Bambino 44 - Tob Rob Smith

>> venerdì 31 dicembre 2010

Ambientato nella russia staliniana, è un thriller che si lascia leggere molto facilmente. I personaggi sono ben descritti e la storia particolarmente articolata. E' incentrata sulla caccia ad un killer seriale ed è interessante per tutto quello che vi fa da sfondo: la Russia con la sua miseria e povertà, i metodi coercitivi usati dalla polizia per estorcere confessioni, l'ideologia che pone il bene della nazione al di sopra del singolo e non ammette l’esistenza di alcun tipo di crimine, segnale di corruzione morale dei costumi e deleteria per l'immagine del socialismo. 
Mi hanno lasciato perplesso le motivazioni che spingono il criminale ad uccidere le sue vittime.

Pavel non credeva ai propri occhi. Era strano, magro, con gli occhi verdi e il pelo nero maculato: era senza ombra di dubbio un gatto. Stava facendo legna quando vide l'animale schizzare fuori dalla casa di Marija Antonovna, attraversare la strada coperta di neve e dirigersi verso il bosco. Trattenendo il fiato si guardò rapidamente attorno. Nessun altro lo aveva visto. Non c'era nessuno in giro, e nessuna luce alle finestre. Sbuffi di fumo uscivano da meno della metà dei comignoli, unico segno di vita. Era come se il villaggio fosse stato soffocato dalla pesante nevicata, spenta ogni traccia di vita. La neve era in gran parte intatta: c'era a malapena qualche impronta e nemmeno un sentiero spalato. I giorni erano silenziosi come le notti. Nessuno si alzava per lavorare. Nessuno dei suoi amici giocava, rimanevano tutti dentro casa, sdraiati sui letti, abbracciati ai famigliari, file di occhi enormi e infossati a fissare il soffitto. Gli adulti avevano cominciato a sembrare bambini, i bambini a sembrare adulti. Quasi tutti avevano smesso di darsi da fare per trovare del cibo. In quella situazione, l'apparizione di un gatto aveva del miracoloso: una creatura da tempo considerata estinta che ricompare.
Pavel chiuse gli occhi e cercò di ricordare l'ultima volta che aveva mangiato carne. Quando li riaprì, sbavava per l'acquolina. La saliva gli colava giù ai due lati del mento, in grossi rivoli. Si pulì con il dorso della mano. In preda all'eccitazione, gettò a terra il mucchio di legna e corse a casa. Doveva riferire a sua madre Oksana la straordinaria notizia.

Read more...

Lettera ad un bambino mai nato - Oriana Fallaci

>> martedì 21 dicembre 2010

Lettera a un bambino mai nato è un lungo monologo drammatico e poetico in cui la protagonista affronta i dubbi, le incertezze e le delusioni della sua maternità di donna sola. Sembra che la Fallaci lo abbia scritto al posto di un'inchiesta sull'aborto che le era stata commissionata dall'editore della rivista per cui lavorava. Sicuramente c'è molto di autobiografico perchè nel corso della sua vita ha vissuto lo stesso dramma narrato. Di enorme valore la parte iniziale, più prosaica invece quella finale. L'edizione in audiolibro, letto dalla stessa autrice con la sua voce grave, ha un ulteriore valore aggiunto. Uno dei libri più belli letti quest'anno.


La mia mamma, vedi, non mi voleva. Ero incominciata per sbaglio, in un attimo di altrui distrazione. E perché‚ non nascessi ogni sera scioglieva nell'acqua una medicina. Poi la beveva, piangendo. La bevve fino alla sera in cui mi mossi, dentro il suo ventre, e le tirai un calcio per dirle di non buttarmi via. Lei stava portando il bicchiere alle labbra. Subito lo allontanò e ne rovesciò il contenuto per terra. Qualche mese dopo mi rotolavo vittoriosa nel sole, e se ci sia stato bene o male non so. Quando sono felice penso che sia stato bene, quando sono infelice penso che sia stato male. Perché, anche quando sono infelice, penso che mi dispiacerebbe non essere nata perché‚ nulla é peggiore del nulla. Io, te lo ripeto, non temo il dolore. Esso nasce con noi, cresce con noi, ad esso ci si abitua come al fatto d'avere due braccia e due gambe. Io, in fondo, non temo neanche di morire: perché‚ se uno muore vuol dire che é nato, che é uscito dal niente. Io temo il niente, il non esserci, il dover dire di non esserci stato, sia pure per caso, sia pure per sbaglio, sia pure per l'altrui distrazione. Molte donne si chiedono: mettere al mondo un figlio, perché‚? Perché‚ abbia fame, perché‚ abbia freddo, perché‚ venga tradito e offeso, perché‚ muoia ammazzato alla guerra o da una malattia? E negano la speranza che la sua fame sia saziata, che il suo freddo sia scaldato, che la fedeltà e il rispetto gli siano amici, che viva a lungo per tentar di cancellare le malattie e la guerra. Forse hanno ragione loro. Ma il niente é da preferirsi al soffrire? Io perfino nelle pause in cui piango sui miei fallimenti, le mie delusioni, i miei strazi, concludo che soffrire sia da preferirsi al niente. E se allargo questo alla vita, al dilemma nascere o non nascere, finisco con l'esclamare che nascere é meglio di non nascere. Tuttavia é lecito imporre tale ragionamento anche a te? Non é come metterti al mondo per me stessa e basta? Non mi interessa metterti al mondo per me stessa e basta. Tanto più che non ho affatto bisogno di te.
[...]
Mi prendo la responsabilità della scelta.
Me la prendo senza egoismo, bambino: metterti al mondo, lo giuro, non mi diverte. Non mi vedo camminare per strada col ventre gonfio, non mi vedo allattarti e lavarti e insegnarti a parlare. Sono una donna che lavora ed ho tanti altri impegni, curiosità : te l'ho già detto che non ho bisogno di te. Però ti porterò avanti lo stesso, che ti piaccia o no. Te la imporrò lo stesso quella prepotenza che fu imposta anche a me, e ai miei genitori, ai miei nonni, ai nonni dei miei nonni: su fino al primo essere umano partorito da un essere umano, che gli piacesse o no. Probabilmente, se a costui o a costei fosse stato concesso di scegliere, si sarebbe
impaurito e avrebbe risposto non voglio nascere, no. Ma nessuno gli chiese un parere, e così nacque e visse e morì dopo aver partorito un altro essere umano cui non aveva chiesto di scegliere, e costui fece lo stesso, per milioni di anni fino a noi, e ogni volta fu una prepotenza senza la quale non esisteremmo. Coraggio, bambino. Pensi che il seme di un albero non abbia bisogno di coraggio quando buca la terra e germoglia? Basta un colpo di vento a staccarlo, la zampina di un topo a schiacciarlo. Eppure lui germoglia e tiene duro e cresce gettando altri semi. E diventa un bosco. Se un giorno griderai "Perché mi hai messo al mondo, perché? Io ti risponderò: "Ho fatto ciò che fanno e hanno fatto gli alberi, per milioni e milioni di anni prima di me, e credevo di fare bene".
L'importante é non cambiare idea ricordando che gli esseri umani non sono alberi, che la sofferenza di un essere umano é mille volte più grande della sofferenza di un albero perché‚ é cosciente, che a nessuno di noi giova diventare un bosco, che non tutti i semi degli alberi generano alberi: nella stragrande maggioranza
vanno perduti. Un simile voltafaccia é possibile, bambino: la nostra logica é piena di contraddizioni. Appena affermi qualcosa, ne vedi il contrario. E magari ti accorgi che il contrario é valido quanto ciò che affermavi.
Il mio ragionamento di oggi potrebbe essere rovesciato così, con uno schiocco di dita. Infatti ecco: mi sento già confusa, disorientata Forse perché‚ non posso confidarmi con nessuno al di fuori di te. Sono una donna che ha scelto di vivere sola. Tuo padre non sta con me. E non me ne dolgo sebbene, ogni tanto, il mio sguardo cerchi la porta da cui egli uscì, col suo passo deciso, senza che io lo fermassi, quasi non avessimo più nulla da dirci.
[...]
Bambino, io sto cercando di spiegarti che essere un uomo non significa avere una coda davanti: significa essere una persona. E anzitutto, a me, interessa che tu sia una persona. E una parola stupenda, la parola persona, perché‚ non pone limiti a un uomo o a una donna, non traccia frontiere tra chi ha la coda e chi non ce l'ha. Del resto il filo che divide chi ha la coda da chi non ce l'ha, é un filo talmente sottile: in pratica si riduce alla facoltà di maturare o no una creatura nel ventre. Il cuore e il cervello non hanno sesso. Nemmeno il comportamento. Se sarai una persona di cuore e di cervello, ricordalo, io non starò certo tra quelli che ti ingiungeranno di comportarti in un modo o nell'altro in quanto maschio o femmina. Ti chiederò solo di sfruttare bene il miracolo d'essere nato, di non cedere mai alla viltà. E una bestia che sta sempre in agguato, la viltà. Ci morde tutti, ogni giorno, e son pochi coloro che non si lasciano sbranare da lei. In nome della prudenza, in nome della convenienza, a volte della saggezza. Vili fino a quando un rischio li minaccia, gli umani diventano spavaldi dopo che il rischio é passato. Non dovrai evitare il rischio, mai: anche se la paura ti frena. Venire al mondo é già un rischio. Quello di pentirsi, poi, d'esser venuti.
[...]
Dopo l'esercito inglese venne l'esercito americano. Tutti dicevano che gli americani sarebbero stati più cordiali, più buoni, e la ragazzina sperò che fosse vero giacché‚ molti di loro ridevano grasse risate colme di umanità. Presto però s'accorse che con le loro risate grasse, colme di umanità, anch'essi violentavano e corrompevano e si comportavano da padroni: il domani era una paura nuova. La fame invece era la stessa. Per placarla alcune donne si prostituivano, altre lavavano i panni dei nuovi padroni. Ogni terrazza, ogni cortile era un ciondolar di uniformi e calzini e magliette; un vantarsi di chi ne lavava di più. Sei paia di calzini, un pane a cassetta. Tre maglie, una scatoletta di carne e fagioli. Una uniforme, due scatolette di carne. Il padre della ragazzina non permetteva che sua moglie e sua figlia toccassero quei panni sporchi. Diceva che bene o male il domani era incominciato e bisognava difenderlo con dignità. Per dimostrarlo invitava a mangiare gli "amici" e gli dava la sua razione di cibo fresco. Una sera gli dette perfino il suo orologio d'oro, pronunciando un bel discorso dove ricordava i prigionieri aiutati per il domani che restava una causa comune. Gli amici presero l'orologio d'oro e, per risposta, offrirono panni da lavare. La ragazzina si offese. Ma la fame é una bestia piena di tentazioni: pochi giorni dopo, di nascosto a suo padre, essa ci ripensò e chiese di lavare i panni. Giunsero due sacchi. Uno conteneva roba sporca e uno il cibo. Quello del cibo fu subito aperto e vuotato di tre scatolette di fagioli col sugo, due pani a cassetta, un vasetto di noccioline, un barattolo intero di gelato alla fragola. Quello della roba sporca fu aperto più tardi. E quando la ragazzina lo rovesciò nel lavatoio, arrossì di rabbia. Erano tutte mutande sporche.
Fu lavando le mutande sporche degli altri che me ne resi conto: il nostro domani non era giunto, e forse non sarebbe mai giunto. Avrebbero sempre continuato a imbrogliarci con le promesse: in un rosario di delusioni alleggerite da falsi sollievi, miserandi regali, pietose comodità per tenerci quieti. Giungerà mai per te il mio domani? Ne dubito. Sono secoli, sono millenni che la gente mette al mondo figli fidando nel domani, sperando che domani essi stiano meglio di loro.
[...]
Ha preoccupazioni? . Gli ho risposto sì. Ha avuto qualche trauma psicologico, che so un dispiacere? Gli ho risposto sì. Mi ha fissato senza chiedere che specie di trauma, che specie di dispiacere, poi mi ha esposto la sua tesi. A volte le preoccupazioni, le ansie, gli shock sono più pericolosi delle fatiche fisiche perché‚ causano spasmi, contrazioni uterine, e minacciano seriamente la vita dell'embrione o del feto. Non dimenticassi che l'utero é in relazione con l'ipofisi, che ogni stimolo si trasmette subito agli organi genitali. Una sorpresa violenta, un dolore, una collera, possono provocare il distacco parziale dell'uovo. Lo può addirittura un nervosismo costante, un perpetuo stato d'angoscia. Al limite, e lungi da lui l'intenzione di sconfinare nella fantascienza o nella fantapsicologia, si poteva parlare di un pensiero che uccide. Al livello inconscio, s'intende, e per questo dovevo assolutamente impormi d'esser tranquilla. Dovevo rigorosamente evitare ogni  emozione, ogni pensiero nero. Serenità, placidità erano le parole d'ordine. Dottore, ho risposto, é lo stesso che chiedermi di cambiare il colore degli occhi: come faccio ad essere placida se la mia natura non lo é? Mi ha squadrato di nuovo con freddezza: Questo é affar suo. Si arrangi. Ingrassi . Poi mi ha prescritto antispastici e altre medicine. Se per caso appare una goccia di sangue, corra da lui. Sono impaurita. Ed anche adirata con te. Cosa credi che sia: un contenitore, un barattolo dove si mette un oggetto da custodire? Sono una donna, perDio, sono una persona. Non posso svitarmi il cervello e proibirgli di pensare. Non posso annullare i miei sentimenti o proibirgli di manifestarsi. Non posso ignorare una rabbia, una gioia, un dolore. Ho le mie reazioni, io, i miei stupori, i miei scoramenti. Anche se potessi, non vorrei disfarmene per ridurmi allo stato di un vegetale o di una macchina fisiologica che serve a procreare e basta! Quanto sei esigente, bambino. Prima pretendi di controllare il mio corpo e privarlo del suo più elementare diritto: muoversi. Dopo pretendi addirittura di controllare la mia mente e il mio cuore: atrofizzandoli, neutralizzandoli, derubandoli della loro capacità di sentire, pensare, vivere ! Accusi perfino il mio inconscio. Questo é eccessivo, é inaccettabile. Se vogliamo restare insieme, bambino, dobbiamo scendere a patti. Eccoli. Ti faccio una concessione: ingrasso, ti regalo il mio corpo. Ma la mia mente no. Le mie reazioni no. Me le tengo. E con quelle pretendo una mancia: i miei piaceri spiccioli. Infatti ora bevo un abbondantissimo whisky, e fumo un pacchetto di sigarette, una dopo l'altra, e riprendo a lavorare, ad esistere come persona e non come barattolo, e piango, piango, piango: senza chiederti se ti fa male. Perché‚ sono stufa di te!

