso ha guardato in faccia l'amico, poi mi ha guardato in cagnesco. Io mi sono sistemato il pacchetto sotto il braccio destro. "E dire che mi stava simpatico", ho detto e non mi sono mosso di un passo.
[...]
Dentro il recinto gli ho insegnato le nozioni base per tenere le redini. "Toccale il collo con le redini sul lato sinistro e andrà a destra. Non devi tirare. Il cavallo va dove punta il tuo ombelico. Punta l'ombelico verso la direzione che vuoi prendere, lascia andare le redini sul collo e via. Adesso, fai schioccare un bacio per lei e dalle una strizzatina con le caviglie".
[...]
Mentre tornavamo, ho pensato a David. Era sciocco che quel bacio in un momento di delirio dovesse far sentire me o lui in modo strano, ma ovviamente era cosÌ. Cercavo di convincermi che l'essere stato baciato da un uomo non mi aveva fatto né caldo né freddo. Forse mi sforzavo anche troppo e quello sforzo mi faceva sentire strano almeno quanto il bacio in sé. David mi stava a cuore. Avrei potuto dire "come un figlio", ma non era mio figlio.
Prima del bacio, se qualcuno me l'avesse chiesto, avrei potuto ammettere che gli volevo bene. Adesso quelle parole, quel sentimento, erano più confusi. La cosa che mi dava più fastidio di quel bacio era che non mi aveva dato fastidio: era un gesto di affetto e quell'affetto l'avevo percepito. Ma era anche qualche altra cosa, perché era avvenuto alla cieca, nel buio della caverna e nello stato confusionale di David.

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Donne dagli occhi grandi - Mastretta Angeles

>> sabato 15 gennaio 2011

Non sono attratto dai racconti brevi perchè solitamente è difficile descrivere in poche pagine personaggi e situazioni in modo che risultino coinvolgenti e convincenti. Donne dagli occhi grandi è un po' un'eccezione ed il merito dell'autrice è proprio quello di creare storie semplici ed intense. Non tutte le quattro storie narrate sono allo stesso livello: quella che trascrivo di seguito è probabilmente la migliore.

