Il mio secondo racconto breve

>> martedì 31 maggio 2011

Secondo appuntamento ieri del corso di scrittura autogestito  dal Gruppo Lettori della Biblioteca di Castiglione delle Stiviere. Come esercizio ognuno di noi aveva il compito di scrivere un racconto breve su un fatto di cronaca realmente accaduto. Abbiamo scelto di concentrarci sullo sbarco di profughi a Lampedusa.  Dopo aver letto i racconti ci siamo confrontati su come migliorarli. 
Questo il mio contributo:
L'approdo

La luna è ancora luminosa nel cielo e tinge di riflessi bluastri il mare nero. La terra si vede in lontananza tra gli spruzzi dell'acqua che si sollevano davanti al barcone. Samir alza lo sguardo verso le nuvole che stanno diventando sempre più chiare in quell'ora indefinita che il giorno strappa alla notte. Un mezzo sorriso taglia il suo viso ispido di barba e secco del vento e della salsedine che ha sopportato in dieci ore di viaggio. Sono in duecento in quella carretta che puzza di ruggine. Tutti stretti uno accanto all'altro con solo lo spazio per respirare.
Guarda in basso sul ponte. C'è una donna seduta con un pancione enorme. Sono riusciti a farle spazio attorno. Ansima e si lamenta. Le viene in mente il parto del suo terzo figlio quando stringeva le mani di sua moglie che sudata urlava perchè il bambino non veniva fuori. L'ostetrica le era balzata addosso per spingere sul ventre con il braccio ad angolo retto e aveva così risolto la situazione. 
Distoglie lo sguardo attirato da masse scure che si avvicinano velocemente. Improvvisamente un rumore fortissimo sotto la chiglia in basso a destra. La barca si impenna e rimbalza verso sinistra. Sente il rumore dell'urto nello stomaco e i piedi staccarsi da terra. Sospeso in aria per un tempo indefinito piomba nell'acqua gelida ad una velocità che lo lascia senza fiato. E' sott'acqua. Beve salato in quel nero denso che lo avvolge. Si dimena, riesce a tirare la testa fuori. Sputa. Tossisce. Sente l'acqua dal naso che gli cola in gola. La nave si è incagliata sugli scogli e le onde la scuotono come quei giocattolini con cui i bambini si divertono quando fanno il bagnetto. Il rumore stridente dello scafo che graffia la roccia lo fa rabbrividire come il gesso che striscia sulla lavagna. Con gli occhi socchiusi che gli bruciano riesce ad individuare altre persone che come lui si muovono scomposte nell'acqua e cercano aiuto con voci gutturali smorzate dai gorgoglii. Un’onda lo sommerge. Annaspa. Sulla destra le mani sfiorano qualcosa di viscido e duro. Scogli. Si aggrappa con le dita che sembrano artigli. Scivola ancora. I vestiti pesanti lo tirano giù. Scalcia con le gambe e riesce ad aggrapparsi di nuovo. Ma non ce la fa a tirarsi su, non ha più le forze. Lo sovrasta un'altra onda. E' la fine.
Un ronzio leggero attutisce tutti i rumori. Molla la presa e mentre lo fa sente uno strattone alla mano e qualcosa che lo tira verso l'alto. Due braccia poderose lo stanno afferrando dietro i gomiti e issando su.
Prima di addormentarsi nell'ambulanza che lo sta portando via, ha il tempo di vedere, distesa su una barella accanto alla sua, la donna con il pancione che accarezza un fagottino bianco che ha tra le braccia.


Contributo di Franca Martinetti


L'Isola


Era la dodicesima volta che si tuffava quel tenente della Finanza. Anche al buio lo aveva riconosciuto. Si chiamava Davide, non era di qui, forse pugliese, si diceva, sempre in prima fila, sempre a soccorrere quei miserabili puzzolenti il cui fetore aveva impestato tutta l’isola.
Il trambusto, le urla, i motori delle motovedette lo avevano svegliato. “Ci risiamo” Non bastassero il fastidio e i rumori ci si era messa pure Armida.  “ Un altro barcone incagliato, qui vicino, come puoi dormire?”.
Non c’era verso di discutere con lei, bisognava soccorrerli questi clandestini, stranieri, forse anche pezzi di galera, ma comunque uomini. Lo rincorse persino, portandogli la sua tuta di sommozzatore, “non c’è bisogno” le urlò.
Tutti di corsa verso l’ansa rocciosa di Cavallo Bianco, dove dieci minuti prima si era incagliato l’ennesimo barcone. Un buio pesto, un mare nero come la notte, urla, voci confuse dei soccorritori, lampade e pile ad illuminare quell’ormai consueto scenario.
Non aveva voglia di tuffarsi: troppa gente in quel tratto di mare, gli sembravano più numerosi i soccorritori dei naufraghi, si mise persino a ghignare, quando vide la solita giornalista sempre lì in agguato a intervistare tutti, lasciar perdere il suo taccuino e gettarsi pure lei.
E poi quel Davide, su e giù dagli scogli, le aveva contate le dodici volte. E poi quei musi scuri e torbidi che emergevano dal nerume di quel mare. Non bastassero quegli altri già arrivati ad invaderli a togliere anche il respiro agli isolani di quell’isola maledetta in mezzo al “mare nostrum”.
Che il Mediterraneo fosse “mare nostrum” lui ci aveva sempre creduto, anche a scuola glielo avevano insegnato, ma ora cominciava a dubitarne fortemente.
La bellezza dell’isola vista nei depliants turistici, il villaggio favoloso in cui aveva incontrato la sua maga, gli stavano avvelenando la vita. E oltre tutto rovinato, sì rovinato: nessuna prenotazione turistica per la prossima stagione, lui e Armida, con le pive nel sacco, sarebbero tornati in Toscana a gestire il residence dei genitori che continuava ad andare , quello sì, a gonfie vele. Finita la stagione dei sogni, delle isole sperdute belle ed arcane solo nell’illusorio patinato delle riviste turistiche. Anche i villaggi turistici, tra non molto, avrebbero dovuto ospitare quella sordida negritudine. E allora via prima di sentire anche a casa propria quell’orrendo fetore.
A vedere quel tratto di mare ora così affollato da volontari infiammati dai gesti eroici della solidarietà e da isolani improvvisamente calati nel ruolo di salvatori, gli veniva quasi da vomitare.
Improvviso e incontrollabile giunse quell’istante che fece precipitare anche lui in mare.
Nuotava verso un fagotto, appena gettato dal barcone incagliato, sembrava un grumo di stracci, ma lui nel buio, a malapena e per una frazione di secondo,  l’aveva vista quella manina alzata…….

Contributo di Enrica Remelli

IL SALVATORE

“Attento, attento” “Vanno a sbattere,  vanno a sbattere” “Non riusciamo a controllare la prua,  c’è troppa gente,  stanno trascinando la barca troppo in là”, “Vanno a sbattere contro lo scoglio della Medusa”, “Buttate delle funi, cercate di bloccare il barcone” , “Si stanno buttando, di là si stanno buttando”, “Sono tutti sul fianco e chi riesce a riprenderli adesso”,”Bloccateli, bloccateli”.
Il tonfo arriva, tremendo, come un tuono senza lampi
Sono in acqua, la sento, nera intorno e non so come ci sono finito sto andando sotto non sono uomo di mare io  so solo di terre riarse e di sabbia torrida e di periferie cittadine fredde e nebbiose non so niente di mare di come ci si tiene a galla, sto andando sotto annaspo perché è l’unica cosa che mi viene di fare e perché non mi voglio arrendere ma sono sotto rialzo la testa e all’improvviso lo sento “Come here, come here” lo sento gridare: deve essere vicino lo sento, capisco cosa dice cerco di girarmi nel buio totale e con l’acqua che mi entra in gola non riesco a parlare ma lo vedo annaspo ancora verso di lui mi aggrappo alla sua spalla, vorrei abbandonarmi e lasciarmi andare ma penso che non ce la possa fare da solo, da solo per tutti e due e così sbatto il braccio che ho libero e le gambe: se solo non fossero intorpidite da giorni di posizioni impossibili, se solo si muovessero come gli ordino. Annaspo sbatto le gambe, sono troppo pesante non ce la faremo mai. Sono bloccato dai vestiti bagnati, dai muscoli diventati d’acciaio… non ce la faremo mai… non ce la faremo mai … ma forse non  manca molto,  mi sforzo, uno sforzo ancora e ancora; adesso le gambe sembrano muoversi e il braccio si muove in sincrono… sì forse ce la faremo adesso comincio a crederci, una luce accecante fende il buio assoluto di acqua e cielo… forse siamo vicini alla spiaggia, sento qualcosa sotto la pancia, sì sì mio Dio … terra ! terra! Siamo a riva.. sono esausto ma ce l’ho fatta ce l’abbiamo fatta mi giro per guardarlo per vedere la faccia del mio salvatore per dirgli grazie .. mi giro sul fianco ma non vedo nessuno sento solo delle voci in lontananza  gente che corre verso di me ma qui accanto a me non c’è nessuno alzo gli occhi al cielo e per la prima volta stanotte vedo che è talmente pieno di stelle da sembrare chiaro anche in questa notte così buia e un pensiero mi attraversa come una stilettata: stanotte è il 2 maggio  e questo cielo è così uguale a quello che guardavo la stessa notte di dieci anni fa.
Avevamo appena seppellito il mio fratellino e io sarei partito all’alba per tentare di raggiungere l’Europa, lo stesso posto di stanotte e adesso so chi è il mio sconosciuto salvatore.

