Topi - Gordon Reece

>> lunedì 26 dicembre 2011

Thriller originale per la tematica affrontata e il suo sviluppo. I topi del titolo sono le persone che subiscono soprusi e per tutta una serie di motivi continuano a subire senza avere la forza di ribellarsi. Questo fino a che la misura è colma. La metamorfosi in questo caso trasforma le due protagoniste, mamma e figlia, in spietate assassine. E' narrato dal punto di vista della ragazza adolescente che ha subito una serie di feroci e gratuiti atti di bullismo da tre delle sue migliori amiche. Molto interessanti i momenti di riflessioni sulle origini della sua condizione e di quella della madre, anche lei vittima di prevaricazioni (del marito che l'ha abbandonata, dei datori di lavoro che la sfruttano, ...).  Non si riesce a stare dalla parte delle due donne nella loro condizione di topi, così remissive da  suggerire che quasi meritino ciò che gli capita. Nel momento in cui tirano fuori gli artigli, invece, si rimane invischiati nel loro punto di vista e ci si ritrova ad augurarsi che la facciano franca. E' bravo l'autore a giocare su un aspetto psicologico fondamentale: quando le ingiustizie sono così tante ed evidenti, nelle persone perbene irrompe un disgusto viscerale e una voglia spropositata di mettere le cose a posto che può avere effetti imprevedibili.


