In quelle tenebre - Gitta Sereny

>> domenica 3 febbraio 2013

La serata che il Circolo Lettori della Biblioteca di Castiglione ha dedicato al "Giorno Della Memoria" è stata introdotta da Fabio Alessandria con un approfondimento del concetto di memoria, che in letteratura non ha un'interpretazione comune. Ad esempio due importanti autori, Proust e Nabokov, presentano una visione diametralmente opposta: per il primo il ricordo è fonte di dolore per il secondo di gioia. Ci si è domandati quale efficacia avrà in futuro celebrare una ricorrenza come quella della Shoah quando non ci sarà più chi ha vissuto in prima persona l'Olocausto e si perderà il ricordo diretto. Come si potrà coinvolgere al meglio le nuove generazioni? Probabilmente sarà necessario un linguaggio e una modalità di comunicazione molto diversa da quella usata finora. Fortunatamente il materiale iconografico e letterario non manca. 
Il libro che abbiamo condiviso, "In quelle Tenebre", rappresenta un documento di straordinario valore perchè è l'unica intervista ad un comandate di un campo di sterminio. L'autrice, giornalista britannica di origini ungheresi, ha partecipato al processo di Norimeberga ed è riuscita successivamente ad incontrare in carcere per diverse settimane e fino a 19 ore prima della morte, Franz Stagl, il responsabile del campo di Treblinka,  condannato al carcere a vita per lo sterminio di novecentomila ebrei. Il libro raccoglie anche le interviste ai pochi sopravvissuti al campo nonchè ad altri funzionari delle SS e getta luce sulla relazione poco chiara tra la Chiesa e il regime nazista. Riporto integralmente la parte relativa ai rapporti con il Vaticano perchè mi sembra ben  documentata e approfondita nel cercare le ragioni del "tiepido" atteggiamento di Pio XII nei confronti del nazismo. Curiosa anche le descrizione che un ex gerarca nazista impenitente fa di Hitler e di Eva Braun. Al di là di tutto la domanda iniziale che l'autrice fa (come può una persona "normale" rendersi responsabile dell'omicidio sistematico e a sangue freddo di tanti esseri umani, compresi i bambini che potrebbero essere suoi figli, e le donne, che potrebbero ricordare una madre o una moglie) resta senza una risposta definitiva. Stangl (così come tanti altri che hanno lavorato nei campi di sterminio o nel famigerato progetto T4 in cui il regime ha iniziato a "formare" i suoi uomini all'eutanasia dei minorati fisici o mentali, anche questo citato nel libro) non era uno psicopatico, anzi ha tutte le caratteristiche del buon padre di famiglia, attento e premuroso con moglie e figli. Quella che viene elevata sempre a motivazione (la necessità di eseguire gli ordini e il timore di ritorsioni del regime sulla carriera e la famiglia o il ricatto psicologico di essersi già macchiati di un crimine la prima volta che si è stati spinti a commetterlo) cade davanti all'evidenza di centinaia di migliaia di persone inermi trucidate e ridotte in cenere e in un passo dell'intervista Stangl si lascia sfuggire qualche parola che rende chiaro il suo profondo disgusto per una razza inferiore. Luca Cremonesi durante la discussione ci ha ricordato che il nazismo è sorto in Germania quando era il paese intellettualmente più avanzato al mondo e fonda le sue radici filosofiche sulla convinzione che il tempo è finito perchè ormai l'uomo ha raggiunto la sua perfezione, la sua massima espressione. Questo fa ancora più paura perchè indica che la conoscenza e la cultura possono essere completamente staccati dalla coscienza del valore della vita umana.

Era di un'importanza essenziale, pensavo, prima che fosse troppo tardi, cercare almeno una volta, con atteggiamento per quanto possibile equanime e spregiudicato, di penetrare la personalità di un uomo che era stato così profondamente coinvolto nel male più totale che la nostra epoca abbia prodotto. Era importante, pensavo, chiarire le circostanze che l'avevano portato a questo, non dal nostro punto di vista, ma, una volta tanto, dal suo. Era un'occasione da non perdere, pensavo, per valutare - esaminando le sue motivazioni e le sue reazioni come lui stesso le descriveva, anziché come noi, nel nostro pregiudizio, desideravamo o pensavamo che fossero - se il male emerga dalle circostanze o per nascita, e fino a che punto sia determinato dall'individuo stesso o dal suo ambiente. Stangl era l'ultimo, e in definitiva l'unico, uomo di questo particolare calibro, col quale si poteva tentare un simile esperimento.
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Uomini come Bouhler, Brack e Blankenburg (ora morti) e alcuni altri, e i 'luminari' della medicina che a suo tempo prestarono il loro nome a quest'attività, in particolare gli psichiatri professor Nitsche, professar Heyde e dottor Mennecke, furono i cosiddetti 'assassini da tavolino'. Nessuno di loro, né degli appartenenti agli uffici del T4, commise mai un assassinio di propria mano. E alcuni di loro - almeno all'inizio di queste spaventose imprese - sembra credessero sinceramente che un 'misericordioso' programma di eutanasia era giustificato: una persuasione condivisa dalle molte persone perfettamente onorevoli che oggigiorno propongono di legalizzare l'eutanasia su richiesta.
Ma una volta creati questi 'istituti ' di eutanasia, nessuno nella Cancelleria del Fuhrer o al T4 poteva continuare a nutrire illusioni; era evidentissimo che tutto quello che succedeva non era certo un 'suicidio facilitato', o l'uccisione misericordiosa di malati gravemente sofferenti, su richiesta loro, o di loro parenti, per ragioni terapeutiche ', ma un assassinio legalizzato, commesso per ragioni economiche- e più tardi politiche ... E anche su questo piano, la sua 'legalità' era soltanto una pseudo-legalità.
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In Mein Kampf, scritto nel 1923, Hitler aveva già concepito l'idea di una nuova Europa basata su teorie razziste, secondo cui quella dell'Europa Orientale avrebbe dovuto diventare una «popolazione di servizio » a beneficio delle «razze superiori » (oltre alla Germania, la Scandinavia, l'Olanda, una parte della Francia, e la Gran Bretagna). Anche se non vi fosse stata nessuna guerra, o se la Germania avesse vinto la guerra dopo la caduta della Francia nel 1940, le condizioni per attuare questo programma sarebbero state create ugualmente. Sarebbe risultato ugualmente necessario uccidere o, nell'ipotesi migliore, sterilizzare, tutti coloro che nell'Europa Occidentale avrebbero potuto con tutta probabilità opporsi: gli intellettuali e l'élite sociale e religiosa. Bambini razzialmente 'puri'sarebbero stati ugualmente spediti in Germania da piccolissimi, e allevati da genitori adottivi tedeschi, o in istituti tedeschi. (In realtà, durante la guerra si ebbe un inizio di questa particolare fase, quando duecentomila bambini polacchi furono portati via a forza ai loro genitori. Un gran numero di essi furono restituiti alla Polonia attraverso l'azione dell'UNRRA nel 1945-46, ma non tutti vennero ritrovati).
La nuova Europa di Hitler era interamente basata su questo concetto dei popoli superiori e inferiori. Sia con annessioni, sia con la guerra, egli era determmato a creare le condizioni per attuare la decimazione dell'Europa Orientale. Così pure, guerra o non guerra, poiché non si offriva nessun'altra soluzione pratica, a suo tempo avrebbe dovuto trovare i modi per sterminare fisicamente gli ebrei; la sola logica conclusione della campagna di diffamazione psicologica sulla quale la maggior parte del suo programma si basava. I campi di ' concentramento ' in origine furono creati come vasti luoghi di detenzione per chiudervi coloro che si opponevano al Nuovo Ordine, e per eliminarli, con una parvenza di legalità, come' traditori' o' spie', se la loro ' rieducazione ' si dimostrava impossibile.
Dal 1941, la maggior parte di questi campi diventarono vasti mercati di lavoro schiavistico, ma anche allora variavano assai per grado di severità, largamente in dipendenza della nazionalità dei prigionieri che ospitavano. E anche nel peggiore di essi, per quanto terribili ne fossero le condizioni, v'era almeno una tenue possibilità di sopravvivenza.