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In nome della madre - Erri De Luca

>> domenica 29 maggio 2011

Poche pagine ma intense. Questo in sintesi il libro In nome della madre che lo scrittore napoletano dedica alla Natività ed in particolare ai giorni che vanno dal concepimento alla nascita del bambino. Il punto di vista è quello di Miriam (Maria) ed è impressionante come l'autore riesca a calarsi nelle vesti di una figura femminile nel momento più importante della sua vita.
Le parti che mi sono piaciute di più sono quelle che fanno emergere il personaggio di Iosef (Giuseppe) che è sempre ai margini della Storia ufficiale ed è trascurato dalla letteratura. Eppure è un esempio notevole per come affronta le difficoltà nell'accettare un figlio non suo, in un contesto incredulo, ostile, carico di critiche velenose, supportato dall'unica cosa che ha: la fiducia e l'amore per la sua promessa moglie.

Il mio Iosef, bello e compatto da baciarsi le dita, si stringeva le braccia contro il corpo, cercava di tenersi fermo, ripiegato come col mal di pancia. La notizia per lui era una tromba d’aria che scoperchiava il tetto. Tentava un riparo con il corpo, smarrito in faccia, i muscoli che saltavano fuori dalle braccia. Si proteggeva il ventre teso e magro, non si permetteva di toccarmi, di scuotere la mia calma così opposta al suo sgomento, senza poter fingere un po’ di agitazione.
Ero in piedi, schiena dritta, un’agilità nuova mi dava slancio, mi accorgevo di essere più alta e più leggera precisamente al centro del corpo, sotto le costole nell’ansa del ventre. Là dove lui accusava il colpo e il peso coi muscoli contratti di un atleta sotto sforzo, io ricevevo una spinta dal basso verso l’alto da aver voglia di mettermi a saltare. I suoi capelli a ciuffi scossi sbattevano sulla fronte chiara, ballavano davanti agli occhi. Glieli misi in ordine con un paio di carezze svelte. Nel suo scompiglio era ancora più bello.
Quella notte parlammo fino all’alba. Iosef disse: “Miriàm, aspetterò la nascita di tuo figlio per toccarti. Aspetterò che si compiano i tuoi giorni. Non profanerò con la mia carne il tuo grembo riempito con l’annuncio”. Gli chiesi se questo era un ordine dell’angelo, rispose di no, questa era la sua volontà. “E’ anche figlio tuo, Iosef, hai difeso la sua vita. E’ figlio tuo due volte perché hai dato anche alla madre una seconda vita.” “E’ figlio tuo, Miriàm, ma per il mondo io sarò suo padre. Lo scriverò a mio nome, sarà nella discendenza della stirpe di Giuda, quarto figlio di Giacobbe-Israele. Sarà messo nell’elenco che passa per Davide mio antenato. Gli racconterò la storia della  mia famiglia, gli insegnerò il mestiere. Non temere, Miriàm, sarò suo padre, ma lui è tuo.”
E se fosse una femmina, come diceva la maligna alle spalle? Pensai questo pensiero così per gioco senza pronunciarlo. Il grembo si mosse con due colpi, due scatti, la creatura si rigirò. Se ne accorse anche Iosef che mi stava vicino. “Si agita?” “Altro che, mi ha dato un paio di calci belli secchi e decisi. Si vede che me li sono meritati.”
Sa i miei pensieri. E’ un maschio e mi rimprovera. Occupa tutto i mio spazio, non solo quello del grembo. Sta nei miei pensieri, nel mio respiro, odora il mondo attraverso il mio naso. Sta in tutte le fibre del mio corpo. Quando uscirà mi svuoterà, mi lascerà vuota come un guscio di noce. Vorrei che non nascesse mai. Arrivò un altro calcio, però più gentile.
[...]
Al mattino riunì la famiglia e dichiarò la sua decisione; sposava Miriàm alla data prevista di settembre, anche se era incinta. Sotto la tenda della cerimonia si sarebbe vista la mia gravidanza.
Non ascoltò ragioni. Fu uno scandalo. Il villaggio era contro di lui.
“Si è fatto abbindolare da Miriàm, gli ha rifilato chissà che storia e lui se l’è bevuta.”
“Iosef è un ingenuo.”
“Iosef non è un uomo.”
“Iosef ha infranto la legge.”
“Non ha neanche fatto ricorso alla legge delle gelosie. Poteva almeno farle bere l’acqua amara davanti al sacerdote.”
“E perché? Non è geloso, se la tiene così, piena di un altro.”
“Ma sì, non è dei nostri, non è un Galileo, è uno della stirpe di Giuda, è un betlemmita. Se ne tornasse là con la sua adultera e il bastardo.”
Grandinavano insulti sulle sue spalle. Si stava facendo lapidare al posto mio. E io non potevo stargli vicino, baciargli le mani, farlo sorridere, perché sorrideva sempre al mio sorriso.
Dovette lasciare la bottega di falegname dov’era il primo aiutante. Ne aprì una sua minuscola con pochi attrezzi presi a credito. Ma era il più bravo tagliatore e la gente doveva per forza rivolgersi a lui. Non parlava con i clienti perché nessuno voleva parlare con lui, solo la breve trattativa sul prezzo e la consegna.
Al sabato alla casa di preghiera sedevamo nei settori separati degli uomini e delle donne ed eravamo isolati. Dovevamo aspettare. Intanto era tempo di mietitura e in molti avevano bisogno di arnesi nuovi. Iosef lavorava molto, i manici delle sue falci erano i migliori. Intorno a lui il silenzio cominciò a cedere, i primi saluti in piazza, i complimenti per la qualità dei suoi legni. Rispondeva senza orgoglio e senza la cordialità di prima.
[…]
Le donne di Nazaret mi guardavano la pancia.
“La svergognata gliel’ha data a bere, ma con noi non la spunta.”
“Guardate che aria da santarella.”
“Voglio proprio vedere a chi somiglia il bastardo che porta nella pancia.”
“Che frottola ha detto? Quella del salvatore, figlio dell’angelo? Sai che risate se nasce femmina.”
Le donne sputavano dietro il mio passaggio. Uscivo per la funzione del sabato. Ai loro insulti tiravo più dritta la schiena, più in fuori la pancia. Dicevo a bassa voce e per scongiuro: “Lo stesso pure a voi, benedizione per benedizione”. Avevo paura del loro malocchio.
Però ero felice. Essere piena, crescere come la luna, contare le settimane come per il travaso del vino, non avere il ciclo, tutto era una purezza che mi ubriacava di gioia. Di notte scostavo la tenda e respiravo il vento del cielo.

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Gruppo Lettori di Castiglione: foto di gruppo

>> martedì 24 maggio 2011

Si è riunito stasera il Gruppo Lettori: questa la foto di gruppo. Non ci sono io perchè dietro la macchina fotografica :-(


Pubblico di seguito i racconti breve di Linda e di Franca

Linda - Il Parco


E’ sul far della sera che nei torridi giorni estivi arriva dal lago una brezza leggera a restituire agli alberi vita e respiro. Il vento si insinua tra le foglie con bisbigli e mormorii, e i rami si distendono a saziarsi di quel refrigerio che per tutto il giorno hanno ceduto, donando ombra e frescura.
E’ un parco piccolo, una piccola oasi tra strade trafficate  e un grattacielo, ma chi l’ha fatto nascere ha scelto con cura le piante che ora svettano contro l’azzurro del cielo.
Imponenti cedri dalle lunghe braccia cinerine si affiancano a monumentali aceri, a pini che si contorcono in bizzarre forme animali, ad aromatiche tuie, ad una regale magnolia……
C’è persino una pseudo sequoia che, a dispetto dell’età e dell’altezza, si riveste di tenere foglioline verdi,  e un meraviglioso faggio pendulo che protende fino a terra i suoi leggeri lunghissimi rami, cortine vegetali che, dondolando al respiro dell’aria, delimitano un ampio, misterioso, accogliente rifugio.
D’improvviso un semplice foglio di carta  stabilisce di cancellare tutto: la pace, i profumi, le gamme dei verdi, il soffice prato,l’ombra e la luce riposanti.
Proprio qui, dove la natura così fecondamente lavora, si vogliono costruire dei parcheggi.
Diamine, in ossequio al progresso, bisogna ben espandersi, costruire uffici, negozi, botteghe, strade, comprare, vendere, avere di più, sempre di più.
Così arrivano i boscaioli; nell’aria che aspira gli ultimi profumi risuonano colpi d’ascia, stridii di seghe, urla, tonfi, crepitii, scoppi  rombi di trattori, ruspe, camion.
La terra si lacera: da cumuli rossastri, coperti di foglie di un autunno precoce, escono grosse radici contorte.   Tutto è cambiato; restano auto, asfalto, cemento.
Per fortuna la storia può vantare un finale diverso.
Occhi attenti snidano il documento che dà il via ai lavori  da un plico di carte entro cui per caso o  disegno era celato.
Mamme, papà, ragazzi, bimbi, nonni, troppo spesso condiscendenti, stavolta si oppongono con determinazione alla perdita dei loro compagni di viaggi: tra i loro rami sono ancora sospesi voci di bimbi, sogni, desideri, speranze, segreti, e nella linfa che li percorre si possono ancora trovare lacrime di gioia o dolore.
In breve cortei, slogan, cartelloni colorano tronchi e viali; proteste e progetti rinsaldano e formano nuove amicizie
A malincuore, molto a malincuore i progetti per il parcheggio vengono accantonati, almeno per ora , e gli alberi taciti e saggi potranno continuare a vegliare sulle nostre vite.
Chissà, forse   sarà proprio la bellezza a salvare il mondo.