Read more...

Bambini nel tempo - Ian McEwan

>> sabato 18 dicembre 2010

Romanzo che parte bene, con la misteriosa scomparsa di una bambina nel supermercato, e poi si perde in piani narrativi, considerazioni, storie che sembrano inserite a caso. Non si capisce perchè tra i due genitori i rapporti degenirino con la scomparsa della figlia. Se avessi inziato a leggere McEwan con questo libro mi sarei perso quel capolavoro che è Chesil Beach.

In ogni caso, qualunque cosa sia il tempo, la versione che ne fornisce il buon senso, e cioè qualcosa di lineare, regolare, assoluto, che procede da sinistra verso destra, dal passato al presente al futuro, o è una stupidaggine o una minuscola frazione di verità. Lo sappiamo per esperienza. Un'ora può sembrarci un minuto o una settimana. Il tempo cambia. Lo sappiamo da Einstein, che in questo ambito resta il nostro punto di riferimento. Nella teoria della relatività, il tempo dipende dalla velocità dell'osservatore. Avvenimenti simultanei per qualcuno, possono apparire conseguenti per qualcun altro. Non esiste un "adesso" assoluto, universalmente accettato.
Esistono corpi opachi dotati di enormi campi gravitazionali, o buchi neri, in cui il tempo può fermarsi di colpo. Il balenare di certe particelle nella camera di Wilson può essere spiegato solo con il movimento a ritroso del tempo. Nella teoria del Big Bang, si pensa che il tempo sia stato creato insieme alla materia e ne sia inseparabile. E anche questo fa parte del problema; per considerare il tempo come entità, siamo costretti a separarlo dallo spazio e dalla materia, dobbiamo distorcerlo per osservarlo. Ho sentito dire che la stessa struttura del cervello limita la nostra comprensione del tempo esattamente come ci permette di percepire soltanto tre dimensioni dello spazio. Ma questo mi pare frutto di un materialismo piuttosto vago, oltre che pessimistico. E' vero però che dobbiamo  restare legati a dei modelli - il tempo come massa fluida, il tempo come complicata sacca con punti di contatto tra i vari momenti.

Read more...

Il piccolo principe - Antoine de Saint Exupéry

>> sabato 27 novembre 2010

Ho letto questo libro perchè incuriosito dal suo alone di "capolavoro" della letteratura per l'infanzia che ha messaggi profondi anche per gli adulti. 
Sarà che sono fuori tempo massimo, che le attese erano tante, che con gli anni sono diventato un po' intransigente,... ma mi ha deluso parecchio. Tecnicamente mi sembra scritto in modo troppo semplicistico tale da risultare noioso nonostante le 50 pagine totali. E quelli che sono i valori e le stranezze dell'umanità che dovrebbero emergere dalla purezza dei ragionamenti di un bambino, sì ci sono, ma che fatica ricavarli dalla storiella. 
Un merito il libro comunque ce l'ha: mi ha fatto venir voglia di rileggere il Candido di Voltaire, dove i due piani di lettura funzionano in modo grandioso e quello adulto è retto da un'ironia magistrale.