Nei campi di 'sterminio', tale possibilità non esisteva. Erano creati con l'unico scopo di stermmare gli ebrei d'Europa, e gli zingari. Di questi campi destinati esclusivamente allo sterminio ve ne furono quattro; il primo, il campo-pilota di Chelmno (Kulmhof), fu costruito nel dicembre del '41. Poi, dopo la Conferenza del Wannsee del gennaio 1942, che, presieduta da Reinhardt Heydrich, diede la sanzione ufficiale al programma di sterminio, Belsec (marzo.1942), Sobibor (maggio 1942), e il più grande di tutti, Treblinka (giugno 1942). Tutti entro un raggio di duecento miglia da Varsavia.
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Anche i campi di concentramento avevano furgoni a gas, camere a gas, crematori, e fosse comuni. In essi, le vittime venivano anche fucilate, gli venivano praticate iniezioni mortali e, oltre a essere assassinate, a centinaia di migliaia morivano di esaurimento, di fame, e di malattie. Ma - perfino a Birkenau, la sezione di sterminio di Auschwitz (dove si ritiene siano stati uccisi ottocentosessantamila ebrei 4bis) - in tutti c'era una speranza di sopravvivere.
Nei campi di sterminio, gli unici che mantennero questa speranza di giorno in giorno furono i pochissimi che erano tenuti come 'ebrei da lavoro' per il funzionamento del campo. Complessivamente, ottantadue persone - tra di esse nessun bambino - sopravvissero ai quattro campi di sterminio nazisti in Polonia.
Ma non fu soltanto la politica che vi era sottesa che distinse lo sterminio mizista degli ebrei dagli altri casi di genocidio. Anche i metodi impiegati furono unici, e ideati in modo unico. Le uccisioni erano sistematicamente organizzate in modo da ottenere la massima umiliazione e disumanizzazione delle vittime prima di ucciderle. Era una politica calcolata, per uno scopo ben preciso, non era l'effetto di 'semplice ' crudeltà o indifferenza: i viaggi nei carri piombati, incredibilmente stipati, senza impianti sanitari, senza mangiare né bere, e immensamente peggiori di qualsiasi trasporto di bestiame;  l'isterismo degli arrivi, le frustate, l'immediata e sempre violenta separazione degli uomini dalle donne e i bambini; la svestizione in pubblico; l'incredibile umiliazione delle ispezioni fisiche interne, in cerca di valori nascosti; il taglio dei capelli e la rasatura delle donne; e infine, la corsa, tutti nudi, nelle camere a gas, sotto le frustate.
« Quale pensava che fosse, a quel tempo, la ragione dello sterminio degli ebrei? » domandai a Stangl. «Volevano i loro soldi» rispose subito. «Ha idea delle somme fantastiche che rese? È con quei soldi che si comprava l'acciaio in Svezia ».
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Era una giornata di freddo intensissimo - nonostante gli stivali foderati di pelliccia, ben presto mi sentii i piedi gelati. Dopo circa mezz'ora di girovagare per il campo ciascuno per conto proprio, Wanda e io ci trovammo faccia a faccia in mezzo agli alberi. «I bambini!» proruppe; esattamente le stesse parole che opprimevano il mio animo: « Oh, mio Dio, i bambini, nudi, in questo freddo terribile!». Restammo in silenzio per un lungo momento, nel punto in cui loro avevano dovuto stare in piedi, in attesa che quelli che li precedevano fossero morti; in attesa del loro turno. Spesso, mi era stato detto, i loro piedi nudi si congelavano nel terreno, in modo che quando le fruste degli ucraini da ambo i lati del sentiero cominciavano a spingerli avanti, le loro madri dovevano strapparli dal suolo... Standocene lì, era insopportabile ricordare queste cose, eppure, Wanda e io sentivamo che questo sforzo deliberato di visualizzare la realtà di un inferno che nessuna di noi poteva veramente condividere, era nostro dovere compierlo - era il minimo che potevamo fare.
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La voce gli si fece roca, il volto assunse un'espressione volgare e diventò di un rosso scuro. « Mi recai a Treblinka in macchina, con un autista delle SS » disse. « Si sentiva il fetore a chilometri di distanza. La strada correva lungo la ferrovia. Quando fummo a una ventina di minuti di macchina da Treblinka, cominciammo a vedere dei cadaveri lungo la linea ferroviaria, prima soltanto due o tre, ma continuarono ad aumentare a mano a mano che ci avvicinavamo alla stazione di Treblinka; ce n'erano a centinaia - sparsi sul terreno - e, evidentemente, erano lì da giorni e giorni, con quel calore. Alla stazione c'era un treno pieno di ebrei, alcuni morti, altri ancora vivi ... Anche questo aveva l'aria di esser lì da giorni».
«Ma tutto questo non era uno spettaco lo nuovo, per lei. Aveva già visto una quantità di questi trasporti a Sobibor, non è vero?».
«Nulla di simile a questo. E a Sobibor - come le ho detto - a meno che uno lavorasse nella foresta, si poteva vivere senza vedere effettivamente quello che succedeva; la maggior parte di noi non vide mai nessun morto né moribondo. Treblinka, quel giorno, fu la cosa più orribile che io abbia visto per tutta la durata del Terzo Reich ». Si nascose la faccia tra le mani.
« Era l'inferno di Dante » disse, di tra le dita. « Era un Dante materializzato. Quando entrai nel campo e scesi dalla macchina sul piazzale mi trovai affondato fino al ginocchio nel denaro; non sapevo dove voltarmi, dove andare. Camminavo su biglietti di banca, sulle pietre preziose, sui gioielli, sugli indumenti. Erano dappertutto, disseminati su tutto il  piazzale. Il fetore era indescrivibile. Dappertutto corpi che si andavano decomponendo, putrefacendo, a centinaia, a migliaia. Al di là del piazzale, nei boschi, poche centinaia di metri al di là del filo spinato, lungo tutto il perimetro del campo, v'erano tende, fuochi di bivacco, con gruppi di guardie ucraine e di ragazze - puttane, scoprii in seguito, di tutta la zona -, che si sborniavano, ballavano, cantavano, suonavano ... ».
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« La mattina dopo - 22 agosto - sul presto, il nostro treno è stato dirottato su un altro binario, proprio lungo la piattaforma di carico, ed è stato allora che abbiamo saputo che quella gente era un trasporto di ebrei. Ci chiamavano, e ci hanno detto che stavano viaggiando da due giorni senza cibo né acqua. E poi, quando sono stati caricati su carri bestiame, abbiamo assistito alle scene più spaventose. I cadaveri di quelli che erano stati ammazzati la sera prima venivano gettati dalla polizia ausiliaria ebraica su un camion che ha fatto la spola quattro volte. Le guardie - delle SS ucraine volontarie, alcune delle quali ubriache - ammucchiavano. centottanta persone in ogni vagone. « Le contai » mi disse Herr Pfoch, i genitori in uno, i bambini in un altro. Non si facevano nessuno scrupolo di separare le famiglie. Urlavano, sparavano, picchiavano la gente col fucile, con tanta forza che a volte ne spaccavano il calcio. Quando alla fine tutti quanti furono caricati, si sentivano venire delle grida da tutti i vagoni. "Acqua!" imploravano. "Do' il mio anello d'oro per un po' d'acqua!". Altri ci hanno offerto cinquemila zloty (duemilacinquecento marchi) per una tazza d'acqua. Alcuni che hanno cercato di venire fuori attraverso i buchi di ventilazione sono stati immediatamente uccisi nel momento in cui toccavano terra, un massacro che faceva male al cuore, un bagno di sangue quale non avrei mai sognato. Una madre salta giù col suo bambino, e guarda con calma il fucile puntato contro di lei - un momento dopo sentiamo la guardia che li ha uccisi tutti e due vantarsi coi suoi compagni che era riuscito a "farli fuori" tutt'e due con un solo colpo che ha attraversato la testa di entrambi ».
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<< Quando finalmente il nostro treno lascia la stazione, scrisse Pfoch << almeno cinquanta morti, donne, uomini e bambini, alcuni dei quali completamente nudi, giacciono lungo i binari. Abbiamo visto la polizia ebraica portarli via - ogni sorta di valori scompariva nelle loro tasche. A suo tempo, il nostro treno ha seguito l'altro treno, e abbiamo continuato a vedere cadaveri da entrambi i lati del binario - bambini e altri. Dicono che Treblinka sia un 'campo di spidocchiamento '. Quando arriviamo alla stazione di Treblinka, il treno è di nuovo accanto al nostro- c'è un odore tremendo di corpi in  decomposizione, alcuni di noi vomitano. Le implorazioni per un po' d'acqua aumentano, le sparatorie indiscriminate delle guardie continuano ... Qui ne sono stati riuniti trecentomila » continua Pfoch (e dobbiamo ricordare che questo diario fu scritto nell'agosto 1942): << ogni giorno dieci o quindicimila vengono gasati e bruciati.