Franca

La mattina all’alba del 5 agosto del 1938, il fatidico sì.
L’aveva sognato ed atteso quel giorno. Con quel giovin signore sempre elegante e dongiovanni, bastone da passeggio, orologio nel taschino, gilet e giacca con camicie inamidate e gemelli d’oro, curato e coccolato da una madre che degli otto figli prediligeva lui, il figlio ingegnere, che a sua volta l’adorava e calmava i suoi nervi tesi e malati.
Scendeva dalla villa, e in fondo allo stradello esitava davanti alla sua bottega, qualche volta si fermava e sbirciava dentro; solo se vedeva lei e il suo sorriso si avventurava sulla soglia tra il chiaro scuro, ma se incrociava il viso ostile della sorella “capa”, che reggeva la numerosa famiglia dopo la morte improvvisa del padre, se ne fuggiva furtivo e indifferente.
In quell’incrocio di sguardi e di sorrisi nasceva il loro piacere reciproco. Ma lei non si sentiva all’altezza: in terza elementare, a nove anni, aveva dovuto smettere di andare a scuola, per dare una mano in bottega. Dopo la morte del padre,  Concetta, la sorella diciannovenne, prese in mano le redini: tre sorelle e due fratelli subito a lavorare per tirare avanti la bottega; solo due mancavano all’appello: Lucia, la sorella troppo piccola e già debole di salute e Angelo ancora a balia.
Su alla villa negli agi viveva la famiglia di lui, gente bene, stimata in paese e nell’imprenditoria locale.
Difficile far digerire una scelta di così bassa condizione a una madre che sognava per il figlio prediletto un matrimonio d’alto rango.
Ma lei non si lasciava intimorire né da Concetta sempre ostile al “bel signorino”, con troppe morose e troppe promesse di matrimonio in giro, e un po’ alla volta neanche dalla considerazione del suo “basso ceto”.
Perché di bassa condizione? – si diceva- la mia famiglia con dignità si è sollevata dalla disgrazia, le mie sorelle sono orgogliose di aver mandato avanti la bottega di non aver chiesto aiuti di nessun tipo, siamo fiere della nostra condizione, addirittura abbiamo anche la possibilità di fare credito ai numerosi poveri di questo paese di pietre.
Con questa nuova consapevolezza il suo sguardo verso il “giovin signore” cominciò ad essere meno timoroso, più accondiscendente; da lì fu pronta ad accettare appuntamenti segreti con la complicità della sorella Gina, la sua preferita e confidente.
Lui temporeggiava: avanzava sempre nuove scuse: la delusione che avrebbe dato all’amata madre, l’ufficio che aveva appena aperto per lavorare in proprio e che l’aveva indebitato, il lavoro che scarseggiava e che non sembrava avere molte prospettive in un paese di povera gente senza mezzi e costretta ad emigrare. Ma lei non demordeva, era caparbia, la forza del suo carattere, si diceva spesso, stava nella sua chioma di capelli nerissimi e folti, che lei amava lisciare e pettinare, e tirare per costringerli tutti in una nera crocchia. Anche la sua bellezza, si diceva, oltre che nel personale slanciato ( lei era più alta di lui) stava in quei lucidi capelli.

Primo finale
E così giunse il giorno da lei tanto celebrato e raccontato nella sua mitologia famigliare.
All’alba dunque del 5 agosto ( era la madonna della neve) del 1938, perché lei doveva, quel giorno stesso, riprendere il duro lavoro della bottega, per non lasciare tutto il daffare alla “musona “ sorella Concetta, che non si era neanche degnata di partecipare alla cerimonia, e che doveva sbrigare da sola le incombenze del negozio, dato che le altre due sorelle si erano già sistemate con il suo beneplacito.  I rimandi del “bel signorino” a Concetta, no,  non erano piaciuti.
Ma il viaggio di nozze tra le bellissime vette dell’Alto Adige, ancora imbiancate in agosto, era un ricordo vivo e pulsante che lei rievocava con la passione e il desiderio dei suoi anni d’amore.


Secondo Finale
Arrivò il momento in cui cominciò a rendersi conto che le sue continue fughe e i suoi cedimenti, a cui lui la costringeva e che a lei non dispiacevano, avevano causato l’indesiderato ospite che già si muoveva in lei. Fu una tempesta di improperi e di insulti, sguardi di disprezzo, il disonore della famiglia, nemmeno la fuga in città presso la sorella Gina le valse a calmare le acque.
Finché… decisa, un giorno prese lo stradello in salita e arrivò alla villa.
Il 5 agosto del 1939 alle ore 5, perché la vergogna non poteva essere celebrata né vista, il fatidico sì, in una chiesa deserta con i soli testimoni.
Nacque il 5 ottobre del 1939 il figlio che rischiava di nascere “bastardo” e che lei amò più degli altri.
Nessuno dei suoi figli avrebbe dovuto sapere della sua “vergogna”.

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Mille anni che sto qui - Mariolina Venezia

>> sabato 21 maggio 2011

Saga familiare e generazionale che si svolge in un paesino della Lucania dall'Unità d'Italia fino ai giorni nostri. Il meccanismo narrativo è quello della Isabel Allende di "La casa degli Spiriti". A differenza dell'opera della scrittice cilena ci si emoziona un pò meno ma si sorride sicuramente di più. Interessante l'uso del dialetto, appropriato e misurato sia nei dialoghi che nelle descrizioni delle situazioni. Per chi come me è nato negli anni sessanta, e al sud, ha un ulteriore valore perchè crea punti di riferimento riconoscibili negli usi e costumi sperimentati nella quotidianità dell'infanzia o nei racconti dei propri genitori e nonni. Il libro non sfiora le duecentocinquanta pagine ma sembra enormemente più lungo. Mi sono chiesto come mai e la risposta che mi sono dato è che il numero dei personaggi che sono stati introdotti è spropositato: molti sono poco sviluppati, di tanti c'è solo il nome. Questo porta ad una certa dispersione che è probabilmente il limite dell'opera. Non tutte le storie che si intrecciano sono belle ma alcune sono bellissime. Ho trascritto: la descrizione dell'inizio della storia d'amore tra Colino e Candida (delicata e poetica) e tra Giuseppe e Lucrezia (comica e paradossale) e la veglia funebre di Colino, un vero documento sociologico su come in  meridione sono ricordate le persone di valore.