La zia Daniela s'innamorò come s'innamorano sempre le donne intelligenti: come un'idiota. Lo aveva visto arrivare un mattino, le spalle erette e il passo sereno, e aveva pensato: «Quest'uomo si crede Dio». Ma dopo averlo sentito raccontare storie di mondi lontani e di passioni sconosciute, si innamorò di lui e delle sue braccia come se non parlasse latino sin da bambina, non avesse studiato logica e non avesse sorpreso mezza città imitando i giochi poetici di Góngora e di suor Juana Inés de la Cruz come chi risponde ad una filastrocca durante la ricreazione. Era tanto colta che nessun uomo voleva mettersi con lei, per quanto avesse occhi di miele e labbra di rugiada, per quanto il suo corpo solleticasse l'immaginazione risvegliando il desiderio di vederlo nudo, per quanto fosse bella come la Madonna del Rosario. Gli uomini avevano paura di amarla, perchè c'era qualcosa nella sua intelligenza che suggeriva sempre un disprezzo per il sesso opposto e le sue ricchezze.
Ma quell'uomo che nulla sapeva di lei e dei suoi libri le si accostò come a chiunque altra. Allora la zia Daniela lo dotò di un'intelligenza abbagliante, una virtù angelica e un talento d'artista. Il suo cervello lo guardò in tanti modi che in capo a dodici giorni credette di conoscere cento uomini.
Lo amò convinta che Dio possa aggirarsi tra i mortali, abbandonata con tutta se stessa ai desideri e alle stramberie di un uomo che non aveva mai avuto intenzione di rimanere e non aveva mai capito neppure uno di tutti i poemi che Daniela aveva voluto leggergli per spiegare il suo amore.
Un giorno così com'era venuto, se ne andò senza neppure salutare. Non ci fu allora in tutta l'intelligenza della zia Daniela una sola scintilla in grado di spiegarle ciò che era successo.
Ipnotizzata da un dolore senza nome né destino, diventò la più stupide delle stupide. Perderlo fu un dolore lungo come l'insonnia, una vecchiaia di secoli, l'inferno.
Per pochi giorni di luce, per un indizio, per gli occhi d'acciaio e di supplica che le aveva prestato una notte, la zia Daniela sotterrò la voglia di vivere e cominciò a perdere lo splendore della pelle, la forza delle gambe, l'intensità della fronte e delle viscere.
Nel giro di tre mesi divenne quasi cieca, le crebbe una gobba sulla schiena e dovette succedere qualcosa anche al suo termostato interno, perché, nonostante indossasse anche in pieno sole calze e cappotto, batteva i denti dal freddo come se vivesse al centro stesso dell'inverno. La portavano fuori a prendere aria come un canarino. Le mettevano accanto frutta e biscotti da becchettare, ma sua madre si portava via il piatto intatto mentre Daniela rimaneva muta, nonostante gli sforzi che tutti facevano per distrarla.
All'inizio la invitavano in strada, per vedere se, guardando i colombi e osservando la gente che andava e veniva, qualcosa in lei cominciasse a dare segni di attaccamento alla vita. Provarono di tutto. Sua madre se la portò in Spagna e le fece girare tutti i locali sivigliani di flamenco senza ottenere da lei nulla più di una lacrima, una sera in cui il cantante era allegro. La mattina seguente inviò un telegramma a suo marito:«Comincia a migliorare, ha pianto un secondo». Era diventata come un arbusto secco, andava dove la portavano e appena poteva si lasciava cadere sul letto come se avesse lavorato ventiquattr'ore di seguito in una piantagione di cotone. Alla fine non ebbe più forze che per gettarsi su una sedia a dire a sua madre:«Ti prego, andiamocene a casa».
Quando tornarono, la zia Daniela camminava a stento, e da allora non volle più alzarsi dal letto. Non voleva neppure lavarsi, né pettinarsi, né fare pipì. Un mattino non riuscì neppure ad aprire gli occhi.
«E' morta!», sentì esclamare intorno a sé, e non trovò la forza di negarlo.
Qualcuno suggerì a sua madre che un tale comportamento fosse un ricatto, un modo di vendicarsi degli altri, una posa da bambina viziata che, se di colpo avesse perso la tranquillità di una casa sua e la pappa pronta, si sarebbe data da fare per guarire da un giorno all'altro. Sua madre fece lo sforzo di crederci e seguì il consiglio di abbandonarla sul portone della cattedrale. La lasciarono lì una notte con la speranza di vederla tornare, affamata e furiosa, com'era stata un tempo. La terza notte la raccolsero dal portone e la portarono in ospedale tra le lacrime di tutta la famiglia.
All'ospedale andò a farle visita la sua amica Elidé, una giovane dalla pelle luminosa che parlava senza posa e che sosteneva di saper curare il mal d'amore. Chiese che le permettessero di prendersi cura dell'anima e dello stomaco di quella naufraga. Era una creatura allegra e attiva. Ascoltarono il suo parere. Secondo lei, l'errore nella cura della sua intelligente amica consisteva nel consiglio di dimenticare. Dimenticare era una cosa impossibile. Quel che bisognava fare era imbrigliare i suoi ricordi perchè non la uccidessero, perchè la obbligassero a continuare a vivere.