Il quarto pianeta era abitato da un uomo d'affari. Questo uomo era così occupato che non alzò neppure la testa all'arrivo del piccolo principe. "Buon giorno", gli disse questi. "La vostra sigaretta si è spenta". "Tre più due fa cinque. Cinque più sette: dodici. Dodici più tre: quindici. Buon giorno. Quindici più sette fa ventidue. Ventidue più sei: ventotto. Non ho tempo per riaccenderla. Ventisei più cinque trentuno. Ouf! Dunque fa cinquecento e un milione seicento ventiduemila settecento trentuno". "Cinquecento e un milione di che?" "Hem! Sei sempre lì? Cinquecento e un milione di ... non lo so più. Ho talmente da fare! Sono un uomo serio, io, non mi diverto con delle frottole! Due più cinque: sette..." "Cinquecento e un milione di che?" ripetè il piccolo principe che mai aveva rinunciato a una domanda una volta che l'aveva espressa. L'uomo d'affari alzò la testa: "Da cinquantaquattro anni che abito in questo pianeta non sono stato disturbato che tre volte. La prima volta è stato ventidue anni fa, da una melolonta che era caduta chissà da dove. Faceva un rumore spaventoso e ho fatto quattro errori in una addizione. La seconda volta è stato undici anni fa per una crisi di reumatismi. Non mi muovo mai, non ho il tempo di girandolare. Sono un uomo serio, io. La terza volta ... eccolo! Dicevo dunque cinquecento e un milione". "Milione di che?" L'uomo d'affari capì che non c'era speranza di pace. "Milioni di quelle piccole cose che si vedono qualche volta nel cielo". "Di mosche?" "Ma no, di piccole cose che brillano". "Di api?" "Ma no. Di quelle piccole cose dorate che fanno fantasticare i poltroni. Ma sono un uomo serio, io! Non ho il tempo di fantasticare". "Ah! di stelle?" "Eccoci. Di stelle". "E che ne fai di cinquecento milioni di stelle?" "Cinquecento e un milione seicentoventiduemilasettecentotrentuno. Sono un uomo serio io, sono un uomo preciso." "E che te ne fai di queste stelle?" "Che cosa me ne faccio?" "Si". "Niente. Le possiedo io". "Tu possiedi le stelle?" "Si".
"Ma ho già veduto un re che..." "I re non possiedono. Ci regnano sopra. È molto diverso". "E a che ti serve possedere le stelle?" "MI serve ad essere ricco". "E a che ti serve essere ricco?" "A comperare delle altre stelle, se qualcuno ne trova". Questo qui, si disse il piccolo principe, ragiona un pò come il mio ubriacone. Ma pure domandò ancora: "Come si può possedere le stelle?" "Di chi sono?" rispose facendo stridere i denti l'uomo d'affari. "Non lo so, di nessuno". "Allora sono mie che vi ho pensato per il primo". "E questo basta?" "Certo. Quando trovi un diamante che non è di nessuno, è tuo. Quando trovi un'isola che non è di nessuno, è tua. Quando tu hai un'idea per il primo, la fai brevettare, ed è tua. E io possiedo le stelle, perché mai nessuno prima di me si è sognato di possederle". "Questo è vero", disse il piccolo principe. "Che te ne fai?" "Le amministro. Le conto e le riconto", disse l'uomo d'affari. "È una cosa difficile, ma io sono un uomo serio!" Il piccolo principe non era ancora soddisfatto. "Io, se possiedo un fazzoletto di seta, posso metterlo intorno al collo e portarmelo via. Se possiedo un fiore, posso cogliere il mio fiore e portarlo con me. Ma tu non puoi cogliere le stelle". "No, ma posso depositarle alla banca". "Che cosa vuol dire?" "Vuol dire che scrivo su un pezzetto di carta il numero delle mie stelle e poi chiudo a chiave questo pezzetto di carta in un cassetto". "Tutto qui?" "È sufficiente". È divertente, pensò il piccolo principe, e abbastanza poetico. Ma non è molto serio. Il piccolo principe aveva sulle cose serie delle idee molto diverse da quelle dei grandi.
"Io", disse il piccolo principe, "possiedo un fiore che innaffio tutti i giorni. Possiedo tre vulcani dei quali spazzo il camino tutte le settimane. Perché spazzo il camino anche di quello spento. Non si sa mai. È utile ai miei vulcani, ed è utile al mio fiore che io li possegga. Ma tu non sei utile alle stelle..." L'uomo d'affari aprì la bocca ma non trovò niente da rispondere e il piccolo principe se ne andò . Decisamente i grandi sono proprio straordinari, si disse semplicemente durante il viaggio.

Read more...

La fine è il mio inizio - Tiziano Terzani

>> domenica 7 novembre 2010

E' il primo libro che leggo di Terzani ed è stato un caso che sia partito dall'ultima sua opera. Il libro è uscito postumo dopo la sua morte ed è la trascrizione degli ultimi dialoghi con suo figlio in cui lo scrittore ripercorre la sua vita. E' il suo testamento spirituale, il suo tirare le somme sui viaggi, sugli affetti, sulle persone, sulla vita e sulla morte. Si ripercorre la storia dell'estremo oriente (Vietnam, Cambogia, Cina, Giappone,....) con le parole di chi l'ha vissuta sulla sua pelle e si percepisce tutta la delusione dell'autore su un'idea di una società o di un mondo migliore, spazzata via dai totalitarismi e dalle sopraffazioni dei vari regimi. Di notevole valore le considerazioni dello scrittore sulla fine dell'esistenza e su come lui stesso si sia preparato ad affrontarla.

Che cos'è che ci fa così spavento della morte?
Quello che ci fa paura, che ci congela davanti a quel momento è l'idea che scomparirà in quell'attimo tutto quello a cui noi siamo tanto attaccati. Prima di tutto il corpo. Del corpo ne abbiamo fatto un'ossessione. Tu pensa: uno cresce con questo corpo, ci si identifica. Guarda te, sei giovane, sei forte, pieno di muscoli. Oh, ero così anch'io! Ogni giorno correvo dei chilometri per tenermi in forma, facevo ginnastica, avevo delle gambe dritte, avevo i baffi e la testa piena di capelli corvini. Ero un bel ragazzo. Uno dice “TIZIANO Terzani” e pensa a quel corpo lì. Tutto da ridere! Guardami ora. Pelle e ossa, magrissimo, le gambe gonfie, la pancia come un pallone. Mi si è rovesciata la geometria del corpo. Prima uno ha le spalle larghe e la vita stretta; ora ho delle spalline strette strette e una vita enorme. Allora non posso essere attaccato a questo corpo. E poi, quale corpo? Un corpo che cambia tutti i giorni, che perde i capelli, che si azzoppa, che si acciacca, che viene tagliato a pezzi dal chirurgo?
Il corpo non siamo noi. Allora cosa siamo?
Crediamo di essere tutte le cose che ci preoccupa di perdere morendo. Con l'identità – giornalista, avvocato, direttore di banca – ti ci sei identificato e l'idea che tutto questo scompaia, che tu non sia più il grande giornalista, il bravo direttore di banca, che la morte ti porti via tutto questo ti sconvolge.
Tu possiedi la bicicletta, l'automobile, un bel quadro che hai comprato con i risparmi di tutta una vita, un campo, una casetta al mare. E' tua e ora muori e la perdi. La ragione per la quale si ha tanta paura della morte è che con quella bisogna rinunciare a tutto quel che ci stava tanto a cuore, proprietà, desideri, identità. Io l'ho già fatto. Negli ultimi anni non ho fatto che buttare a mare tutto questo e non c'è più nulla a cui sono legato. Perché ovviamente tu non sei il tuo nome, tu non sei la tua professione, non sei la casetta al mare che possiedi.

E se impari a morire vivendo, come hanno ben insegnato i saggi del passato – i sufi, i greci, i nostri amati rishi dell'Himalaya – allora ti abitui a non riconoscerti in queste cose, a riconoscerne il valore estremamente limitato, transitorio, ridicolo, impermanente. Se la casa che ti sei comperato al mare un giorno -vrumm! viene portata via dalla marea; se un figlio, uno come te che sei stato mio per così tanto tempo e a cui ho dedicato pensieri, a volte sofferenze e angosce, esce di casa, gli casca un tegolo in testa e -vrumm, finito! allora capisci che non è possibile che tu sia quelle cose che scompaiono così semplicemente.

E se, vivendo, incominci a capire che non sei quelle cose, allora piano piano te ne stacchi, le abbandoni. Abbandoni anche le cose che ti paiono le più care, come l'amore che io ho per tua madre, Io ho amato tua madre per i quarantasette anni in cui siamo stati assieme e quando dico che me ne stacco non voglio dire che non la amo più, ma che questo amore non è più una schiavitù; che non sono più dipendente da questo amore; che sono, anche da questo, distaccato. Questo amore è parte della mia vita, ma io non sono quell'amore.
Sono tante altre cose... o forse nulla. Ma non sono quella cosa lì. E l'idea che morendo perdo quell'amore, perdo questa casa all'Orsigna, perdo te e la Saskia, perdo la mia identità, non mi preoccupa più, non mi fa più assolutamente paura, perché mi ci sono abituato. E qui, l'Himalaya, la solitudine lassù, la natura, la fortuna di questo malanno che mi ha dato l'occasione di riflettere su tutto questo è stata una grande maestra.