Quella mattina aveva preso le forbici che servivano per sventrare i polli e con un colpo secco si era tagliata la treccia che le arrivava al sedere, come dalla parte opposta della terra altre avrebbero fatto di lì a poco, anche se per motivi un po' diversi. Quando Gennarino si ritrovò la treccia in mano, avvolta in un pezzo di giornale, scosse la testa come se avesse già visto quella scena tante volte. I capelli tagliati non gli servivano! Dovevano essere caduti naturalmente, con l'attaccatura ancora intatta. In cambio della treccia, poiché si era accorto che ci era rimasta male, poteva darle al massimo un sona sona. Ne aveva uno lì, in mezzo alle cianfrusaglie. Lo scosse per farle sentire come faceva. Lo strumento gracchiò. Candida non rispose. Se ne andò senza nemmeno riprendersi la treccia e cominciò a vagare fra i banchi, con gli occhi che si riempivano di lacrime.
Colino si trovava dietro al banco insieme a suo padre, e quando Candida gli posò gli occhi addosso stava srotolando una pezza di taffettà color prugna matura, così frusciante che lei nel ricordo ancora la sentiva cantare. Aveva gli occhi levantini, neri e languidi come quelli degli uomini che vengono dalla marina, così carezzevoli che nemmeno la pezza più cara del bancone, quella di velluto misto seta, poteva reggere la concorrenza. Aveva le labbra ben disegnate e i denti bianchi, tutti dritti e sani. Le mani con le dita lunghe e insomma era tale e quale al Cristo deposto che Candida aveva tanto amato, o almeno a lei così sembrò, come se da marmo che era si fosse fatto all'improvviso di carne. A quell'epoca Colino aveva diciott'anni. Mancava dal paese da una decina d'anni, trascorsi con lo zio Cataldo, commerciante di imbottite a Bari. Adesso era venuto per aiutare suo padre in quei giorni di fiera, e gli affari non erano mai andati così bene. A causa sua le donne si affollavano intorno al bancone fingendo di interessarsi alle stoffe che Minguccio il Merciale decantava  rintronandole di chiacchiere. I lampi provocanti di molti occhi lo bersagliavano in continuazione ma nessuno l'aveva mai colpito. Con grande soddisfazione di sua madre gelosa e fiera del miracolo che aveva fatto, Nicola si era conservato vergine. Malgrado tutte le occasioni che aveva avuto non si era mescolato a nessuna vedova o donna di malaffare, né aveva incrinato la virtù di qualche giovinetta. Un'innocenza malandrina lo proteggeva da qualunque tentazione. Una dolcezza che sconfinava nell'inganno gli si irradiava intorno. Si era ormai abituato a tutte quelle donne che gli andavano appresso come un bue alle mosche, e se non poteva scacciarle con un placido colpo di coda usava i suoi sguardi limpidi per annegare i loro ardori. Colino stava misurando la stoffa col palmo della mano quando alzò gli occhi e nella traiettoria del suo sguardo trovò Candida.All'inizio attirò la sua attenzione solo perché aveva i capelli tagliati in quel modo. Poi, quando anche lei lo guardò, successe una cosa strana. Fu come se si fosse aperta una porta. Colino attraversò pieno di meraviglia corridoi e stanze, alcune luminose, altre più scure e segrete, angoli nascosti e freddi, ripostigli, terrazze assolate …
Guagliò ! Una pacca sulle spalle lo fece sobbalzare. Suo padre, Minguccio u Mercial, ne aveva seguito lo sguardo per scoprire cosa lo distraesse, ma non aveva visto nulla. Solo una bambina con le spalle rachitiche e il torace piatto, i capelli tagliati all'altezza del mento e gli occhi pieni di lacrime, che un sorriso illuminò proprio in quel momento.
[…]
Arrivato al paese raccontava dell' America come se fosse tutto rose e fiori, sfoggiando un completo gessato e un cappello che aveva un nome come un cristiano, Borsalino, cose che da quelle parti non si erano mai viste. Ricordava quelle rondini a cui i bambini tagliano le ali e ingrassano.
Come moglie gli avevano proposto Angelica, che ormai cercavano di piazzare a chiunque fosse stato via abbastanza da aver dimenticato la sua età. Giuseppe la incontrò in un salottino in penombra, che la proteggeva dai frastuoni del mondo e nascondeva la perdita di nitore della sua figura, unica conseguenza dell' età avanzata. Se ne erano stati seduti sul divano, lei contegnosa, lui che non sapeva che dire, intimidito malgrado il completo gessato, biascicando ogni tanto qualche parola in una lingua ibrida che parlavano soltanto in un certo quartiere di Nuova York o per essere precisi, in quella forma, lui soltanto. Tutta la famiglia aspettava gli esiti del colloquio al di là della porta chiusa, e una volta tanto erano tutti d'accordo. Angelica non avrebbe potuto trovare di meglio. Avrebbero accettato qualunque condizione. Ma caso volle che Giuseppe, goffo e intimidito com' era, rovesciasse col gomito la bottiglia di rosolio. Il cristallo era andato in pezzi e il liquido appiccicoso si era riversato sul tappeto. Angelica, minimizzando, aveva mandato a chiamare Lucrezia. Da quando aveva imparato a camminare, la figlia della Rabbia passava da loro tutto il tempo che le avanzava dalle altre faccende e quando c'era da fare era sempre in prima fila.
Anche quella volta si era buttata a corpo morto. Di muso a terra strofinava e strecava, col busto schiacciato fino alla vita, le braccia allungate e il sedere proiettato in alto che faceva su e giù come quello di una giumenta. Un sedere incommensurabilmente ben fatto, schietto, tondeggiante come la luna piena. Mentre Angelica continuava le sue insulse chiacchiere di circostanza, l'attenzione di Giuseppe era stata via via catturata dai movimenti ondulatori di quel deretano, dalle sue proporzioni perfette, dalla sua esuberanza e dalla sua voglia di vivere, fino a non poterne più staccare gli occhi.
Il senso di oppressione che lo aveva colto da quando era entrato in quella stanza si stava dissipando lentamente, e tutte le tristezze della sua vita trovavano consolazione. Quando fini il colloquio e la famiglia lo accompagnò alla porta temporeggiando, Giuseppe deglutì due o tre volte, si fece forza, poi sotto gli occhi speranzosi di tutti chiese in moglie Lucrezia.
[…]
O frat mi, o frat mi. O frat miiiiii.
Nel salone con le volte ornate di fiori era esposta la salma di Colino. Fin dal mattino tutto il paese ci sfilava davanti, e le donne si scapellavano e raccontavano episodi della sua vita battendosi il petto.
O frat mi, o frat mi, quant'era buono, quant'era bravo, quante me n'hai fatte, o frat miiiiiii. Quell' anno, quell'anno disgraziato che gelò a maggio, venni alla bottega e ti cercai i ceci e la farina che non tenevo faccia e tu me li desti e non dicesti niente, niente dicesti cumba Coli, e poi ti dissi cumba Coli, tengo a Lucietta mia ca fasc zit', e quando gliela voglio fare la dote a quella figlia, quando gliela devo fare che resterà zitella, zitella deve restare, e tu mi dicesti statt citt, statt citt, statt citt mi dicesti, che non ti voglio più sentire, lé lé, levat d'annanz, ma ti devi levare, e mi hai tagliato la tela per le lenzuola e per la parure, tié pigghiatill e vattin, pigghiatill e vattin, che non ti voglio più sentire. Eri buono, eri buono assai cumba Colì. Lucietta teneva già tre figli, tre figli teneva benedett'iddio quando ci siamo tolti il debito, e chi se lo può scordare, chi se lo deve scordare ca cur u padretern non ne fa una dritta, doveva prendere a qualche notun, a qualche notun si doveva portare e non a te che eri bravo, che eri buono, che vuoi avere tante benedizioni per quante ce ne hai fatte a tutti quanti cumba Coli. O frat mi, o frat mi, u cerson, la mia quercia...
Candida se ne stava accasciata su una sedia, come priva di vita, poi tutt' a un tratto si avvicinava alla bara e sembrava posseduta da una forza sovrumana. Oh la pupa, la pupa che mi comprasti. La pupa c'è ancora e tu te ne stai andando... Vennero i braccianti dalle campagne, a raccontare di quando gli dava la pasta a credito, e vennero i piccoli proprietari, ché da lui prendevano il concime e lo pagavano soltanto quando avevano venduto il raccolto. Vennero le femmine che gli vendevano le uova e quelle che per lui pulivano i lampascioni e la radica saponaria. Ognuno aveva qualcosa da raccontare, risalendo fino ai lontani tempi della guerra, quando Colino avrebbe potuto arricchirsi col mercato nero come avevano fatto in tanti, e invece non ne aveva voluto sapere, ma non si era mai tirato indietro quando c'era da far passare sottobanco un po' di grano o di ricotta, impedendo che molti di loro morissero di fame. O frat mi, o frat mi. Venne Lucrezia che si batteva il petto e diceva perché non sono morta io al posto tuo, io dovevo morire, che mi levavo d'annanz e tutti sarebbero stati più contenti. Non ci fu abitante di Grottole quel giorno che non passò a rendere omaggio. Nelle settimane, nei mesi e negli anni successivi a casa di Candida continuarono a bussare contadini che venivano a saldare i loro debiti, anche se avrebbero potuto farne a meno perché Colino li segnava in un modo che capiva solo lui.

