L'ultima estate - Cesarina Vighy

>> domenica 23 ottobre 2011

Un opera d'arte si giudica tenendo in considerazione la biografia del suo autore? Secondo me, no. Il valore della musica di Mozart prescinde dalla considerazione che il compositore era un irriverente, maleducato libertino. Ho letto il libro della Vighy ignorando la sua storia (lo ha scritto nel 2009 all'età di 73 anni quando già era gravemente ammalata di SLA). La trama è molto esile ed è in realtà il pretesto per trascrivere una serie di considerazioni autobiografiche che nella maggior parte dei casi mi hanno annoiato. Meritano quelle che trascrivo di seguito. Tanto di cappello, però, alla scrittrice per la forza di volontà e lucidità con cui è riuscita a strappare alla sua terribile malattia lo spazio per testimoniare una vita difficile e piena di dolore.

Se ho accennato a questi viaggi, che ora tutt'al più vengono organizzati per vecchie pensionate cui rifilare pentole, non è solo per nostalgia, sentimento che certo mi accomuna a quelle tali vecchie pensionate, ma per la sensazione soffocante di oggi che il mondo si stia restringendo, viaggi compresi, fino a stritolarti. No, non è il lamento di chi trova bello tutto ciò che riguarda la propria giovinezza, un'età che fa molto soffrire, ma è un fatto concreto, constatabile da chiunque voglia pensarci un po' su: dai diecimila nomi usati una quarantina d'anni fa si è passati a tremila, dell'infinita varietà di mele si salvano appena le renette, le golden e poche altre. E dove si trova un pezzo di stoffa o un bottone rosa antico, pavone, turchese, azzurro polvere, verde Nilo? Chi ha ancora davanti agli occhi della mente, precise, queste fragili sfumature? SOS: salvate le nostre anime!
[...]
E' autunno fondo ormai. La pioggia cade ad aghi fini fini, dimostrando ancora una volta quanto sia più elegante l'argento dell'oro. Goethe scriveva che chi non sa più meravigliarsi del mutare delle stagioni è un uomo finito. Finalmente siamo in autunno pieno, da poesia per libro delle elementari: pioggia, ultime foglie secche che non si sa cosa stiano a fare attaccate al loro albero, bambini mogi dal risveglio difficile dopo il primo entusiasmo per le cartelle e i libri nuovi.
Scomparsi la meraviglia dorata dell'inizio, l'uva multicolore, gli ultimi fichi, le prime castagne. Signora mia, non ci sono più le mezze stagioni! Ma in fondo, solo io posso godermi la pioggia, da dietro un vetro, senza il pensiero di rovinarmi le scarpe, i capelli, le giornate.
[...]
In verità sono stata una moglie mediocre, di carne fredda, e soprattutto una madre manchevole. Le cattive figlie diventano cattive madri perché vogliono dare il contrario di quanto hanno ricevuto e quindi sbagliano due volte. Mandai la mia piccola a una scuola ambitissima che praticava lo snobismo alla rovescia: sita in una landa desolante, accanto a una fabbrica che produceva veleno per topi, tutto il suo sessantottismo consisteva nel rifiutare fermamente le tabelline. Non le parlai mai di dio e di religioni: risultato, scambiava - e scambia tuttora - Mosè con Noè. La lasciai crescere insomma come un cavallino selvaggio, convinta che la natura le avrebbe insegnato la via e invece quella, maligna e matrigna com'è, le ha spostato continuamente i segnali stradali, confondendola e impaurendola.
[...]
Ogni matrimonio è un mistero, gaudioso o doloroso (mai glorioso), noto solo ai due sposi: mistero che noi, invece, continuiamo a ignorare. Avevamo tutto contro. Attratta sempre, per via del mio Edipo, da uomini fatti e talora anche sfatti, convinta che avessero molto da insegnarmi, sposavo un ragazzo di sette anni più giovane, di famiglia semplice e con nessuna voglia di capire il mio mondo e tanto meno di entrarci. Quanto alla famiglia semplice, mi detestava come fossi una vecchia maliarda che si prendeva il suo figlio migliore per usarlo e poi buttarlo via. Tutti ci davano al massimo uno o due anni per arrivare al divorzio. Invece, siamo ancora qui, insieme, dopo quarant'anni. Miracolo? Ai miracoli non credo. Piuttosto, al di là della stima, l'affetto, l'amore, si crea spesso un legame inestricabile, una simbiosi, tra oscuri bisogni che cercano, e spesso trovano, un sollievo, una compensazione in quelli dell'altro. Ora so cosa cercavo io. Un alibi. Un alibi che giustificasse il mio scarso successo, il mio negarmi alla creatività, alle buone frequentazioni, alle amicizie, alle novità. Lo trovai facilmente nella gelosia di lui: una gelosia cupa, morbosa, da siciliano, che mi legava mani e piedi e che io accettavo perché mi liberava dall'obbligo di riconoscere nella paura di non farcela, di essere giudicata, la radice dello scacco matto che mi assegnavo prima ancora di cominciare la partita. Eppure, eccoci qua: io malatissima, lui, l'angelo incazzoso, solerte come una madre che indovina i desideri del suo bambino prima ancora di sentirglieli esprimere. Eccoci qua dopo anni di quiete che si potrebbero chiamare anni felici se solo sapessimo, mentre la si vive, che quella è la felicità. Da qualche giorno, da qualche notte, perdo facilmente il respiro, mi pare di soffocare, immagino cosa si prova ad annegare. Il mio sapientissimo medico (anzi professore con anni di studio, pubblicazioni su riviste internazionali, convegni importanti) mi ha detto serio serio: «Provi a mettere un cuscino di più nel letto».