I genitori ascoltarono la ragazza con la stessa indifferenza che ormai suscitava in loro qualsiasi tentativo di curare la figlia. Davano per scontato che non sarebbe servito a nulla, ma autorizzarono il tentativo come se non avessero ancora perso la speranza, che ormai avevano perso.
Le misero a dormire nella stessa stanza. Pasando davanti a quella porta, in qualsiasi momento, si udiva l'ifaticabile voce di Elidé parlare dell'argomento con la stessa ostinazione con la quale un medico veglia un moribondo. Non stava zitta un minuto. Non le dava tregua. Un giorno dopo l'altro, una settimana dopo l'altra.
«Come hai detto che erano le sue mani?», chiedeva.
Se la zia Daniela non rispondeva, Elidé l'attaccava su un altro fronte.
«Aveva gli occhi verdi? Castani? Grandi?».
«Piccoli», rispose la zia Daniela, aprendo bocca per la prima volta dopo un mese.
«Piccoli e torbidi?», domandò Elidé.
«Piccoli e fieri», rispose la zia Daniela, e ricadde nel suo mutismo per un altro mese.
«Era sicuramente del Leone. Sono così, i Leoni», diceva la sua amica tirando fuori un libro sui segni zodiacali. Le leggeva tutte le nefandezze che un Leone può commettere. «E poi sono bugiardi. Ma tu non devi lasciarti andare, sei un Toro: sono forti le donne del Toro».
«Di bugie sì che ne ha dette», le rispose Daniela una sera.
«Quali? Non te ne scordare! Perché il mondo non è tanto grande da non incontrarlo mai più, e allora gli ricorderai le sue parole: una per una, quelle che ti ha detto e quelle che ha fatto dire a te».
«Non voglio umiliarmi».
«Sarai tu a umiliare lui. Sarebbe troppo facile, seminare parole e poi filarsela».
«Le sue parole mi hanno illuminata!», lo difese la zia Daniela.
«Si vede, come ti hanno illuminata!», diceva la sua amica, arrivate a questo punto.
Dopo tre mesi ininterrotti di parole la fece mangiare come Dio comanda. Non si rese neppure conto di come fosse successo. L'aveva portata a fare una passeggiata in giardino. Teneva sottobraccio una cesta con frutta, pane, burro, formaggio e tè. Stese una tovaglia sull'erba, tirò fuori la roba e continuò a parlare mettendosi a mangiare senza offrirle nulla.
«Gli piaceva l'uva», disse l'ammalata.
«Capisco che ti manchi».
«Sì» disse la zia Daniela, portandosi alla bocca un grappolo d'uva. «Baciava divinamente. E aveva la pelle morbida, sulla schiena e sulla pancia».
«E com'era... sai di che cosa parlo», disse l'amica, come se avesse sempre saputo che cosa la torturava.
«Non te lo dico», rispose Daniela ridendo per la prima volta dopo mesi. Mangiò poi pane e burro, formaggio e tè.
«Bello?», chiese Elidé.
«Sì», rispose l'ammalata, ricominciando a essere se stessa.
Una sera scesero a cena. La sia Daniela indossava un vestito nuovo e aveva i capelli lucidi e puliti, finalmente liberi dalla treccia polverosa che non si era pettinata per tanto tempo.
Venti giorni più tardi, le due ragazze avevavo ripassato tutti i ricordi da cima a fondo, fino a renderli banali. Tutto ciò che la zia Daniela aveva cercato di dimenticare, sforzandosi di non pensarci, a furia di ripeterlo divenne per lei indegno di ricordo. Castigò il suo buon senso sentendosi raccontare una dopo l'altra le centoventimila sciocchezze che l'avevano resa felice e disgraziata.
«Ormai non desidero più neppure vendicarmi», disse un mattino a Elidé. «Sono stufa marcia di questa storia».
«Come? Non mi ridiventare intelligente, adesso», disse Elidé. «Questa è sempre stata una questione di ragione offuscata: non vorrai trasformarla in qualcosa dilucido? Non sprecarla, ci manca la parte migliore: dobbiamo ancora andare a cercare quell'uomo in Europa e in Africa, in Sudamerica e in India, dobbiamo trovarlo e fare un baccano tale da giustificare i nostri viaggi. Dobbiamo ancora visitare la Galleria Pitti, vedere Firenze, innamorarci a Venezia, gettare una moneta nella Fontana di Trevi. Non vogliamo inseguire quell'uomo che ti ha fatto innamorare come un'imbecille e poi se n'è andato?».
Avevamo progettato di girare il mondo in cerca del colpevole, e questa storia che la vendetta non fosse più imprescindibile nella cura della sua amica era stata un brutto colpo per Elidé. Dovevano perdersi per l'India e il Marocco, la Bolivia e il Congo, Vienna e soprattutto l'Italia. Non aveva mai pensato di trasformarla in un essere razionale dopo averla vista paralizzata e quasi pazza quattro mesi prima.
«Dobbiamo andare a cercarlo. Non mi diventare intelligente prima del tempo», le diceva.
«E' arrivato ieri», le rispose le rispose la zia Daniela un giorno.
«Come lo sai?»
«L'ho visto. Ha bussato al mio balcone come una volta».
«E che cosa hai provato?»
«Niente».
«E che cosa ti ha detto?»
«Tutto».
«E che cosa gli hai risposto?»
«Ho chiuso la finestra».
«E adesso?», domandò la terapista.
«Adesso sì ce ne andiamo in Italia: gli assenti si sbagliano sempre».