Visto quant’erano diversi e com’è finito il matrimonio, mi sono domandata spesso perché papà l’avesse scelta e perché lei si fosse lasciata scegliere da lui. Non c’è dubbio che fosse attratto dalla mamma - le fotografie del matrimonio mostrano quant’era bella, con quei capelli scuri e il sorriso timido. Ma sono sicura che per lui fosse anche una sfida conquistare il cuore di quella ragazza impacciata e ritrosa, con una laurea a pieni voti e una reputazione professionale di tutto rispetto. Forse, dopo le esperienze londinesi (le avevano rubato in casa, le avevano scippato la borsetta in pieno giorno), la mamma voleva una presenza forte come papà che la proteggesse. Forse credeva che sarebbe stata contagiata magicamente dalla sua forza. O forse si lasciò conquistare solo dal suo aspetto e dal suo fascino discreto. Papà era sempre gentile e, fin da piccola, ero gelosamente consapevole dell’effetto che il suo sorriso affabile aveva sulle altre donne.
Quando nacqui, quattro anni dopo, papà insisté perché la mamma stesse a casa dal lavoro per occuparsi di me a tempo pieno. Non voleva che sua figlia passasse di tata in tata come una specie di pacco. Non voleva che sua figlia tornasse da scuola e trovasse una casa vuota perché i genitori erano al lavoro. Era convinto che il suo stipendio fosse più che sufficiente a mantenerci e che non c’era bisogno che lavorassero entrambi. La sua insistenza non aveva niente a che vedere (ovviamente) con il fatto che anche la mamma stava per essere promossa socia dello studio. Non aveva niente a che vedere (ovviamente) con il fatto che era considerata da tutti il miglior avvocato dello studio e che la sua intelligenza brillante lo faceva sentire spesso stupido e inadeguato.
La mamma accettò ubbidientemente la sua richiesta. Lui sapeva cos’era meglio dopotutto. Era più grande di lei, era un compagno, era un uomo. Come avrebbe potuto opporsi, anche volendo? Come può un topo opporsi a un gatto? Così rinunciò a quel lavoro che amava e per i quattordici anni successivi si dedicò a prendersi cura di me e della casa - cucinare, fare la spesa, lavare, stirare - mentre mio padre continuava a fare carriera da Everson.
Quando la piantò, la mamma aveva quarantasei anni. Le sue competenze professionali erano irrimediabilmente datate - avvizzite come frutta lasciata a marcire su un albero. 
[...]
Alla luce di ciò che successe in seguito, ho riflettuto spesso su come il loro aspetto cambiò quasi di pari passo con il loro atteggiamento nei miei confronti. E mi sono chiesta spesso se c’era qualche collegamento fra le due cose. Il nostro aspetto esteriore influenza la nostra personalità? O è la nostra personalità a influenzare il nostro aspetto? Sono i colori di guerra a trasformare il membro di una tribù in un feroce guerriero, oppure un guerriero si dipinge con i colori di guerra per sbandierare la sua ferocia? Un gatto ha sempre un aspetto da gatto? Un topo ha sempre un aspetto da topo? Qualunque sia la verità, resta il fatto che io non cambiai. Mi davo ancora da fare in classe, sgobbavo per i test e coloravo le cartine. Ero ancora la più brava in inglese e arte, ma spesso primeggiavo anche in storia, francese e geografia. Mi veniva ancora la pelle d’oca se un insegnante alzava la voce in classe.
Avevo lo stesso taglio di quando avevo nove anni: capelli dritti fino alle spalle e con la frangia. Mi alzai leggermente ma non persi la mia “ciccia” infantile. Avevo ancora i rotolini sulla pancia e le mie cosce sfregavano l’una contro l’altra quando camminavo. Non mi truccavo per andare a scuola come facevano loro, perché la mamma diceva che non mi faceva bene alla pelle. Quando mi venivano i brufoli non li toccavo (la mamma diceva che se li strizzavo mi sarebbero rimaste le cicatrici), mentre le altre se li toglievano con le loro taglienti unghie smaltate, coprendosi le piccole ferite con il fondotinta.
Non portavo orecchini, collane, braccialetti e anelli perché ero allergica a tutto ciò che non era oro puro, e in fondo non mi piacevano i gioielli - mi sembravano solo d’impiccio e avevo paura di perderli. A scuola indossavo le stesse camicette, maglioni e gonne semplici di sempre, accompagnate dalle stesse scarpe pesanti con le fibbie laterali (Teresa le chiamava le mie “scarpe ortopediche”), mentre le altre erano sempre più ossessionate dai vestiti e dal loro aspetto fisico.
Notai che non sembravano più così contente di vedermi quando le raggiungevo nel cortile della scuola o in mensa. Adesso quando eravamo insieme c’era un’atmosfera diversa, come se si divertissero con i loro giochetti dai quali ero esclusa. Sentivo che mi guardavano con un vago senso di disgusto e per la prima volta nella mia vita cominciai a sentirmi a disagio per il mio aspetto, per il grasso molliccio che mi sporgeva fuori dall’elastico della gonna, per la mia frangia da bambina, per la colonia di brufoletti che avevo sul mento.
Fu vedendo il modo in cui mi guardavano e le espressioni severe sui loro volti che cominciai a intuire - sebbene ancora non riuscissi a crederci - che le mie migliori amiche mi trovavano ripugnante.
Non giocavamo più insieme durante l’intervallo, anche se avrei voluto, perché consideravano quei giochi “infantili”. Piuttosto, preferivano stravaccarsi dietro una delle aule dove i professori non potevano vederle e giocare con i loro cellulari, sempre più sdegnose del fatto che io non ne avessi uno (la mamma non poteva permetterselo nemmeno per sé, figuriamoci se le avrei chiesto di comprarmelo). Quando non giocavano con i cellulari, parlavano quasi esclusivamente di cose che non m’interessavano: musica pop, vestiti, gioielli, trucchi. E, sempre più spesso, parlavano di ragazzi.
Ero l’unica a non avere un ragazzo. Avevo quattordici anni, quasi quindici, ma ancora non capivo bene cosa fosse l’attrazione. La maggior parte dei ragazzi della mia scuola erano tipi rozzi e grossolani. Giocavano a calcio ossessivamente e facevano a botte nei corridoi; bestemmiavano a ripetizione nel tentativo disperato di sembrare dei duri e cercavano di mettere in imbarazzo le ragazze con le loro allusioni spinte e volgari. Per anni avevamo snobbato i ragazzi e ci eravamo tenute alla larga da loro. Adesso Teresa, Emma e Jane avevano tutte il ragazzo e non smettevano mai di parlarne. Parlavano del loro lavoro, dei loro tatuaggi, delle auto che truccavano, delle ferite che si erano procurati .azzuffandosi o facendo sport. Ma il loro argomento preferito in assoluto erano i programmi per il fine settimana: che film avrebbero visto insieme ai loro ragazzi, in quale club avrebbero cercato di entrare, come si sarebbero acconciate i capelli, che borsetta avrebbero comprato da abbinare ai jeans che stavano per acquistare. Alla fine di certe pause pranzo, mi accorgevo di non aver detto nemmeno una parola in tutta l’ora che avevamo passato insieme.
Solo adesso, ripensandoci, mi rendo conto che avrei dovuto smettere di frequentare quelle tre molto prima, e cercare di farmi nuovi amici. Avrei dovuto accettare il fatto che ci eravamo allontanate.
Ma allora le cose non erano così chiare. Anche se sapevo che stavano cambiando e avvertivo una crescente ostilità nei miei confronti, non capivo ancora quanto la faccenda fosse seria - dopotutto, in passato avevamo avuto qualche scaramuccia, che poi si era sgonfiata in fretta. E poi mi era impossibile immaginare la scuola senza di loro. Non avevo altri amici, non avevo mai avuto bisogno di farmi nuovi amici. Avevo sempre avuto Teresa, Emma e Jane. Eravamo migliori amiche dall’età di nove anni. Ci eravamo volute bene come sorelle. Eravamo le jets. Non avevo idea di quanto fossero diventati velenosi i loro sentimenti nei miei confronti. E non avevo idea di quanto fossi in pericolo.
[...]
Non potevo dirlo ai professori perché ero certa che a lungo andare avrebbe solo peggiorato le cose. Non volevo dare alle mie aguzzine un pretesto per aumentare le loro violenze - non sapevo ancora che i cattivi non hanno bisogno di pretesti per le loro azioni. Avevo anche una fastidiosa sfiducia nella capacità della scuola di proteggermi. Avevo notato che i professori, anche la signorina Briggs, chiudevano spesso un occhio sul comportamento di Teresa, Emma e Jane, fingendo di non aver sentito la parolaccia, di non aver visto il dito alzato - tutto a favore del quieto vivere.
Avrei dovuto dirlo alla mamma - ora me ne rendo conto ma mi vergognavo. Mi vergognavo a dirle che avevano scelto proprio me per quel trattamento, come se mi portassi addosso un marchio che mi bollava diversa da tutti gli altri. A peggiorare le cose c’era il fatto che la mamma conosceva queste ragazze: aveva preparato loro la merenda, le aveva accompagnate a casa in macchina, pensava che fossero le mie migliori amiche. Non sopportavo che venisse a sapere quanto mi odiavano. E avevo il terrore delle inevitabili domande: Cos’hai fatto? Le hai fatte rimanere male in qualche modo?Nel profondo, non riuscivo a liberarmi dalla sensazione che in un certo senso fosse colpa mia, che in un certo senso me la fossi cercata. Inoltre, informare la mamma o la scuola avrebbe significato dover fronteggiare le mie aguzzine, cosa di cui ero del tutto incapace. Semplicemente, non faceva parte di me. Non avevo un carattere di quel tipo. Ero un topo, non dimenticatevelo.
Mi veniva più naturale non dire niente, soffrire in silenzio, stare immobile nella speranza di non essere vista, sgattaiolare via lungo il battiscopa cercando un posto sicuro dove nascondermi.
L’unica persona a cui pensai seriamente di dirlo fu mio padre. Prima che entrasse in scena Zoe era sempre stato protettivo nei miei confronti. Aveva anche cercato di «temprarmi» così diceva - perché imparassi a difendermi: mi portava a correre con lui, cercava di convincermi a fare judo. Tutto questo, per compensare o sovracompensare quella che vedeva come la “cattiva influenza” della mamma. Adesso mi perdevo in fantasie nelle quali papà veniva a difendermi e mi salvava come un supereroe dei fumetti.
Ma sapevo benissimo che papà non era un supereroe. Ricordavo com’era diventato cafone e arrogante negli ultimi tempi e, di nascosto, anche volgare (una volta avevo trovato una copia di Hot Sluts nascosta nella sua valigetta). Ero sicura che Zoe l’avrebbe messo contro di me (Shelley è una ragazzina lagnosa e sdolcinata, attaccata alle sottane della mamma). E perché non avrebbe dovuto? Non voleva dividere i soldi di papà con me. E sapevo che papà non l’avrebbe delusa. Non poteva certo rischiare di perdere quella bocca provocante, quelle tette da pornostar. Avevo un numero dove potevo chiamarlo in Spagna e fui a un passo dal farlo - ma il pensiero di Zoe che rispondeva al telefono mi dava il voltastomaco. Papà non faceva più parte della mia vita.
[...]
Sembrava che non ci fossero vie d’uscita dalla situazione penosa in cui mi trovavo. O meglio, sembrava ce ne fosse solo una.
Pianificai ogni cosa nel dettaglio, seduta alla mia scrivania come se si trattasse di fare i compiti. Decisi che avrei agito due giorni dopo, sabato, quando la mamma andava a fare la grossa spesa settimanale al supermercato appena fuori città. Di solito andavo con lei, ma questa volta avrei finto un mal di testa.
Dopo un’attenta riflessione, decisi qual era il modo migliore per farlo (la trave in garage alla quale papà appendeva il suo sacco; la robusta cintura della mia vestaglia di spugna) e strappai una pagina di quaderno per scrivere un messaggio di addio alla mamma.
Ma anche se rimasi là seduta per più di mezz’ora, non mi venivano le parole. Non trovavo ancora il coraggio di dirle delle molestie, nemmeno su un biglietto, un biglietto che non avrebbe letto se non dopo la mia morte. Non capivo proprio perché non riuscissi a confidarmi con la mamma, eppure eravamo così vicine.
Potei solo pensare che, indipendentemente da quanto siamo vicini a qualcuno, ci sono dei limiti, dei confini invalicabili tra di noi, delle cose che ci toccano così in profondità che non possono essere condivise con nessuno. Forse, pensai, è quello che non possiamo condividere con gli altri che definisce chi siamo davvero.
Mentre rigiravo quelle inutili frasi nella mente, avevo scarabocchiato qualcosa sul foglio e, abbassando gli occhi, non potei trattenere un sorriso amaro nel vedere cos’era. Un topo. E attorno al collo aveva uno spesso cappio da impiccato. Sapevo di essere timida; sapevo di avere la tendenza a piangere con facilità, a tremare e perdere la voce al minimo rimprovero o segno di aggressività. Ma ci erano voluti mesi di molestie per capire che in fondo non ero che questo: un topo, un topo umano. E allo stesso tempo, capii che quel disegno era il messaggio più eloquente che potevo lasciare. Piegai il foglio, ci scrissi sopra Mamma e lo misi dentro al primo cassetto della scrivania, dove sarebbe stato facile da trovare. Ed era così che la mia vita sarebbe finita, come la vita di molti altri deboli topi prima di me - appesa a un cappio rudimentale, con i piedi che descrivevano cerchi sempre più piccoli, le mani che si contraevano spasmodicamente - se le mie aguzzine non mi avessero teso la loro trappola più crudele proprio il giorno seguente. Quell’attacco feroce, ironia della sorte, mi salvò la vita.
[...]
Gli occhi mi si aprirono di scatto e in un attimo fui completamente sveglia. Anche se ero sprofondata in un sonno abissale, l’inconfondibile scricchiolio del quarto scalino aveva raggiunto quella zona del cervello che non dorme mai. Non avevo dubbi su quel che avevo sentito, e non avevo dubbi su ciò che significava: c’era qualcuno in casa.
Lo schermo fluorescente della sveglia sul comodino segnava le 3,33. Sentivo il cuore battermi nel petto come se fosse dotato di vita propria, come un coniglio che si dimena e si contorce in un laccio che si stringe sempre più con l’aumentare dello sforzo.
Tesi l’orecchio per superare il rimbombo martellante nelle tempie. Le mie orecchie sondarono lo spazio fuori dalla porta della stanza - il pianerottolo, le scale - come invisibili cani da guardia, rimandandomi continue informazioni: silenzio, silenzio, silenzio, c’è solo silenzio, non troviamo niente. Possibile che mi fossi sbagliata? No, impossibile. Avevo sentito il quarto scalino cigolare sotto il peso di una persona. E difatti, dopo un’attesa che mi sembrò eterna, sentii lo scricchiolio di un altro scalino più su: c’era qualcuno in casa.