[...]
Dentro, era tutto uno splendere di detersivi: un vero peccato, in fondo, che ospitasse solo dei malati. Lì imparai a districarmi in quel piccolo mondo chiuso, dove sono in vigore altri usi, altre abitudini, altre leggi. Cominciai a osservare le divise, cui di solito diamo un'occhiata talmente distratta da ricordare appena se si trattasse di camici o di casacche. Distinzione importantissima, invece, perché rivela gerarchie e ascese nella scala sociale: il camice bianco spetta solo ai medici e a chiunque abbia la qualifica di capo; l'azzurro-verde e le casacche sono per gli altri. Benché tutte le divise vengano accuratamente descritte e prescritte nei regolamenti interni (scollo a V, tre bottoni, tasche sovrapposte, pantaloni unisex), la vanità, l'individualismo e i troppo frequenti lavaggi antimacchia, che sbiadiscono colori e bordini, rendono inutile il fine per cui sono nate facendoci scambiare spesso un generale per un caporale. L'importante, in ogni caso, è capire dove sta il potere: nei portantini e nelle capo sala. I primi possono bloccare il meccanismo che fa funzionare l'intero ospedale; le seconde, fiduciarie e portavoce dei medici ma insieme provenienti dalla stessa classe sociale dei sottoposti, ne conoscono gli umori e quindi sanno dosare a perfezione bastone e carota. Quanto ai terapisti, possono essere grosso modo divisi in due categorie: i semplici e i composti. I semplici badano a far bene il loro lavoro, hanno un equo rapporto col denaro e la loro aspirazione massima è la laurea triennale che, a parer loro, li innalzerebbe quasi all'altezza dei veri dottori. I composti sono più inquieti, più spirituali, e svolgono spesso il loro compito come una missione salvifica per i malati e per se stessi, il che non è detto che sia sempre il meglio. La mia logopedista era così: simpatica, intelligente, amante della poesia e del teatro. Naturalmente, passavamo quasi tutta l'ora destinatami a chiacchierare dimenticando i palloncini da gonfiare e le cannucce da succhiare. Veniva da molte esperienze dolorose, tra cui un tentato suicidio. Aspiranti suicidi, attenzione! In questa fase iniziale, trionfalistica, per chi non abbia remore religiose sembra la soluzione ideale per evitare, alzando la mano su di sé, che altri (chi?) sia più svelto ad alzarla. Così, con uno scatto di dignità da antico romano, ce ne possiamo andare liberi, senza assistere e offrire spettacolo di troppa degradazione. Quando eravamo molto giovani (e solo questo ci scusa), mio marito e io avevamo progettato questa uscita di sicurezza, sull'esempio di molte coppie socialiste dell'Ottocento. Non ci mettemmo d'accordo solo perché, data la differenza di età tra noi, non ci sapevamo decidere a quale anno della vita avremmo dovuto mettere fine. Brigitte Bardot, nell'era del musetto imbronciato e della coda di cavallo, aveva detto una bestialità più grossa ancora: che si sarebbe suicidata a trent'anni. Oggi è una gattara spettinata quanto me. Attenti, compagni di sventura che ormai siete i destinatari di questo piccolo vademecum che si va componendo quasi da solo. L'homo sapiens è l'animale più adattabile che sia mai comparso, senza scomparire, sulla faccia della terra. Via i dinosauri, via i mammuth ma l'essere umano è sempre qui. Perché si è piegato, senza pregiudizi ma non senza disgusto, a mangiar carne o erba, secondo le carestie. Quando credeva di essere civilizzato perché parlava, camminava dritto e si vestiva, magari di una giacchetta a strisce con una stella gialla cucita sopra, ha mangiato bucce di patate, spazzatura, cuoio bollito. Altri, diversi, hanno tradito, venduto i figli, prostituito le figlie, per sopravvivere. Alla fine si accetta tutto, credete a me che odio la bruttezza, la sporcizia, la dipendenza dagli altri, la malattia e, sì, anche i malati: l'umiliante istinto di sopravvivenza ha la meglio.

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La Camera Azzurra - Georges Simenon

>> sabato 8 ottobre 2011

Romanzi come questo ti riconciliano con il piacere di leggere. E' un thriller poliziesco dove il punto di vista non è quello di un commissario ma di un imputato che si avvia ad essere condannato per un crimine che forse non ha materialmente commesso. La scena parte da un particolare (i due amanti nella camera azzurra di un albergo) e poi con una zoommata all'indietro si estende fino a comprendere tutto lo spazio e il tempo in cui si muovono gli altri personaggi e si realizzano gli eventi. Il dialogo che si svolge in quel momento iniziale condizionerà la vita di entrambi e diventerà l'ossessione per il superficiale protagonista. E' un romanzo fortemente moralista: sorprende che sia stato scritto dal libertino Simenon che si racconta abbia sedotto, nell'arco della sua vita, migliaia di donne.

La camera era azzurra, di un azzurro - aveva notato un giorno - simile a quello della liscivia. Un azzurro che lo riportava all'infanzia, ai sacchetti di tela grezza pieni di polvere colorata che sua madre diluiva nella tinozza del bucato prima di risciacquare la biancheria e stenderla sull'erba scintillante del prato. A quel tempo lui doveva avere cinque o sei anni, e si chiedeva come mai una polverina azzurra potesse ridare il bianco ai tessuti. Gli sembrava un miracolo. In seguito, quando la madre era morta da un pezzo e ormai i tratti di quel viso familiare cominciavano a svanire dalla sua memoria, si era anche chiesto perché la povera gente come loro, nonostante gli abiti rattoppati, attribuisse tanta importanza al candore della biancheria.