L'altra cosa che mi pare fondamentale nella vita di un uomo che cresce e che matura, come spero che in qualche modo mi sia successo, è il rapporto con i desideri. I desideri sono la nostra grande molla. Se Colombo non avesse desiderato di trovare una nuova strada per le Indie non avrebbe scoperto l'America. Tutto il progresso, se lo vuoi chiamare così, o il regresso, tutta la civilizzazione o la decivilizzazione dell'uomo è dovuta al desiderio. Desiderio di ogni tipo, a partire dal più semplice, quello carnale, quello di possedere la carne di un altro. Il desiderio è una grande molla, non lo nego. È importante e ha determinato la storia dell'umanità. Ma se tu cominci a guardare bene, di nuovo, cosa sono questi desideri, questi desideri dai quali non sfuggi mai? Specie oggi, in questa nostra società che ci spinge solo a desiderare e fra i desideri a scegliere solo i più banali, quelli materiali, in altre parole quelli del supermercato. Il desiderio di quelle scelte lì è inutile, è banale, è irrisorio.

Il vero desiderio, se uno ne vuole uno, è quello di essere se stessi. L'unica cosa che uno può desiderare è di non avere più scelte, perché la scelta vera non è quella fra due dentifrici, fra due donne, fra due macchine. La scelta vera è quella di essere te stesso. Se ti abitui o fai degli esercizi, se rifletti, rifletti! vedi che quei desideri sono una forma di schiavitù. Perché più tu desideri e più limitazioni ti crei. Desideri una cosa al punto che non pensi ad altro, non fai altro, diventi schiavo di quel desiderio. Allora tu puoi, nell'età matura, più adulta, cominciare a vedere tutto questo ...ride... e metterti a ridere dei desideri che hai, a ridere dei desideri che hai avuto, a ridere nel vedere che questi desideri non servono a niente, che sono effimeri come tutto il resto che è la vita. Così cominci a imparare a toglierteli, a toglierli di mezzo. Compreso quel desiderio ultimo, che tutti hanno, della longevità. Uno dice “Va bene, non voglio più soldi, non voglio più fama, non voglio più comprare niente; ma voglio almeno una pillola che mi fa vivere altri dieci anni!”
Anche questo desiderio io non l'ho più, proprio non l'ho più. Sono fortunato. Perché gli anni di solitudine in quella casetta nell'Himalaya mi hanno fatto vedere che non avevo niente da desiderare. Avevo bisogno di un po' d'acqua per bere ed era lì, nella fonte dove bevevano gli animali. Mangiavo un po' di riso e qualche verdura cotta sul fuoco. Quali altri desideri potevo avere? Non quello di andare al cinema a vedere l'ultimo film. Che me ne importa?! Cosa cambia nella mia vita? Niente a questo punto, niente. Perché quella che ora mi sta davanti è forse la cosa più strana, curiosa, nuova che mi sia mai capitata.
Per questo dico che non ho più voglia di stare in questa vita, perché questa vita non mi incuriosisce più. L'ho vista di fuori e di dentro, l'ho vista da ogni suo lato e i desideri che mi dovrebbe suscitare non mi interessano più. Allora la morte diventa davvero...ride... l'unica cosa nuova che mi può succedere, perché questa non l'ho mai vista, non l'ho mai vissuta. L'ho solo vista negli altri. Può darsi che non sia niente, che sia come l'addormentarsi la sera. Perché in verità noi moriamo ogni sera, no? Quella coscienza dell'uomo sveglio che lo fa, appunto, identificare con il suo corpo e con il suo nome, che lo fa desiderare, che lo fa telefonare e andare a un appuntamento a pranzo, nell'attimo in cui ti addormenti — puff! scompare. Pur nel sonno in qualche modo rimanendo, perché sogni.
Ma chi è il sognatore? Chi è il testimone silenzioso del tuo sogno? Be', forse nella morte avviene qualcosa di simile al sonno. O forse non avviene niente. Ma ti assicuro che mi avvicino a questo appuntamento non come a un incontro con una signora vestita di nero, con una falce che miete, che è sempre stata una visione dell'orrore. Mi avvicino a questo appuntamento di quiete, secondo me, a cuor leggero, come davvero non l'ho mai avuto prima. E forse lo debbo proprio alla combinazione di fatti che ti ho spiegato: quello di avere un po' imparato a morire prima di morire, quello di aver rinunciato ai desideri, e quello di aver succhiato dal terreno sacro dell'India la sensazione che l'India ti dà: che è nata, è morta, è nata e morta tanta gente; e che quest'esperienza del nascere, vivere e morire è quella più comune agli uomini.
[...]
Allora vado a questo appuntamento – perché tale lo sento e mi dispiacerebbe mancarlo, perché è come se mi fossi già vestito a festa – a cuor leggero e con una certa quasi giornalistica curiosità. Io che ormai ho smesso da tempo di fare del giornalismo sento che ho una curiosità che chiamo giornalistica per sorridere, ma che è la curiosità umana di “Che cos'è questa cosa?”. La si prova nella vita quando muore il padre. Io ricordo che, quando morì il mio, quello che mi colpì era che ora ero in prima fila io. Sai, alla guerra c'è sempre uno che è avanti a te, c'è una prima linea, come nella Prima guerra mondiale, una prima trincea. E morto tuo padre non c'è più quella trincea, tocca a te. Be', ora tocca proprio a me. E quando io morirò ti sentirai tu in prima trincea. Ma intanto tu sei venuto a tenermi per mano e questo ci dà l'occasione di parlare del viaggio di quel ragazzino, nato in un letto in via Pisana, un quartiere popolare di Firenze, che si ritrova nelle grandi storie del suo tempo – la guerra in Vietnam, la Cina, la caduta dell'impero sovietico – poi va sull'Himalaya, e adesso è qui, in una sua piccola Himalaya, ad aspettare questa ora secondo me piacevole.
Allora questa è la fine, ma è anche l'inizio di una storia che è la mia vita e di cui mi piacerebbe ancora parlare con te per vedere insieme se, tutto sommato, c'è un senso.
[...]
FOLCO: L'importante è non avere dolori perché quelli ti distraggono. La chiave per
aggirare i dolori è staccarsi dal proprio corpo ed esserne l'osservatore.
TIZIANO: Sì, certo.
FOLCO: Lo so che dev'essere difficilissimo, quando ti prende il dolore, scrollartelo di dosso. Ma sai, lo si diceva del freddo. Io, a uno dei miei sadhu preferiti – uno che è matto da legare ma divertentissimo, proprio uno spirito libero, uno di quelli che vanno su per le montagne sempre scalzi, uno che non ha scarpe, non ha soldi, non ha progetti – a quello gli ho chiesto “Ma lassù nella neve, non ti fa freddo?” E lui ha risposto “Non fa freddo. Fa ta-ta-ta-ta-ta”. Osservi la sensazione e invece di dirti “Ora ho freddo, devo coprirmi”, ti dici “Ora sento ta-ta-ta...” come fossero dei piccoli spilli che senti sotto i piedi, e allora è quasi divertente. Loro fanno questi esercizi per indurirsi piano piano.
ANGELA: Molto bello.
TIZIANO: Sono d'accordo, in parte. Stanotte per esempio mi hanno preso dei crampi alla pancia. So come fare, no? Ti concentri, vai lì con la mente, ti chiedi se sono quadrati, se sono tondi, se sono rossi, se sono gialli...
FOLCO: Ah, questo è divertente! Dove l'hai imparato?
TIZIANO: Il dolore, devi chiederti com'è. Quel tuo amico dice che fa ta-ta-ta. Devi chiederti se è quadrato o se è tondo, se fa rumore, se batte o se non batte. Se ha un colore, che colore è? Così ti distrai un po'. Ma se il dolore è forte a un certo punto non ce la fai più. Infatti, stavo per venirti a svegliare. 
[...]
Lo dice bene il dio Krishna, tutto quello che nasce muore e tutto quello che muore nasce. Anch'io la fine la sento come un inizio. L'inizio è la mia fine e la fine è il mio inizio. Perché sono sempre più convinto che è un'illusione tipicamente occidentale che il tempo è diritto e che si va avanti, che c'è progresso. Non c'è. Il tempo non è direzionale, non va avanti, sempre avanti. Si ripete, gira intorno a sé. Il tempo è circolare. E questo lo sento così forte. Lo vedi anche nei fatti, nella banalità dei fatti, nelle guerre che si ripetono.

Gli indiani questo ce l'hanno profondo dentro di sé. Tutta la loro mitologia è basata sul continuo ciclo di distruzione e creazione. Lì hanno ragione, non c'è creazione senza distruzione, per cui nella loro trinità c'è il creatore, il mantenitore e il distruttore. Il distruttore passa e -vrumm! distrugge tutto, così che il creatore può ricreare, il conservatore può conservare, il distruttore può ridistruggere.

Questo, non dico che è consolante perché io spero di ritornare, anzi, per niente. Credo che una delle poche cose che ho imparato, che mi sono entrate dentro vivendo da solo nella baita sull'Himalaya, è la rinuncia ai desideri, che è la vera, ultima grande forma di libertà. E credo che ci sono riuscito. Non desidero più niente. Non desidero certo più la longevità, ormai. Ma non desidero nemmeno l'immortalità, questo dire “Finisce, ma ricomincia e questo mi consola”. No, non è questo che sento. E la bellezza, la bellezza che ciò che finisce ricomincia. Perché così è l'universo. Perché dentro a un seme che cade per caso c'è già un albero enorme. Caduto, il seme sembra morto, finito. E ricomincia. Questa bellezza mi piace, questa bellezza che vedo dappertutto, ormai, e che vedo per giunta nella fine della mia vita terrena.