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La metà di niente - Catherine Dunne

>> mercoledì 18 maggio 2011

Il titolo del libro La metà di niente è sicuramente uno dei più belli in cui mi sia imbattuto nella mia carriera di lettore. È diventato famoso per la citazione di Veronica Lario nella lettera a Repubblica in cui chiedeva pubbliche scuse al marito Silvio Berlusconi reo di indesiderati apprezzamenti su altre donne. Il tema affrontato è quello dell'abbandono della moglie da parte del marito e l'obiettivo della Dunne è raccontare il dramma interiore della protagonista alle prese con le difficoltà causate dalla separazione e il suo riscatto come donna e come madre. Il titolo, peraltro italiano perchè in originale In the Beginning è molto meno impattante, rimane la cosa più bella del libro. Il romanzo infatti non convince,  sembra artificioso, poco credibile e a tratti scritto in maniera sbrigativa. Dopo le prime pagine è diventato noioso e l'ho terminato per forza di volontà e rispetto verso l'autore (a dire il vero non ho mai lasciato un libro a metà, per i motivi citati).
Cosa non funziona: il marito non ha nessuna qualità, cinico e imbecille non si capisce cosa ci abbia trovato in lui la moglie e soprattutto l'amante che nel  momento della verità lo abbandona senza tanti complimenti; il marito se ne va senza che la moglie abbia il minimo sospetto che le cose non stiano andando per il verso giusto; i flashback che raccontano l'incontro tra moglie e marito e  i loro primi anni felici sono fine a se stessi perchè manca il collegamento con l'evoluzione dei loro rapporti che porta alla rottura; il finale semplicistico e consolatorio non rende giustizia a tante donne che vivono un dramma che le segna per sempre. Riporto il brano che descrive il momento culminante tra il marito e l'amante, quando lui comunica a lei, ormai dopo una settimana che hanno abbandonato le rispettive famiglie e sono in vacanza assieme, di aver lasciato la moglie. E lei costernata da questa improvvisa novità lascia lui.

Lei era passionale ed esigente, lui felicissimo e tenero. Era stato meglio del migliore incontro clandestino. Dopo, Caroline era sembrata perfettamente soddisfatta, a proprio agio con lui. Si rendeva conto di osservarla come un falco, terrorizzao all'idea di perderla.
Stava funzionando. Sapeva che stava funzionando. Ormai il riserbo di Caroline era quasi sparito: voleva farle sapere quanto aveva bisogno di lei. Voleva dirle che aveva lasciato Rose. Un appassionato rogo di vascelli, un rito di ingresso nella maturità. Non c'era nulla ad aspettarlo al suo ritorno. Non voleva che ci fosse nulla ad aspettarlo al suo ritorno. Voleva stare con lei. Decise di dirglierlo quella sera, la prima domenica piena in assoluto che trascorrevano insieme. Per lui, era una cosa definitiva. Sentiva che lo era anche per lei, ora che l'estraneità iniziale si era dispersa ridiventando novità. La guardò dall'altra sponda del tavolo, fondendo quella sera con le infinite altre in cui si era trovato di fronte a lei nello stesso modo. sentiva che non c'era alcuna separazione tra i loro io; i conflitti si dissolvevano quando era con lei; si sentiva tutt'uno con il resto del mondo. La guardò mentre si tirava i capelli dietro le orecchie, un vezzo che ripeteva incessantemente. Il piacere di osservarla compiere quel gesto gli provocava quasi un dolore fisico. Adorava quel punto in cui i capelli le sfioravano appena il lato della mascella, ricadendo serici in avanti quando chinava la testa. I suoi orecchini scintillavano. Erano gioielli che le aveva comprato lui, discreti e cari. Caroline era il tipo di donna che acquistava orecchini raffinati per sé; il suo regalo non avrebbe mai dato adito a commenti. Desiderava con tutto se stesso comprarle il genere di gioielli che, quando li avesse indossati, l'avrebbero proclamata sua pubblicamente, definitivamente.
Tese la mano sul tavolo che la luce delle candele avvolgeva in un' atmosfera intima. Lei aveva la mano fredda per aver toccato il bicchiere ghiacciato.
«Caroline, dobbiamo parlare. »
Lei alzò gli occhi di scatto, lisciandosi di nuovo i capelli dietro l'orecchio con la mano libera.
« Sì. »
Era un'affermazione la sua, non una domanda. Quindi, ovviamente, anche lei aveva pensato che fosse ora di prendere una decisione. Incoraggiato da quello che gli parve un consenso, Ben si lanciò a capofitto annegando nell'amore per lei.
«Ti amo, Caroline. Questa settimana me lo ha confermato, più che mai. »
Caroline si raddrizzò sulla sedia.
«Lo so che eravamo d'accordo di non fare passi definitivi prima che fossero trascorse queste due settimane, ma non ce la facevo ad aspettare. »
La voce di Ben era emozionatissima. Non aveva notato l'espressione di Caroline.
«Ho lasciato Rose. Non te l'ho detto prima perché non volevo che ti sentissi sotto pressione per quello che ho fatto. Ma è una cosa definitiva: gliel'ho detto. »
Finalmente il viso di Caroline parve fare effetto su Ben.
«Caroline, ascoltami. Io ti amo, e ho lasciato Rose. Ma anche se non fossimo arrivati a questo punto, il nostro non era più un matrimonio. L'avrei lasciata comunque. »
Caroline cominciò ad alzarsi. Le lesse in faccia quello che aveva capito nello stesso istante in cui lo aveva detto: era un bugiardo. Caroline si avviò a passi malfermi fuori dal ristorante. Il cameriere, arrivando per prendere le ordinazioni, rimase sbalordito. Ben balzò in piedi per andarle dietro. Il cameriere, con fare educato, gli sbarrò il passo. In preda al panico, Ben gli allungò un biglietto da mille pesetas per le bevande, e si fece largo a gomitate in mezzo a una chiassosa comitiva che stava entrando. Quando uscì, di Caroline non c'era più traccia.

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Il ritorno di Casanova - Arthur Schnitzler

>> sabato 14 maggio 2011

L'amore è una merce: lo si baratta per risolvere un debito di gioco. La virtù delle donne è pura illusione: tutte hanno bisogno di un uomo e sono sensibili ai meccanismi della seduzione. Gli uomini sono cinici, ignoranti e superficiali: il loro unico interesse è il gioco e la conquista. La felicità non esiste: al massimo è possibile godere di qualche momento gratificante. 
Libro di un pessimismo più che cosmico ha la grande qualità di restituirci un personaggio storico colto nella fase decandente della sua vita. Il celebre seduttore sta per subire una cocente sconfitta in amore quando si rende conto che la sua ambita preda, dotata di inarrivabile intelligenza e capacità dialettica,  non è molto diversa dalle centinaia di altre che ha conosciuto. Non aiutato da un corpo ormai in disfacimento, deve ricorrere all'inganno che si dimostra essere il mezzo più efficace per raggiungere qualsiasi obiettivo. Vince la battaglia ma dalla guerra della vita ne esce miseramente sconfitto.

«La camera di Marcolina?», domandò Casanova. Amalia annuì. E rivolta a Casanova, con fare allegro e come senza sospetti:
«Ti piace?».
«Perché è bella.»
«Bella e virtuosa.»
Casanova scrollò le spalle, come di fronte a un'informazione non richiesta. Poi disse:
«Se tu mi vedessi oggi per la prima volta, ti piacerei davvero, Amalia?».
«Io non so se oggi sei diverso da allora. Io ti vedo come eri allora. Come ti ho sempre visto da allora, anche nei miei sogni.»
«Guardami, Amalia! Le rughe sulla fronte! Il mio collo raggrinzito! E questo profondo solco dagli occhi alle tempie! E qui, sì, qui nell'angolo mi manca un dente», e spalancò la bocca in un sogghigno. «E queste mani, Amalia! Guardale bene! Dita come artigli... macchioline gialle sulle unghie... E queste vene... azzurre e gonfie...mani da vecchio, Amalia!»
Lei gli prese le mani e, nell'ombra del viale, le baciò una dopo l'altra, con devozione.
«E stanotte voglio baciare le tue labbra», gli disse in un tono di umile tenerezza che lo irritò. Non lontano da loro, in fondo al prato, Marcolina era sdraiata sull'erba, con le mani sotto la testa, lo sguardo rivolto verso l'alto, mentre le palle lanciate dalle bambine volavano sopra di lei. D'un tratto sollevò un braccio, cercando di acchiapparne una, la afferrò e rise forte: le bimbe si avventarono su di lei e lei non seppe difendersi: i suoi riccioli si scomposero. Casanova sussultò:
«Tu non bacerai né le mie labbra né le mie mani», disse ad Amalia, «e mi avrai aspettato e sognato invano... a meno che io non abbia prima posseduto Marcolina».
«Sei folle, Casanova?», esclamò Amalia con voce dolente.
«Così siamo pari. Tu sei pazza perché credi di rivedere in un vecchio l'amante della tua giovinezza, io perché mi sono messo in testa di possedere Marcolina. Ma forse a noi due è dato di tornare alla ragione. Marcolina mi dovrà ringiovanire... per te. Quindi... cerca di perorare la mia causa presso di lei, Amalia!»
«Sei pazzo, Casanova. E' impossibile. Non vuole saperne degli uomini.»
Casanova scoppiò a ridere.
«E il sottotenente Lorenzi?»
«Che cosa c'entra Lorenzi?»
«E' il suo amante, lo so.»
«Come ti sbagli, Casanova! Lui ha chiesto di sposarla e lei l'ha respinto. Ed è giovane e bello... credo forse più bello di quanto tu non sia mai stato, Casanova!»
«Lui ha chiesto di sposarla?»
«Domanda a Olivo, se non mi credi.»
«Mah, non fa niente. Che m'importa se è vergine o puttana, sposa o vedova... io voglio averla, la voglio!»
«Non te la posso dare, amico mio.» E dal tono della sua voce, sentì che lo compiangeva.
«Vedi bene che uomo spregevole sono diventato, Amalia. Solo dieci, cinque anni fa non avrei avuto bisogno di appoggi o intercessioni, neppure se Marcolina fosse stata la dea della virtù. E ora voglio fare di te una ruffiana. Oppure se fossi ricco... Sì, con diecimila ducati... Ma non ne ho neppure dieci. Sono un mendicante, Amalia.»
«Neppure con centomila avresti Marcolina, che cosa può importarle della ricchezza? ama i libri, il cielo, i prati, le farfalle e i giochi con i bimbi.. E con la sua piccola eredità, ha più del necessario.»
«Ah, se fossi un principe», esclamò Casanova col tono declamatorio che assumeva quando era tormentato da una passione sincera. «Avessi il potere di gettare la gente in prigione e di farla giustiziare... Ma io non sono niente. Un mendicante, e per giunta un bugiardo. Mèndico dai potenti di Venezia un incarico, un tozzo di pane, una patria! Come mi sono ridotto! Non ti faccio schifo, Amalia?»
«Io ti amo, Casanova!»
«Allora dammi quella ragazza Amalia! Dipende da te, lo so. Dille quello che vuoi. Dille che vi ho minacciati. Che sono capace di dar fuoco alla vostra casa! Dille che sono un pazzo, un pazzo pericoloso sfuggito al manicomio, e che l'amplesso di una vergine può ridarmi la salute, sì dille così.»
«Lei non crede ai miracoli.»
«Come? Non crede ai miracoli? Allora non crede nemmeno in Dio. Tanto meglio! Sono nelle grazie dell'arcivescovo di Milano. Diglielo! La posso rovinare posso rovinare tutti voi! Questo è vero Amalia! Che razza di libri legge? Ce ne saranno sicuramente di proibiti dalla Chiesa. Fammi dare un'occhiata. Ne farò una lista. Una mia parola...»
«Taci Casanova. Eccola che viene. Non tradirti! Tieni a freno i tuoi occhi! E ascolta bene quello che ti dico Casanova: non ho mai, mai conosciuto un essere più puro. Se solo immaginasse quello che ho dovuto udire poco fa, le sembrerebbe di essere insozzata e tu non la vedresti mai più per tutto il tempo che stai qui. Parla con lei... sì, parlale! Vedrai, mi chiederai perdono.»