Era a questo che stava pensando in quel momento? L'avrebbe capito soltanto dopo. L'azzurro della camera non somigliava solo al colore della liscivia, ricordava anche il cielo di certi caldi pomeriggi d'agosto, prima che il tramonto lo tinga di rosa e poi di rosso.
Perché era proprio un tardo pomeriggio di agosto, più precisamente erano le cinque del 2 agosto, e sul tetto della stazione, la cui facciata bianca era immersa nell'ombra, cominciava a far capolino qualche nuvola dorata, leggera come panna montata.
«Ti piacerebbe passare con me il resto della tua vita?».
Registrava automaticamente le parole di Andrée senza prestarvi una particolare attenzione. Non più di quanto facesse con le immagini o gli odori. Come poteva sapere che avrebbe rivissuto quella scena decine e decine di volte? E sempre in uno stato d'animo diverso, da un punto di vista diverso...
Per mesi si sarebbe sforzato di ricordare ogni minimo dettaglio. Non tanto di sua spontanea volontà, ma perché altri l'avrebbero costretto a farlo.
Il professor Bigot, per esempio, lo psichiatra incaricato dal giudice istruttore, gli avrebbe chiesto con insistenza, spiando ogni sua reazione:
«Andrée la mordeva spesso?».
«É capitato».
«Quante volte?».
«Ci siamo incontrati solo otto volte in tutto, a l'Hôtel des Voyageurs».
«Otto volte in un anno?».
«In undici mesi... Sì, undici, visto che la cosa è iniziata a settembre...».
«Quante volte l'ha morso?».
«Tre, forse quattro».
«Durante il rapporto?».
«Mi pare... Sì...».
Sì... No... Quel giorno, in realtà, era successo dopo, quando si era staccato da lei per girarsi su un fianco a guardarla con gli occhi socchiusi, incantato dalla luce che li avvolgeva.
Fuori, nella piazza della stazione, l'aria era torrida. Il sole batteva in pieno sulla camera, ed era così ardente, di un calore così vivo che sembrava quasi di sentirne il respiro anche all'interno.
Tra le persiane, che Tony non aveva chiuso del tutto, restava una fessura di una ventina di centimetri. Dalla finestra aperta giungevano i rumori della cittadina, alcuni confusi, quasi un coro lontano, altri vicini e distinti, ben riconoscibili, come le voci dei clienti seduti al bar di sotto.
Poco prima, mentre si abbandonavano freneticamente all'amore, quei rumori arrivavano sino a loro fondendosi con i loro corpi, la loro saliva, il loro sudore, con il candore del ventre di Andrée e il colore più scuro della pelle di lui, con la losanga di luce che tagliava in due la stanza, con l'azzurro delle pareti, un riflesso danzante sullo specchio e l'odore dell'albergo. Un odore che sapeva ancora di campagna, in cui si mescolavano gli effluvi del vino e dei liquori serviti nel salone all'entrata, dello stufato che cuoceva a fuoco lento in cucina, del materasso di crine vegetale un po' ammuffito.
«Come sei bello, Tony».
Glielo ripeteva a ogni incontro, mentre lei rimaneva distesa e lui andava su e giù per la camera cercando le sigarette nella tasca dei pantaloni buttati su una sedia impagliata.
«Perdi ancora sangue?».
«No, quasi più niente».
«E che le dici se ti chiede qualcosa?».
Lui aveva alzato le spalle: non capiva perché Andrée si preoccupasse tanto. Nulla, in quel momento, gli pareva importante. Si sentiva bene, in armonia con l'universo.
«Le dirò che ho sbattuto... Contro il parabrezza, per esempio. Una frenata brusca...».
Si era acceso una sigaretta, e gli sembrava che avesse un gusto particolare. Ricostruendo quella conversazione, si sarebbe poi ricordato di un altro odore, quello dei treni, riconoscibile fra tutti. Un convoglio merci faceva manovra nella zona riservata al traffico locale, e la locomotiva lanciava ogni tanto un breve fischio.
Il professor Bigot - un ometto magro, rosso di capelli e con le sopracciglia folte e arruffate - avrebbe insistito:
«Non ha mai pensato che lo facesse apposta a morderla?».
«Perché?».
In seguito, l'avvocato Demarié, il suo difensore, sarebbe tornato alla carica.
«Penso che questi morsi potrebbero giocare a nostro favore».
Ma, ancora una volta, come gli sarebbe potuta venire in mente una cosa del genere, allora, in un momento in cui era occupato solo a vivere? Se anche aveva pensato qualcosa, non se n'era reso conto. Rispondeva ad Andrée senza riflettere, a fior di labbra, in tono leggero, svagato, convinto che quelle parole buttate lì non avessero alcun peso, e dunque non lasciassero traccia.
Un pomeriggio - era il loro terzo o quarto appuntamento - Andrée, dopo avergli detto che era bello, aveva aggiunto:
«Sei così bello che mi piacerebbe fare l'amore con te davanti a tutti, in mezzo alla piazza della stazione...».
Tony era scoppiato a ridere, ma senza sorprendersi. Neanche a lui dispiaceva mantenere un certo contatto col mondo esterno mentre erano l'uno nelle braccia dell'altro, percepire i suoni, le voci, le variazioni di luce, perfino il rumore dei passi sul marciapiede e il tintinnio dei bicchieri ai tavolini del bar di sotto.