Ero paralizzata dalla paura. Da quando avevo aperto gli occhi non avevo mosso un muscolo. Era come se un istinto primordiale, l’istinto di rimanere completamente immobili e non mandare alcun suono finché il pericolo non era passato, si fosse impossessato di me. Anche il mio respiro si era fatto così lento e leggero da essere quasi impercettibile e da non sollevare la trapunta nemmeno di un millimetro. Pensai alla mazza da baseball che tenevo sotto al letto “contro i ladri”, ma non riuscivo ad abbassare la mano per prenderla. Qualcosa di più forte mi teneva inchiodata e immobile. Stai ferma, mi ordinava, non fare alcun rumore finché il pericolo non è passato. I passi procedevano per le scale, più forti, come se l’intruso avesse rinunciato al tentativo di muoversi in silenzio. Sentii un corpo sbattere con forza contro il mobiletto del pianerottolo (ubriaco?) e una voce che imprecava (un uomo). Lo sentii aprire la porta della camera della mamma. Capii che aveva acceso la luce, perché la fitta oscurità nella mia stanza si rischiarò in misura infinitesimale. Sentii la voce della mamma. Assonnata. Confusa. Spaventata. Poi la voce dell’uomo, un fiume di grugniti aggressivi e gutturali che sembravano più animali che umani. «Aspetta» udii chiaramente la voce della mamma. «La mia vestaglia.» Poi li sentii venire entrambi verso camera mia. La porta si aprì frusciando contro la spessa superficie del tappeto e la luce esplose in un chiarore bianco e accecante. Non mi mossi, anche se erano tutti e due nella mia stanza (stai ferma, non fare alcun rumore finché il pericolo non è passato). Rimasi distesa, immobile e impotente, come se mi avessero spezzato il collo. La mamma disse il mio nome per svegliarmi, ma non riuscii a rispondere. Lo ripetè a voce più alta, avvicinandosi al letto.
Alla fine comparve nel mio campo visivo. Il suo volto pallido era ancora stravolto dal sonno, i capelli spettinati in un modo che sarebbe sembrato buffo in altre circostanze, la vestaglia infilata frettolosamente, con la cintura penzolante. Capì che ero sveglia da tempo e che sapevo benissimo cosa stava succedendo.
«Shelley, cara» disse. «Non avere paura. Vuole solo dei soldi. Se facciamo come dice, se ne andrà e ci lascerà in pace.» Non le credevo e capii dalle mani tremanti e dalla voce strozzata che non ci credeva nemmeno lei. Quando un gatto entra nella tana di un topo, non se ne va senza avergli fatto del male.
[...]
La realtà non aveva niente a che fare con i romanzi o le poesie, non aveva niente a che fare con i paesaggi a olio o con i quadrati rossi e gialli dei dipinti astratti. Non aveva niente a che fare con l’organizzazione dei suoni nell’apparente armonia della musica. La realtà era l’esatto opposto dell’ordine e della bellezza. Era caos e sofferenza, crudeltà e orrore. Era ritrovarsi con i capelli incendiati quando non avevi fatto del male a nessuno; era saltare in aria per un attentato terroristico mentre accompagnavi i tuoi figli a scuola o mangiavi seduto al tuo ristorante preferito; era essere ammazzati a calci in un vicolo per la magra pensione che eri appena andato a ritirare; era essere violentati da un branco di sconosciuti ubriachi; era farsi tagliare la gola da un tossico che si era intrufolato in casa tua in cerca di soldi. La realtà era un quotidiano massacro degli
innocenti. Era un mattatoio, una macelleria tappezzata dei cadaveri di innumerevoli vittime-topi...
E tutta questa “cultura”, tutta questa “arte” non erano che un trucco. Ci consentivano di credere che gli esseri umani fossero creature nobili e intelligenti, che si erano lasciate alle spalle il loro passato animale per evolvere in qualcosa di più raffinato, di più puro; che poiché sapevano dipingere e scrivere come angeli, fossero realmente degli angeli. Ma questa “arte” era solo uno schermo per nascondere l’atroce verità, e cioè che non eravamo affatto cambiati, eravamo ancora le stesse creature che squarciavano il ventre caldo di animali ammazzati con pietre affilate e che sfogavano la loro rabbia sui deboli con i colpi violenti di una clava. I bei quadri e le poesie intelligenti non cambiavano di una virgola la nostra natura. No, l’arte, la musica e la poesia non rispecchiavano assolutamente la realtà. Erano solo un rifugio per codardi, un’illusione per chi era troppo debole per affrontare la verità. Nel tentativo di assorbire questa “cultura” non avevo fatto altro che diventare debole, debole e impotente, incapace di difendermi contro le bestie umane che popolavano questa
giungla del ventunesimo secolo.
«Ci ucciderà, mamma. Ne sono sicura.»
«Shelley, devi stare calma. Devi solo fare come ti dice.»
«Non capisci che pericolo stiamo correndo! È drogato! Ci ucciderà!»
Che razza di giustizia era questa? Quale Dio poteva permettere una cosa simile? Io e la mamma non avevamo sofferto abbastanza? Papà ci aveva abbandonate, lasciandoci a faticare mentre lui si crogiolava al sole della Spagna con la sua puttanella di ventiquattro anni. Avevo subito delle violenze così feroci da essere costretta a lasciare la scuola e prendere lezioni private.
Avevo la faccia sfregiata dai segni del rancore altrui. E adesso, con tutte le case in cui poteva infilarsi questa bomba a orologeria su due piedi, si era intrufolata proprio nella nostra. Proprio quando stavamo cominciando a ricostruirci una vita insieme. Proprio quando le cose stavano ricominciando a sorriderci.
Cos’altro dovevamo subire? Violenze? Torture? Quale crimine avevamo commesso, a parte quello di essere deboli, il crimine di essere topi?. Cos’avevamo fatto di male per meritarci una punizione così spietata? Perché tutto questo non succedeva a Teresa Watson ed Emma Townley? Perché non succedeva alle ragazze che mi avevano molestato con tanta ferocia da farmi venire voglia di uccidermi? Perché non succedeva a mio padre e a Zoe? Perché succedeva a noi? Perché ancora a noi? Non avevamo sofferto abbastanza?
[...]
Se ne stava andando, portandosi via il mio regalo di compleanno stretto contro il giubbino puzzolente.
Il regalo che la mamma aveva incartato con cura, decorato con un bel fiocco rosso e lasciato sul tavolo della cucina prima di andare a letto, in modo che lo trovassi la mattina per colazione. Una bellissima sorpresa di compleanno. Il portatile che, con il suo intuito di madre, aveva capito che desideravo. Il portatile che non si poteva permettere ma che aveva deciso che dovevo avere, indipendentemente da ciò di cui si sarebbe dovuta privare.
Il ragazzo se ne stava andando, lasciandosi dietro un brutto sfregio sulla guancia della mamma causato dal suo grosso anello con sigillo, e un livido bluastro che le inghiottiva l’occhio destro.
Se ne stava andando, lasciandosi dietro due donne indifese che aveva sistematicamente umiliato, tormentato e maltrattato come se fosse nell’ordine naturale delle cose, come se fosse un suo diritto.
Ancora oggi non so esattamente cosa mi spinse a fare quello che feci in seguito. Forse fu vedere quel pallido, crudele delinquente che si portava via il mio regalo di compleanno, il simbolo di tutte le mie ambizioni future; forse fu la rabbia per quello che aveva fatto alla mamma; forse fu perché mi aveva detto che ero brutta; forse la verità è che tutti abbiamo un limite oltre il quale non possiamo più sopportare - anche i topi - e che quando quel limite viene superato, qualcosa si spezza. Forse fu solo il modo in cui il bellissimo fiocco rosso della mamma era caduto lentamente, miseramente sul pavimento...
Strappai i pochi brandelli di corda che ancora mi legavano le gambe, presi il coltello dal tavolo della sala da pranzo e uscii in giardino, correndogli dietro.
Aveva raggiunto solo il punto in cui la veranda incontrava l’erba del prato, ancora all’interno dello specchio di luce proiettato dalla cucina. Sentendomi arrivare, lanciò un’occhiata dietro a una spalla e continuò tranquillo per la sua strada come se non avesse visto altro che un gatto occupato nelle sue faccende feline e non una ragazza urlante con un coltello in mano.
Gli piantai il coltello in mezzo alle scapole con tutta la forza che avevo. Aveva una schiena incredibilmente dura, come pugnalare un tronco d’albero - la lama si fermò a due centimetri dal manico e mi ci volle uno sforzo enorme per estrarla di nuovo. Colpito, il ragazzo mandò un lungo rantolo e lasciò cadere il computer e la borsa rossa. Si piegò in avanti come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco e, girandosi, mi guardò con un’espressione di innocenza tradita sul volto. «Perché l’hai fatto?» gemette, come se gli avessi giocato uno scherzo di cattivo gusto. Lo colpii di nuovo, più e più volte, socchiudendo gli occhi per non vedere le ferite inferte dal coltello, per non vedere il sangue. Ancora piegato in due come un soldato sotto il fuoco dei cecchini, il ragazzo si diresse nuovamente verso la cucina, il braccio sinistro alzato per cercare di arginare i colpi peggiori. Pensai: Bene! Ti voglio di nuovo in casa! Non voglio che mi scappi! Entrò in cucina e cercò di chiudermi in faccia la porta sul retro, ma non fece in tempo e infilai dentro una spalla. Barcollò verso la dispensa e cercò di nascondersi dietro al tavolo di pino, ma anche allora fu troppo lento. Gli piombai addosso di lato, pugnalandolo senza tregua, tormentandolo come un picador che conficca la sua lancia nei fianchi grondanti di un toro. Lui continuò a girare attorno al tavolo mentre io lo seguivo, pugnalando, pugnalando, pugnalando...
«Adesso giochiamo al gioco delle sedie!» gridavo. «Adesso giochiamo al gioco delle sedie!» L’avevo colpito così tante volte che ormai avevo perso il conto. Il ragazzo sembrò perdere le forze, finché non si accasciò sul lavello, rovesciando lo scolapiatti di plastica pieno di stoviglie della sera prima, che si fracassarono sul pavimento. Appena cercò di riprendere l’equilibrio, uno dei miei colpi si conficcò su un lato del collo e il sangue cominciò a zampillare come acqua da una tubatura rotta. Si portò le mani sulla ferita e s’incurvò nell’angolo vicino al portapane, dandomi la schiena. Volevo solo vederlo a terra, volevo che la smettesse di muoversi, che la smettesse di essere una minaccia per me e la mamma. Studiai il retro del suo giubbino lacero e insanguinato, cercando d’individuare la posizione del cuore. In quel preciso istante, si torse  bruscamente. Il coltello colpì la spessa placca ossea della sua scapola con così tanta forza da sfuggirmi di mano e slittare sul pavimento.
Vidi l’espressione sul suo volto mutare da vile sottomissione a un beffardo, sanguinario trionfo. Il gioco era cambiato a suo favore e, prima ancora che potessi guardare dov’era finito il coltello, il ragazzo mi fu addosso. Mi cedettero le ginocchia e, schiacciata sotto il suo peso, caddi pesantemente all’indietro sul pavimento. Atterrai su qualcosa di duro e tagliente che mi raschiò il coccige, e gridai per il dolore accecante. Capii subito cos’era. Ero finita sul coltello! Il ragazzo si dimenava sul mio petto, mi saliva sopra, cercava di alzarmi il mento con l’avambraccio per scoprirmi la gola. Il sangue gli sgorgava dalla ferita sul collo come
vino da una bottiglia rovesciata. M’inondava il volto come un fiume senza fine, scorrendomi addosso, riempiendomi la bocca e costringendomi a sputare e boccheggiare come se stessi annegando. Mi faceva bruciare gli occhi come sapone, accecandomi completamente. Il suo volto adesso era premuto contro il mio. Le nostre labbra si sfioravano come nell’orribile parodia di un bacio tra amanti. Stava cercando di mettermi le mani al collo, ma io le allontanavo freneticamente, graffiandogli furiosamente il volto. Ogni volta che cercava di immobilizzarmi le mani sul pavimento, mi liberavo dalla sua presa e gli infilavo le unghie negli occhi. Urlavo e mi dimenavo, cercando disperatamente di spostare quel peso soffocante e afferrare il coltello intrappolato sotto la mia schiena. Se fossi riuscita a scrollarmelo di dosso anche solo per un secondo e prendere il coltello, sarei tornata in vantaggio. Se solo fossi riuscita ad allungare una mano verso il coltello...
Ma era troppo forte. Nonostante le ferite che aveva subito e il sangue che gli usciva a fiotti dal collo, era ancora troppo forte per me, e alla fine riuscì a mettermi le mani attorno alla gola.
Sentii una stretta improvvisa bloccarmi il respiro. Minuscoli puntini di luce bianca esplosero nell’oscurità dietro le mie palpebre e capii con assoluta certezza che sarei morta se non respiravo entro pochi secondi. Riuscii ad aprire leggermente gli occhi brucianti e vidi il suo volto distorto in un disgustoso primo piano. Aveva le pupille enormemente dilatate per l’eccitazione adrenalinica, digrignava i denti gialli nello sforzo di soffocarmi e un sottile filo di bava rosa gli penzolava dal labbro inferiore.
E pensai: Questa sarà l’ultima cosa che vedo. Qualcosa cominciò a cedermi in mezzo al collo; qualcosa si stava per spezzare. Ero riuscita a sfiorare il coltello con i polpastrelli, ma le forze mi stavano abbandonando. Le braccia mi caddero pesantemente lungo i fianchi. Non respiravo da troppo tempo. I puntini di luce bianca si fecero sempre più grossi, finché ci fu solo luce bianca. Allora ecco com’è morire, pensai, ecco com’è... è questa la luce bianca di cui parlano... Smisi di resistere, anche mentalmente, e chiusi gli occhi, mi arresi, aspettando la morte, aspettando il momento cruciale.
[...]
Se non fosse stata così debole, forse io non sarei stata un topo, forse sarei riuscita a difendermi dalle ragazze interessate e non ci saremmo mai ritrovate in questa situazione!
L’ondata di rabbia che provavo per la mamma portava con sé anche l’amara consapevolezza che, nonostante avessi già sedici anni, mi aspettavo ancora che si comportasse da madre e mi proteggesse. Mi aspettavo che, come una madre, allontanasse miracolosamente quel pericolo, che cacciasse via il lupo che si aggirava intorno a casa nostra. E mi sentii tradita quando capii che quel giorno non ci sarebbe stato nessun miracolo materno, nessuna magia - solo la luce abbagliante e il silenzio, rotto occasionalmente dal fruscio di soffici corpi piumati sui cornicioni.
[...]
In quegli ultimi secondi prima di essergli addosso, mentre correvo scalza sul vialetto con la vestaglia aperta che mi svolazzava sul corpo, provai qualcosa che non avevo mai provato in vita mia. Era un’emozione completamente nuova, una dolcezza gioiosa e liberatoria che mi scorreva nelle vene come una droga. Era come se tutto quello che c’era di artificiale nella mia vita fosse scomparso all’improvviso, come entrare fuggevolmente in contatto con una verità primordiale, una realtà più antica della vita stessa. E mi sentivo come un gigante, come un dio!