[...]
Marcolina sorrise. «E' molto bello, da parte vostra, Cavaliere, che abbiate la bontà di giudicare con tanta indulgenza il più grande spirito del nostro secolo.»
«Un grande spirito... addirittura il più grande? Definirlo così mi sembra inammissibile già solo perché, con tutto il suo genio, è un uomo irreligioso, anzi, un ateo. E un ateo non potrà mai essere un grande spirito.»
«Secondo me, signor Cavaliere, tra le due cose non c'è contraddizione. Ma lei dovrà dimostrare innanzitutto che Voltaire possa essere definito un ateo.»
Ora Casanova era nel suo elemento. Nel primo capitolo del suo libello aveva raccolto tutta una serie di passi dalle opere di Voltaire, ma soprattutto dalla famigerata Pucelle, che gli parevano particolarmente adatti a provarne la irreligiosità, passi che adesso seppe citare letteralmente, grazie alla sua eccellente memoria, insieme con le sue argomentazioni in contrario. Ma in Marcolina aveva trovato un'avversaria che gli lasciava ben poco spazio sia in termini di dottrina che di acutezza di ingegno e che inoltre, se non nell'eloquenza, lo superava di gran lunga nell'arte vera e propria della parola, soprattutto per chiarezza d'espressione. I passi che Casanova aveva cercato di addurre come prove del sarcasmo, dello scetticismo e dell'ateismo di Voltaire, Marcolina li interpretò abilmente e prontamente come altrettante prove del genio scientifico e letterario del francese, nonché della sua instancabile e appassionata ricerca della verità, e dichiarò apertamente che il dubbio, lo scherno e la stessa irreligiosità, se uniti a un così vasto sapere, a un'onestà intellettuale così incondizionata e a un così alto coraggio, dovessero essere a Dio più graditi dell'umiltà dei devoti, dietro la quale non si celava in genere che un'insufficiente capacità di eseguire ragionamenti coerenti, anzi spesso, (cosa di cui non mancavano esempi) viltà e ipocrisia. Casanova la ascoltava con crescente stupore. Poiché non si sentiva in grado di convertire Marcolina, (tanto più che una sua certa instabilità d'animo che negli ultimi anni s'era abituato a interpretare come fede, minacciava di dissolversi del tutto – se ne rendeva conto - sotto le obiezioni di Marcolina), si mise in salvo con l'osservazione generica che opinioni come quelle da lei espresse poco prima erano altamente pericolose non solo per l'ordinamento della Chiesa, ma soprattutto per le fondamenta dello Stato. E passò poi abilmente a parlare di politica, argomento in cui, con la sua esperienza e conoscenza del mondo, poteva contare su una certa superiorità nei confronti di Marcolina. Ma anche se a lei mancavano conoscenze ed esperienze personali dei meccanismi diplomatici e di corte (e dovette quindi rinunciare a contraddire Casanova su quei particolari rispetto ai quali l'esposizione di lui le ispirava sfiducia) dalle sue osservazioni lui trasse comunque l'incontestabile conclusione che non nutriva particolare rispetto né per i prìncipi di questa terra né per le istituzioni dello Stato in quanto tali, ed era convinta che, nelle cose piccole come in quelle grandi, l'egoismo e la sete di potere contribuissero non tanto a governare quanto a confondere ulteriormente il mondo. Una simile libertà di pensiero, Casanova l'aveva incontrata di rado in una donna, e mai in una fanciulla che sicuramente non aveva ancora vent'anni. E non senza nostalgia ricordò che anche il suo spirito, in giorni passati, più belli di quelli presenti, aveva percorso con un'audacia cosciente e un po' compiaciuta la stessa strada sulla quale vedeva ora Marcolina, senza che però questa sembrasse rendersi conto della propria audacia. E tutto assorto nella peculiarità del modo di pensare e di esprimersi di lei, dimenticò quasi che stava camminando accanto a una creatura giovane, bella e molto desiderabile, cosa ancora più straordinaria in quanto si trovava tutto solo con lei nel viale ormai completamente in ombra, e piuttosto lontano da casa. D'un tratto però, interrompendo una frase appena iniziata, Marcolina esclamò vivacemente, quasi con gioia: «Ecco lo zio!...». E Casanova, come per recuperare il tempo perduto, le sussurrò: «Che peccato. Mi sarebbe piaciuto parlarvi ancora per ore, Marcolina!». E sentì che mentre diceva quelle parole, i suoi occhi si riaccendevano di desiderio.
Marcolina, che durante la precedente conversazione, nonostante l'ironia, s'era comportata in modo quasi confidenziale, riprese subito un contegno più distaccato e il suo sguardo espresse la stessa resistenza, addirittura la stessa ripugnanza, che già una volta, quel giorno, avevano così profondamente ferito Casanova. Sono davvero tanto detestabile? si domandò angosciato. No, si rispose da solo. Non è questo, però Marcolina... non è una donna. Sarà una studiosa, una filosofa, anche un prodigio sicuramente... ma non è una donna. Ma sapeva al tempo stesso che, in quel modo, cercava soltanto di ingannarsi, di consolarsi, di salvarsi, e che quei tentativi erano vani.
[...]
Non riusciva a distogliere lo sguardo da lei, né lei da lui. In quello di lui c'erano collera e vergogna, vergogna e orrore in quello di lei. Casanova sapeva come lei lo vedeva, perché lui stesso si vide, per così dire, nello specchio dell'aria, e si vide come il giorno prima allo specchio nella stanza della torre: un volto giallo e malvagio solcato da rughe profonde, labbra sottili, occhi penetranti... e per giunta tre volte devastato dalle dissolutezze della notte, dall'affannoso sogno del mattino, dalla terribile scoperta del risveglio.
E quanto lesse nello sguardo di Marcolina non fu quello che avrebbe preferito mille volte leggervi: ladro, libertino, canaglia. Vi lesse un'unica parola, che però lo abbatté più ignominiosamente di qualsiasi altra ingiuria, vi lesse la parola più terribile di tutte, che pronunciava la sentenza definitiva: vecchio.