Un giorno che era passata la banda si erano divertiti a fare l'amore a tempo di musica. Un'altra volta era scoppiato un temporale e Andrée aveva insistito perché spalancasse la finestra e le persiane.
In fondo era un gioco, e lui non ci aveva visto nessuna malizia. Lei era nuda, sdraiata di traverso sul letto, in una posa volutamente lasciva. Lo faceva apposta, appena chiusa la porta della camera, a mostrarsi quanto più impudica possibile.
Capitava che, una volta spogliati, Andrée mormorasse con una falsa innocenza che faceva anch'essa parte del gioco:
«Io ho sete. E tu?».
«No».
«Tra poco l'avrai. Chiama Françoise e dille di portarci da bere...».
Françoise, la cameriera, era una donna sulla trentina. Abituata a servire nei bar o negli alberghi da quando aveva quindici anni, ormai non si stupiva più di niente.
«Desidera, signor Tony?».
Lo chiamava così perché era il fratello del proprietario, Vincent Falcone, il cui nome stava scritto sull'insegna e la cui voce echeggiava dal bar.
«Non si è mai chiesto se questo atteggiamento mirasse a raggiungere uno scopo preciso?».
Ciò che stava vivendo - una mezz'ora, ma neanche... qualche minuto della sua esistenza - sarebbe stato frammentato in singole immagini, in suoni isolati, sarebbe stato passato al setaccio, e non solo dagli altri, pure da lui.
Andrée era alta. A letto non si notava, ma superava Tony di tre o quattro centimetri. Nonostante fosse del posto, aveva i capelli scuri, quasi neri, come una francese del Sud o un'italiana: un bel contrasto con la pelle bianca e liscia, che sotto la luce sembrava cangiante. Aveva un corpo opulento, le forme piene, le carni - soprattutto i seni e le cosce - morbide e sode.
[...]
Aveva appena acceso i fari nel crepuscolo, quando si era accorto della Due cavalli grigia sul ciglio della strada. Andrée, vestita di chiaro, gli faceva segno di fermarsi.
Naturalmente aveva frenato.
«É una fortuna che tu sia passato da qui, Tony...».
In seguito, quasi costituisse una prova contro di lui, gli avevano chiesto:
«Vi davate già del tu?».
«Certo, dai tempi della scuola».
Che diavolo poteva mai annotare il giudice sul foglio dattiloscritto che aveva davanti?
«Continui».
«Andrée mi disse: "Guarda un po' se dovevo bucare proprio la volta che, per mancanza di spazio, ho lasciato a casa il cric... Tu ce l'hai?"».
Tony non aveva avuto bisogno di togliersi la giacca, perché faceva ancora caldo e perciò non se l'era neanche messa. Quel giorno - se lo ricordava bene - indossava una camicia a maniche corte con il colletto sbottonato e un paio di pantaloni di tela azzurra.
Ovviamente, si era offerto di smontare la ruota.
«Ce l'hai quella di scorta?».
Mentre lui lavorava, si era fatto del tutto buio. In piedi vicino a lui, Andrée gli passava gli attrezzi.
«Arriverai in ritardo per la cena».
«Non è la prima volta. Sai, con il mio lavoro...».
«Tua moglie non dice niente?».
«Lo sa che non è colpa mia».
«L'hai conosciuta a Parigi?».
«No, a Poitiers».
«É di lì?».
«Di un paese vicino, ma lavorava in città».
«Ti piacciono le bionde?».
Gisèle era bionda, con una pelle sottile, diafana, che si colorava di rosa alla minima emozione.
«Non so. Non ci ho mai riflettuto».
«Mi chiedevo se le brune non ti facessero un po' paura».
«Perché?».
«Perché un tempo hai baciato più o meno tutte le ragazze di Saint-Justin, tranne me».
«É probabile che non ci abbia pensato».
Scherzava, e intanto si ripuliva le mani col fazzoletto.
«Vuoi provare almeno una volta a baciarmi?».
Lui l'aveva guardata con stupore, ed era stato lì lì per chiederle di nuovo:
«Perché?».
Nel buio la vedeva a malapena.
«Vuoi?», aveva ripetuto Andrée, con voce quasi irriconoscibile.
Tony ricordava il bagliore rosso delle luci di posizione, l'odore dei castagni, poi l'odore e il sapore della bocca di lei. Con le labbra incollate alle sue, Andrée gli aveva preso una mano per accostarsela al seno, e lui si era stupito di trovarlo così tondo e sodo, così vivo.
E dire che gli era sembrata una statua!
Si stava avvicinando un camion. Per sottrarsi alla luce dei fari erano indietreggiati - senza staccarsi l'uno dall'altro - verso la banchina, dove crescevano i primi alberi del bosco. E subito Andrée si era messa a tremare come non gli era mai capitato di vedere in una donna. Addossandosi a lui con tutto il peso del corpo, gli ripeteva:
«Vuoi?».
Si erano ritrovati a terra, fra l'erba alta e le ortiche.
Tony non disse nulla di tutto ciò né ai poliziotti né al giudice. Solo il professor Bigot, lo psichiatra, gli strappò a poco a poco la verità. Era stata lei ad alzarsi la gonna fino al ventre, a sbottonarsi la camicetta per liberare i seni e a ordinargli con voce rauca, quasi rantolante:
«Scopami, Tony!».
In effetti, era stata lei a possederlo, mentre i suoi occhi esprimevano insieme il trionfo e la passione.
«Non avevo mai immaginato che Andrée fosse così...».
«Che intende dire?».