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« La nostra vita quotidiana? Era in ogni senso regolata,e assai particolare. V'erano alcune cose assolutamente essenziali al fine della sopravvivenza: era essenziale riempirsi completamente della determinazione di sopravvivere; era essenziale creare in se stessi una capacità di dissociarsi in una certa misura da Treblinka; era importante non adattarsi completamente a essa. Un completo adattamento significava accettazione. E nel momento stesso in cui uno accettava, era moralmente e fisicamente perduto. «Naturalmente, furono molti quelli che soccombettero: ho letto praticamente tutto ciò che è stato scritto su questo argomento. Ma in qualche modo, nessuno sembra aver capito: non era la spietatezza, che permetteva all'individuo di sopravvivere, era una qualità indefinibile - non peculiare agli individui colti o raffinati. Chiunque poteva possederla. Una specie di inestinguibile sete di vita - è forse questa la migliore definizione che si possa darne - o magari, una sorta di talento per la vita, e una fede in essa ... ».
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Emerge con grande chiarezza che a Treblinka Berek Rojzman continuò con le stesse tecniche di sopravvivenza che aveva già messo in pratica fuori. « Io commerciavo » disse, con un sorriso. «Più che altro con gli ucraini. Era gente d'affari: volevano oro, vestiti, oggetti, e roba da mangiare. D'altra parte, quando noi eravamo a corto, loro potevano avere roba da mangiare dai contadini, in cambio di oro o di denaro, e ce la portavano. Funzionava, » disse «funzionava benissimo. Erano come tutti: commerciavano ».
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«Sarebbe giusto dire che alla fine sentiva che in realtà quella gente non erano esseri umani? ».
«Una volta, anni dopo, in Brasile, ero in viaggio, » disse, con un'espressione profondamente concentrata, e rivivendo evidentemente quell'esperienza «il mio treno si fermò accanto a un mattatoio. Il bestiame nei recinti, all'udire il rumore del treno, trottò avvicinandosi alla barriera per guardare il treno. Erano vicinissimi al mio finestrino, si spingevano l'un l'altro e mi guardavano attraverso la barriera. In quel punto pensai: " Guarda, mi ricorda la Polonia; era proprio così che appariva, la gente, piena di fiducia, un momento prima che finisse nelle scatole ... " ».
«Nelle "scatole", ha detto?» lo interruppi. « Che cosa intende dire?». Ma lui proseguì senza rispondermi, come se non mi avesse udito. « ... dopo d'allora, non riuscii più a mangiare carne in scatola. Quei grossi occhi ... che mi guardavano ...senza sapere che di lì a poco sarebbero stati tutti morti ». Fece una pausa. Aveva il volto tirato. In quel momento sembrò vecchio, esausto, vero.
« E così, sentiva che non erano esseri umani? » . «Bestiame» disse con voce atona. « Semplicemente del bestiame » alzò una mano e poi la lasciò ricadere in un gesto di disperazione. Le nostre voci erano cadute a un tono basso. Fu una delle poche volte, in quelle settimane di conversazioni, che non fece alcuno sforzo per mascherare la sua disperazione, e questo suo dolore disperato mi suscitò un attimo di simpatia.
« Quando pensa che cominciò a sentirli come bestiame? Da come parlava poco fa, del giorno in cui arrivò a Treblinka, dell'orrore che provò vedendo quei cadaveri dappertutto - allora, non erano ' bestiame ' per lei, non è vero? ». « Credo che cominciò il giorno in cui vidi per la prima volta il Totenlager di Treblinka. Ricordo Wirth lì in piedi, accanto a quelle fosse piene di cadaveri lividi, nerastri. Non aveva più nulla a che fare con l'umanità... era una massa... una massa di carne che imputridiva. Wirth disse: " Che cosa dobbiamo farne di questo letame?". Credo che inconsciamente fu da quel momento che cominciai a considerarli come bestiame ». « V'erano tanti bambini, non le fecero mai pensare alle sue bambine, a come lei si sarebbe sentito se fosse stato al posto dei loro genitori? ». « No, » disse lentamente « non posso dire di aver mai pensato a una cosa simile». Fece una pausa. «Vede, » riprese dopo un poco, sempre parlando con quell'estrema serietà, e con l'evidente scopo di trovare in se stesso una nuova verità « raramente li vedevo come individui. Per me era sempre e soltanto un'enorme massa. A volte stavo in piedi sopra il muro, e li vedevo nel tubo. Ma - come posso spiegarlo - erano nudi, assiepati, e correvano sotto le sferzate ... » non fini' la frase. (« Stangl spesso saliva in piedi sul muro di terra che divideva i due campi» disse Samuel Rajzman a Montreal. «Se ne stava lassù, come Napoleone che guardasse i suoi dominii » ). «E non avrebbe potuto cambiare nulla, di questo? »
domandai. «Nella sua posizione, non avrebbe potuto far smettere la svestizione, le frustate, l'orrore di quei recinti». « No, no, no. Era quello il sistema.
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«Quale pensava che fosse) a quell)epoca) la ragione di quegli sterminii? ».
La sua risposta fu pronta: «Volevano i soldi degli ebrei ».
«Non lo dirà sul serio!».
Rimase sbalordito da questa mia reazione d'incredulità. « Ma naturalmente! Ha idea di quali fantastici capitali si trattava? È con quei soldi che cqmpravano l'acciaio in Svezia». «Ma ... non tutti erano ricchi. Solo a Treblinka furono uccisi almeno novecentomila ebrei ... (e più di tre milioni in totale sul suolo polacco) nei campi di sterminio e di concentramento. Centinaia di migliaia di loro provenivano dai ghetti dell'Est) gente che non aveva nulla ... ».
«Nessuno non aveva nulla» disse. «Tutti avevano qualcosa». « Perfino quelli dell'estremo est della Polonia, i più poveri, portavano qualcosa» disse Richard Glazar.
« Ricordo di aver lavorato sui loro indumenti: portavano giacche imbottite come i coolies cinesi. Era spaventoso maneggiare quella roba piena di pidocchi- addirittura bianca di pidocchi lungo le cuciture. Una volta stavo per infilare una di quelle giacche in un fagotto e qualcuno disse : "Un momento!". La sventrò, e appiccicati l'uno all'altro, dentro l'imbottitura, v'erano dozzine e dozzine di biglietti da cento dollari. Un'altra volta, entra una SS con un cestino pieno di roba da mangiare. "Tirati su le maniche," mi disse " e affonda la mano sino in fondo ". Io feci così. Era pieno - fino al gomito - di dollari d'oro'.
« La questione razziale '' disse Stangl « era soltanto secondaria. Altrimenti, come avrebbero potuto esservi tanti ariani onorari '? Si diceva che il generale Milch fosse ebreo». «Se la questione razziale era così secondaria perché allora tutta quella propaganda di odio?''·
« Per condizionare quelli che dovevano mettere in atto quella politica; per rendergli possibile di fare ciò che facevano ».
« Bene lei prese parte all'attuazione di questa politica: provava quell'odio?».
«Non l'ho mai provato. Non avrei mai permesso a nessuno di ordinarmi chi dovevo odiare. Comunque, le sole persone che avrei mai potuto odiare sarebbero state quelle che volevano distruggermi - come Prohaska
«Che differenza c'era per lei tra l'odio e il disprezzo implicito nel fatto di considerare della gente come 'bestiame'? ».
«Non ha niente a che fare con l'odio. Erano così deboli; si lasciavano fare qualunque cosa. Era gente con la quale non c'era alcun terreno comune, nessuna possibilità di comunicazione - è di qui che sorge il disprezzo, non potevo capire come potessero arrendersi a quel modo. Molto di recente ho letto un libro sui conigli delle nevi, che ogni cinque o sei anni si gettano in mare per morire; mi ha fatto ripensare a Treblinka ».
« Se non provava un irresistibile senso di lealismo verso il Partito o le sue idee a che cosa credeva durante tutto quel tempo in Polonia?».
« Nella sopravvivenza' rispose immediatamente. « In mezzo a tutte quelle morti, alla vita. E ciò che mi sosteneva di più era la mia fondamentale fede nell'esistenza di una giusta retribuzione».