Sento questa mia vita che sfugge, ma che non sfugge, perché è parte della stessa vita di quegli alberi. Una cosa bellissima, il disfarsi nella vita del cosmo ed essere parte di tutto. Questa mia vita non è la mia vita, è la vita dell'Essere, è la vita cosmica di cui mi sento parte. Per cui non perdo niente, staccandomi dal corpo io non perdo niente.
Allora, questa è la fine ma è anche l'inizio.

E l'immagine che mi viene in mente quasi ogni giorno del mio abbandonare il mio corpo è quella di un monaco zen che si siede nel silenzio della sua cella, prende un bel pennello, lo intinge nel mortaio dove ha sparso la china e poi si raccoglie davanti al pezzo di carta di riso e con grande concentrazione fa un cerchio che si chiude. Ma un cerchio, non fatto con il compasso, un cerchio fatto con l'ultimo gesto della mano su questa terra. La vita si conclude.

Read more...

Io Rocco - Rocco Siffredi

>> domenica 10 ottobre 2010

L'autobiografia del celebre attore si legge molto velocemente, merito di una scrittura semplice e di concetti poco impegnativi. Tuttavia non è banale e il "dietro le quinte" della sua vita mostra che ha raggiunto l'equilibrio e il successo grazie alla passione per quello che fa.

Non mi piacciono le classificazioni, in genere le trovo sempre delle forzature, tuttavia talvolta sono utili per distinguere, se non altro, delle categorie esemplari. L'antitesi fra la scuola francese-europea e quella americana potrebbe essere ridotta all'opposizione fra "meccanica mancanza di sensualità" e "appassionata professionalità".
Per quanto questi due metodi possano essere massimamente antitetici, entrambi mi sono stati estremamente utili. Mi hanno dato, l'uno, la tecnica per affrontare al meglio ogni eventuale impasse sul set e, l'altro, la passionalità emotiva per comunicare con i partner e con il pubblico. Perché questo tipo di lavoro ti espone nudo, mi pare il caso di dirlo, a una serie di contraddizioni che ti mettono in difficoltà, non soltanto psicologicamente ma anche empiricamente: le sperimenti proprio sulla tua reazione fisica. Ciò che intendo dire è che, anche se sono il primo a sostenere che il sesso non si può recitare, al punto che ne ho fatto il mio motto, tuttavia, nel momento in cui ti trovi davanti una macchina da presa devi recitare.
Non puoi continuare a essere completamente te stesso, tu sai che stai davanti all'obiettivo. E per sostenere questo paradosso, per esserne all'altezza, devi attingere dentro di te a una gamma infinita di sentimenti, sensazioni, ricordi, motivazioni, convincimenti. Se vuoi fare questo lavoro, e vuoi farlo bene, non puoi mai permetterti di scansare la contraddizione, l'incoerenza, l'inconciliabilità fra i vari aspetti della tua vita. Perché se non le analizzi continuamente in modo consapevole non potrai andare avanti per molto.

E tuttavia, se potessi rinascere e morire di nuovo, rifarei per mille volte esattamente le stesse cose. Perché credo che ciò che vale davvero la pena di comprendere, e che vorrei condividere con voi, è che l'importante è raggiungere dentro di noi il cuore delle nostre passioni più autentiche, non importa quanta fatica ci costerà. E poi chiederci quello che vogliamo veramente dalla nostra vita con correttezza, qualsiasi cosa stiamo cercando, senza falsità né ipocrisie, perché non esisterebbero risposte sbagliate se non esistessero domande mal poste.

Read more...

Azione Immediata - Andy McNab

>> lunedì 4 ottobre 2010

Romanzo autobiografico che narra della formazione e del battesimo di fuoco del soldato McNab.
I fatti sono narrati con linguaggio semplice e senza autocompiacimento. In alcuni tratti si nota un'ironia e un humor intrigante. Ciò nonostante, il libro è parecchio noioso.

Fui tra coloro i quali presenziarono all'arrivo dei poliziotti locali che avremmo addestrato, una cinquantina di uomini in tutto. Dal loro atteggiamento, avevano tanta voglia di trovarsi qui quanta potevano averne di strofinarsi ortica sullo scroto. Il campo sembrava la sede di un congresso di buttafuori di night-club. Erano quasi una caricatura del machismo così tipico della mentalità del maschio latinoamericano.
Da parte nostra, dovevamo prendere quel medesimo machismo e trasformarlo in qualcosa di utile, di valido. Bert aveva avuto ragione in pieno: sarebbe stata tutt'altro che una scampagnata tra le violette. Seduti fuori della nostra baracca, rimanemmo a osservarli mentre si radunavano più o meno ordinatamente.
"Ma guardali, i cagoni", commentò Billy. "Se quei petti da pollastri li gonfiano di un altro mezzo centimetro, finisce che fanno il botto". Si alzò con aria decisa. "Ora stai bene attento, Andy... Questa È la buffonata che adoro". Per la serie: La vendetta di Billy - Parte seconda.
Marciò nel bel mezzo della masnada, abbaiando ordini a destra e a manca come un sergente istruttore delle Waffen ss. Grandi, grossi, incazzati, machos... E stavano venendo messi in riga da un nanerottolo urlante alto un cazzo e due barattoli. Arrivò anche il mio turno di metterli in riga. Ma che allegria. Dai loro sguardi, da tutto il loro essere, il messaggio era lampante: non ci servi, inglisc, siamo più duri dei chiodi della croce di Gesu’ Cristo.
Giocarsela sul pesante sarebbe stata la peggiore delle stronzate: non avremmo ottenuto i risultati che volevamo. Gli stessi ufficiali ci detestavano. Dopo tutto, la nostra presenza minava la loro autorità e la loro preparazione, vera o presunta che fosse. Eppure, soprattutto a questa gente eravamo costretti a mostrare del rispetto. Ma non troppo: eccessiva confidenza diventa sinonimo di completo disprezzo molto rapidamente. Comunque, dovevamo essere amichevoli e malleabili. In fondo, ogni situazione era un'occasione per imparare qualcosa di nuovo. E la nostra curva di apprendimento poteva essere parallela alla loro.
I membri della polizia paramilitare mettevano in bella mostra un'ira di Dio di cinturoni tattici e di giberne. Ai quali era agganciata, appesa, infilata una doppia ira di Dio di coltelli, coltellacci, machete, pistole automatiche, revolver da cowboy. A guardarli, sembravano altrettanti rigurgiti di tutte le balorde revoluciones del continente sudamericano. Gaz e io ci scambiammo un'occhiata significativa. Prima alternativa: "Che sono tutte quelle merdate? Tu: sbarazzati di questo. Tu: butta via quello". Seconda alternativa: non dire niente e fare in modo che fossero loro a rendersi progressivamente conto di che cosa serviva e che cosa no. Manco a dirlo, optammo per la seconda. Dare subito addosso a questa gente avrebbe sortito il solo risultato di farci detestare ancora di più.
A ciascuno di noi vennero affidati dieci uomini. La responsabilità di portarli dal più infimo livello dell'addestramento a qualcosa di consistente dal punto di vista tattico sarebbe stata nostra.

Read more...

Reading in Biblioteca - 25 Settembre 2010

>> domenica 26 settembre 2010

In occasione di "Gustando Gustando" il gruppo dei lettori della biblioteca di Castiglione ha presentato una serie di testi sul tema del cibo. 
Il gruppo lettori è nato alcuni anni fa grazie al sostegno dell’assessorato alla cultura del Comune di Castiglione ed è composto da un gruppo di persone che ha la passione per la lettura e che pratica la cosiddetta "lettura condivisa": individuato un libro, ognuno lo legge autonomamente e poi ci si ritrova il mese successivo a discuterne. Ne scaturiscono pareri, approfondimenti, sfumature, interpretazioni diverse che arricchiscono la lettura e il piacere di gustare un libro.

I brani sono stati letti e interpretati da Ilaria Feole e Alessandro De Silvestri.