«La ritenevo una donna fredda, altera, come sua madre».
«E dopo? Non era un po' imbarazzata?».
Distesa sull'erba, immobile e con le gambe ancora aperte - come quel pomeriggio nella stanza d'albergo -, gli aveva detto:
«Grazie, Tony».
Sembrava pensarlo davvero. Si mostrava umile, quasi infantile.
«Era da tanto che lo desideravo... Dai tempi della scuola, ci credi? Ti ricordi di Linette Pichat? Era strabica, ma questo non ti ha impedito di correrle dietro per mesi».
Ora Linette Pichat faceva l'insegnante in Vandea ma tornava a casa ogni anno per passare le vacanze con i genitori.
«Una volta vi ho sorpresi insieme. Dovevi avere quattordici anni».
«Dietro la fabbrica di mattoni?».
«Non l'hai dimenticato, allora?».
Tony si era messo a ridere.
«Non l'ho dimenticato perché era la mia prima volta».
«Anche per lei?».
«Non lo so. Ero troppo inesperto per rendermene conto».
«Come l'ho odiata! Per mesi, rigirandomi di sera nel letto, continuavo a scervellarmi sul modo di farla soffrire».
«E l'hai trovato?».
«No. Mi sono limitata a pregare perché si ammalasse o rimanesse sfigurata in un incidente».
«Faremmo meglio a rientrare a Saint-Justin».
«Ancora un minuto, Tony. No, non alzarti! Dobbiamo pensare a come fare per rivederci, e non sul ciglio della strada.

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La scrittrice abita qui - Sandra Petrignani

>> domenica 2 ottobre 2011

E' una raccolta di note biografiche di scrittrici del secolo scorso (Grazia Deledda, Marguerite Yourcenar, Colette, Alexandra David-Néel, Karen Blixen, Virginia Woolf) che hanno come filo comune la visita della Petrignani alle loro case-museo.
Tali visite sono solo un pretesto perchè alla fine non vi è un reale valore aggiunto che mobili, suppellettili e arredamento danno alla conoscenza delle scrittrici che invece emerge dal racconto della loro storia, dalle lettere che hanno scritto in vita e da altri documenti d'epoca. Il libro della Petrignani è quindi assimilabile a una wikipedia sulle biografie. Sicuramente mi ha fatto nascere il desiderio di rileggere Canne al Vento che ricordo mi era piaciuto vent'anni fa e di affrontare la Yourcenair e la Blixen di cui non ho mai letto nulla.

Stanislao Manca incarnava l'esatto punto di confluenza fra i desideri delle due Grazie: quello intellettuale e quello amoroso. Di una nobile famiglia di Sassari (i duchi dell'Asinara), aveva sei anni più di lei ed era già un affermato giornalista a Roma. Era stato lui, incuriosito dalla giovane scrittrice e sinceramente interessato al suo lavoro, a scriverle per proporle di pubblicare qualcosa sulla «Tribuna », di cui era critico teatrale. E vanesio, seduttivo. Grazia non è abituata agli uomini fatali; e fraintende. Fa anche su di lui le sue ingenue fantasie matrimoniali, pensa che uno scambio di ritratti sia il suggello di un fidanzamento. E quando Stanis viene fino a Nuoro per conoscerla, non ha più dubbi. E il 1891, settembre. Lei che parla sempre in dialetto, figlia di una donna che porta il costume tradizionale, costretta con le sorelle, pur vestendo alla moda, a non uscire senza coprirsi la testa con «il fazzoletto di seta o di raso, che solo al maritarci possiamo lasciare», lei che si annoia «a morte nella nostra piccola casa color rosa» a meno che non «capitino amici dalle città dell'isola o dal continente», si mette il suo vestito più bello, di «setina nera a puntini d'oro», comprato coi primi guadagni letterari, e accoglie l'uomo dei sogni emozionata e timidissima, quasi muta. Successivamente farà una malattia di averlo ricevuto troppo modestamente, nella sala a pianterreno, là dove adesso hanno collocato una serie di vetrinette con i pochi oggetti superstiti che risalgono a quel periodo: gli occhiali, una scatola smaltata con motivi di fiori e di uccelli, un libricino regalo di De Gubernatis con dedica, varie penne con il pennino, fotografie, articoli di giornale ingialliti e lettere, testimonianza di una scrittura minuta, ordinata e maschile. La spazzolina montata in argento per eliminare la polvere dallo scrittoio, il timbro di legno e ottone per sigillare le lettere, il portapenne con fiorellini dipinti, la lampada azzurra, i calamai di cristallo, una piccola lente d'ingrandimento, che compaiono in tante fotografie, sono di epoca successiva e stanno al Museo Etnografico, dove è conservato lo studio che la Deledda aveva a Roma, opera del Clemente. In Cosima racconta così: «Le sorelle avevano steso un'antica tovaglietta di pizzo sul tavolino dove fu servito il caffè.» Ma la stanza è troppo povera per un duca. «Nella vecchia libreria si vedevano ancora le carte d'affari del padre morto.» E «l'uomo biondo la scrutava con piccoli occhi verdognoli che, a guardarli di sfuggita, quasi con spavento, a lei ricordavano quelli dei gatti selvatici in agguato contro gli uccellini di primo volo.» Non