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La Strada - Cormac McCarthy

>> domenica 18 dicembre 2011

Finalmente un bel libro! Era da un pò di mesi che un testo non mi appassionava così. Balza ai primi posti della mia personale classifica dei più bei romanzi da tre anni a questa parte.  Avevo letto altri libri di McCarthy (Cavalli selvaggi, Non è un paese per vecchi) ma non mi avevano convinto fino in fondo. Qui funziona tutto. Uno stile di scrittura asciutto, essenziale, con dialoghi che si mescolano nella prosa della narrazione, che ben si sposa con una storia cruda e apocalittica. La caratterizzazione dei personaggi, credibili nel loro muoversi in una situazione limite. La trama, che si svolge lungo il cammino dei due protagonisti verso una meta di cui non si conosce nulla (se potrà accoglierli, salvarli, ...) ma è l'unica cosa che hanno oltre all'affetto che li lega. La descrizione delle situazioni, che ti fa percepire il freddo, l'inedia, la scarsità di luce, l'odore nauseabondo di una umanità ridotta a mangiarsi l'un l'altro per sopravvivere in un mondo bruciato e coperto di cenere, dove flora e fauna sono estinti da anni.  Ricorda a tratti l'Ombra dello Scorpione, il capolavoro di Stephen King, per il tema della fine del mondo, il dualismo tra bene e male, l'introspezione dell'animo umano. Ma si discosta da questo per il suo stile unico, molto lontano dalla verbosità a volte eccessiva di King, dimostrando di essere ugualmente efficace nel riportare l'orrore o la tenerezza tra due persone che si vogliono bene.
Se nelle Benevole citavo come elemento distintivo del romanzo il "male" che si nasconde nella natura umana, qui siamo sul versante opposto: nell'uomo degradato e sottoposto a sfide estreme, dietro la scorza si fa strada il "bene".