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Ti ricordi di me - Sophie Kinsella

>> venerdì 14 gennaio 2011

Mi sono avvicinato a questo romanzo incuriosito dal genere cosiddetto chick lit che sarebbe la versione moderna del romanzo rosa femminile nato con titoli come "Il diavolo veste Prada" e "Il diario di Bridget Jones". Quest'opera della Kinsella parte da una storia inverosimile: la protagonista, a causa di una botta alla testa, dimentica tutto quello che è successo nei due anni precedenti compresa la "personalità" che nel frattempo ha avuto modo di cambiare. I personaggi che si avvicendano sono poco credibili perchè  hanno molto dello stereotipo. Ciononostante il romanzo si legge molto facilmente merito di dialoghi frizzanti e ben costruiti. In alcuni momenti è anche molto divertente.

«Senti, perché non vieni da me domani sera, quando è tutto finito? Ti preparo gli spaghetti alla carbonara.» «Sì, mi farebbe piacere. Ti chiamo.» Già non vedo l’ora. Un piatto di pasta deliziosa, un bicchiere di vino, e io che le racconto tutti i particolari del funerale. Fi ha la capacità di cogliere il lato divertente anche nelle cose più tristi, e so già che finiremo per spanciarci dalle risate... «Ehi, ecco un taxi! Taxiiii!» Corro verso il bordo del marciapiede mentre l’auto accosta. Faccio segno a Debs e Carolyn, tutte prese a berciare Dancing Queen. Carolyn ha gli occhiali bagnati di pioggia ed è avanti a Debs di almeno cinque note. «Salve! » Mi chino verso il finestrino del tassista con i capelli sgocciolanti sul viso. «Ci può portare prima da Balham, e po.. .» «Mi spiace, cara, ma niente karaoke» taglia corto lui, con un’occhiata ostile a Carolyn e Debs. Lo guardo perplessa. «Che intende con niente karaoke?» «Quelle li non ce le voglio a trapanarmi il cervello con le loro canzonette del cavolo.» Probabilmente scherza. Mica si possono bandire le persone che cantano.
«Ma...» «il taxi è mio e le regole le stabilisco io. Niente ubriachi, niente droga, niente karaoke.» Senza aspettare la mia risposta, ingrana la marcia e parte a tutto gas. «Non può avere la regola “niente karaoke”» gli urlo dietro, infuriata. «E una...discriminazione! E contro la legge! E...» La voce viene meno e mi guardo intorno. Fi è scomparsa di nuovo tra le braccia di Mister Belloccio. Debs e Carolyn continuano a storpiare Dancing Queen in modo orripilante, e in fin dei conti non me la sento di dare torto al tassista. Le macchine ci sfilano accanto veloci, inzaccherandoci di fanghiglia, e la pioggia tamburella sul giubbotto di denim ormai fradicio colandomi in testa. I pensieri continuano a girarmi per la mente come calzini in una centrifuga.
Non lo troveremo mai un taxi. Passeremo la notte qui, bloccate sotto la pioggia. Quei cocktail alla banana erano tossici: avrei dovuto fermarmi al quarto. Domani c’è il funerale di papà, e io non sono mai stata a un funerale.
E se scoppio in singhiozzi e tutti mi fissano? Probabilmente Dave lo Sfigato in questo secondo è a letto con un’altra, e le dice che è bella mentre lei mugola “Butch! Butch! “. Io ho i piedi gelati e pieni di vesciche...
«Taxi!» grido d’istinto, quasi prima di aver registrato la luce gialla in lontananza. Sta risalendo la strada con la freccia a sinistra. «Non svoltare!» Gli faccio segnali frenetici con il braccio. «Qui! Qui!»
Devo prendere assolutamente questo taxi. Devo. Con il giubbotto sopra la testa, corro lungo il marciapiede, scivolando spesso, e intanto grido fino a diventare rauca. «Taxi! Taxi! » Arrivata all’angolo, mi imbatto in un capannello di persone. Le aggiro e salgo i gradini di un maestoso palazzo municipale. C’è una balaustra con le scale ai due lati. Faccio segno al taxi da lassù, poi mi precipito in basso per infilarmi dentro. «TAXI! TAAA-XIII !» Sì, sta accostando! Grazie a Dio! Finalmente posso andare a casa, farmi un bagno e dimenticare questa orribile giornata. «Qui!» grido. «Arrivo subito, un sec...» Con grande costernazione noto sul marciapiede sottostante un tizio in giacca e cravatta che si dirige verso il taxi. «È nostro! » grido e mi scaravento giù per la scalinata. «È nostro Sono stata io a fermano! Non le venga in mente...Aaaagh! Aaaahi!» Mentre il piede slitta sul gradino bagnato, non capisco bene cosa stia succedendo. Poi comincio a cadere, e il cervello è investito da un’ondata di incredulità. Sono scivolata sulla suola liscia di questo cavolo di stivale da due soldi. Capitombolo giù per i gradini come una bambinetta di tre anni. Mi aggrappo come una disperata alla ringhiera graffiandomi, storcendo le dita, e molo la borsa Accessorize nel tentativo di trovare un appiglio. Ma non riesco a fermarmi. Oh, merda.
L’asfalto viene dritto verso di me e non posso fare proprio niente; sono sicura, sicurissima, che la botta sarà tremenda.