c'è amore in quegli «occhi tigreschi», ma Grazia non se ne accorge. Quando lui le scrive: «Mi fate spavento coi vostri sogni mostruosi», non vuole capire. Scrive lettere su lettere, senza risposta. Finge una disinvoltura che non ha, crolla e dichiara il suo amore, poi se lo rimangia, prega e minaccia. Finché lui la offende deliberatamente, con un sadismo, non può non saperlo, che la legherà a lui per sempre. «Un giorno le mandò una lettera strana, dove, fra le altre cose piacevoli, le diceva che ella gli era sembrata quasi una nana», scrive Grazia alla fine della vita con un'ironia che non basta a cancellare l'antica bruciatura. Due anni dopo quel fatale incontro a Nuoro, si chiedeva ancora disperata: «che maledizione è questa?» perché, lasciato il Pirodda, uomo-schermo che l'aveva distratta per un po’, si ritrovava più presa che mai dal Manca («Stanis, oh Stanis! Stanis, Stanis, Stanis!») Lui le aveva dato anche della «squilibrata», si dichiarava innamorato di un'altra, giovane e bellissima. Ma Grazia, con tutta la sua razionalità, con la sua virile determinazione, era totalmente dentro l'incantesimo, l'unico caso in cui anche l'altra parte di sé, la parte artista e creativa, non era rimasta immune. I capelli hanno cominciato a imbiancarsi precocemente per il dolore, gli scrive: «vi amo ancora, sempre... sono gelosa di questa vostra collegiale con la treccia cadente... non fatemi soffrire più», «sento tutta l'umiliazione della vostra indifferenza, eppure vi scrivo e ne trovo piacere.» Dopo un anno delira che a dividerli non è stata la mancanza d'amore, ma la differenza sociale, e sostiene: «Sì, voi mi avete amato, forse mi amate ancora.» E' a questo punto che Stanis infligge il colpo mortale, quello della «nana» e lei allora risponde: «tutto è finito, proprio tutto» e cerca goffamente di vendicarsi: «Vi ho amato perché tutti dicono che siete antipatico e brutto. Anche a me la vostra persona fece una stranissima impressione, avvezza qual sono ai giovani bruni e sottili...» Ma, come sempre, è ad Angelo De Gubernatis che dice la verità: «E' un mistero profondo che invano cerco di studiare in me stessa, ma io l'odio e l'amo e lo disprezzo nel medesimo tempo, sento che sarò sempre legata a questo mistero, che sarò sempre infelice.» E' per sfuggire all'incantesimo che prende con se stessa la decisione di non amare mai più? Non in quella maniera delirante e inerme, perlomeno. Non in modo passionale. Non con la resa incondizionata e folle dell'innamorato. Ormai Grazietta ha preso il sopravvento: «Io, all'infuori dei miei racconti, non credo più all'amore, quest'amore bugiardo e dannoso che ci rende stolti e delle volte anche vili. Forse è per questo che la vita mi sembra così triste, - ma non amerò mai più.» Dette da chiunque altro, queste parole (scritte al solito De Gubernatis alla fine del 1894) potrebbero essere prese alla leggera: lo sfogo di una ragazza ferita in «una giornata vaporosa e triste.» Dette da Grazia Deledda, l'oscura giovane di Nuoro, che potè studiare solo fino alla quarta elementare e arrivò a vincere il premio Nobel, suonano con la forza di un'autoprofezia e di una ferrea decisione, sono il simbolo di una volontà incrollabile, di una personalità ferma fino all'eccesso, di un rigore un po’  impressionante.
[...]
Forse c'erano due Yourcenar, una intima e quasi irraggiungibile, attingibile solo a chi fosse l'oggetto del suo amore, e una per gli altri, egocentrica, indifferente, spietata. Petite Plaisance non è la casa di un "monumento" (Galey riportò così un incontro con l'ex-amica: «Alla fine, qualche minuto di commozione per la morte di Grace. Come si commuovono i monumenti. Appena una nuvoletta presto secca»).
Petite Plaisance è il contrario di un sacrario o di una reggia.
E' una casa tenera, avvolgente, femminile. Un posto impregnato di sentimenti, in cui ogni oggetto ha una storia, un nido fatto di ricordi di viaggio, di poltrone comode, di coperte calde da mettersi sulle ginocchia, di ammirazione per altri scrittori, di compassione per gli animali, di rispetto per le piante. Ma è una casa in cui due donne hanno vissuto insieme per tanto tempo, sono state una coppia, e una coppia negli anni attraversa tante fasi. Yourcenar preferiva non rivelarsi (non l'ha fatto nemmeno nei suoi libri, a parte quelli della giovinezza), ma poteva essere aspra e sincera, come quando, descrivendo cosa fosse stato il suo rapporto con Grace Frick, disse: «Insomma, è una cosa molto semplice: dapprima una passione, poi un'abitudine, infine solo una donna che cura un'altra donna malata.»
Grace si era ammalata di cancro nel 1958, a cinquantacinque anni.
L'avevano operata asportandole un seno ed era stata sottoposta a radioterapia. Il male sembrava sconfitto. Ma in realtà aveva un tumore al sistema linfatico che progressivamente attacca quasi tutto il corpo.