Attraversarono la città a mezzogiorno dell'indomani.
L'uomo aveva la pistola a portata di mano, sopra il telo di plastica piegato in cima al carrello. Si teneva il bambino stretto al fianco. La città era quasi completamente bruciata. Nessun segno di vita. Per le strade automobili incrostate di cenere, ogni cosa coperta da cenere e polvere. Impronte fossili nel fango secco. In un androne un cadavere ridotto a cuoio. Con una smorfia di scherno rivolta al giorno. Si strinse ancora di più al bambino. Ricordati che le cose che ti entrano in testa poi ci restano per sempre, gli disse. Forse dovresti rifletterci.
Però certe cose uno se le dimentica, no?
Sì. Ci dimentichiamo le cose che vorremmo ricordare e ricordiamo quelle che vorremmo dimenticare.
A un paio di chilometri di distanza dalla fattoria di suo zio c'era un lago dove in autunno lui e lo zio andavano sempre a fare legna. Lui si metteva seduto a poppa della barchetta con una mano abbandonata nella scia fredda, mentre lo zio si piegava sui remi. I piedi del vecchio dentro le scarpe nere da ragazzino puntate contro i montanti. Il suo cappello di paglia. La pipa di pannocchia che teneva fra i denti e un filino di saliva che colava dal fornello. Lo zio si voltò per dare un' occhiata alla sponda opposta, tenendosi in grembo le impugnature dei remi e togliendosi la pipa di bocca per asciugarsi il mento con il dorso della mano. La sponda era costeggiata da betulle che si stagliavano pallide come ossa contro il colore scuro dei sempreverdi alle loro spalle. La riva del lago era un conglomerato di ceppi ritorti, grigi e slavati, residui lasciati da un uragano anni prima. Gli alberi invece erano stati segati e portati via da un pezzo per farne legna da ardere. Lo zio girò la barca e tirò dentro i remi e si lasciarono trasportare dalla corrente verso le secche, finché la poppa non sfregò sulla sabbia. Un pesce persico morto fluttuava a pancia in su nell'acqua limpida. Foglie ingiallite. Lasciarono le scarpe sulle tiepide assi dipinte, trascinarono la barca sulla spiaggia e gettarono l'ancora. Un barattolo di strutto riempito di cemento con un anello di ferro piantato nel mezzo. Camminarono lungo la riva e lo zio esaminava i ceppi tirando boccate di fumo, una corda di canapa arrotolata in spalla. Ne scelse uno e lo fecero rotolare appoggiandosi alle radici finché non prese a galleggiare nell'acqua. Nonostante i calzoni arrotolati alle ginocchia si bagnarono lo stesso. Legarono la corda a un gancio sulla parte posteriore della barca e riattraversarono il lago con il ceppo che li seguiva lentamente, a scossoni. Ormai si era fatta sera. Solo il lento e regolare cigolio strascicato degli scalmi. Lo specchio scuro del lago e le finestre che si illuminavano lungo la riva. Da qualche parte una radio. Nessuno dei due aveva aperto bocca. Quella era stata la giornata ideale della sua infanzia. La giornata su cui modellare tutte le giornate a venire.
Nei giorni e nelle settimane seguenti proseguirono verso sud. Solitari e ostinati. Una regione scabra e collinosa. Case di lamiera. A tratti sotto di loro intravedevano la superstrada in mezzo alle nude macchie di foresta secondaria. Freddo, sempre più freddo. Appena superato il profondo avvallamento fra le montagne si fermarono e spinsero lo sguardo oltre quella vasta gola verso sud, dove non c'era che terra mangiata dal fuoco a perdita d'occhio, con le sagome annerite delle rocce che spiccavano fra i banchi di cenere e i pennacchi di cenere che si alzavano e venivano sospinti lungo la distesa brulla. La traccia di un sole smorto che si muoveva invisibile oltre le tenebre.
Impiegarono interi giorni per attraversare quella piana cauterizzata. Il bambino si era dipinto delle zanne sulla mascherina con dei pastelli che aveva trovato e andava avanti senza lamentarsi. Una delle ruote anteriori del carrello si era mezzo scassata. Che ci potevano fare? Niente. Poiché davanti a loro tutto era ridotto in cenere, accendere fuochi era impossibile e le notti erano lunghe, buie e fredde come mai prima. Un freddo che spaccava le pietre. Un freddo assassino. L'uomo teneva stretto a sé il bambino tremante e contava ogni suo fragile respiro nell'oscurità.
Fu svegliato dal brontolio di un tuono in lontananza e si mise a sedere. La luce fioca tutto intorno, tremolante e senza una fonte precisa, si rifrangeva nella pioggia di fuliggine portata dal vento. Coprì se stesso e il bambino con il telo di plastica e rimase a lungo in ascolto. Se si fossero bagnati non ci sarebbe stato nessun fuoco ad asciugarli. Se si fossero bagnati probabilmente sarebbero morti.
L'oscurità in cui si svegliava in quelle notti era cieca e impenetrabile. Un' oscurità che faceva male alle orecchie a forza di ascoltare. Spesso non poteva fare a meno di alzarsi. Non un suono oltre al vento fra gli alberi nudi e anneriti. Si alzò in piedi e rimase lì, vacillante in quel buio freddo e autistico, le braccia tese per mantenersi in equilibrio mentre i calcoli vestibolari in corso nel suo cervello sfornavano risultati. Una vecchia storia. Inseguire la verticalità. Non c'è caduta che non vada per gradi. Si addentrò nel nulla a lunghi passi di marcia, contandoli per riuscire poi a tornare. Occhi chiusi, remate di braccia. Verticalità rispetto a cosa? Un'entità senza nome nella notte, vena o matrice.
Attorno alla quale lui e le stelle giravano come un unico satellite. Come il grande pendolo nella sua rotonda che segna i lunghi moti giornalieri dell'universo di cui sembrerebbe che non sappia nulla e tuttavia non può non sapere.
[...]
Cominciò a scendere gli scalini di legno grezzo. Chinò la testa poi accese l 'accendino e protese la fiammella verso il buio come un'offerta. Freddo e umidità. Un puzzo inumano. Il bambino gli si aggrappava al giaccone. Intravedeva una parete di pietra. Un pavimento di argilla. Un vecchio materasso macchiato di scuro. Si chinò, scese un altro gradino e illuminò lo spazio davanti a sé. Rannicchiate contro la parete opposta c'erano delle persone nude, maschi e femmine, che cercavano di nascondersi, riparandosi il viso con le mani. Sul materasso era steso un individuo con le gambe amputate fino ai fianchi e i moncherini anneriti e bruciati. L'odore era micidiale.
Gesti, sussurrò l'uomo.
Uno dopo l'altro i prigionieri si voltarono, battendo le palpebre per quel barlume di luce. Aiuto, mormorarono. La prego, ci aiuti.
Cristo, disse lui. Oh Cristo.
Si voltò e afferrò il bambino. Svelto, disse. Svelto. L'accendino gli era caduto. Non c'era tempo per cercarlo. Spinse il bambino su per le scale. Aiuto, imploravano quelli.
Svelto.
Ai piedi delle scale apparve un volto barbuto. Ti prego, gridò battendo le palpebre. Ti prego.
Svelto. Svelto, per l'amor di Dio.
Spinse il bambino fuori dalla botola facendolo cadere a terra. Usci, afferrò lo sportello, lo richiuse brutalmente e si voltò per raccogliere il bambino, che però si era già rialzato e stava facendo il suo solito balletto del terrore.
Per l'amor di Dio, muoviti, gli sibilò. Ma il bambino stava puntando il dito verso la finestra e quando l'uomo guardò fuori si sentì gelare il sangue. Quattro individui barbuti e due donne stavano attraversando il prato diretti verso la casa. Afferrò la mano del bambino. Cristo, disse. Corri. Corri.
[...]
Rovistarono fra le rovine carbonizzate di case in cui un tempo non avrebbero messo piede. Un cadavere che galleggiava nell'acqua nera di una cantina in mezzo ai rifiuti e alle tubature arrugginite. L'uomo si fermò dentro un salotto parzialmente incenerito e aperto al cielo. Le assi deformate dall'acqua inclinate verso il giardino. Volumi fradici sugli scaffali di una libreria. Ne prese uno, lo aprì e lo rimise a posto. Tutto era umido. Marcescente. In un cassetto trovò una candela. Non c'era modo di accenderla. Se la mise in tasca. Usci fuori nella luce livida, rimase lì in piedi e per un attimo vide l'assoluta verità del mondo. Il moto gelido e spietato della terra morta senza testamento. L'oscurità implacabile. I cani del sole nella loro corsa cieca. Il vuoto nero e schiacciante dell'universo. E da qualche parte due animali braccati che tremavano come volpacchiotti nella tana. Un tempo e un mondo presi in prestito e occhi presi in prestito con cui piangerli.
[...]
Si alzò e uscì sulla strada. Un nastro nero dal buio verso il buio. Poi un rombo sommesso in lontananza. Non un tuono. Lo si avvertiva sotto i piedi. Un suono senza pari e quindi impossibile da descrivere. Qualcosa di imponderabile che si muoveva là fuori nel buio. La terra stessa che si contraeva per il freddo. Non si ripeté. In che stagione erano? Quanti anni aveva il bambino? L'uomo arrivò in mezzo alla strada e si fermò. Il silenzio. Il salnitro che si asciugava venendo in superficie. I contorni imbrattati di fango delle città allagate, bruciate fino alla linea di piena. A un incrocio, un campo contrassegnato da dolmen dove le ossa parlanti degli oracoli giacciono in decomposizione. Non un suono all'infuori del vento. Che cosa dirai? E stato un vivente a pronunciare queste parole? Ha affilato una penna d'oca con il suo temperino per vergarle su legno di prugnolo o nero fumo ? In un momento dato e scolpito nella pietra? Sta arrivando a rubarmi gli occhi. A sigillarmi la bocca con la terra.
[...]
I giorni si trascinavano uno dopo l'altro, innumerevoli e innumerati. Sulla superstrada, in lontananza, lunghe file di macchine carbonizzate e arrugginite. I cerchioni nudi delle ruote su un ammasso grigio di gomma fusa e solidificata dentro anelli anneriti di fil di ferro. I cadaveri inceneriti ridotti alle dimensioni di bambini e appoggiati sulle molle scoperte dei sedili. Diecimila sogni sepolti dentro i loro cuori bruciacchiati. Andarono avanti. Percorrevano quel mondo senza vita come criceti sulla ruota. Le notti immobili come la morte, e più nere ancora. Un freddo. Parlavano poco o niente. L'uomo tossiva in continuazione e il bambino lo guardava sputare sangue. Si trascinavano oltre. Lerci, cenciosi, senza speranza. L'uomo si fermava e si appoggiava al carrello e il bambino proseguiva, poi anche lui si fermava e si girava e l'uomo alzava gli occhi piangenti e lo vedeva lì sulla strada voltato a guardarlo da qualche futuro impensabile, radioso come un tabernacolo in quella desolazione.
La strada attraversava un acquitrino prosciugato, dove colonne di ghiaccio si alzavano dal fango gelato come stalagmiti in una grotta. I resti di un fuoco sul ciglio. Ancora oltre, una lunga strada rialzata di cemento. Una palude morta. Alberi senza vita che spuntavano dall'acqua grigia con barbe di muschio fossile. I soffici mucchietti di cenere contro lo spigolo dell'asfalto. L'uomo si fermò e si sporse dal parapetto di calcestruzzo ruvido. Forse, guardandone la distruzione, finalmente sarebbero riusciti a vedere come era fatto il mondo. I mari, le montagne. Il poderoso contro spettacolo delle cose che cessano di esistere. La sconfinata desolazione, idropica e gelidamente terrena. Il silenzio.
[...]
Devi andare avanti, disse. lo non ce la faccio a venire con te. Ma tu devi continuare. Chissà cosa incontrerai lungo la strada. Siamo sempre stati fortunati. Vedrai che lo sarai ancora. Adesso vai. Non ti preoccupare.
Non posso.
Non ti preoccupare. Questo momento doveva arrivare da tempo. E adesso è arrivato. Continua ad andare verso sud. Fa' tutto come lo facevamo insieme.
Fra poco ti passa, papà. Ti deve passare.
No, non passerà. Tieni sempre la pistola con te. Devi trovare gli altri buoni, ma non puoi permetterti di correre rischi. Niente rischi. Capito?
Voglio restare con te.
Non puoi.
Ti prego.
Non puoi. Devi portare il fuoco.
Non so come si fa.
Sí che lo sai.
È vero? Il fuoco, intendo.
Sí che è vero.
E dove sta? Io non lo so dove sta.
Sí che lo sai. È dentro di te. Da sempre. Io lo vedo.
Portami con te. Ti prego.
Non posso.
Ti prego, papà.
Non ce la faccio. Non ce la faccio a tenere fra le braccia mio figlio morto. Credevo che ne sarei stato capace, e invece no.
Hai detto che non mi avresti mai lasciato.
Lo so. Mi dispiace. Hai tutto il mio cuore. Da sempre. Tu sei il migliore fra i buoni. Lo sei sempre stato. Quando non ci sarò più potrai comunque parlarmi. Potrai parlare con me e io ti risponderò. Vedrai.
E riuscirò a sentirti?
Sí. Mi sentirai. Fa' come se ci parlassimo con la mente. E allora vedrai che mi senti. Ci vorrà un po' di allenamento. Ma non ti arrendere. Ok?
Ok.
Ok.

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Le Benevole - Jonathan Littell

>> sabato 10 dicembre 2011


Sono passati quasi tre anni di distanza e un centinaio di altri libri dalla lettura de Le benevole il romanzo di Littell continua ad essere saldamente al primo posto della mia classifica. Credo che il suo fascino inossidabile risieda nell'aver fatto emergere come il male sia parte della natura umana. Fomentato, indirizzato, organizzato può portare un intero popolo a decidere di decimarne un'altro inerme. Se il grande Primo Levi nella sua trilogia dei sommersi e salvati aveva dato la visione che nei campi di concentramento, dall'altra parte della barricata, vi fossero individui sanguinari e senz'anima, Littell ci dice che quelle belve sono come noi: hanno madri, sorelle, bambini, amano la musica, fanno progetti per una vita felice. Ed è veramente inquietante pensare che basti poco passare al lato oscuro della forza.

I passi più efficaci sono quelli in cui l’autore fa emergere le nefandezze e le bassezze del regime nazista dalla voce dei gerarchi SS, trascrivendo il loro punto di vista.
In Germania è stato possibile risolvere la questione ebraica, senza eccessi e in modo conforme alle esigenze dell’umanità. Ma quando abbiamo conquistato la Polonia, abbiamo ereditato altri tre milioni di ebrei. Nessuno sa cosa farne né dove metterli. (…) Abbiamo già giustiziato migliaia di ebrei e ne restano ancora decine di migliaia; più le nostre forze avanzano più ce ne saranno. Ma se giustiziamo gli uomini, non resta nessuno per mantenere le donne e i loro figli. La Wehrmacht non ha le risorse per nutrire decine di migliaia di inutili femmine ebree con i loro marmocchi. Non si può nemmeno lasciarli morire di fame: sono metodi bolscevichi. Includerle nelle nostre azioni, con i loro mariti e i loro figli, è in realtà la soluzione più umana, date le circostanze.
(…) Le fosse si riempivano troppo in fretta; i corpi cadevano a casaccio, si mescolavano, si sprecava molto spazio e quindi si perdeva troppo tempo a scavare; Blobel ci aveva illustrato la nuova pratica. I condannati nudi si sdraiavano sul ventre sul fondo della fossa, e qualche tiratore sparava loro un colpo alla nuca, a bruciapelo. Dopo ogni strato un ufficiale doveva procedere ad un’ispezione e assicurarsi che tutti i condannati fossero morti; poi li si copriva con un sottile strato di terra e il gruppo successivo veniva a sdraiarsi su di loro, disponendosi alternativamente dalla testa e dai piedi; quando si erano accumulati cinque o sei strati in questo modo, si chiudeva la fossa.