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Il mio primo racconto breve

>> martedì 10 maggio 2011

Ieri nella Biblioteca di Castiglione delle Stiviere è partito il corso di scrittura autogestito dal Gruppo Lettori. Come primo esercizio ognuno di noi aveva il compito di scrivere un racconto breve che terminasse con due finali distinti. Abbiamo letto i racconti uno dopo l'altro e condiviso le impressioni a caldo degli ascoltatori e i suggerimenti per migliorare. La scambio ha funzionato e continueremo con una formula simile anche nel prossimo incontro di fine Maggio.
Questo il mio contributo:


L'ultimo istante

Appena aprì la porta lo sparo partì all'improvviso e lo colse in pieno volto. Michele sentì il calore bruciante di una fiammata ravvicinata e una pressione devastante in mezzo alla fronte. Il capo reclinò di scatto indietro e i suo occhi seguirono l'arco che sale su fino al soffitto e poi scende al pavimento. Sentì la mattonella fredda sulla guancia e Miranda che urlava "Papaaaa"!!! Aveva fatto in tempo a riconoscere Giovanni, il suo migliore amico e il suo giustiziere. Aveva ricevuto la sua telefonata un'ora fa: gli aveva chiesto se poteva passare da casa perchè aveva cose importanti da dirgli. Era un mese che viveva recluso nell'appartamento, dopo la sua deposizione al processo. La moglie lo aveva abbandonato e non aveva avuto neanche la decenza di portarsi dietro la loro bambina. In quell'ultimo istante ricordò una calda giornata d'estate di qualche anno prima, quando dietro l'altalena spingeva la piccola che aveva tre anni. Erano al parco, il sole era alto ma non cocente. L'aria profumava di pino. Miranda rideva ogni volta che le metteva le mani sulle spalle e cercava di mandarla più in alto possibile. La testolina riccioluta si piegava indietro e le gambette scattavano in avanti mostrando i piedini nelle scarpe di stoffa blu con le calze orlate di bianco. Forse in quel momento era stato felice. Peccato rendersene conto solo adesso. Sentì un'ombra che si chinava su di lui, un'ultima pressione sulla spalla e la notte che scendeva sempre più scura.

Secondo finale - continua ...

La pressione sulla spalla divenne più insistente. "Papà, papà sveglia"! Era Miranda. Aprì gli occhi e si rese conto che si era addormentato sul divano. Caspita, era stato un sogno, un incubo. Erano giorni ormai che dormiva solo poche ore. Era crollato dalla stanchezza dopo aver messo giù il telefono. Aveva parlato con Giovanni. "Papà, hanno suonato alla porta" disse Miranda.

Qui di seguito il contributo di Enrica Remelli:

Tre parole


Ricordo perfettamente quella notte,  quei tre secondi: un soffio lungo il tempo di dire tre parole e sentirsele rimbombare nella testa.
Nel dormiveglia che da qualche tempo era il mio sonno, lo sentii rientrare; era tardi:  da qualche mese c’erano  riunioni che terminavano solo a notte inoltrata, alla sua associazione.
Vent’anni fa non avrei avuto dubbi: il mattino dopo, davanti alle nostre tazze tedesche, ricordo della bellissima vacanza dell’anno prima,  sarei stata informata per filo e per segno di quanto detto, mi avrebbe spiegato quanto deciso, infervorandosi nel racconto, appassionato com’era quando l’avevo conosciuto.
Ultimamente, invece, quelle riunioni non avevano seguito, almeno per me… L’indomani mattina saremmo usciti  di casa separatamente, bevendo il caffè nella tazza tedesca ma ognuno per proprio conto.

Finale 1
Avrei potuto immaginare che la mia vita felice e i miei ricordi bellissimi erano solo forzatamente miei e che  mi stavo imponendo di evocarli per farli vivere in eterno.
Tutti i miei patetici sforzi finirono nel soffio di quei tre secondi, il tempo di sentirmi rimbombare nella testa tre brevissime parole:      ” Vorrei essere altrove”.
Non riuscii a dire niente, non so se mi riaddormentai: ricordo solo di averlo sentito uscire  prestissimo la mattina dopo e di averlo bevuto da sola e, per quanto lo riguardava, per sempre, il mio caffè.

Finale 2
Stavo risciacquando la tazza, ero già pronta per uscire ma fuori era ancora buio: mancava ancora molto tempo. Come di solito mi ero svegliata alle quattro, ormai  non sopportavo più l’angoscia dei pensieri che subito arrivavano, così mi alzavo e lavoravo, a volte riuscivo perfino a pulire i vetri al buio e preparavo con la massima cura la colazione: era il solo modo di sopravvivere a quelle ore prima dell’alba.
All’improvviso mi accorsi di non essere sola, mi girai e lo vidi lì in piedi, stranamente sembrava sorridere, poi lentamente ricordai… rientrando la notte prima l’avevo sentito mormorare qualcosa, un soffio di tre parole che nel dormiveglia faticai a capire ma che adesso mi rimbombavano nella testa: “Rieccomi a casa”, capii cosa volevano dire e lentamente sorrisi anch’io…

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La regina dei castelli di carta - Stieg Larsson

>> venerdì 6 maggio 2011

Come la maggior parte di coloro che ha letto Uomini che odiano le donne anch'io ho portato a termine la lettura della trilogia e quindi di questo terzo libro conclusivo. L'impresa è stata impegnativa (la somma dei tre libri porta ad oltre 2200 pagine) ma tutto sommato ne è valsa la pena. Quest'ultimo capitolo approfondisce la conoscenza della protagonista Lisbeth e delle motivazioni che l'hanno portata al suo particolare atteggiamento nei confronti del mondo. La rende, ancora di più dei precedenti, una persona viva, una donna sfortunata che ti verrebbe voglia di aiutare e un'icona di tutti coloro che reagiscono alle ingiustizie anche quando queste sono enormemente più grandi di loro e rischiano di sommergerle definitivamente. Prosegue la critica alla società svedese e in questo caso si focalizza sull'uso deviato dei servizi segreti. La trama è scorrevole ma, rispetto ai due volumi precedenti, non ha nulla di memorabile. Si complica anzi inutilmente per via dello smisurato numero di storie parallele a quella principale non sempre funzionali al tutto. Presenta numerose situazioni paradossali e poco credibili (una su tutte l'irruzione della polizia in un aula di tribunale mentre si sta svolgendo il processo con arresto del teste al termine della deposizione). Dei tre libri è probabilmente quello meno riuscito. Comunque tanto di cappello all'autore che con la sua capacità inventiva e narrativa è stato capace di creare personaggi indimenticabili e di catalizzarre l'attenzione di milioni di lettori in tutto il mondo.

Lisbeth Salander rimase a lungo a fissare la porta chiusa. Infine si sdraiò e si mise a fissare il soffitto. Fu allora che scoprì di avere qualcosa di duro sotto la nuca. Sollevò il cuscino e con infinito stupore scoprì un piccolo sacchetto di tela che prima non c'era. Lo aprì e fissò senza capire un palmare Palm Tungsten T3 e un caricabatteria. Guardò il palmare più da vicino e scoprì un graffietto sul bordo. Il suo cuore sobbalzò. È il mio Palm. Ma come... Esterrefatta, spostò di nuovo lo sguardo sulla porta. Anders Jonasson era pieno di sorprese. Era così eccitata. Accese immediatamente il computer e scoprì altrettanto immediatamente che era protetto da una password. Fissò frustrata lo schermo che lampeggiava perentorio. E come diavolo dovrei fare a... Poi cercò dentro il sacchetto di tela e trovò sul fondo una strisciolina di carta ripiegata. Scosse il sacchetto per farla uscire, la spiegò e lesse il messaggio scritto a mano in bella grafia. 
L'hacker sei tu. Scoprila! Kalle B.
Lisbeth rise per la prima volta dopo molte settimane.
[...]
Infine fu condotta in aula Lisbeth Salander. Benché Mikael sapesse dell'abitudine di Lisbeth di vestirsi in modo provocatorio, fu sorpreso dal fatto che Annika le avesse permesso di comparire in aula indossando una minigonna di pelle nera con l'orlo sfrangiato e una maglietta nera con la scritta "I am irritated" che non copriva granché dei suoi tatuaggi. Il tutto completato da stivaletti, cintura borchiata e calze al ginocchio a righe nere e viola. Lisbeth aveva una decina di piercing su orecchie, labbra e sopracciglia. I capelli erano spuntoni neri di tre mesi, cresciuti dopo l'operazione al cervello. Lisbeth aveva anche un trucco insolitamente pesante. Rossetto grigio e più mascara nero di quanto Mikael le avesse mai visto addosso. All'epoca in cui si frequentavano, lei era piuttosto disinteressata al trucco. Adesso aveva un'aria un po' volgare, per dirla in maniera diplomatica. Quasi gotica. Ricordava un vampiro di un film pop degli anni sessanta. Mikael notò che alcuni dei reporter fra il pubblico trattennero sorpresi il respiro e poi sorrisero divertiti quando fece la sua apparizione. Ora che fi-nalmente potevano vedere la chiacchierata ragazza della quale tanto avevano scritto, la trovavano all'altezza delle aspettative. Solo allora Mikael si rese conto che quello di Lisbeth era un travestimento. Di solito si vestiva senza cura e all'apparenza senza gusto. Mikael aveva sempre supposto che non lo facesse per seguire la moda ma per marcare la propria identità. Lisbeth Salander segnava la sua riserva personale come un territorio ostile. Mikael aveva sempre considerato le borchie della sua giacca di pelle un meccanismo di difesa, come gli aculei del riccio. Erano un segnale per il mondo. Non cercate di accarezzarmi. Finireste per farvi male. Questa volta però aveva accentuato il suo stile fino a un'esagerazione quasi parodistica. E Mikael aveva capito che non si trattava di un caso, ma di una parte della strategia di Annika. Se Lisbeth fosse arrivata ben pettinata, con una camicetta e delle scarpe basse, sarebbe sembrata un'imbrogliona che cercava di vendere una storia alla corte. Era una questione di credibilità. Invece era arrivata come se stessa e nessun altro. Esagerando un po' per fugare ogni dubbio. Non fingeva di essere qualcuno che non era. Il suo messaggio alla corte era che non aveva nessun motivo di vergognarsi né di mascherarsi per loro. Se la corte aveva problemi con il suo aspetto esteriore, non erano affari suoi. La società l'aveva accusata di questo e quest'altro e il procuratore l'aveva trascinata in tribunale. Con quella sua semplice apparizione, lei aveva già sottolineato che intendeva respingere i ragionamenti del pubblico ministero come semplici sciocchezze.