C'è una sua foto nel soggiorno, in mezzo a quelle di Monsieur, FuKu e Valentine. E' un espressivo primo piano. «L'ultima bella foto di Grace», diceva Yourcenar mostrandola agli ospiti. Scattata nel '71 in Europa. Appena prima della devastazione che la malattia operò sul suo fisico negli ultimi anni. Non era mai stata bella, ma l'espressione arguta, lo sguardo briccone, la bocca decisa, il mento appuntito, dicono molto di lei e le danno un'aria attraente, quanto o più che nella giovinezza. L'aggravarsi del male procedeva di pari passo con il crescendo di gloria che cominciò a illuminare la vita della compagna. Memorie di Adriano era uscito nel 1951 con un successo straordinario. L'opera al nero, giudicato un capolavoro ancora più importante, viene pubblicato nel '68. E Grace, che si era sempre fatta in quattro per sostenerla quando nessuno credeva in lei, che aveva ricopiato in bella ogni riga nel piccolo studio di Perite Plaisance sull'unica scrivania con le macchine da scrivere sistemate una di fronte all'altra, Grace che aveva discusso con Marguerite ogni perplessità, che era la sua unica traduttrice in inglese, che aveva desiderato quei risultati quanto o più di lei, ora si lascia divorare dalla gelosia ben più di quanto conceda al cancro di invaderla. Anzi al cancro oppone una guerra forsennata; prova ogni nuova terapia; resiste a dolori atroci; cerca di mantenersi in piedi mentre il corpo cade letteralmente a pezzi diventando una cicatrice aperta e impressionante a vedersi.
L'attaccamento alla vita coincideva con l'attaccamento a Marguerite.
«Grace», scrive ne L'invenzione di una vita Josyane Savigneau,convincente biografa della scrittrice, «non sopporta l'idea che Marguerite possa sopravviverle.» Non sopporta di perdere la presa su di lei, quella presa che si faceva tanto più stretta e  insopportabile per gli altri, quanto più Yourcenar diventava una celebrità che tutti volevano incontrare, conoscere, possedere almeno un po’. Ma per arrivare a questo punto bisogna tornare molto indietro, nella Parigi del 1937. Una Marguerite trentaquattrenne, bruna e piuttosto in carne, dagli straordinari occhi blu e la bocca voluttuosa, sta conversando al bar dell'Hotel Wagram con un amico. Parlano di Coleridge. Dicono sciocchezze, secondo Grace, seduta al tavolo vicino. Tanto da spingerla a intromettersi nella discussione sostenendo che si stanno sbagliando.
In realtà è irresistibilmente attratta dall'orgogliosa sconosciuta e il giorno dopo la invita nella sua stanza a «vedere gli uccelli dalla finestra.» Marguerite accetta e diventano amiche. Ma se l'americana Grace Frick, alta, sottile, determinata, in Francia per motivi di studio, libera, s'innamora immediatamente di una passione esclusiva che si dimostrerà intramontabile, Marguerite si trova in una situazione completamente diversa. E una giovane donna dall'erotismo acceso e perverso; ha fortemente amato un padre dandy e giramondo, che l'ha altrettanto fortemente ricambiata, morto nel 1929. La madre non l'ha mai conosciuta, l'ha uccisa lei nascendo. E se si vuole un'analisi convincente di tanto complesso materiale edipico e delle sue conseguenze sulla vita amorosa adulta, basta leggere Vous, Marguerite Yourcenar. La passion et ses masques di Michele Sarde. Così si può capire l'origine di una «nevrosi passionale» di tipo masochista che la predispone al «sacrificio e al dolore in amore, contribuendo a sviluppare la tendenza al deprezzamento di sé e che si traduce nell'opera in una svalutazione della figura femminile» e in un gigantismo proiettivo di quella maschile. Ma anche senza scomodare la psicoanalisi, che la Yourcenar osteggiò sempre con disprezzo, i fatti parlano da soli. A ventisei anni, rimasta orfana anche del padre, con un piccolo patrimonio presto sperperato in viaggi, cattivi investimenti e vita dissoluta, la giovane scrittrice, autrice di un libretto di versi e del racconto Alexis, sfrenata seduttrice di uomini e di donne, s'innamora dell'affascinante biondo André Fraigneau, di quattro anni più giovane di lei. E' un amore insensato e irrimediabile.
[...]
La prima impressione sulla stanza di Colette, è che non sembra la camera da letto-studio di una scrittrice. E' rosso fuoco. Come in un vecchio bordello. Rosse le pareti, foderate di seta, e anche il soffitto. Diceva che non aveva senso lasciarlo bianco se doveva passare tanto tempo distesa a guardarlo. Rosso il letto e le lenzuola. La coperta, che compare anche in tante ultime fotografie, è di pelliccia.
Alcune poltroncine sono ricamate a mano da lei, broderie anglaise. Fiori e farfalle. Si dedicò al «punto inglese» durante le due guerre («E' un vizio che riesco a soddisfare solo in tempo di guerra»), ricamava soprattutto copricuscini per sé e per le amiche che dalla campagna la rifornivano di cibo. Fu proprio durante l'ultima guerra che cominciò a soffrire di reumatismi alle gambe. I dolori erano già così forti da impedirle di camminare, certi giorni. «Oh, detestabile vecchiaia», si lamentava. «Non c'è niente di allegro nell'ultima parte della vita», scriveva a Marguerite Moreno. E alle amiche di campagna: «La vecchiaia è una scomoda suppellettile.» Nel 1942 Maurice Goudeket, il terzo marito, più giovane di sedici anni, le comprò una sedia a rotelle. E comunque lei riusciva a praticare «l'ottimismo come forma "contagiosa" di resistenza.» Solo raramente perdeva il controllo e si lasciava andare a uno sfogo: «E' una cosa spaventosa, idiota, non dovrebbe essere permesso.