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Il Papa era certo - come lo era stato, fino a un certo punto, il suo predecessore, papa Pio XI (il quale, peraltro, era stato assai più critico nei confronti dei nazisti) - che i tedeschi sotto Hitler rappresentavano il principale baluardo contro il bolscevismo in Europa. E questa convinzione - che non era stata scossa dal patto russo-tedesco, che, con la sua esperienza diplomatica, doveva aver riconosciuto come una manovra tattica - fu determinante per la maggior parte delle sue azioni e inazioni durante gli anni di guerra. La seconda importante componente della condotta del Papa mi sembra sia stata il suo timore che i nazisti intendessero spazzar via il cattolicesimo in Germania. Imponendo misure restrittive alle organizzazioni della Chiesa (sia protestante sia cattolica), e con una costante azione di ricondizionamento delle menti dei giovani, abolendo le scuole e le pubblicazioni cattoliche, i nazisti si muovevano, con cautela, ma si muovevano. Benché, in realtà, pochissimi preti, sia tedeschi che austriaci, e non un solo vescovo cattolico, in tutta l'Europa occidentale, fosse mai stato arrestato o molestato dai nazisti (a differenza di un gran numero di religiosi polacchi imprigionati), le misure prese dai nazisti dal 1934 in poi costituivano una chiara indicazione della direzione in cui si stavano muovendo. La gravità di questa minaccia è vividamente illustrata da uno degli ultimi dei circa cinquecento libri, rapporti, pamphlet, e documenti, che io ho letto nei tre anni impiegati nella preparazione di questo libro. Si tratta del riassunto di una lettera spedita da Martin Bormann al Gauleiter dottor Meyer di Miinster in data 6 giugno 1941; una lettera che può spiegare in larga misura il silenzio di Pio XII di fronte agli orrori nazisti, e può perfino giustificare in parte i suoi più profondi timori. Vi furono due versioni di questa lettera: quella che Bormann scrisse in un primo tempo, evidentemente di sua propria iniziativa, e quella pubblicata successivamente (probabilmente nell'autunno del 1941) e inviata come circolare a tutti i Gauleiter. Le testimonianze ai processi di Norimberga indicarono che queste due versioni, che si distinguono soltanto per piccole differenze stilistiche, furono infine ritirate, con l'ordine di distruggerle. A quanto pare, fu una copia illegale di questa lettera, fatta per la preparazione di un manifestino che doveva essere lanciato dagli aerei, che fu accettata come prova dalla corte (documento di Norimberga).La lettera, intitolata « Rapporti tra il nazionalsocialismo e il cristianesimo», è un'attenta e acuta analisi di tutte le forme del dogma cristiano, e una raccomandazione per la totale abolizione di tutte le religioni positive, basata sulla logica, il patriottismo, e una sorta di panteismo che molti animi dubbiosi potevano trovare affascinante. È - almeno per quanto a me risulche mai sia stato fatto da un gerarca nazista (e infatti, come abbiamo detto, fu considerato prematuro, e ritirato). Per quanto riservata fosse questa lettera, non v'è il minimo dubbio ch'essa giunse in Vaticano. Come pure non può esservi dubbio che il Vaticano già conoscesse, assai prima di avere questa lettera, che le opinioni in essa espresse erano correnti tra i capi nazisti; questa lettera pertanto deve aver pesantemente sottolineato l'enorme pericolo che il cattolicesimo correva in Germania. La seconda ragione dell'atteggiamento del Papa mi sembra dunque la sua grande preoccupazione del reale pericolo che correva una delle più importanti roccaforti del cattolicesimo in Europa. E, fatalmente connessa con questo timore per il cattolicesimo in Germania, v'era anche la sua valutazione dell'opinione pubblica e dello stato d'animo prevalente tra i cattolici tedeschi. In un articolo su « L'Amitié Judéo-Chrétienne » (del dicembre 1949), Jacques Maudaule scriveva che « ... è quasi impossibile che il Papa esprima un'opinione se non vi è costretto da una sorta di grande movimento d'opinione che sorga dalle masse, e che si comunichi al clero dai fedeli». Poiché, egli dice, « ... (essenzialmente) la Chiesa è una democrazia». Questa spiegazione è d'importanza cruciale. Se l'Episcopato tedesco e austriaco erano persuasi che l' opinione cattolica nella Grande Germania era prevalentemente a favore del nazionalsocialismo, allora, secondo questa tesi, le possibilità d'azione del Papa, determinate da questa opinione pubblica, sarebbero state limitate. Potremmo ribattere - certo, ci verrebbe fatto di ribattere - che se era così, tanto più il pontefice sarebbe stato tenuto a influenzare un atteggiamento che portava, in ultima analisi, a un totale abbandono della morale - ma questo argomento sarebbe destinato alla sconfitta. Sarebbe sconfitto perché i tedeschi - cattolici e non cattolici - erano a favore del nazionalsocialismo, non già perché spinti da sentimenti antisemiti, o da qualsiasi altra riprovevole motivazione. Il nazionalsocialismo era essenzialmente l'affermarsi di un nuovo sistema politico ed economico che - come credeva la grande maggioranza dei tedeschi - avrebbe portato un 'nuovo ordine', di integrità morale, di dignità nazionale, e di equilibrio economico. I suoi elementi pseudomistici furono insinuati nelle masse solo gradualmente, e principalmente a beneficio dei giovani. In teoria, il Vaticano non aveva diritto di interferire nella politica interna della Germania, più di quanto l'avrebbe avuto di interferire nell'organizzazione politica della Gran Bretagna, degli Stati Oniti, o della Francia. Se colleghiamo questo «grande movimento d'opinione», che indicava al Papa che i cattolici tedeschi accettavano il nazionalsocialismo, con la sua conoscenza delle misure prese dai nazisti contro la Chiesa, e del fine a cui miravano queste misure, allora il rifiuto del Papa di condannare le atrocità naziste diviene, se non più giustificabile e accettabile, più faCilmente comprensibile. L'atteggiamento del Papa, insomma, fu determinato, prima dal suo timore del bolscevismo, e in secondo luogo dal suo timore dei piani nazisti di abolire a suo tempo la Chiesa. Egli deve aver sentito che considerata la fondamentale accettazione del nazionalsocialismo da parte della grande maggioranza dei tedeschi: e in particolare lo sconfinato entusiasmo dei giovani, qualunque critica egli avesse fatto alla politica e al comportamento dei nazisti gli avrebbe alienato i cattolici tedeschi, e avrebbe enormemente aggravato - e perfino precipitato- il grande pericolo che correva la Chiesa. (Si ricorderà che il Papa attese fino al giugno 1943 per emanare un'enciclica che condannava l'eutanasia; a quell'epoca egli era stato ovviamente assicurato che il «grande movimento d'opinione» tra i cattolici tedeschi era decisamente contro l'eutanasia). Queste furono dunque le principali ragioni dell'atteggiamento del Papa. Ma ve ne furono altre due. Una fu semplicemente ch'egli era giunto ad amare la Germania. Come disse più volte, era in Germania ch'egli aveva passato i suoi anni più felici, ed era con i tedeschi che aveva avuto in gioventù, e continuò ad avere fino alla morte, i più stretti legami sentimentali. Avendo conosciuto tanti - e così eccellenti - tedeschi, dovette trovare quasi impossibile credere alle terribili storie che cominciò a udire dal momento in cui i tedeschi avevano invaso la Polonia. Ma entro meno di un anno, non furono più semplicemente delle' storie'; egli ricevette rapporti dettagliati, lettere e documenti dolorosamente autentici, ed è qui che dobbiamo accettare l'ultima- e la più odiosa- ragione del suo silenzio. Chiunque abbia letto le lettere di Pio XII ai vescovi tedeschi (e nel tedesco originale la fraseologia è anche più significativa) troverà difficile dubitare che il Papa fosse antisemita. Non dico che questo abbia determinato la sua condotta; quali fossero le sue principali motivazioni è abbastanza evidente. Ma  questo forse istintivo antisemitismo deve aver contribuito alla sua passività nelle molte occasioni in cui - come egli usava dire alludendo alle atrocità naziste, e com'era senza dubbio vero - si sentiva «profondamente turbato». Dopo aver esaminato una volta di più le ragioni del silenzio di papa Pio XII, e sorvolando per il momento sul suo indiscutibile obbligo morale, non possiamo fare a meno di porci la drammatica domanda: se il Papa, fin dall'inizio, avesse preso una decisa posizione contro l'eutanasia, contro il sistematico indebolimento per mezzo del lavoro forzato, la fame, la sterilizzazione e lo sterminio, delle popolazioni dell'Europa orientale, e infine contro lo sterminio degli ebrei, ciò non avrebbe potuto influire sulla coscienza dei singoli cattolici direttamente o indirettamente coinvolti in queste azioni, al punto da indurre i nazisti a cambiare la loro politica? Ho deliberatamente posto questa domanda in una sequenza cronologica poiché a essa si può rispondere soltanto considerando un fatto dopo l'altro. Abbiamo visto nelle pagine precedenti, sulla base di documenti e di eventi, come Hitler fosse profondamente consapevole dell'importanza dell'opinione cattolica. E abbiamo visto, dalle dichiarazioni di personaggi interessati, come Stangl e sua moglie, fino a che punto la tacita approvazione della Chiesa contribuì alla pacificazione delle loro coscienze. Credo si possa fare un valido parallelo tra la graduale acquiescenza di Stangl (un'acquiescenza individuale) e quella del Vaticano (fondamentalmente un'altra acquiescenza individuale) alle azioni sempre più terribili. L'aver mancato di dire « no » fin dal principio, fu fatale; ogni passo successivo, infatti, non fece che confermare il fondamentale cedimento morale iniziale. È tragicamente vero che quando ormai i campi di sterminio furono pronti per l'assassinio in massa degli ebrei polacchi (non si deve dimenticare che le grandi potenze mondiali avevano dimostrato chiaramente la loro incapacità e contrarietà ad affrontare questa colossale catastrofe) una protesta papale, per quanto imperativa dal punto di vista morale, non avrebbe potuto più avere alcun effetto pratico. Ma è altrettanto indubitabile che una presa di posizione inequivoca, e ampiamente pubblicizzata, assunta alle prime voci di eutanasia, e accompagnata da una minaccia di scomunica per chiunque partecipasse a qualunque volontaria azione di assassinio, avrebbe fatto del Vaticano un fattore formidabile col quale fare i conti, e avrebbe almeno in certa misura - e forse profondamente - influenzato gli eventi successivi: l'assassinio di milioni di civili russi, sia cristiani che ebrei; il martirio dei cattolici polacchi, e infine quello degli ebrei polacchi. La questione dell'atteggiamento del Papa ha purtroppo avuto un peso anche sugli eventi del dopoguerra. Infatti non è possibile evitare di pensare ch'esso abbia influenzato le azioni e le autogiustificazioni dei prelati di Roma che prestarono un importante aiuto alla fuga dei nazisti.