L’autore ha reso “umano” un maniaco-criminale. I pensieri del protagonista, così ragionevoli, condivisibili, intelligenti e che denotano una certa sensibilità danno un idea di quanto il male possa essere vicino alla gente comune o, anche, quanto possano convivere nella stessa persona normalità e perversione. La trascrizione seguente è un esempio della parte “buona” del protagonista unita ad un’interpretazione probabilmente veritiera di come tanti padri di famiglia abbiano potuto seviziare e trucidare persone indifese e innocenti.
Adesso credevo di capire meglio le reazioni degli uomini e degli ufficiali durante le esecuzioni. Se soffrivano come avevo sofferto io durante la Grande azione non era soltanto per gli odori e la vista del sangue, ma per il terrore e il dolore dei condannati; e analogamente chi veniva fucilato spesso soffriva più per il dolore e la morte, sotto i suoi occhi, delle persone amate, mogli, genitori, figli adorati, che non per la propria morte, che alla fine giungeva come una liberazione. In moti casi, mi dicevo perfino, quello che avevo preso per sadismo gratuito, l’inaudita brutalità con cui certi uomini trattavano i condannati prima di giustiziarli, era solo una conseguenza della mostruosa pietà che provavano e che, incapace di esprimersi altrimenti, si trasformava in rabbia, una rabbia impotente però, priva di oggetto, e che perciò doveva quasi inevitabilmente ritorcersi contro chi ne era la causa prima. Se i tremendi massacri dell’Est provavano qualcosa, è proprio paradossalmente, la spaventosa, inalterabile solidarietà umana. Per quanto brutalizzati e avversi fossero, nessuno dei nostri uomini poteva uccidere una donna ebrea senza pensare alla propria moglie, sorella o madre, o poteva uccidere un bambino ebreo senza vedere i propri figli davanti a sé nella fossa. Le loro reazioni, la loro violenza, il loro alcolismo, le loro depressioni nervose, i suicidi, la mia stessa tristezza, tutto ciò dimostrava che l’altro esiste, esiste in quanto altro, in quanto umano, e che nessuna volontà, nessuna ideologia, nessuna dose di stupidità e di alcol può spezzare questo legame, tenue ma indistruttibile.
E’ un libro di forti contrasti, dove si alternano descrizioni angoscianti e parti poetiche.
Mi diressi verso i sotterranei. “Non si avvicini troppo ai corpi”, mi disse un infermiere vicino a me. Tendeva il dito e guardai: un brulichio scuro e indistinto correva sui cadaveri ammucchiati, si staccava da loro, si muoveva tra le macerie. Guardai più da vicino e mi si rivoltò lo stomaco; i pidocchi abbandonavano in massa i corpi freddi alla ricerca di nuovi ospiti. Li aggirai con ogni cura e scesi; dietro di me, l’infermiere sogghignava. Nel sotterraneo, l’odore mi avvolse come un lenzuolo bagnato, una cosa viva e multiforme che si annidava nelle narici e nella gola, fatta di sangue, di cancrena, di ferite imputridite, di fumo di legna umida, di lana bagnata o intrisa di urina, di diarrea quasi dolce, di vomito. Respiravo dalla bocca, rauco, sforzandomi di trattenere i conati.
(...)
Scendeva la sera. Una spessa brina ricopriva tutto: i rami i contorni degli alberi, i fili e i pali delle recinzioni, l’erba fitta, la terra dei campi quasi nudi. Era una specie di mondo di orribili forme bianche, angoscianti, fantastiche, un universo cristallino da cui la vita sembrava bandita. Guardai le montagne: l’ampia muraglia azzurra sbarrava l’orizzonte, custode di un altro mondo, nascosto. Il sole, dalla parte dell’Abacasia probabilmente, scendeva dietro alle creste, ma la sua luce sfiorava ancor le cime, posando sulla neve sontuose e delicate luci rosa, gialle, arancione, fucsia, che correvano delicatamente da una vetta all’altra. Era di una bellezza crudele, da mozzare il fiato, quasi umana ma nel contempo al di là di ogni cruccio umano. A poco a poco, laggiù in fondo, il mare inghiottiva il sole, e i colori si spegnevano uno a uno, lasciando la neve azzurra, poi di un grigio bianco che splendeva tranquillamente nella notte. Gli alberi incrostati di brina gelata comparivano nel cono dei nostri fari come creature in movimento. Avrei potuto credere di essere passato dall’altra parte, in quella contrada che i bambini conoscono bene, e da cui non si ritorna.

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Imprimatur - Rita Monaldi & Francesco Sorti

>> giovedì 8 dicembre 2011

Romanzo storico che è un caso letterario per via della censura a cui il libro è stato sottoposto. Pubblicato da Mondadori nel 2002 è diventato un best seller nazionale e internazionale e nonostante tutto è stato dopo qualche mese inspiegabilmente ritirato e non ha più visto la luce sul territorio italiano. Attualmente è possibile acquistarlo all'estero. Io l'ho trovato abbastanza agevolmente in biblioteca. Sul seguente sito è possibile approfondire tutti i dettagli del caso. I due autori dimostrano, tramite un'accurata documentazione, come papa Innocenzo XI abbia tradito la fede cattolica finanziando nel 1688 la conquista del trono d’Inghilterra da parte del protestante Guglielmo d’Orange a scapito del cattolico Giacomo II. L'uscita del libro di Monaldi e Sorti sembra comunque abbia impedito ad Innocenzo XI di diventare santo perchè proprio in quell'anno era in corso il processo di canonizzazione.
Ma il libro com'è? Onestamente non mi ha entusiasmato. Prolisso e ricco di divagazioni (di cui alcune comunque interessanti) si legge con fatica. Le prime 400 pagine sono quelle più impegnative, poi scorre abbastanza agevolmente. L'evento storico emerge poco per volta dientro l'indagine che un ambiguo detective, l'abate Atto Melani, svolge in una Roma ricca di sotterranei e misteri.  Se il riferimento è "Il nome della rosa" non regge il paragone e il romanzo di Eco rimane un insuperato punto di riferimento.