Premessa: Elogio del cibo
1-      Il senso del gusto  da P. Artusi “La scienza in cucina”
2-      Il paese di Bengodi  da G. Boccaccio “Decameron” (VIII giornata, novella terza)
3-      Le muse pancifiche da T. Folengo “Baldus”

Gh’ho ‘na fame che me magnaria anca un ogio
VIDEO La fame dello Zanni da D. Fo “Mistero buffo”
1-      Pinocchio non mangiò, ma diluviò  da C. Collodi “Le avventure di Pinocchio” (Cap. XXIV)
2-      Robba da magnare   da L. Malerba “Il pataffio”

Il cibo che stupisce
VIDEO VATEL
1-      Il banchetto a corte da L’arte di ben cucinare et istruire i men periti in questa lodevole professione di B. Stefani
2-      La bottega di Ziapìna  da F. Guccini “Croniche epafaniche”
3-      Ode alla cipolla  di P. Neruda
4-      Un monumento al  pollo  da Giò Pozzo  “Cucina crudele”
5-      La focaccia milleingredienti da Elio e le storie tese “Animali spiaccicati”

I Golosi
VIDEO CHOCOLAT
1-      Le golose di G. Gozzano
2-      I suoni del cibo da S. Valenti  “Medicina naturale”
3-      Tortelli di G B. Fagiuoli da “Zucca e tortelli” di S. Gelsi
4-      La focaccia di G. Carofiglio “Né qui né altrove. Una notte a Bari”
5-      I bigné da Muriel Barbery “Estasi culinarie”

E per finire, gustiamo cibi in rima
VIDEO Ugo Dighero – HO L’ORTO
1-      Tutti frutti di C. Albaut “Filastrocche da sgranocchiare”
2-      La caramella mou di C. Albaut (idem)
3-      Pane di R. Piumini  da “Non piangere cipolla”
4-      Pastasciutta di R. Piumini (idem)
5-      Polenta di P. Formentini da “Polpettone di parole”
6-      Filastrocca della cena di  B. Tognolini da “Rima rimani”


Premessa : elogio del cibo
Il senso del gusto di P. Artusi
Il gusto e il tatto sono i sensi più necessari, anzi indispensabili alla vita dell’individuo. Gli altri aiutano soltanto e si può vivere ciechi e sordi, ma non senza l’attività funzionale degli organi del gusto..
Com’è dunque che nella scala dei sensi i due più necessari sono reputati i più vili? Perché quel che soddisfa gli altri sensi, pittura, musica, ecc., si dice arte, si ritiene cosa nobile, ed ignobile invece quel che soddisfa il gusto? Perché chi gode vedendo un bel quadro o sentendo una bella sinfonia è reputato superiore a chi gode mangiando un’eccellente vivanda? Ci sono dunque tali ineguaglianze anche tra i sensi che chi lavora ha una camicia e chi non lavora ne ha due? Deve essere per il tirannico regno che il cervello esercita su tutti gli organi del corpo.Non si vive solo di pane, è vero, ci vuole anche il companatico; e l’arte di renderlo più economico, più sapido, più sano, lo dico e lo sostengo, è vera arte; riabilitiamo il senso del gusto e non vergogniamoci di soddisfarlo onestamente, ma il meglio che si può.


Il paese di Bengodi di G. Boccaccio
…fu da Calandrin domandato dove queste pietre così virtuose si trovassero. Maso rispose che le più si trovavano in Berlinzone, terra dei baschi, in una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce, e avevasi un’oca a denaro e un papero giunta, ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato sopra la quale stavan genti che niuna cosa facevano che far maccheroni e ravioli e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavano quindi giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva: e ivi presso scorreva un fiumicel di vernaccia della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciol d’acqua.

Le muse pancifiche  di T. Folengo
Soltanto le muse pancifiche, le dotte sorelle Gosa, Comina, Strizza, Mafelina, Togna, Pedala, vengano ad imboccare di gnocchi il loro poeta e gli portino cinque e magari otto catini di polenta. Sono queste le grasse mie dive, le mie Ninfe imbrodolate: la loro dimora si trova in un remoto cantone del mondo che la caravella di Spagna non ha ancora scovato. […] Le Ninfe stanno sul cocuzzolo di un’alta montagna e senza sosta grattano il formaggio su grattuge forate. Con grande zelo altre si danno ad impastare teneri gnocchi che rotolano in frotta giù per il formaggio grattato e dal ciuffo del monte si voltolano fino in fondo diventando grassi come botti panciute.

Quanto giova slargare le ganasce, se di tal gnocco vuoi saziare il tuo ventre! Altre tagliano la pasta e riempiono cinquanta lavaggi di pappardelle e di grasse  lasagne. Altre ancora, se la pentola comincia brontolare per via del gran fuoco, tirano da parte i tizzoni e vi soffiano dentro, perché il brodo, quando il fuoco è troppo salta fuori dalla pignatta. Insomma ciascuna bada a cuocere la propria minestra, per cui vedi
mille camini che fumano e mille caldaie che borbottano. Qui io per primo ho pescato l’arte maccheronica, qui Mafelina mi incoronò pancifico poeta.

Gh’ho ‘na fame che me magnaria anca un ogio

da “Le avventure di Pinocchio” di Carlo Collodi Cap. XXIV
Dopo mezz'ora di strada arrivò a un piccolo paese detto “il paese delle api industriose”(...) Intanto la fame lo tormentava; perché erano ormai passate ventiquattr'ore che non aveva mangiato più nulla (...) Finalmente passò una buona donnina che portava due brocche d'acqua.
- Vi contentate buona donna, che io beva una sorsata d'acqua alla vostra brocca? - disse Pinocchio, che bruciava dall'arsione della sete.
- Bevi pure, ragazzo mio!- disse la donnina, posando le due brocche in terra.
Quando Pinocchio ebbe bevuto come una spugna, borbottò a mezza voce, asciugandosi la bocca:
-La sete me la son levata! Così mi potessi levar la fame!...-
La buona donnina, sentendo queste parole, soggiunse subito:
-Se mi aiuti a portare a casa una di queste brocche d'acqua, ti darò un bel pezzo di pane.
Pinocchio guardò la brocca e non rispose né si né no.
-E insieme con pane ti darò un bel piatto di cavolfiore condito coll'olio e coll'aceto-soggiunse la buona donna.
Pinocchio dette un'altra occhiata alla brocca, e non rispose né si né no.
-E dopo il cavolfiore ti darò un bel confetto ripieno di rosolio.
Alle seduzioni di quest'ultima ghiottoneria, Pinocchio non seppe più resistere, e fatto un animo risoluto, disse: -Pazienza! Vi porterò io la brocca fino a casa!
La brocca era molto pesa, e il burattino, non avendo forza da portarla colle mani, si rassegnò a portarla in capo. Arrivati a casa, la buona donnina fece sedere Pinocchio a una piccola tavola apparecchiata, e gli pose davanti il pane, il cavolfiore condito e il confetto. Pinocchio non mangiò, ma diluviò. Il suo stomaco pareva un quartiere rimasto vuoto e disabitato da cinque mesi.

Robba da magnare
In un cantone del cortile c’è un banco dove un formigotto dice di vendere robba da magnare.

“Io vendo polenta salame pagnotte salsicce braciole focacce prosciutti zucche pizze porchetta patate fritte lumache pernici busecca gatto in agrodolce frittata ova sode fagiani farciti rape rosse carote gialle castagne lesse cavoli ossibuchi caciotta carciofoli anguilla in salamoia pecorino ricotta culatello mele meloni melanzane fichi panerone eccetera ecceterone!”

I villani si fanno intorno al banco del formigotto che vende tutta questa robba buonissima. Una donnetta va avanti e indietro dal paese per richiamare gli ultimi che sono rimasti nelle case. ”Currete su al castello che se magna!” La gente corre, si
ammucchia intorno al banco mentre il formigotto continua a gridare che vende tutta questa robba, la numera a una a una come una sacra litania e poco alla volta quelli che stanno intorno si riempiono la bocca ripetendo e masticando le stesse parole e quasi gli sembra, a forza di dire polenta salame pagnotte e salsicce castagnaccio porchetta e tutto il resto, che la pancia si riempie poco alla volta e persino gli pare di sentire sotto il naso i tanti odori delle cose nominate dal formigotto. Mentre in principio molti sbadigliavano per la fame, dopo un po’ ci sono quelli che fanno dei gran rutti per digerire tutta questa spanzata di robba grassa e pesante che gli ingombra lo stomaco.

Il cibo che stupisce

BANCHETTO servito a due piatti che si potrà fare nelli mesi di novembre e dicembre

La tavola sarà apparecchiata in una sala capace, con tovaglia sottilissima, stuccata per mano di valente credenziere, e le posate di simile piegatura:

da capo della tavola sorgerà un trionfo fatto di zuccaro quale sarà la caduta di Fetonte.

Dall'altro canto, il carro trionfale di Cesare, quando entrò in Roma vincitore dopo haver superato Marc'Antonio.

Nel mezo il colosso di Rodii fatto di sottilissime piegature, e che vi passi sotto una neve fatta di condito,

e questo sarà tramezzato con due aquiloni fatti di gelo di color d'ambra, e rinforzate con statue fatte di zuccaro che saranno le quattro stagioni.

Primo servizio di credenza

Quattro sirene di pasta di marzapane, che sostentino con le code ritorte una stella,

ed ogni punta di stella vi sia una starna, lardata minuta, cotta allo spiedo,

e sopra un sapore fatto con fegatelli di cappone, capo di latte, noce moscata, quattr'oncie di mostaccioli pesti, stemprato con malvasia,

e gettato sopra le starne, adornate con fette di cedro lavorate, tramezzate con pere condite.

Le sirene le ponerei nel piatto con spuma di mare fatta con chiara d'ova, e smaltino, e tra una sirena e l'altra, vi sia un pesce che scherzi fra quelle spume.