Avevo raccolto con considerevole scetticismo le voci secondo le quali alcuni preti avevano scientemente aiutato a sfuggire alla giustizia secolare degli uomini ch'erano accusati di questi crimini così mostruosi. Una simile condotta era contraria a tutto ciò che avevo visto con i miei occhi nella Francia occupata, dove praticamente tutto il clero, dagli arcivescovi al più umile curato di campagna, e al più giovane novizio di convento, diede prova costante dei più alti princìpi morali e umanitari. E contrastava anche con quanto avevo appreso immediatamente dopo la guerra da molti profughi, compresi ebrei di tutte le nazionalità, che si erano salvati la vita grazie all'aiuto di preti e di monache. È naturalmente vero, e spesso dimenticato e minimizzato che, in ultima analisi, tutto ciò che si fa è fatto da singoli uomini e donne, con singole capacità di decisione. Qualunque sia la fede religiosa a cui appartiene un prete, un pastore, un frate o una monaca, rimane un individuo e - e questo è un fatto essenziale - un cittadino del suo paese d'origine. È vero che molti preti - particolarmente polacchi - morirono in campo di concentramento per le loro convinzioni religiose, e il loro martirio non ha nulla a che fare con la loro nazionalità. Santi uomini come questi vi sono stati in tutte le epoche. Ma durante il periodo di cui stiamo parlando, furono assai più numerosi i religiosi che agirono contro i tedeschi almeno in parte per ragioni di patriottismo personale. Un gran numero degli eroici preti e pastori francesi, belgi, italiani, olandesi, norgevesi, danesi, cèchi, e polacchi, che nascosero aviatori alleati, che aiutarono le organizzazioni clandestine, che fecero funzionare radiotrasmittenti, che aiutarono tedeschi antinazisti a nascondersi in mezzo alle popolazioni locali, agivano innanzitutto per amore del loro paese, piuttosto che per la loro Chiesa. Molti di loro l'hanno ammesso apertamente. In tutta l'Europa, dei bambini ebrei furono nascosti dalle monache nei conventi. Nella Francia occupata, ho conosciuto diverse di queste nobili donne, e più di una volta, quando rilevai il loro coraggio, ricevetti la risposta: «Mais je suis française, à la fìn ». Quei religiosi tedeschi e austriaci che durante la guerra agirono contro le leggi del loro paese, fatto abbastanza straordinario, sono soltanto eccezioni che confermano la regola. Ho parlato anche con alcuni di costoro, e ciascuno di questi ammirevoli uomini e donne mi ha parlato di lotte di coscienza, e di una decisione presa come individui che non potevano accettare quel ' governo, e le ' sue ' leggi, quali rappresentanti dei veri interessi del paese. E così, anche costoro agirono principalmente quali cittadini moralmente offesi, che erano anche preti, monache, e pastori. Se, naturalmente, accettiamo questi lealismi nazionali nell'ambito delle Chiese, come inevitabili e giusti in simili circostanze, allora ne segue che fu non meno giusto per dei preti tedeschi e austriaci aiutare tedeschi e austriaci in generale che dopo la guerra si trovarono in gravi difficoltà. E così, torniamo alla questione centrale, quella che immancabilmente torna a spuntare in tutte queste polemiche a proposito dell'atteggiamento della Chiesa cattolica durante quel periodo: fino a che punto sapevano?
Ci hanno detto che la Chiesa non sapeva niente dell'intenzione dei nazisti di istituire l'eutanasia nel 1939, anche se un teologo morale, che a quell'epoca era professore in una università cattolica (della quale in precedenza era stato rettore) lavorò per sei mesi a un'Opinione che gli era stata commissionata ufficialmente. Ci hanno detto che il Papa non poteva protestare contro lo sterminio degli ebrei nella Polonia occupata dai nazisti, poiché - anche se gli erano giunte voci di questi orrori - non lo sapeva con certezza. E ci hanno detto che, pur ammettendosi che dopo la disfatta tedesca importanti capi nazisti fuggirono all'estero attraverso Roma, la loro identità non era nota a coloro che li aiutavano.
Io ero pronta a farmi convincere di tutte queste affermazioni, ma su tutte quante la prova del contrario è schiacciante.
Per quanto riguarda le fughe, anche se non si presta fede a nessuna o a quasi nessuna delle storie drammatiche che sono state raccontate, e anche se si è disposti ad attribuire la maggior parte degli aiuti dati da Roma a motivi umanitari perfettamente legittimi, rimane tuttavia una quantità di fatti incontrovertibili che provano che, a parte le attività sinceramente caritatevoli del clero romano, vi fu, da parte di alcuni prelati (quasi tutti tedeschi e austriaci), uno sforzo deliberato per aiutare specifici individui che erano particolarmente implicati nei crimini nazisti. Per amore di giustizia, tuttavia, va riconosciuto un altro fatto: di tutta l'Europa coinvolta dalla guerra, Roma - principalmente a causa del Vaticano - fu la città più protetta contro scoperte azioni terroristiche da parte dei tedeschi. Non intendo minimizzare la deportazione degli ebrei romani nel 1943-44, ma a Roma non vi furono mai i continuati e incessanti orrori che vi furono altrove. Al popolo di Roma, compresi i religiosi, furono in certa misura risparmiate le esperienze di coloro che vissero in mezzo al terrore, di modo che si può concedere almeno in qualche misura una certa ignoranza psicologica a coloro che oggi si difendono con una generica - se non specifica - ignoranza. Così pure - e anche questo, nella valutazione dei fatti, a me sembra un elemento d'importanza cruciale - gran parte dell'iniziativa, e la responsabilità finale della fuga e della successiva vita oltremare, ricade sui fuggiaschi stessi. La prova migliore di questo sta nella vita relativamente modesta che hanno condotto nei paesi in cui si rifugiarono coloro di cui oggi sappiamo veramente tutto (non per sentito dire, o per aver letto storie più o meno romanzate). A me pare che la fuga di Stangl - e gli eventi che la precedettero- come li hanno descritti lui stesso, sua moglie e una quantità di altre persone direttamente o indirettamente implicate, forniscono un esempio significativo in base al quale si possono misurare altre storie analoghe, forse meno ben controllate.