Ancora mezzo trafelato gli dissi che ero in grande apprensione per l'anima del mio padrone: l'olio aveva mondato la coscienza di Pellegrino dai peccati, affinché egli non corresse il rischio di perire all'Inferno? Oppure occorreva che si confessasse prima di morire? E cosa sarebbe accaduto se non avesse ripreso conoscenza prima del trapasso?
«Oh, se è per questo» rispose Robleda sbrigativamente «non ti devi preoccupare: non sarà colpa del tuo padrone, se prima di morire non tornerà in sé quel tanto che basta per poter rendere piena confessione dei suoi peccatucci al Signore».
«Lo so» ribattei pronto «ma ci sono anche i peccati mortali, oltre ai peccati veniali...».
«Sai forse di qualche peccato grave commesso dal tuo padrone?» chiese il gesuita allarmato.
«Che io sappia non è mai andato oltre qualche intemperanza e qualche bicchiere di troppo».
«Comunque, perfino se avesse ucciso» disse Robleda facendosi il segno della Croce «questo non vorrebbe dire molto».
E mi spiegò che i padri gesuiti, avendo particolare vocazione per il sacramento della confessione, avevano da tempo studiato con gran cura la dottrina del peccato e del perdono: «Vi sono delitti che provocano la morte dell'anima, ed essi sono la maggioranza. Ma ve ne sono anche di parzialmente permessi» disse abbassando verecondamente la voce «o perfino alcuni, beninteso in casi eccezionali, che sono permessi. È una questione di circostanze, e per il confessore ti assicuro che la decisione è sempre cosa difficile».
La casistica era sterminata, e andava considerata con grande cautela. Si deve dare l'assoluzione a un figlio che per legittima difesa ammazza il padre? Commette peccato colui che, per evitare di essere giustiziato ingiustamente, uccide un testimonio? E una moglie che uccide il marito, sapendo che lui sta per renderle identico servizio? Può un nobile, per difendere di fronte ai suoi pari l'onore (che è per lui quanto v'è di più importante), assassinare chi lo ha offeso? Commette peccato un soldato se per ordine di un superiore uccide un innocente? Ancora: una donna può prostituirsi per salvare dalla fame i propri figli?
«E a rubare, padre, si fa sempre peccato?» insistetti sovvenendomi che le troppo abbondanti prelibatezze della cantina del mio padrone non erano forse tutte di provenienza lecita.
«Tutt'altro. Anche qui devi considerare le circostanze interne ed esterne in cui l'atto è compiuto. È cosa certamente diversa se il ricco ruba al povero, o il povero al ricco, o il ricco al ricco o infine il povero al povero e così via».
«Ma non ci si può far perdonare in tutti i casi, restituendo ciò che si è rubato?»
«Sei troppo frettoloso! L'obbligo di restituzione è cosa importante, certo, e il confessore è tenuto a ricordarlo al fedele che a lui s'affida. Ma l'obbligo può anche essere limitato, o venir meno. Non occorre restituire quanto è stato rubato, se ciò significa impoverirsi: un nobile non può privarsi della servitù, e un cittadino distinto non può certo abbassarsi a lavorare».
«Ma se non sono costretto a restituire il maltolto, come dite voi, allora cosa devo fare per ottenere il perdono?»
«Dipende. In alcuni casi è bene fare una visita al domicilio dell'offeso, e porgere le proprie scuse».
«E le tasse? Cosa accade se non si paga il dovuto?»
«Eppeppè, questa è una faccenda delicata. Le tasse rientrano tra le res odiosae, nel senso che nessuno le paga volentieri. Diciamo che è sicuramente peccato non pagare quelle giuste, mentre per le tasse ingiuste bisogna vedere caso per caso».
Robleda mi lumeggiò poi su molti altri casi che, senza conoscere la dottrina dei gesuiti, avrei senz'altro giudicato in modo assai diverso: chi è condannato ingiustamente può evadere dal carcere, e può ubriacare i guardiani e aiutare a fuggire i suoi compagni di cella; si può gioire della morte di un genitore che ci lascia una grossa eredità, purché lo si faccia senza odio personale; si possono leggere i libri proibiti dalla Chiesa, ma al massimo per tre giorni e per non più di sei pagine; si può rubare ai genitori senza fare peccato, ma non più di cinquanta monete d'oro; chi infine giura, ma lo fa solo per finta e senza l'intenzione di giurare davvero, non è obbligato a mantenere la parola.
«Insomma si può spergiurare!» riassunsi stupito.
«Non essere così rozzo. Tutto dipende dall'intenzione. Il peccato è il distacco volontario dalla legge di Dio» recitò solenne Robleda. «Se invece lo si commette solo in apparenza, ma senza volerlo davvero, allora si è salvi».
Uscii dalla stanza di Robleda in preda a un misto di spossatezza e inquietudine. Grazie alla sapienza dei gesuiti, pensai, Pellegrino aveva buone probabilità di salvarsi l'anima. Ma da quei discorsi pareva quasi che il bianco si chiamasse nero, che la verità fosse uguale alla menzogna, che bene e male fossero tutt'uno.
[...]
Ma proprio in quel mentre mi fu sopra, e ovunque attorno a me, una pioggia fragorosa e orribile di cadaveri teschi e ossa umane, e mandibole mascelle costole omeri misti a immondo sudiciume, travolto dal quale caddi e restai a terra, e solo allora in realtà conobbi da vicino la schifosa materia, restandone semisepolto e a mia volta quasi morto. Cercai di divinco-larmi dalla mostruosa e scricchiolante poltiglia mortifera, il cui infame gorgoglio si mescolava a un duplice muggito infernale di cui non indovinavo la provenienza né la natura. Quella che oggi riconoscerei per una vertebra m'ostruiva la visuale, e ciò che era stato un tempo il cranio d'un vivente mi osservava minaccioso, quasi sospeso nel vuoto. Cercai d'urlare, ma la mia bocca non emise alcun suono. Sentii le forze venirmi meno, e mentre gli ultimi pensieri si radunavano faticosamente in un'e-strema preghiera per la salvezza dell'anima mia, come in un sogno udii la voce ferma dell'abate risuonare nel vuoto.
[...]
Scesi in cantina. Mi spinsi fino al livello inferiore, assai interrato, e vi trascorsi credo oltre un'ora, buscandomi quasi un malanno a motivo del pungente frescolino che vi regnava sempre. Passai interamente sotto esame quello spazio dal soffitto basso, esplorandone col lume gli angoli più reconditi, là dove non m'ero ancora mai avventurato o soffermato, gli scaffali sino ai ripiani più alti e le casse di neve fin quasi a toccarne il fondo. In un ampio anfratto, celato dietro teorie di orci con vini, olio, e ogni sorta di legumi e semi secchi, frutta candita, verdure in barattolo e sacchi di maccaroni, gnocchetti, lasagne e zeppole, scopersi a riposare sotto ampi teli di iuta, o al fresco tra la neve, gran varietà di carni salate, affumicate, secche e in vaso. Lì il signor Pellegrino aveva messo a conservare, come amante geloso, lingue in pottaggio e porchette di latte, e poi pezzi di varie bestie: animelle di cervo e capretto; trippa di mongana; piedi, rognone e cervella di porco spinoso; zinne di vacche e di capre; linguattole di castrato e cinghiale; pezzi di coscia, di anneccia e camozza; fegato, zampe, collo e scannatura d'orso; fianchetto, costarelle e filetto di capriolo.
E scoprii lacerti di lepre, gallo di montagna, pollancotte d'India, pollastro selvatico, pulcini, piccioni, palombelle selvatiche, fagiani e fagianotti, starne e starnotte, beccacce, pavone e pavoncino e pavoncelle, anatra e folaghe, papere, oche, pizzacchere, quaglie, tortore, malvezzi, francolini, ficedole, ortolani, rondanini, cocciarde, passarotti, beccafichi di Cipro e di Candia.
Immaginai col batticuore come li avrebbe apparecchiati il mio povero padrone: allessi, arrosti, in zuppe, in sorsichi, allo spiedo, fritti, in pasticcio con o senza sfogli, in arme, in brodi, in morselletti, in crostate, con salse, con aceti, con frutti e trionfi.
Attirato dal forte odore di affumicato e alga secca, portai oltre la mia ispezione; e sotto altra neve pressata e altri teli di iuta, come m'aspettavo, serrati in botticelle sotto sale o appesi in piccoli mazzi e in retine a uncini, trovai: agucchie, cappe di San Giacomo, cappe lunghe, cefali, cernie, chiocciole, corbi, dentali, fonghi, gambarelli, gongole, granci, lacce, lamprede, latterini, palaie, lumache, lucci, luvani, merluzzi, lorene, ombrine, patelle, filetti di pesci spada e pesci capone, pesci gallo, pesci rombo, reine, pesci ignudi, ranocchi, sarde, scorfani, sgombri, storioni, testuggini, telline e tenche.
[...]
Il giovane Re stava saggiando per la prima volta la propria potenza. Ciò si può fare solo imponendo l'arbitrio reale, e talora l'ingiustizia. Quale sfoggio di potere sarebbe favorire i migliori, già destinati alle vette grazie alle proprie qualità? Potente è invece colui che riesce a elevare il mediocre e il malvagio a capo dei saggi e dei buoni, sovvertendo col solo capriccio il corso naturale degli eventi.
[...]
In Inghilterra già il famoso Giovanni Dowland, liutista della regina Elisabetta, scriveva le sue musiche in modo che, tramite esse, i suoi padroni potessero inviare informazioni riservate.
Impiegò non poco Atto Melani per convincermi che la notazione musicale possa racchiudere significati del tutto estrinseci all'arte dei suoni. Eppure era così da sempre: sia i Regnanti che lo stesso Stato della Chiesa da secoli facevano ricorso alla criptografia musicale. E l'argomento era ben noto a tutti gli uomini di dottrina: per fare un esempio alla portata di tutti, disse, nel De furtivis litterarum notis il Della Porta aveva illu-strato gran copia di sistemi con cui celare nella grafia musicale messaggi segreti d'ogni tipo e lunghezza. Grazie a un'opportuna chiave, per esempio, si poteva associare ogni lettera dell'alfabeto a una nota musicale. La successione delle note, annotata sul pentagramma, avrebbe così fornito a chi possedeva la chiave parole e frasi compiute.
«Così si crea però il problema dei saltus indecentes, cioè di dissonanze ed enarmonie sgradevoli, che già ictu oculi possono insospettire chi legga accidentalmente la musica. C'è chi allora ha escogitato sistemi più raffinati».
«E chi?»
«Proprio il nostro Kircher, per esempio, nella Musurgia universalis. Invece di assegnare a ogni nota una lettera, ha distribuito l'alfabeto tra le quattro voci di un madrigale o di un'orchestra, in modo da poter meglio governare la materia musicale e rendere la composizione meno rozza e sgradevole: cosa che, nel caso il messaggio venisse intercettato, renderebbe sospettoso chiunque. Sono poi possibili infinite manipolazioni del testo cantato e delle note da intonare. Esempio: se la nota musicale - «fa», «la», oppure «re» - coincide con il testo, allora si prendono in considerazione solo quelle sillabe. Oppure si può fare il contrario, conservando solo il resto del testo cantato, che a quel punto mostrerà il suo significato nascosto. E di certo Corbetta sarà stato a conoscenza di tale innovazione di Kircher».
[...]
«Allo stesso modo» continuò come se nulla fosse «l'affezione o segreta attrazione che sentiamo imperiosa per certe persone sin dalle prime volte che le accostiamo, è causata da un'emissione di spiriti o corpuscoli di questa persona che giungono a imprimere dolcemente l'occhio o i nervi, fino ad arrivare al cervello e dare una sensazione di gradevolezza».
Tremolante, mi affaccendavo col pettine alle tempie.
«E sai una cosa?» aggiunse suadente. «Tale attrazione ha il magnifico potere di rendere perfettissimo e valentissimo ai nostri occhi l'oggetto dei nostri desideri».
Me, nessuno m'avrebbe mai potuto vedere perfettissimo, no di certo, ripetevo mentalmente cercando di dominare la violenta emozione; e intanto non mi riusciva di spiccicar parola.
Cloridia appoggiò lievemente la testa al mio petto e sospirò.
«Ora mi devi districare i capelli della nuca, senza però farmi male: lì i crini sono più intrecciati, ma anche più fragili e sensibili».
Detto questo, mi fece sedere davanti a lei, sul suo alto letto, e mi pose il capo in grembo, a viso in giù, mostrandomi il collo. Ancora stordito e confuso, sentii agl'inguini il calore del suo respiro. Ripresi a pettinarle i riccioli. Mi sentivo la testa completamente vuota.
«Non ti ho ancora spiegato il modo di usare la verga con successo» riprese lentamente, mentre la sentivo accomodarsi meglio nella sua posizione.
«Sappi anzitutto che la natura non ha che un solo meccanismo in tutte le sue operazioni, ed è la sola che possa rendere ragione del movimento della verga. Bisogna anzitutto intingere la punta della verga in qualche materia, possibilmente umida e calda (come il sangue o altri umori), che ha a che fare con quanto si cerca. Questo perché il tocco scopre talvolta ciò che gli occhi non possono. Poi si prende la verga tra due dita, ponendosela all'altezza del ventre. La si può anche portare in equilibrio sul dorso della mano, ma secondo me non funziona. Bisogna poi procedere lentamente nella direzione in cui si pensa sia quanto cerchiamo. Si deve andare avanti e indietro, su e giù più volte, finché la verga si solleva; e così si è sicuri che la direzione imboccata è quella giusta. L'inclinazione della verga, infatti, è la stessa cosa dell'inclinazione dell'ago della bussola: risponde a un'attrazione calamitica. L'importante, con la verga, è non agire mai bruscamente, altrimenti si rompe il volume di vapori ed esalazioni provenienti dal luogo cercato e che, impregnando la verga, la fanno sollevare nella direzione giusta. Ogni tanto è bene tenere nelle mani i due corni che stanno alla base della verga, ma senza troppo serrare, e in modo che il disopra della mano sia girato verso terra e badando che la punta della verga sia sempre ben sollevata a puntare davanti sé verso lo scopo. Devi inoltre sapere che la verga non si muove nelle mani di tutti. Ci vuole un dono particolare, e molta arte. Per esempio, non si muove nelle mani di chi ha una traspirazione di materia grossolana, rude e abbondante, in quanto tali corpuscoli vanno a rompere la colonna dei vapori, esalazioni e fumi. Ma capita a volte che la verga non si muova anche nelle mani di chi l'ha già usata con successo. Non che a me sia mai accaduto, per carità. Ma può capitare qualcosa che alteri la costituzione di chi deve maneggiare la verga, e ne faccia più violentemente fermentare il sangue. Qualcosa nel cibo o nell'aria può produrre sali acri e acidi. Oppure un lavoro troppo violento, veglie notturne o studio, possono creare una traspirazione acre e rude che dalle mani passa negli interstizi della verga e confonde il cammino alla colonna dei vapori, impedendole di muoversi. Questo perché la verga funziona da catalizzatore dei corpuscoli invisibili, come un microscopio. Vedessi che spettacolo, quando finalmente la verga giunge...».
Cloridia s'era interrotta. Bussò Cristofano.
«M'è parso d'udire un grido. Tutto bene lì?» chiese trafelato il medico, che aveva fatto le scale di corsa.
«Niente di cui preoccuparsi. Il nostro povero garzoncello s'è fatto male mentre m'aiutava, ma è una sciocchezza. Vi saluto, signor Cristofano, e grazie» rispose Cloridia con sottile ilarità.
Avevo urlato. E ora giacevo, sfinito di piacere e vergogna, riverso sul letto di Cloridia.
[...]
Non vi fu bisogno d'altre spiegazioni. In quelle parole Ciacconio aveva scolpito la propria fugace avventura terrena: siamo come lacrime nella pioggia, che appena stillate già si perdono nel prepotente flusso delle cose mortali.
[...]
Quella musica aveva come nessun'altra il potere inspiegabile d'incantare, di confondere, di avvincere la mente e il cuore. Dopo l'ascolto, la memoria non se ne liberava più. Non era una sorpresa che il garzone ne fosse tanto turbato, e che poi, anni dopo, continuasse a rimuginarne il motivo. Il mistero del secretum vitae era annidato in un altro mistero.
Non era abbastanza per dire che anche tutto il resto era vero. Ma era troppo per resistere alla tentazione di andare fino in fondo.
 Il mattino successivo acquistai una costosa registrazione integrale delle numerose Pièces de Clavecin di Couperin. Dopo averla ascoltata per giorni e giorni con somma attenzione, la conclusione mi sembrò evidente. Nessuna musica di Couperin assomigliava alle Baricades mistérieuses. Consultai dizionari, lessi monografie. I pochi critici che se n'erano occupati erano d'accordo: Couperin non aveva composto null'altro di simile. Le danze delle suites di Couperin hanno quasi sempre un titolo descrittivo: Les Sentiments, La Lugubre, l'Ame en peine, La Voluptueuse e così via. Vi sono poi titoli come La Raphaèle, L’Angélique, La Milordine o La Castelane: alludevano a qualche ben nota dama della Corte, che i contemporanei si divertivano a indovinare. Solo per le Baricades mistérieuses non esiste una spiegazione. Un musicologo definiva il pezzo «veramente mistérieux».
Era come se fosse opera di qualcun altro. Ma di chi, allora? Irte di audaci dissonanze, di struggenti e distillate armonie, le Baricades sono troppo lontane dallo stile sobrio di Couperin. In un ingegnoso gioco di echi, anticipi e ritardi, le quattro voci della polifonia si fondono nella delicata orologeria di un arpeggio. È lo stile brisé, che i clavicembalisti avevano copiato dai liutisti. E il liuto è il parente più prossimo della chitarra...
Cominciai ad ammettere l'ipotesi che forse Les Baricades mistérieuses erano state scritte davvero da Corbetta, come riferiva il garzone. Ma perché allora era stato Couperin a pubblicarle sotto il proprio nome? E come erano finite nelle sue mani?
[...]
Il Beato Innocenzo fu complice degli eretici protestanti a danno dei cattolici; lasciò che l'Inghilterra venisse invasa da Guglielmo d'Orange, e solo per farsi restituire un debito in denaro.
Papa Odescalchi fu poi finanziatore del traffico negriero, non rinunciò a possedere schiavi personalmente e trattò con crudeltà sanguinaria i vecchi e i moribondi.
Fu un uomo gretto e avaro, incapace di elevarsi al di sopra delle preoccupazioni materiali, ossessionato dal pensiero del lucro e del denaro.
La figura e l'opera di Innocenzo XI furono quindi celebrate ed elevate ingiustamente, con argomentazioni false, fuorvianti o parziali. Vennero occultate le prove: l'inventario del testamento di Carlo Odescalchi, le lettere e ricevute commerciali dell'archivio Odescalchi dal 1650 al 1680, la corrispondenza del segretario di Stato Casoni, i chirografi sugli schiavi citati da Bertolotti, più altre carte di cui segnalo la scomparsa, per lo più inspiegabile, nei documenti finali.
Alla fine trionfò dunque la menzogna, e il finanziatore degli eretici fu detto Salvatore della Cristianità. Il commerciante avido divenne un saggio amministratore, e il politico testardo uno statista coerente; la vendetta si travestì da orgoglio, l'avido venne chiamato frugale, l'ignorante si trasformò in uomo semplice, il male prese i panni del bene e quest'ultimo, abbandonato da tutti, si fece terra, polvere, fumo, ombra, nulla.
Ora forse capisco la dedica scelta dai miei due amici: «Ai vinti». Vinto fu Fouquet: a Colbert toccò la gloria, a lui l'infamia. Vinto fu Pompeo Dulcibeni, che non riuscì a ottenere giustizia: le sue sanguisughe fallirono. Vinto fu Atto Melani: venne costretto dal Re Sole a uccidere il suo amico Fouquet. E nonostante mille peripezie, non riuscì a carpire a Dulcibeni il suo segreto. Vinto fu poi il garzone, che di fronte alla visione del Male perse la fede e l'innocenza: da aspirante gazzettante finì per rifugiarsi nel semplice e duro lavoro dei campi. Vinta fu anche la sua memoria che, pur compilata con tanta cura e fatica, giacque dimenticata per secoli.