Un gran tortiglione in guisa di serpente, fatto con pasta finissima empito di condito grattato, pomi appii, pasta di marzapane ed altri condimenti,

tutto il suo dorso trapunto con pistacchi e pignoli confetti, ed il suo piatto coperto d'erbettina verde fatta di zuccaro compartita con leggiadria.

La bottega di Ziapìna    Francesco Guccini – Croniche epafaniche
E c’è  la bottega di Ziapìna. Tu entri, scendi quei tre scalini, e già le nari ti si riempiono dei mille odori sapori che tutta la bottega ti offre. I primi a colpire sono i più violenti, il baccalà sciorinato secco rigido che verrà lasciato ad ammorbidirsi e dissalarsi lungamente nella tinozza piena d’acqua, e latte di turbinosi colori stracolme di sarde salate, o di saracche da  fare vicino alle braci del camino, cibo e sapore da anziani, che ancora ti si storce la bocca e piangi per un mezzo grano di pepe, ma ti piace già il tonno in grosse trance rosee ricurve che fa capolino in mezzo all’olio. C’è l’odore del  vino toscano della mescita, che esce dai bicchieri o dai mezzi di quelli che bevono o dalle damigiane e tini della cantina subito di fianco, ma se arrivi che han portato il pane, è quello l’odore che domina, anche se il pane non si compra perché si fa da noi.

 A volte prendi la pasta, che è dietro il banco vendita, in teche trasparenti di vetro che la vedi, e ce n ‘è di tanti tipi, ler farfaline, le conchiglie, i macheroni, quella piccola da brodo, ma anche di queste paste non ne prendi perché le tagliatelle larghe o strette, i pistadini o i quadrucci o tutto si fa in casa, e prendi  solo i paternostri da fare la minestra coi fagioli. C’è anche la marmellata, non che noi non si abbia, è che si fa solo di ciliegie; e lì c’è di pesca, d’albicocca o anche, e quella sì che è bòna, d’arance, o di cedro, roba di verde smeraldo candita che se ne compera un pezeto per Natale, per i dolci, e già a vedersi dà soddisfazione. C’è i prosciutti e i salami, ma quelli si hanno; si compra il formaggio sardo, ed è un’operazione che va fatta con calma. Ci si fa  il suo taselino col truvello aposta, come con la cocombra, e Ziapina lo assaggia pensosa: si compra la forma, mia un etto due etti come quei bischeri dei vilegianti. E’ come quando vedi i vecchi che bevon vino, che lo sciaguattano di qua e di là, alzan la chiorba per cercare l’ispirazione, poi fan di sì, in su e in giù, spingendo i labbri in fuori, per dire: proprio bòno.    Ma muover la testa per dir di no, in vero, non li ho mai visti.

Ode alla cipolla di P. Neruda
Cipolla, anfora luminosa,
petalo e petalo
si formò la tua bellezza
squame di cristallo ti
accrebbero
e nel segreto della terra
oscura
si arrotondò il tuo ventre di
rugiada.
Sotto la terra
fu il miracolo
e quando apparve
il tuo rozzo stelo verde
e nacquero
le tue foglie come spade
nell’orto,
la terra accumulò il suo
potere
mostrando la tua nuda
trasparenza
e come in Afrodite il mar
remoto
duplicò la magnolia
innalzando i suoi seni,
così ti fece,
cipolla,
chiara come un pianeta,
e destinata
brillare,
costellazione costante,
rotonda rosa d’acqua,
sopra
la tavola
della povera gente.
[…]
Alla portata delle mani del
popolo
innaffiata di olio,
spolverata
con un po’ di sale
uccidi la fame.
Stella dei poveri
Fata madrina
avvolta
in delicata
carta, esci dal suolo
eterna, intatta, pura
come seme d’astro,
e nel tagliarti
il coltello in cucina
sale l’unica lacrima
senza pena. (…)
Io ho cantato quanto esiste,
Cipolla,
ma per me tu sei
più bella di un uccello
dalle penne abbaglianti,
sei per i miei occhi
globo celeste, coppa di platino,
danza immobile
di anemone niveo,
e vive la fragranza della terra
nella tua natura cristallina.

Un  monumento al pollo GIO Pozzo   La cucina crudele
Ah, il pollo! Merita un monumento. Quello ruspante? Per carità, malinconia di famiglia. La produzione, la catena di produzione. Siamo nel duemila e non possiamo più rincorrere per l’aia il galletto per tirargli il collo.    La catena, migliaia di oggetti carne assolutamente uguali per misura peso e  proporzione. L’invenzione da proporre e imporre sul mercato. I miei polli sono oggetti, li ho stivati ,ne ho costretti un numero inverosimile in poco spazio. Ecco, un binario, ben allineati sul supporto e davanti al becco  un tappeto semovente  e  alle terga un altro. Il primo apporta il  mangime,  il secondo asporta lo sterco. Che peraltro recupero  a concime. Non ha distrazioni il mio benefattore. Ha solo il compito di   nutrirsi e di defecare. Non corre e non perde peso. Non conosce lo spavento, non ha stimolazioni esterne… E’ beato. Raggiunto il  peso necessario, il peso richiesto, s’intende, passa senza traumi ai banchi refrigeranti della distribuzione. E come potrebbe averne? Non ha alcuna coscienza di esistere. Se guardo i miei polli esposti nelle  vetrine, mi colpiscono per la loro immobilità. Confermano la perfezione del  trattamento, sembrano nati già pronti all’uso, non denunciano ricordi di passata spavalderia. Non costituiscono preda, sono consumo quotidiano di migliaia di persone :i miei clienti. Il mio prodotto  è buono.  Vi assicuro che io non sto a lesinare sul costo del mangime. Cosa sono poche lire in più al quintale? Sempre la migliore qualità..E poi lo mangio io, è  un a garanzia, non voglio correre rischi.   Allo spiedo, appena cotto, crocchia sotto i denti e le carni sono morbide e vellutate. Il sapore è sempre costante, non tradisce mai.

FOCACCIA MILLEINGREDIENTI
Occorrente:
una focaccia
un calamaretto
un amaretto di Saronno
un granello di Effervescente Brioschi
un cucchiaino di yogurt alle mele
una fettina di bresaola
una setola di porcellino da latte
un cioccolatino alla menta
un riccio di mare sgusciato
un’aringa
una foglia di scalogno
una caramella fondente alla frutta
un cucchiaino di tonno spalmabile
un formaggino Tigre
un fagiolo
un cece
un aspide vivo
un aspide morto

Prendete la focaccia e disponetela orizzontalmente sul tavolo. Disponete sulla sua superficie il calamaretto, l’amaretto di Saronno, il granello di Effervescente Brioschi, il cucchiaino di yogurt alle mele,la fettina di bresaola, la setola di porcellino da latte, il cioccolatino alla menta, il riccio di mare sgusciato, l’aringa, la foglia di scalogno, la caramella fondente alla frutta, il cucchiaino di tonno spalmabile, il formaggino Tigre, il fagiolo, il cece, l’aspide vivo. Lasciate per il momento l’aspide morto dov’è. Afferrate la focaccia ricoperta di tutto questo ben di dio e inclinatela di circa 45 gradi alla vostra destra; gli ingredienti aggiunti dovrebbero scivolare e cadere a terra. Se ciò non dovesse accadere inclinatela maggiormente.

Guardate gli ingredienti caduti con aria compassionevole, fermandovi a meditare un po’ su quanto cibo va sprecato ogni giorno nel mondo. Soffermatevi a osservare poi il comportamento dell’aspide vivo: se cerca di andarsene non ostacolategli la fuga (Sarà meglio per tutti). Se invece notate che assume un’aria minacciosa, come di sfida, mostrategli l’aspide morto come dire: “Hai visto, stupido rettile, cosa ti può succedere se continui a darmi noia?”. A quel punto l’aspide vivo dovrebbe capire il messaggio e levarsi di torno. Allora, e solo allora, mangiate la focaccia con niente sopra visto e considerato che quando uno ha fame non c’è niente di meglio della focaccia, senza andare a scomodare tutta quella roba indigesta che avevate preparato prima, che al limite potete usare per nutrire l’aspide vivo se si dimostra amichevole e non aggressivo come suo solito.


I golosi
Le golose di Guido Gozzano
Io sono innamorato di tutte le signore.
Che mangiano le paste nelle confetterie.
Signore e signorine-
le dita senza guanto-
scelgon la pasta. Quanto
ritornano bambine!

Perché niun le veda,
volgon le spalle, in fretta,
sollevan la veletta,
divorano la preda.

C'è quella che s'informa
pensosa della scelta;
quella che toglie svelta,
né cura tinta o forma.

L'una, pur mentre inghiotte,
già pensa al dopo, al poi;
e domina i vassoi
con le pupille ghiotte.

Un'altra – il dolce crebbe -
muove le disperate
bianchissime al giulebbe
dita congetture!

Un'altra, con dell'arte,
sugge la punta estrema:
invano! ché la crema
esce dall'altra parte!

L'una, senza abbadare
a giovine che adocchi,
divora in pace. Gli occhi
altra solleva, e pare

sugga, in supremo annunzio,
non crema e coccolate,
ma superliquefatte
parole del D'Annunzio.