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Corso di scrittura in Biblioteca

>> domenica 1 maggio 2011

Nei prossimi giorni, assieme ad un piccolo gruppo di agguerriti lettori di Castiglione delle Stiviere, inizierò un corso sulla scrittura. Ci incontreremo in biblioteca e sperimenteremo una formazione autogestita dove ognuno di noi porterà dei contributi per stimolare la discussione e condividerà con gli altri i componimenti che di volta in volta scaturiranno dagli esercizi che ci daremo. Sono convinto che questo progetto consentirà a noi tutti di apprezzare ancora di più quello che leggiamo.
I contributi che ho deciso di portare li prenderò dal corso "Io Scrivo" che il Corriere della Sera ha dedicato alla scrittura e cercherò di privilegiare quelle informazioni e quei suggerimenti che ci renderanno consci dei meccanismi che i grandi scrittori usano per rendere memorabili le loro opere.
Allegato al primo numero di "Io Scrivo" vi è un dvd che riporta un'intervista a Roberto Saviano (è possibile vedere l'intervista integrale qui). Completerò qui di seguito i concetti espressi da Saviano con considerazioni ed esempi tratti da Gomorra.

Saviano ritiene che la forma di dialogo più attuale è quella che si ricava dalle intercettazioni telefoniche di politici, faccendieri, deliquenti e questo perchè la cassa di risonanza dei mass media ne ha fatto il "dialogato della narrativa contemporanea". Per la trascrizione delle intercettazioni, lo scrittore ha preso come maestro Truman Capote e il suo dialogo sincopato usato nel capolavoro A sangue freddo. Qui di seguito un esempio:

In guerra non è possibile più avere rapporti d'amore, legami, relazioni, tutto può divenire elemento di debolezza. Il terremoto emozionale che avviene negli affiliati ragazzini è registrato nelle intercettazioni fatte dai carabinieri, come quella tra Francesco Venosa e Anna, la sua ragazza, trascritta nel decreto di fermo emesso dalla Procura Antimafia di Napoli nel febbraio 2006. È l'ultima telefonata prima di cambiare numero, Francesco fugge nel Lazio, avverte suo fratello Giovanni con un SMS di non osare scendere per strada, è sotto tiro: "Ciao fratello t.v.t.b. ti racc non scendere per nessun motivo. Ok?" Francesco deve spiegare alla sua ragazza che deve andare via, e che la vita di uomo di Sistema è complicata: «Io ormai ho diciotto anni... non si scherza... questi ti buttano... ti ammazzano, Anna!» Anna però è ostinata, vorrebbe fare il concorso per diventare maresciallo dei carabinieri, cambiare la sua vita e farla cambiare a Francesco. Al ragazzo non dispiace affatto che Anna voglia entrare nei carabinieri, ma si sente ormai troppo vecchio per mutare vita:
Francesco: «Te l'ho detto, mi fa piacere per te... Però la mia vita è un'altra... E io non la cambio la mia vita».
Anna: «Ah, bravo, mi fa piacere... Continua sempre così, hai capito?». Francesco: «Anna, Anna... non fare così...». Anna: «Ma tu tieni diciotto anni, puoi cambiare benissimo... Ma perché stai già rassegnato? Non lo so...». Francesco: «Non la cambio la mia vita, per nessun motivo al mondo». Anna: «Ah, perché tu stai bene così». Francesco: «No, Anna, io non sto bene così, ma per il momento abbiamo subìto... e dobbiamo recuperare il rispetto perso... La gente quando camminiamo nel rione non aveva il coraggio di guardarci in faccia... adesso alzano tutti la testa». Per Francesco, che è uno Spagnolo, l'oltraggio più grave è che nessuno più si sente in soggezione dinanzi al loro potere. Hanno subìto troppi morti e così nel suo rione tutti lo vedono come afferente a un gruppo di killer cialtroni, camorristi falliti. Questo è intollerabile, bisogna reagire anche a costo della vita. La fidanzata cerca di frenarlo, di non farlo sentire già un condannato: Anna: «Non ti devi mettere nel bordello, cioè tu puoi benissimo vivere...».Francesco: «No, non la voglio cambiare la vita mia...».
Il giovanissimo scissionista è terrorizzato dal fatto che i Di Lauro possano prendersela con lei, ma la rassicura dicendo che lui aveva molte ragazze, quindi nessuno può associare Anna con lui. Poi le confessa, da adolescente romantico, che lei ora è l'unica. «... A finale io tenevo trenta donne nel rione... ora però dentro là mi sento solo con te...» Anna sembra tralasciare ogni paura di ritorsione, come una ragazzina qual è, pensa solo all'ultima frase che Francesco ha pronunciato: Anna: «Ci vorrei credere».

La caratteristica di Gomorra è la mescolanza di fatti visti con gli occhi dello scrittore e la narrazione di vicende cui lo stesso autore non può aver assistito. Non è un meccanismo nuovo ma mi sembra importante che l'autore lo abbia usato con l'obiettivo di rendere il lettore partecipe delle vicende. Ad un certo punto Saviano si dichiara totalmente in linea con il vedere il libro di Primo Levi Se questo è un uomo non come un grande documento storico ma come un grande romanzo perchè la differenza è che il documento ti informa mentre il romanzo ti rende partecipe della storia, ti fa stare lì. Saviano tecnicamente ha cercato di fare la stessa operazione usando i seguenti espedienti:
  • lo sguardo non è quello del reporter che è tenuto a trasferire quanto è successo nel modo più fedele possibile ma quello dello scrittore che si può soffermare su dettagli secondari e con questi allargare contesti e sensazioni (es. "pasta e patate")
  • il linguaggio usato per descrivere le situazioni macabre è asciutto, freddo, fisiologico quasi da referto clinico e ciò rende il tutto più credibile
  • la narrazione è in italiano ma la frase è spesso costruita in maniera diversa o con termini tipici del territorio (es. "acchiappamorti")
Ecco un esempio esplicativo: 

Per seguire la faida ero riuscito a procurarmi una radio capace di sintonizzarsi sulle frequenze della polizia. Arrivavo così con la mia Vespa più o meno in sincrono con le volanti. Ma quella sera mi ero addormentato. Il vociare gracchiante e cadenzato delle centrali per me era divenuto una sorta di melodia cullante. Così quella volta fu una telefonata in piena notte che mi avvertì dell'accaduto. Arrivato sul luogo, trovai una macchina completamente bruciata. L'avevano cosparsa di benzina. Litri di benzina, Ovunque. Benzina sui sedili anteriori, benzina su quelli posteriori, benzina sulle gomme, sul volante. Le fiamme erano già consumate, i vetri esplosi, quando sono arrivati i pompieri. Non so bene perché mi sono precipitato davanti a quella carcassa  d'auto. C'era un puzzo terribile, di plastica bruciata. Poche persone d'intorno, un vigile urbano con una torcia guarda dentro le lamiere. C'è un corpo, o qualcosa che gli somiglia. I pompieri aprono le portiere prendendo il cadavere, hanno una smorfia di disgusto. Un carabiniere si sente male, appoggiandosi al muro vomita la pasta e patate mangiata poche ore prima. Il corpo era solo un tronco irrigidito, tutto nero, il volto solo un teschio annerito, le gambe scuoiate dalle fiamme. Presero il corpo per le braccia e lo posarono a terra aspettando la macchina mortuaria. Il furgoncino acchiappamorti gira continuamente, lo si vede da Scampia
a Torre Annunziata. Raccoglie, accumula, preleva cadaveri di gente morta sparata. La Campania è il territorio con più morti ammazzati d'Italia, tra i primi posti al mondo. Le gomme della macchina mortuaria sono liscissime, basterebbe fotografare i cerchioni mangiucchiati e il grigiore dell'interno dei pneumatici per avere l'immagine simbolo di questa terra.

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Lettura di Sciascia in biblioteca

5 Marzo ore 20,30, Biblioteca Castiglione delle Stiviere

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