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Il buio oltre la siepe - Harper Lee

>> domenica 4 dicembre 2011

Se c'è un personaggio nella storia della letteratura mondiale che incarna tanti valori positivi senza essere stucchevole questo è Atticus, il protagonista del romanzo di Harper Lee. Mi sono chiesto come l'autrice sia riuscita in questa impresa non facile e credo che la risposta sia nell'aver fatto emergere una personalità eccezionale dalla semplicità dei dialoghi e delle descrizioni della voce narrante della storia, una bambina di nove anni. Con le sue argomentazioni semplici e immediate, Atticus mette in fila tutta una serie di concetti che fanno capo alla non violenza, all'indignazione verso i soprusi e le prevaricazioni di qualsiasi tipo e colore siano. Commovente la scena dei doni che la gente comune gli offre dopo la difesa dell'imputato ingiustamente condannato. Molto bello il finale che evidenzia un'ulteriore verità: non si finisce mai di conoscere fino in fondo una persona e può accadere, se si va oltre le apparenze, di imbattersi in piacevoli sorprese. Non è un libro perfetto: prima di arrivare al processo  le parti legate alla quotidianità dei bambini sono piuttosto faticose. Dalla metà in poi il romanzo decolla.

Ti prego, signore, non mandarmi più a scuola; ti prego, papà.
Atticus s'alzò, arrivò in fondo al portico e studiò la spalliera di glicini. Poi, tornò lentamente verso di me.
- Scout - disse - se riesci a imparare un trucchetto, andrai più facilmente d'accordo con tutte le persone, di qualunque genere siano. Non si può capire veramente qualcuno finchè non si considerano le cose dal suo punto di vista.
- Prego? -
- Finchè non ti metti nei suoi panni.
Atticus disse che quel giorno avevo imparato molte cose, e anche miss Caroline ne aveva imparate parecchie. Se mi fossi messa nei suoi panni, avrei capito che non potevo pretendere che imparasse tutte le usanze di Maycomb in un giorno solo, e non le avrei fatto colpa di esserne all'oscuro.
[...]
E' vero che difendi i "cioccolati", Atticus?
- Certo che li difendo. Ma non chiamarli cioccolati. Scout. Non sta bene.
- A scuola li chiamano tutti così.
- D'ora in poi lo faranno tutti, tranne una.
- Tutti gli avvocati difendono i cioc... i negri, Atticus?
- Certo, Scout.
- E allora perchè Cecil l'ha detto come se tu facessi una cosa di cui vergognarsi?
Atticus sospirò. - Io difendo semplicemente un negro che si chiama Tom Robinson. Vive in quella piccola borgata dietro il deposito comunale dei rifiuti. Tom Robinson appartiene alla stessa chiesa di Calpurnia, e lei conosce bene la sua famiglia. Scout, tu sei troppo piccola per capire certe cose, ma in paese fanno un sacco di chiacchiere su quell'uomo, e dicono che non dovrei darmi tanto da fare per difenderlo. E' un caso fuori dal comune... il processo sarà celebrato solo nella sessione estiva. Il giudice Taylor è stato cosi gentile da concederci un rinvio.
- Se non dovresti darti tanto da fare per difenderlo, perchè lo difendi, allora?
- Per varie ragioni - rispose Atticus. - La principale è che se non lo facessi, non potrei più andare in giro a testa alta. Non potrei rappresentare questa contea all'assemblea dello Stato.
- E perchè no?
- Perchè non potrei, Scout. Vedi, Scout, a ogni avvocato capita almeno un caso, nella vita, che lo coinvolge personalmente. A me è capitato questo, immagino. Può darsi che tu senta in proposito delle brutte chiacchiere, a scuola, ma tu fa' una cosa, per me; tieni la testa alta e i pugni bassi, qualsiasi cosa ti dicano.
- Atticus, lo vinceremo questo processo? -
- No, tesoro - rispose Atticus. - Ci hanno sconfitto cent'anni prima che cominciassimo, ma questa non è una buona ragione per non insistere a tentare di vincere.
- Parli come il cugino Ike Finch - osservai. Il cugino Ike Finch era l'unico veterano confederato vivente della contea di Maycomb. "Se dovessi ricominciare tutto da capo" diceva sempre "rifarei la stessa strada, passo per passo, andata e ritorno."
- Vieni qui, Scout - mi invitò infine Atticus. Mi rannicchiai sulle sue ginocchia e gli infilai la testa sotto il mento, e lui mi strinse fra le braccia e mi cullò dolcemente.  Questa volta è diverso - disse. - Questa volta non dobbiamo combattere i Nordisti. Combattiamo contro i nostri amici. Però, ricordati questo: anche se gli animi si scaldano, sono sempre amici nostri, e questa è sempre la nostra patria.
[...]
Atticus non era un uomo forte; aveva quasi cinquant'anni: molto più anziano dei genitori dei nostri compagni di scuola.
Quando Jem ed io gli chiedevamo come mai fosse così vecchio, diceva che aveva cominciato tardi.
E, quel ch'è peggio, Atticus non faceva niente. Non guidava un carro delle immondezze, non era sceriffo, non faceva il contadino, non lavorava in un'autorimessa, nè faceva nulla che potesse suscitare l'ammirazione di chicchessia. Non giocava a poker, nè pescava o beveva o fumava. Sedeva nel soggiorno e leggeva.
Feci parlare Calpurnia sull'argomento. - Il signor Finch? Oh, sa fare un sacco di cose.
- Per esempio? - insistei.
Calpurnia si grattò la testa. - Beh, non so di preciso - rispose.
Atticus non andava mai nemmeno a caccia; diceva che i fucili non l'interessavano. E quando, per Natale, ricevemmo i fucili ad aria compressa, lasciò allo zio Jack il compito di insegnarci a sparare. Un giorno, disse a Jem: - Preferirei che sparaste ai barattoli di latta, nel giardinetto, ma so già che andrete a caccia di uccelli. Sparate pure a tutte le ghiandaie che vedete, se riuscite a colpirle, ma ricordatevi che è peccato uccidere gli uccelli come l'usignolo. Fu l'unica volta che lo sentii dire che era peccato fare qualcosa, perciò chiesi schiarimenti alla signorina Maudie.
- Tuo padre ha ragione - disse. - Gli usignoli non fanno nient'altro che donare musica agli uomini. Non divorano gli orti della gente, nè fanno il nido nei covoni; non fanno altro che cantare per noi con tutta l'anima. Ecco perchè è peccato uccidere un usignolo. 
Un sabato, Jem ed io decidemmo di partire in esplorazione, coi nostri fucili, per vedere se trovavamo un coniglio o uno scoiattolo. Eravamo andati circa cinquecento metri oltre casa Radley, quando mi accorsi che Jem aguzzava gli occhi per vedere meglio qualcosa in fondo alla strada. - Cosa stai guardando?
- Quel vecchio cane laggiù - rispose. - Il vecchio Tim Johnson.
Tim Johnson apparteneva al signor Harry Johnson, il conducente dell'autobus per Mobile. Era un cane da caccia bianco e marrone, amato da tutta Maycomb. - Ma cosa fa?
- Non so, Scout. Sarà meglio tornare a casa.
Tornati a casa, Jem corse da Cal. - Vieni fuori un momento - disse.
- C'è qualcosa che non mi piace in quel vecchio cane laggiù. Fa così. Jem boccheggiò come un pesciolino, tirò su le spalle e si contorse. - Fa a questo modo, solo che non mi sembra che lo faccia apposta.
- Correva? -
- No, arranca piano piano, e sta venendo da questa parte. Calpurnia si sciacquò le mani e ci segui fuori, fin oltre la casa dei Radley. Adesso, Tim Johnson era più vicino. Camminava a zig zag, come se le zampe di destra fossero più corte di quelle di sinistra. - Cammina a sghimbescio - osservò Jem.
Calpurnia stette a guardare, poi ci prese per le spalle e ci fece correre a casa. Chiuse dietro di noi la porta di legno, andò al telefono e gridò: - Datemi l'ufficio del signor Fìnch!.
- Signor Finch! - gridò. - Sono Cal. C'è un cane idrofobo giù in istrada, è il vecchio Tim Johnson... sissignore... sissignore. Riattaccò, fece scattare ripetutamente la forcella del telefono e disse: - Signorina May, può chiamare la signorina Rachel e la signorina Stephanie Crawford e tutti quelli che hanno un telefono in questa strada, e dirgli che sta arrivando un cane idrofobo? Presto, signorina, per favore!.
Il messaggio di Calpurnia si propagò rapidamente: mentre stavamo a guardare, tutte le porte nel nostro raggio visivo vennero chiuse a doppia mandata, e pochi minuti dopo una Ford nera arrivava di corsa nel nostro vialetto. Ne scesero Atticus e il signor Heck Tate. Il signor Heck Tate era lo sceriffo della contea di Maycomb. Era alto quanto Atticus, solo più magro. Dal cinturone gli spuntava una fila di pallottole. Aveva con sè un grosso fucile. Quando arrivarono sotto il portico, Jem aprì la porta.
- Sta' dentro, figliolo - gli ordinò Atticus. - Dov'è, Cal?
- Dovrebbe essere qui, ormai - disse Cal, indicando la strada.
- Non corre, è nel momento delle convulsioni, signore.
- Che dici, Heck, andiamo a cercarlo? - domandò Atticus.
- Meglio aspettare, signor Finch. Di solito, procedono in linea retta, ma non si sa mai. Aspettiamo un minuto. Non c'è nulla di più lugubre di una strada deserta, in attesa. Gli alberi erano immoti, i passeri tacevano, i falegnami, nella casa nuova della signorina Maudie, erano spariti. Vidi il signor Tate portarsi il calcio del fucile al cavo del braccio. Vidi il viso della signorina Stephanie Crawford inquadrato nella vetrata della porta di casa sua.
- Eccolo là - bisbigliò Atticus.
Tim Johnson apparve, camminando come intontito sul lato interno della curva che costeggiava la casa dei Radley.
- Ce l'ha e come, signor Finch - disse il signor Tate. Tim Johnson avanzava a passo di lumaca, mosso da un'invincibile forza che lo spingeva verso di noi, centimetro per centimetro. Lo vedevamo fremere come un cavallo quando scaccia le mosche; la mascella gli si apriva e chiudeva di continuo.
- Sta cercando un posto per morire - disse Jem.
Il signor Tate si voltò. - Ce ne vuole ancora, Jem, prima che muoia. Tim Johnson arrivò nella stradina che correva di fianco a casa Radley, e ciò che restava del suo povero cervello lo indusse a sostare, e parve riflettere sulla strada da prendere. Si fermò davanti al cancello dei Radley; poi, cercò di fare dietrofront, ma si vedeva che non ne aveva la forza. Atticus disse: - Eccolo a tiro, Heck. Sarà meglio che tu lo prenda adesso.
Calpurnia cercò di ostruirci la vista col suo corpo, ma noi guardavamo di sotto alle sue braccia.
- Lo prenda lei, signor Finch. Questo è un lavoro da fare a colpo sicuro. - Il signor Tate porse il fucile ad Atticus; Jem ed io per poco non svenimmo. Atticus scosse deciso la testa.
- Signor Finch, se lo manco, quello entra difilato in casa
Radley! Non sono un così gran tiratore, e lei lo sa!
- Ma se non sparo un colpo da trent'anni! -
Il signor Tate quasi scagliò il fucile ad Atticus. - Mi sentirei molto più tranquillo se ne sparasse uno ora - disse.
Come in una nebbia, Jem e io guardammo nostro padre prendere il fucile e portarsi in mezzo alla strada. Il tempo si arrestò in una pausa nauseante mentre lui si alzava gli occhiali sulla fronte e Calpurnia mormorava: - Buon Gesù, aiutalo - portandosi le mani alle guance. Gli occhiali gli scivolarono giù dalla fronte e lui li lasciò cadere nella strada. Nel gran silenzio, li sentii spezzarsi.
Davanti al cancello dei Radley, Tim Johnson s'era finalmente girato per riprendere la sua rotta originaria su per la nostra strada. Si fermò e sollevò la testa. Con movimenti così rapidi da parere simultanei, Atticus si portò il fucile alla spalla e tirò. Si udì lo scoppio. Tim Johnson fece un balzo, ricadde, e s'accasciò sul marciapiede in un mucchietto bianco e marrone.
Non seppe mai cosa l'avesse colpito. Il signor Tate saltò giù dal portico e corse ad accucciarsi davanti al cane. Si voltò e si picchiò col dito sopra l'occhio Sinistro. - Era un tantino a destra, signor Finch - gridò.
- Come sempre - rispose Atticus. - Se fosse dipeso da me, avrei preso una carabina. - Si chinò, raccolse gli occhiali, e frantumò le lenti rotte, riducendole in polvere sotto i tacchi. Le porte si aprirono a una a una, e il vicinato lentamente riprese vita. Quando il signor Tate e Atticus tornarono in giardino, il signor Tate sorrideva. - Manderò Zeebo a prenderlo - disse.
Zeebo era il figlio di Calpurnia, lo spazzino municipale.
- Lei è ancora in forma, signor Finch. Dicono che non ci si dimentica mai.
Atticus non aprì bocca.
- Ho visto tutto, Finch Primo-Colpo! - Atticus ruotò su se stesso e si trovò di fronte la signorina Maudie. Si guardarono senza dir nulla, poi Atticus salì sulla macchina del signor Tate.
- Non avvicinatevi a quel cane - raccomandò a Jem.
- è pericoloso da morto come da vivo. Su, Heck, torniamo in paese.
La signorina Maudie ci sorrideva. - Voi non lo sapevate che Atticus Finch era ai suoi tempi il più micidiale tiratore della contea di Maycomb. Quand'era giovane, l'avevano soprannominato Primo-Colpo. Se sparava quindici volte e abbatteva quattordici colombi, si lamentava d'aver sprecato munizioni. Jem sembrava paralizzato.
- Chissà perchè adesso non va mai a caccia - osservò.
- Forse, posso spiegartelo io - disse la signorina Maudie.
- Se c'è una cosa che a tuo padre non manca, è la finezza d'animo. Aver una mira infallibile è un dono di Dio... oh, ci vuole esercizio, naturalmente, ma sparare è diverso da sonare il piano o roba del genere. Io penso che forse ha rinunciato a cacciare, quando ha capito che Dio gli aveva dato un vantaggio sproporzionato sulla maggior parte degli esseri viventi.
- Secondo me, dovrebbe esserne fiero - osservai.
- Chi ha una mente saggia, non s'inorgoglisce delle proprie doti - disse la signorina Maudie.
[...]
Atticus s'alzò alla sua solita ora impossibile, e quando noi ci trascinammo nel soggiorno, lo trovammo lì, nascosto dal Corriere di Mobile. Si poteva leggere una domanda sul viso di Jem.
- Non è ancora finita - lo rassicurò Atticus, mentre andavamo in sala da pranzo. - Ricorreremo in appello, potete contarci.
Santo cielo, Cal, cos'è tutta questa roba? - chiese contemplando il suo piatto.
Cal disse: - Il papà di Tom Robinson le ha mandato questo pollo.
- Digli che siamo fieri di averlo ricevuto; scommetto che alla Casa Bianca non servono pollo alla colazione del mattino.
E queste che sono?
- Ciambelle. Le ha mandate Estelle, dell'albergo. Atticus levò gli occhi a guardarla, perplesso, e lei continuò: - Sarà meglio che venga a vedere cosa c'è in cucina, signor Finch. Lo seguimmo. Il tavolo di cucina era ricoperto di maiale salato, pomodori, zampe di maiale, uva moscatella. Cal disse:
- Tutti hanno molto apprezzato quel che ha fatto, signor Finch. Gli occhi di Atticus si riempirono di lagrime. Per un attimo non aprì bocca. - Di' loro che sono molto grato - disse. - Però non dovranno farlo più. I tempi sono troppo duri.
Uscì dalla cucina, si scusò con zia Alexandra, si mise il cappello e andò in paese.
Sentimmo nel portico il passo di Dill, perciò Calpurnia lasciò in tavola la colazione intatta di Atticus. Fra un boccone e l'altro, Dill ci raccontò la reazione della signorina Rachel ai fatti della sera prima: se un uomo come Atticus Finch voleva sbattere la testa contro il muro, la testa era sua. Quando uscimmo nel portico, la signorina Stephanie Crawford era sul marciapiede tutta indaffarata a raccontare ogni cosa alla signorina Maudie Atkinson e a un altro vicino, il signor Avery. La signorina Maudie ci gridò di andare da lei. - Jem Finch, t'ho chiamato per sapere se tu e i tuoi compagni volete mangiare un po' di torta. Mi sono alzata alle cinque per farla. Scusaci, Stephanie.
Mentre mangiavamo, capivamo che in quel modo la signorina Maudie voleva dirci che, per quanto la riguardava, nulla era mutato. Sedeva, osservandoci in silenzio. Improvvisamente parlò.
- Non te la prendere, Jem. A questo mondo ci sono degli uomini che sono nati per svolgere in nostra vece dei compiti spiacevoli. Tuo padre è uno di questi.
- Oh - fece Jem. - Bene. - Contemplava la sua torta mezzo mangiata. - Ho pensato sempre che la gente di Maycomb fosse la migliore di questo mondo.
- Noi siamo la gente più previdente del mondo - disse la signorina Maudie. - Ci è data così raramente l'occasione di essere cristiani, ma quando questo accade, abbiamo degli uomini come Atticus che si fanno avanti per noi.
- Vorrei che il resto della contea fosse dello stesso parere - osservò Jem.
- Saresti sorpreso di sapere quanti di noi la pensano così.
- Chi? - Jem aveva alzato la voce. - Chi in questo paese ha mosso un dito per aiutare Tom Robinson, chi?
- I suoi amici di colore. E gente come noi. Gente come il giudice Taylor, come Heck Tate. Jem, t'è mai venuto in mente che non è stato per caso che il giudice Taylor ha affidato ad Atticus la difesa di quel ragazzo?
Quella era un'idea. Le difese d'ufficio venivano per solito affidate a Maxwell Green, l'ultima recluta del foro di Maycomb, il quale aveva bisogno d'esperienza.
- Pensa un po' - stava dicendo la signorina Maudie. - Ieri sera ero seduta nel portico, aspettando di vedervi passare sul marciapiede, e mentre aspettavo pensavo: Atticus Finch non può spuntarla, però è l'unico uomo da queste parti che possa tenere sulla corda tanto a lungo una giuria in un processo del genere. E pensavo fra me: be', è già un passo avanti, un passettino da niente, ma pur sempre un passo.
[...]
- Allora tutto dipende dal sistema della giuria. Bisognerebbe abolire le giurie.
Atticus non potè fare a meno di sorridere. - Sei piuttosto duro con noi, figliolo. Io penso che forse ci sarebbe una soluzione migliore. Cambiare la legge in modo che solo i giudici abbiano il potere di determinare la pena nei processi capitali. A Jem non bastava ancora. - No signore, dovrebbero abolire le giurie.
Lui non era colpevole e loro hanno detto che lo era.
- Se in quella giuria ci fossero stati dodici ragazzi come te, figliolo, Tom sarebbe un uomo libero - disse Atticus. - Fino ad oggi nella tua vita nulla è venuto a interferire coi tuoi processi logici. Nei nostri tribunali invece, quando si tratta della parola di un bianco contro quella di un negro, vince sempre il bianco. è odioso, ma questi sono i fatti della vita.
- Non si può condannare un uomo basandosi su prove come quelle. Non si può.
- Jem - disse Atticus - con l'andar degli anni, vedrai spesso dei bianchi mettere nel sacco i negri, però lascia che ti dica una cosa e non dimenticarlo mai: tutte le volte che un bianco fa una cosa simile a un negro, per quanto ricco sia, per quanto illustre sia la famiglia da cui proviene, quell'uomo è un pezzente. Continuò, parlando ora più a se stesso che a noi.
- C'era una cosa però, in quella giuria, che mi ha fatto pensare: be', questa potrebbe anche essere l'ombra di un inizio.
Ci hanno messo parecchie ore; di solito ci mettono solo pochi minuti. E questa volta... - e ci guardò, - c'è stato uno che ci ha messo un bel po' a lasciarsi convincere. All'inizio era decisamente in favore di una completà assoluzione.
- Chi? - Jem era sbalordito.
Gli occhi di Atticus scintillarono. - Non sta a me parlarne, però ti dirò quanto bastà. Era uno dei tuoi amici di Old Sarum.
- Uno dei Cunningham? - strillò Jem. - Gesù Maria. Prima cercano di ammazzarlo e subito dopo cercano di dargli la libertà. Atticus disse che una volta conquistato il rispetto dei Cunningham, quelli ti si davano, anima e corpo. Disse che aveva l'impressione, nulla di più d'un sospetto, che quella notte avessero lasciato il carcere con un notevole rispetto per i Finch.
Quella sera, Jem mi disse: - Scout, perchè gli uomini non riescono ad andare d'accordo fra loro?. Fece una pausa.
- Mi pare di cominciare a capire qualcosa. Mi pare di cominciare a capire perchè Boo Radley se n'è rimasto chiuso in casa tutto questo tempo. E perchè vuole starsene rinchiuso.

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Lettura di Sciascia in biblioteca

5 Marzo ore 20,30, Biblioteca Castiglione delle Stiviere

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