Fra questi aromi acuti,
strani, commisti troppo
di cedro, di sciroppo,
di creme, di velluti,

di essenze parigine,
di mammole, di chiome:
oh! le signore come
ritornano bambine!

Perché non m'è concesso -
o legge inopportuna! -
il farmivi da presso,
baciarvi ad una ad una,

o belle bocche intatte
di giovani signore,
baciarvi nel sapore di crema e cioccolate?
Io sono innamorato di tutte le signore
che mangiano le paste nelle confetterie

Serena  Valenti I suoni del cibo
Personalmente ho avuto modo di scoprire che il prezzemolo sulla soia non si muove bene.
Ascoltiamolo: “ pr-e-zz-emolo”.
Due consonanti dure, all’inizio, che richiamano quelle della parola “fr-eddo” o “br-ivido”.
Non parliamo poi della doppia zeta: non è certo un suono morbido.
La parte finale “-emolo”, dà quasi l’idea vezzeggiativa, ma vivace ed esuberante, delle piccole dimensioni della foglia.
In ogni caso è fresco, quasi troppo vivace per un legume così pacifico e sonnolento.
“s-oia”. Una consonante iniziale che  “S-civola”, dolce, calda, quasi canuta, quella del “S-ole”, dell’”e-S-tate”, del “S-onno”.
Segue poi uno zuccheroso trittico di vocali, “-oia”- quasi da cantilena.
Non c’è dubbia che dalla soia l’energia sia poi regalata, senza limiti: forse è proprio il fatto che la debba serbare in esclusiva per chi se ne ciba che la fa sembrare così addormentata e trattenuta nel suo guscio.
Sicuramente il prezzemolo,secondo il mio gusto, sarebbe  l’equivalente di un ballerino di rap in una casa di riposo: l’abbinamento con un pubblico amante dei suoni sereni  e lievi, poco avvezzo ad un movimento scomposto, sarebbe deleterio per il debole timpano ultra  settantenne. In pratica si sentirebbe solo il sapore verde dell’erbetta e delle percussioni, ma non ci si diletterebbe appieno del calore  giallo della soia e delle altre nonne. Il prezzemolo è adatto ad un  risotto all’olio, senza ambizioni, bisognoso di una sferzata di  colore vivace e di un suono frizzante. Oppure ad un  piatto di pesce di mare, abituato al  movimento freneticamente scatenato dei flutti.

Tortelli tortelli
cosa squisita
voi date la vita;
il mondo non ha
di voi nè averà
conforti più belli
tortelli tortelli

la bietola fresca
le membra rinfresca
salubre rimedio
che leva l'assedio
di mali rubelli,
tortelli tortelli.

Quel cacio, quel pepe
piacevole siepe
gli spirti difende
da strane faccende
da tutti i  flagelli,
tortelli tortelli.

Voi siete così tondi
che rassembrate giusto tanti mondi
la bietola che in mezzo vi serra
raffigura la terra
e quel burro che liquido v'inonda
è l'acqua che dintorno la circonda
e questa pasta è il cielo
ciel smaltato  ( o meraviglie belle)
è di cacio grattato e non di stelle.

la focaccia barese   da "Nè qui nè altrove. Una notte a Bari"  Gianrico Carofiglio
 La focaccia barese si prepara mescolando farina di grano tenero, sale, lievito e acqua. Ne deriva un impastopiuttosto liquido che si versa in una teglia rotonda, si condisce con olio, pomodori freschi, olive e poi si cuoce nel forno a legna. Proprio perchè l'impasto è liquido, i pezzi di pomodoro e le olive sprofondano nella pasta creando e riempiendo dei piccoli crateri morbidi che diventano le parti più buone della focaccia.    Si mangia calda ma non bollente, avvolta in un pezzo di carta da panificio, uscendo da scuola, al mare, per cena o anche per pranzo: veloce, economico e deliziosamente unto.

La focaccia è una delle cose pià buone al mondo. Mi trattengo dal dire che è la più buona per mantenere un minimo di prospettiva e per evita il delirio campanilistico. ci sono quelle sottili e croccanti, quelle alte e soffici, quelle con l'aggiunta delle patate e del rosmarino e molte altre varianti. Anche se la vera  focaccia è quella  con pomodori, olive, bordi bruciacchiati e basta. Va accompagnata, possibilmente, da una bella bottiglia di birra molto fredda. Se poi uno ha proprio voglia di un'incursione nell'alta cucina,  il piacere supremo è la focaccia calda farcita con fette sottilissime di mortadella. La mortadella tagliata sottile, al contatto con la mollica calda e fragrante, sprigiona un profumo che fa impazzire le ghiandole salivari.

A differenza di molte cose buone,che sono scarse e spesso costose, la focaccia, a Bari, si trova ovunque ci sia un panificio. Cioè ovunque, e tutti la possono comprare.
la focaccia, a Bari, è una metafora dell'uguaglianza.

I BIGNE’
Avevo 15 anni e uscivo dal liceo, affamato come solo a quell’età si può essere, senza discernimento, selvaggiamente […] Aprivo il sacchetto senza troppi complimenti, laceravo la plastica e poi allargavo grossolanamente il buco che avevo praticato con impazienza. Infilavo la mano nel sacchetto, non mi piaceva il contatto appiccicoso con lo zucchero che si era incollato alle pareti per via del vapore condensato. Staccavo con cura una bignolina dalle sue simili, me la portavo religiosamente alla bocca e la inghiottivo chiudendo gli occhi. Molte pagine sono state scritte sul primo boccone, sul secondo e il terzo. Sono tutte vere. Ma non riescono a esprimere, se non alla lontana, l’ineffabilità di quella sensazione: lo sfioramento e poi la frantumazione di quella pasta umida in una bocca diventata ormai orgasmica. Lo zucchero imbevuto di acqua non si masticava: si cristallizzava sotto i denti, le sue parti si disgregavano senza opporre resistenza, in armonia, le mandibole non le rompevano, le disperdevano dolcemente, in un indicibile balletto fondente e croccante. Il bigné aderiva alle mucose più intime del mio palato, la sua molle sensualità sposava le guance e la sua indecente elasticità lo compattava immediatamente in una pasta omogenea e cremosa, a cui la dolcezza dello zucchero conferiva una punta di perfezione. Lo ingurgitavo in fretta perché ne avevo altri 19 da scoprire. […] Mi consolava unicamente il pensiero dell’ultima offerta di quel sacchetto divino: i cristalli depositati in fondo in fondo. In mancanza di un bigné a cui aggrapparmi, mi appropriavo anche di quei magici granelli con le dita appiccicose, per terminare il banchetto con un’esplosione zuccherosa.

E per finire, gustiamo cibi in rima

Tutti frutti
Caramelle di frutta,
frutti croccanti,
piccanti, frizzanti,
bonbon rinfrescanti,
ne ho riempito un sacco intero,
forse in sogno, son sincero!
Molto tenere o gommose,
tutte lisce o appiccicose,
scivolose e cristalline,
incartate zuccherine,
ne ho riempito un sacco intero,
forse in sogno, forse è vero!

La caramella mou
Morbida ti sciogli,
ti appiccichi e ti incolli,
ti attacchi ad un dente,
sei anche un po' invadente.
Molle caramella mou,
fondi piano, delicata,
più tenera della cioccolata,
fondi piano, serena,
dolce come un'amarena.
Sei come un dolce frutto,
ti mastico, ti succhio,
e coli dappertutto.

Pane
Pane del grano
fatto farina
t'impasta mano
in pasta fina
in pasta bianca
nel forte fuoco
cresce non stanca
a poco a poco
cuoce piamente
in crosta bruna
odore sente
mollica luna
sa di quel grano
e cose sane
che da lontano
si fanno pane.

Pastasciutta
Nell'acqua cuocendo
fra bolle bollendo
da rigida e dura
di varia fattura
spaghetta cherona
farfalla ditala
conchiglia trenetta
fettuccia fusilla
o sedana o penna
s'è andata mollendo.
E' ardente e al dente
non scotta ma scotta
scolata scrollando
composta nel piatto
condito mucchietto
con pesto con olio
con pepe con aglio
coperta con sugo
con trito di noce
con su del ragù.
La guardo la vaglio
di grana la spargo
l'annuso la voglio
l'infilzo la frugo
la mescolo tutta
la faccio fagotta
l'arrotolo in fretta
l'imbocco veloce
la mastico in pace
la gran pastasciutta

Polenta
Giri e rigiri molto lenta
ben bollente la polenta,
la cuoci fumosa per un'ora quasi,
poi calda gialla giù dalla pentola
su una tavola di legno travasi:
un solo vaporoso che ancora bolle
la vedi diventare, e lo tagli a fette
alte e spesse, ognuna fatta
con due righe di coltello
precise e nette

Filastrocca della cena
La foresta incantata
Dove mi ero smarrita
Era solo insalata
E allora l'ho condita
Il sole è un uovo sodo
Il piatto è una finestra
Le stelle sono in brodo
Il cielo è una minestra

Read more...

Lettura di Sciascia in biblioteca

5 Marzo ore 20,30, Biblioteca Castiglione delle Stiviere

  © Blogger templates Shiny by Ourblogtemplates.com 2008

Back to TOP