[..]
Il dottor Dollmann è uno dei rari tedeschi che non abbia mai negato la sua appartenenza al partito nazista - anzi, si fa un punto d'onore di non mostrarsene affatto pentito. Aveva settantadue anni, quando lo conobbi, nel 1972, nell'elegante residence di Monaco, Das Blaue Haus, dove vive, da civilissimo scapolo, in compagnia del suo bel cane. Il dottor Dollmann sembra molto più giovane della sua età- pur non essendo alto, ha un portamento molto eretto - indossa abiti di taglio squisito, ed è un intenditore d'arte e di antichità. Durante il periodo che passò a Roma come interprete di Hitler, egli fu anche l'interprete di tutti gli altri tedeschi importanti in visita a Roma- Himmler, Heydrich, Goering, diplomatici, e generali delle SS. Assisté a tutte le più importanti conferenze italo-tedesche, a Roma e a Berlino, e fu diverse volte ospite di Hitler al Berghof. Non ha ragione di negare la sua adesione al Partito: evidentemente, egli non fece mai nulla al di fuori del suo prestigioso incarico che - visto ch'egli sembra essere stato il confidente di tutti - fu gratificante non meno che stimolante. Sia nel suo libro The Interpreter sia con me, non ha fatto mistero di quanto fosse contento della propria vita. «Il mio libro non è mai stato pubblicato in tedesco» disse. «Non osano». Leggendolo, non si vede chiaramente il perché non oserebbero, a parte forse il fatto che coloro cui piace pensare che il mondo nazista fosse un po' più intrepido ne resterebbero alquanto delusi. Il quadro che Dollmann dipinge - estremamente bene della vita di Roma durante la guerra, è senza dubbio diverso da quello descritto da altri, e il suo ritratto di Hitler, per dire il meno, è insolito. « Naturalmente,» disse.« la mia vita in quegli anni non fu molto diversa da quella che facevo in tempo di pace. In realtà, non avevo di che lagnarmi. Avevo il mio delizioso appartamento a Roma; avevo innumerevoli e altrettanto deliziosi amici italiani. E tra i tedeschi - be', sceglievo i miei amici, come chiunque farebbe. Ovviamente, si poteva stare veramente soltanto con quelli forniti di senso dell'umorismo. Come lei sa, questo costituisce una limitazione notevole, tra i tedeschi. Pure, qualcuno ce n'era». A quanto pare, anche dopo la disfatta della Germania, la vita del dottor Dollmann è continuata piuttosto piacevolmente. « Quando cominciò a far caldo, » disse « mi nascosi. Rimasi nascosto per un anno in un convento a Milano. Naturalmente, io non avevo fatto niente - ma, d'altra parte, avevo indossato quell'uniforme. Perciò, sulla carta, dopotutto, ero stato nelle SS. E lei sa che cosa voleva dire questo quando arrivarono gli Alleati. Perciò andai a stare dal cardinale di Milano. Fu un anno simpatico. Il cardinale veniva ogni sera a trovarmi nella mia stanza - la mia cella- e diceva: "Ora, beviamo un bicchier di vino insieme", e ci mettevamo a parlare di arte, di musica, e di gente - le cose che contano. « Mi hanno sempre divertito le sciocchezze che la gente va dicendo a proposito di Hitler » disse. « Tutto quel gran parlare dei suoi accessi di collera, del fatto che si metteva a spaccare i vasi, e a mangiare i tappeti. Quando alla fine mi presentai agli americani, dopo essere stato nascosto per tutto quell'anno - una fretta eccessiva di costituirmi non sarebbe stata opportuna - ascoltarono la mia storia, e poi scrissero una dichiarazione e mi chiesero di firmarla. Io cominciai a leggerla, e loro dissero che non era affatto necessario. Ma io dissi che leggevo sempre tutto ciò che dovevo firmare. Alla fine avevano scritto che io avevo detto di aver visto Hitler in preda a quei folli accessi di collera, lanciare i vasi, masticare i tappeti, e altre sciocchezze del genere. E così dissi che non avrei firmato. Dissero ch'erano disposti a pagarmi una somma considerevole in dollari - ma io dissi che non avevo nessun bisogno dei loro dollari, che non avevo mai visto cose di quel genere, e che non avrei firmato. Così dissero che ciò sarebbe andato sicuramente a mio svantaggio - ma lo cancellarono.
«Vede, io non vidi mai Hitler men che cortese. In realtà, in tutte le numerose occasioni sociali in cui gli fui accanto, per consigliarlo, come una sorta di aiutante - tutti i Capi di Stato hanno qualcuno che li consiglia in fatto di etichetta - mai una volta lo vidi fare una mossa falsa. Veramente straordinario,: per un uomo delle sue origini. Parlava con voce molto pacata, timida, e il suo molle accento austriaco aveva un fascino per i tedeschi. [Lord Boothby disse la stessa cosa: «Una voce morbida, esitante, e pensosa». Fu così che descrisse la voce di Hitler]. «Naturalmente, Mussolini era molto diverso. Vede, lui era un vero uomo, un italiano, pieno di vita, di fascino - e anche di cultura. Sì, era un uomo pieno di calore, e di cordialità. Hitler era freddo » disse il dottor Dollmann. « L'atmosfera che creava intorno a sé era gelida. Ma era incredibilmente ricettivo alle informazioni. Domandava e poi ascoltava. Era molto abile nelle chiacchiere salottiere. Una cosa in cui non ci si sarebbe mai aspettati che eccellesse; e che gli piacesse. Quando riceveva la società romana, io dicevo qualche parola tra una presentazione e l'altra, per esempio, questa è la principessa tal dei tali, ha una grande tenuta vicino a Firenze, il marito è nello Stato Maggiore del Duce, questa è la contessa X, cinque figli, s'interessa molto di puericultura, o di giardinaggio, o di zoologia, a seconda dei casi. E lui afferrava subito, e si metteva a conversare in conseguenza. E aveva una memoria fenomenale, mai che dimenticasse una cosa ».
« Che cosa pensa delle voci secondo cui Hitler era omosessuale? » gli domandai. «Be', penso non sia da escludere» disse. «Vede, in tutte le storie del periodo, nessuno ha mai detto come fossero straordinariamente belli tutti i giovanotti della cerchia immediata di Hitler. Non erano dei giovinastri, erano ragazzi assai beneducati e ben imparentati. Avevano l'aria di giovani dèi ».
«Che cosa mi dice di Eva Braun? Ritiene che vi fosse un rapporto normale, fra loro due?». «Non certo un rapporto normale dal punto di vista fisico. Era piuttosto bella, ma terribilmente stupida. Io dovevo fare un programma per lei, quando veniva a Roma con lui; tutto quello che desiderava fare era di vedere negozi, andare in giro a comprare abiti e roba del genere; non sapeva portare niente con eleganza italiana, ma non faceva che comprare. Al Berghof - si, ci sono stato diverse volte -se ne stava lì a contemplare Hitler con uno sguardo adorante; non faceva altro che star lì ad adorarlo. Non sapeva conversare, non aveva un pensiero in testa, era praticamente priva di cervello. Secondo me, era proprio questo che a lui piaceva e cercava in lei; qualcuno al quale non dovesse dir nulla, che fosse semplicemente in adorazione al suo santuario. Credo che questo bisogno sia andato sempre aumentando in lui, a mano a mano che le cose gli andavano sempre peggio.