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Novecento - Alessandro Baricco

>> mercoledì 12 gennaio 2011

E' il monologo teatrale da cui è stato tratto il film di Tornatore "La leggenda del pianista sull'oceano".  Difficile dire se è preferibile il libro o il film, secondo me l'uno completa l'altro. Il merito del libro è quello di riuscire in pochissime pagine a raccontare efficacemente una storia emozionante e non proprio originale (vedasi "Il barone rampante" di Calvino). Il merito del film è quello di aggiungere al tutto una colonna sonora indimenticabile in cui il "duello" al pianoforte ne è il capolavoro.

A me m'ha sempre colpito questa faccenda dei quadri. Stanno su per anni, poi senza che accada nulla, ma nulla dico, fran, giù, cadono. Stanno lì attaccati al chiodo, nessuno gli fa niente, ma loro a un certo punto, fran, cadono giù, come sassi. Nel silenzio più assoluto, con tutto immobile intorno, non una mosca che vola, e loro, fran. Non c'è una ragione. Perché proprio in quell'istante? Non si sa. Fran. Cos'è che succede a un chiodo per farlo decidere che non ne può più? C'ha un'anima, anche lui, poveretto? Prende delle decisioni? Ne ha discusso a lungo col quadro, erano incerti sul da farsi, ne parlavano tutte le sere, da anni, poi hanno deciso una data, un'ora, un minuto, un istante, è quello, fran. [...] È una di quelle cose che è meglio che non ci pensi, se no ci esci matto. Quando cade un quadro. Quando ti svegli un mattino, e non la ami più. Quando apri il giornale e leggi che è scoppiata la guerra. Quando vedi un treno e pensi io devo andarmene da qui. Quando ti guardi allo specchio e ti accorgi che sei vecchio. Quando, in mezzo all'Oceano, Novecento alzò lo sguardo dal piatto e mi disse: "A New York, fra tre giorni, io scenderò da questa nave". Ci rimasi secco. Fran.

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Lettura di Sciascia in biblioteca

5 Marzo ore 20,30, Biblioteca Castiglione delle Stiviere

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