E un orrore, è disgustosa, è impossibile!» gridò una sera a cena in mezzo a pochi amici carissimi. Poi sui suoi fogli rifletteva: «In me si muove - oltre al dolore straziante, come una grossa vite di pressione - un trapano molto meno familiare del dolore, un'insurrezione che nel corso della mia lunga vita ho spesso rinnegato, poi battuto d'astuzia, infine accettato, perché scrivere non porta che a scrivere» (nel Panai bleù) Per l'intera esistenza aveva tenuto a bada l'esibizione delle emozioni, le aveva dissimulate, protette dietro una durezza che molti temevano, dentro un'ironia che ne faceva la grande protagonista della vita culturale parigina. In Il mio noviziato si legge: «...le lacrime pubbliche sono frutto di una sorta di incontinenza... A causa forse della fatica che ho fatto per soffocarle, ne ho orrore.» Avvertì Francio Carco, lo scrittore «maledetto», che fra le tante «fidanzate» aveva contato anche Katherine Mansfield e che a Colette aveva fatto da guida nei bassifondi di Parigi: «Soffro molto, te lo dico senza mezzi termini. Ma non fare alla mia artrite troppa pubblicità.» Durante la guerra, all'amica Renée Hamon (che chiamava «la piccola corsara» perché aveva girato il mondo in bicicletta per tre anni) aveva detto: «Dobbiamo rifiutarci le parole affettuose e le buone lacrime tumultuose.»
Controllare le emozioni aveva richiesto un lungo allenamento che ora le permetteva di resistere al dolore, anche quando divenne costante e insopportabile. Ma pure a quel punto evitava di intossicarsi con i farmaci, rifiutava persino una comune aspirina, per rimanere lucida, perché la mente, quella, doveva restare intatta. Il tarlo dell'introspezione, invece, a cui la costrinse l'immobilità, era un colpo basso della vita che proprio non aveva previsto. «Che bella vita ho avuto, peccato che non me ne sia accorta prima» (Belles saisons).
Aveva sempre vissuto di corsa, senza negarsi niente, ed eccola costretta a negarsi tutto. Il giorno della Liberazione può solo guardare la festa dalla finestra, da quella sua stanza rossa. Vede le bandiere francesi «che stormivano come fogliame lungo la rue Vivienne» e immagina quante donne quella notte faranno l'amore. Le invidia. Da più di vent'anni non si concedeva il brivido che danno le carezze di uno sconosciuto, l'eccitazione del primo contatto sessuale con una persona nuova. Era successo nell'estate del 1933 l'ultima volta, nella sua casa di Saint Tropez, detta «La pergola di moscato» (è ancora lì, col suo fittissimo giardino fiorito, e la targa di marmo giallo che recita «La Treille Muscate») Lui era un dandy, tanto per cambiare, uno dei pericolosi (eroticamente) fratelli Kessel, Georges. Affascinante, drogato, alcolizzato, che altro? Gli mancava una gamba, persa non in guerra come il capitano, ma per un incidente stradale, mentre guidava «imbottito di cocaina, dopo una notte di orge», dice Judith Thurman, autrice di Una vita di Colette. Per le avventure di una notte, questi tipi avevano una presa irresistibile su Colette. E quando Maurice, che era rimasto a Parigi lo venne a sapere (c'è sempre qualcuno che non si fa i fatti suoi) perse l'abituale aplomb e le spedì un messaggio velenoso. Lei rispose con una lettera che un po balbetta delle scuse, un po' rivendica «l'autorità totale» della sua sessualità, che non le permette di tirarsi indietro quando si tratta di «partecipare a un banchetto fisico e morale, non per niente sono figlia di mia madre e, al diavolo, non ho avuto niente sotto i denti per tutta l'estate, non posso mica brutalizzarti e tormentarti per il tuo bene!» Come tutte le persone che non sanno resistere alle tentazioni, Colette, però, riconosceva l'importanza della fedeltà nella coppia. In un'intervista, raccolta in Mes verites, ad André Parinaud disse: «La fedeltà non è indispensabile, ma è meglio. Alla fine si scopre che la fedeltà è, nelle sue peripezie e nei suoi risultati, qualcosa di più comodo, di più... direi, bassamente pratico, che l'infedeltà.» Ma dunque, nella notte di baldoria per la Liberazione, deve limitarsi a guardare dalla finestra, deve contentarsi di riflettere con malinconia (Stella della sera): «Felici quelle, quella notte, che non trattennero le loro frenesie. Felici quelle che furono fuori di sé.» Era la stessa donna, solo più vecchia, che con un matrimonio fallito alle spalle, una storia omosessuale consolatoria con la travestita aristocratica Mathilde de Morny, detta Missy, e un intermittente amante più giovane, Auguste Hériot, follemente innamorato di lei, aveva scritto nei Dialoghi di bestie, carica di energia e di futuro: «Voglio fare quello che voglio... Voglio salire sulla scena... Voglio danzare nuda... voglio scrivere libri tristi e casti... voglio amare l'uomo che mi ama, e dargli tutto ciò che posseggo al mondo... il mio corpo, che non sopporta di essere spartito, il mio cuore tenero, la mia libertà.» Aveva trent'anni. La malattia non la priva solo dell'evento eccezionale. Ciò che è più insopportabile, come nota la sua biografa, è la perdita dell'«improvvisazione», la possibilità di decidere sul momento: vado a fare una passeggiata al Bois con i cani, a mangiare ostriche al ristorante all'angolo, a cercare porcellane al marche aux puces. Non è la solitudine che le pesa, è la mancanza d'indipendenza.
[...]
Nell'ultima intervista radiofonica che rilasciò a una televisione belga, tre mesi prima di morire, alla domanda cos'è più importante nella vita, Karen Blixen rispose: «Coraggio, capacità d'amare, senso dell'umorismo.»

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Lettura di Sciascia in biblioteca

5 Marzo ore 20,30, Biblioteca Castiglione delle Stiviere

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