« Gli ebrei? No, non ho mai udito Hitler pronunciare la parola 'ebreo' in privato, e nemmeno nella conversazione ordinaria. Parlava degli 'Staatsfeinde' [nemici dello Stato], e con questa parola intendeva chiunque fosse contro la Germania, compresi gli Alleati, i russi, eccetera. Ma, come ho detto, mai ch'egli abbia nominato gli ebrei in mia presenza ... Naturalmente,non deve dimenticare che in Italia non v'era in realtà nessun problema ebraico di cui valesse la pena di parlare, e naturalmente erano le questioni italiane che rientravano nella mia competenza come interprete. In Italia v'erano diverse persone di rilievo che erano ebree - industriali, scienziati, scrittori, ai quali naturalmente non successe niente, se ne andarono in tempo, cioè prima del settembre 1943, quando la situazione dell'Italia cambiò da alleata a nazione occupata. Oppure furono nascosti da italiani, spesso in conventi e in monasteri. Perciò per Hitler e Mussolini non vi fu mai nessuna necessità di discutere del problema ebraico. « Non ho mai udito nemmeno Pio XII pronunciare la parola 'ebreo'. Ma d'altronde, lui parlava sempre in termini molto generici: parlava di 'umanità sofferente', di' eccessi', e così via. Al di là di queste espressioni generiche, non specificava mai... Tranne una volta » disse poi. « Ma questo fu molto tardi, nel 1944, in occasione dell'ultima udienza che il generale Wolff ebbe con lui; Pio XII chiese a Wolff di ordinare il rilascio di un giovane, figlio di un suo amico d'infanzia - erano ebrei. E fu fatto immediatamente. Nel corso di quello stesso ultimo colloquio, il Papa chiese che 'tutti gli eccessi' in Italia dovevano cessare immediatamente, e cessarono. Il generale Wolff diramò un ordine secondo cui d'ora innanzi nessuno doveva più essere toccato, e che il cibo e tutto il resto, nelle prigioni e nei campi, dovevano essere migliorati immediatamente. Naturalmente, avrebbe potuto fare una speciale menzione degli ebrei - ma non la fece nemmeno quella volta. « No, non credo proprio che il Papa fosse filonazista. Ma era senza dubbio filotedesco. In senso politico, egli era soprattutto anticomunista, non bisogna dimenticarlo. Fu certamente così fino alla fine '43-inizio '44. Fino ad allora la Germania era apparsa - doveva essergli apparsa - come il principale baluardo contro il comunismo. Io credo che questo fu l'elemento principale che determinò il suo atteggiamento. Sì, v'era, e v'è sempre stato, un latente antisemitismo, in Vaticano. Dopotutto, è l'insegnamento tradizionale cattolico che lo comporta: gli ebrei assassini di Cristo, e così via. Ora quest'atteggiamento è un po' fuori moda. Ma credo perfettamente possibile che abbia influenzato il pensiero e l'azione di Pio XII - magari inconsciamente. Poi, naturalmente, c'era anche la paura: per quanto potente, il Vaticano era in mezzo alla Roma fascista, e in seguito nazista... Comunque, sarebbe stato del tutto impossibile toccare il Papa, prima del settembre 1943; il Duce e gli italiani si sarebbero sempre opposti contro ogni interferenza in Vaticano».
La dichiarazione fatta dal generale Wolff alla stampa a proposito dei piani per arrestare il Papa era stata pubblicata un paio di settimane prima del mio colloquio col dottor Dollmann, e gli domandai che cosa ne pensasse. (A quell'epoca non sapevo che padre Robert Graham aveva fatto una dichiarazione analoga alla stampa). «Se ne parlò, ma non diventò mai un ordine effettivo. Nulla del genere avrebbe potuto esser fatto senza che io ne fossi a conoscenza. Semplicemente non succedeva».
« Fino a che punto sapeva, lei, di ciò che succedeva agli ebrei? ». « C'erano molte voci, nell'ambiente, a proposito dei campi. Ma, ripeto, tutto ciò non riguardava l'Italia, col suo numero relativamente ristretto di ebrei. Noi non sapemmo mai che gli ebrei venivano sterminati in Oriente, non lo sapevamo veramente. Ricordo che dopo la guerra, quando stavo preparando il mio libro, andai a trovare Kesselring. Gli domandai, in tutta onestà, a scopo d'informazione storica: era stato a conoscenza, lui, di questi campi di orrore? E lui disse: "Glielo giuro, non avevo alcun'idea della loro esistenza". Sì, naturalmente, lo so: tutto l'esercito del fronte orientale - soldati, ufficiali, comandi - loro devono averlo saputo; era inevitabile. No, io stesso non riesco a spiegarmi come non si sia risaputo dappertutto. È perfettamente vero, venivano in licenza, ne avranno parlato in giro. Ma il fatto rimane: noi non lo sapevamo. « Ho sempre pensato - come la maggior parte della gente - che il Papa, come tutti gli altri, non avesse nessuna informazione precisa e attendibile sulla precisa natura delle atrocità che venivano commesse contro gli ebrei, né della misura di esse. «Naturalmente se, come lei dice, ora i documenti dimostrano che lui sapeva, se non prima, certo alla fine del 1942, allora tutto il quadro cambia: ci si deve veramente domandare che cosa abbia mai potuto impedirgli di parlare ... ».
[...]
Considerazioni di spazio impediscono la riproduzione di tutti e tre i documenti che mi furono mostrati; ma la prova più incontrovertibile della perfetta conoscenza, da parte del Vaticano, dei metodi e dell'estensione dello sterminio degli ebrei in Polonia almeno dal dicembre 1942, è fornita da uno di essi, la lettera che l'ambasciatore polacco consegnò personalmente al cardinale Tardini il 21 dicembre 1942: « L'ambasciata di Polonia ha l'onore di comunicare alla Segreteria di Stato di Sua Santità le seguenti informazioni provenienti da fonti ufficiali: « I tedeschi stanno liquidando l'intera popolaZione ebraica della Polonia. I primi a esser presi sono i vecchi, gli invalidi, le donne e i bambini; il che prova che queste non sono deportazioni per lavori forzati, e conferma l'informazione che queste popolaZioni deportate sono condotte in installazioni allestite allo scopo, per esservi messe a morte con van mezzi mentre i giovani e gli abili vengono uccisi per fame o per lavori forzati. " Quanto al numero degli ebrei polacchi sterminati dai tedeschi, è valutato a oltre un milione. Nel ghetto di Varsavia soltanto, v'erano alla metà di luglio 1942 circa quattrocentomila ebrei; nel corso di luglio e di agosto, duecentocinquantamila furono portati all'Est; il primo settembre, nel ghetto furono distribuite soltanto centoventimila carte annonarie, e il primo ottobre quarantamila. La ' liquidazione' sta procedendo con lo stesso ritmo nelle altre città della Polonia. «L'ambasciata polacca coglie l'occasione per porgere alla Segreteria di Stato di Sua Santità i sensi della più alta stima.
Vaticano, 19 dicembre 1942 "· (Un'annotazione a mano in polacco, dice: « Consegnata personalmente dall'ambasciatore a monsignor Tardini il 21-11-'42 » ).
[...]
Alla fine delle nostre conversazioni, dissi a Frau Stangl che sentivo il bisogno di rivolgerle una domanda estremamente difficile, e che volevo che lei riflettesse profondamente, prima di darmi una risposta. «È la domanda più importante di tutte quelle che le ho fatto durante queste nostre conversazioni, » le dissi « e per me, la risposta che mi darà determinerà la sua posizione; il grado, scusi se mi esprimo così, della sua colpa personale ». E le suggerii che, prima di rispondermi, mi lasciasse per un poco, si stendesse, e ci pensasse su.
« Vorrei che mi dicesse » dissi « che cosa crede che sarebbe successo se a un certo momento lei si fosse messa di fronte a suo marito imponendogli una scelta assoluta; se gli avesse detto: " Senti, so che è tremendamente
pericoloso, ma, o tu ti tiri fuori da questa cosa terribile, o altrimenti io e le bambine ti lasceremo ". Quello che vorrei sapere » dissi « è: se lei gli avesse posto quest'alternativa, che cosa crede che lui avrebbe scelto?».
Lei se ne andò nella sua stanza e si stese sul letto; sentii cigolare le molle del letto, come lei vi si stese. La piccola casa era in silenzio. Fuori faceva molto caldo, e il soggiorno dove ero seduta in attesa era pieno di sole; rimasi ad aspettare per più di un'ora. Quando lei tornò era pallidissima; aveva pianto, poi si era lavata la faccia, si era pettinata, e, mi parve, si era messa un po' di cipria. Adesso si era ricomposta; aveva preso una decisione - la stessa decisione che suo marito aveva preso sei mesi prima nella prigione di Dusseldorf: aveva deciso di dire la verità. «Ho riflettuto profondamente» disse. «So quello che lei vuole sapere. So che cosa faccio, nel rispondere alla sua domanda. E le rispondo perché me ne ritengo in dovere, ritengo di doverlo a lei, agli altri, e a me stessa, credo che se avessi posto a Paul l'alternativa: o Treblinka o me, lui ... sì... in ultima analisi, lui avrebbe scelto me».
Sentii intensamente che questa era la verità. Io credo che l'amore di Stangl per sua moglie era più grande della sua ambizione, e più grande anche della sua paura. Se lei avesse trovato il coraggio e la forza morale di indurlo a fare una scelta, è vero, magari sarebbero periti tutti, ma, in un senso più fondamentale, lei l'avrebbe salvato.
[...]
Forse, in definitiva, per suo marito era stato più facile dire la verità, poiché credo sapesse che una volta che l'avesse detta sarebbe morto. L'ultimo giorno che passai con Stangl fu la domenica 27 giugno 1971. Per diversi giorni di quella settimana aveva avuto dei disturbi di stomaco, e quel giorno gli avevo portato una minestra speciale in un
thermos - era una minestra austriaca che lui mi aveva detto che sua moglie gli faceva quando non si sentiva bene. Quando tornai alla prigione dopo l'intervallo di mezz'ora per la colazione, lo trovai tutto diverso: sollevato, la faccia rilassata, gli occhi freschi. «Non so dirle come mi sono sentito bene d'un tratto » disse. «Ho mangiato quella meravigliosa minestra, e poi mi sonQ steso un poco. E mi sono riposato così profondamente, come forse mai mi era capitato. Oh, adesso mi sento splendidamente» ripeté. Poiché il tempo che potevo dedicare a queste conversazioni si stava esaurendo, e avevo l'intenzione di tornare ancora soltanto una volta - il martedì successivo per un paio d'ore, per ricapitolare i punti più importanti prima di riprendere l'aereo per Londra- il direttore della prigione mi aveva autorizzata a rimanere più a lungo del solito, quella domenica. Quel pomeriggio passammo quattro ore insieme, ritornando su molte questioni di cui avevamo parlato in precedenza. Lui mi parlò di nuovo, diffusamente, del libro di fiabe di Janusz Korczak; l'argomento di ciò che si doveva insegnare ai bambini, e di ciò che non si sarebbe dovuto insegnargli mai più, lo affascinava. Parlò a lungo, in tono deciso, ma nel tempo stesso pacato e pensoso. Poi cominciò a parlare della stupidità in generale. Scaldandosi all'argomento, e tornando a parlare delle sue esperienze personali, come spesso era avvenuto durante questi colloqui, la sua personalità cambiò bruscamente, e in modo sorprendente; la sua voce si fece più alta e più dura, il suo accento più provinciale, il volto più volgare. («Succedeva» mi disse poi sua moglie. « Che Dio m'aiuti, lo vidi anche qui in Brasile - non sempre, solo negli ultimi due anni; gli succedeva spesso soprattutto quando guidava e si arrabbiava con gli altri guidatori - stupidità, la chiamava, e mi spaventava vedere come la sua faccia cambiava»).
« In Brasile » disse lui, con voce aspra, con accento quasi volgare « alla VW, la stupidità di certa gente, bisognava vederla per crederci. Certe volte mi faceva impazzire». Fece un gesto con le mani.« C'erano degli idioti, tra loro. Minorati mentali. Spesso, mi lasciavo andare. "Mio Dio," gli dicevo "l'eutanasia vi ha risparmiati, eh?", e quando tornavo a casa, dicevo a mia moglie: " Quei minorati se la sono scampata, dall'eutanasia "».
[...]
« Per quello che ho fatto, la mia coscienza è pulita >> disse, le stesse parole, rigidamente pronunciate, che aveva ripetuto innumerevoli volte al suo processo, e nelle scorse settimane, ogni volta che eravamo tornati su questo argomento. Ma questa volta io non dissi nulla. Lui fece una pausa e aspettò, ma la stanza rimase silenziosa. « Io non ho mai fatto del male a nessuno, intenzionalmente >> disse, in un tono diverso, meno incisivo, e di nuovo aspettò molto a lungo. Per la prima volta, in tutti questi giorni, io non gli davo nessun aiuto. Non c'era più tempo. Lui si afferrò al tavolo con entrambe le mani, come per tenersi a esso. « Ma ero lì >> disse poi, in un tono di rassegnazione, curiosamente secco e stanco. C'era voluta quasi mezz'ora per pronunciare quelle poche frasi. « E perciò, sì... >> disse alla fine, molto pacatamente «in realtà, condivido la colpa ... perché la mia colpa ... la mia colpa ... solo adesso, in queste conversazioni ... ora che ho parlato ... ora che per la prima volta ho detto tutto ... » si fermò. Aveva pronunciato le parole «la mia colpa>>: ma più delle parole, fu l'improvviso afflosciarsi del suo corpo, il volto cadente, a denunciare l'importanza di quell'ammissione. Dopo più di un minuto, riprese, come controvoglia, con voce atona. « La mia colpa>> disse « è di essere ancora qui. Questa è la mia colpa>>. «Ancora qui?>>. «Avrei dovuto morire. Questa è la mia colpa>>. «Intende dire che avrebbe dovuto morire, o che avrebbe dovuto avere il coraggio di morire?>>. «Può anche metterla così >> disse in tono vago; sembrava stanco, ora. « Be', lo dice adesso. Ma allora? >>. « Questo è vero >> disse lentamente, forse fraintendendo volontariamente la mia domanda. « Ho avuto altri vent'anni - venti buoni anni. Ma, mi creda, adesso preferirei essere morto allora, anziché questo ... >> guardò attorno, nella piccola stanza della prigione.«Non ho più speranza>> disse poi.
[...]
Stangl morì diciannove ore dopo, appena passato mezzogiorno del giorno dopo, lunedì, per un attacco di cuore. Non aveva visto nessuno, da quando l'avevo lasciato, tranne la guardia che gli aveva portato il carrello con la colazione. Su un pezzo di carta appuntato alla parete aveva buttato giù un nome che voleva ricordarsi, sul tavolo tutto era in perfetto ordine. Dentro il libro di fiabe di Janusz Korczak, il foglio col quale aveva segnato una pagina che voleva mostrarmi non era più bianco come io l'avevo visto, ma coperto di citazioni tratte dal libro, ed enfaticamente sottolineate, ciascuna con accanto il numero della pagina. Il libro della biblioteca della prigione che stava leggendo al momento della morte era Leggi e Onore di Josef Pilsudski. Tutti quanti, me compresa, pensammo che avesse potuto suicidarsi, e pertanto l'autopsia cui fu sottoposto per legge il suo cadavere fu particolarmente accurata. Non si era suicidato. Era malato di cuore, e sarebbe morto presto comunque. Ma io credo sia morto allora perché alla fine, sia pure per un momento, s'era messo di fronte a se stesso e aveva detto la verità; era stato uno sforzo ciclopico, per raggiungere quel momento fuggevole in cui era divenuto l'uomo che avrebbe dovuto essere.
[...]
EPILOGO
Io non credo che tutti gli uomm1 siano uguali, poiché la nostra caratteristica essenziale è proprio di essere individuali e diversi. Ma l'individualità e la differenza non sono dovute soltanto alle qualità che ci capita di avere alla nascita. Dipendono altrettanto dalla misura nella quale abbiamo potuto liberamente svilupparci.
V'è un nucleo essenziale del nostro essere, ancora mal definito e mal compreso, che, godendo di questa libertà, sorge e si sviluppa, quasi come il nascere, e che ci libera e ci separa da influenze intrinseche, e in seguito determina la nostra condotta e il nostro sviluppo morale. Io credo che un mostro morale non sia tale dalla nascita, ma sia prodotto da interferenze nel suo sviluppo. Io non so che cosa sia questo nucleo. Mente, spirito, o forse una forza morale finora innominata. Ma io credo che, nel senso più profondo, la personalità individuale esista soltanto, sia valida soltanto, dal momento in cui essa emerge; quando, a qualunque età (se abbiamo fortuna, nell'infanzia), cominciamo a essere padroni e progressivamente responsabili delle nostre azioni.  La moralità sociale dipende dalla capacità dell'individuo di prendere decisioni responsabili, di fare la scelta fondamentale tra il giusto e l'ingiusto; questa capacità deriva da questo misterioso nucleo - che è l'essenza stessa della persona umana. Quest'essenza, tuttavia, non può sorgere né esistere in un vuoto. È profondamente vulnerabile e profondamente dipendente dal clima di vita; dalla libertà nel senso più profondo: non licenza, ma libertà di svilupparsi: nell'ambito della famiglia, nell'ambito della comunità, nell'ambito delle nazioni, e nell'ambito della società umana nel suo complesso. Il fatto che essa esista, pertanto - il fatto stesso che noi esistiamo come individui validi - è prova della nostra interdipendenza e della nostra responsabilità reciproca.

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Lettura di Sciascia in biblioteca

5 Marzo ore 20,30, Biblioteca Castiglione delle Stiviere

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