[SONDAGGIO] - I 5 più bei libri letti nella propria vita

>> sabato 30 marzo 2013



Primi Risultati
Aggiornamento al 19 Aprile 2013

Antonio
Le Benevole (Jonathan Littell);
L'Isola sotto il Mare (Isabel Allende);
Una Fortuna Pericolosa (Ken Follett);
Timeline (Micheal Crichton);
Mucchio d'ossa (Stephen King)"

Barbara
la " trilogia " di Italo Calvino (Il barone rampante, Il cavaliere inesistente, Il visconte dimezzato); 
Vita di Galileo di B. Brecht; 
Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro; 
Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters; 
Revolutionary Road di Yates.

Anonimo
L'insostenibile leggerezza dell'essere di Kundera"

Daniela
Anonima viennese. Il diario di una giovinetta
Emilio Lussu. Un anno sull'altipiano
Joseph Roth. La marcia di Radetzky
Pamela Moore. Cioccolata a colazione
Carlo Lucarelli. L'ottava vibrazione"

Francesca
Venuto al mondo (Margaret Mazzantini)
A un cerbiatto somiglia il mio amore (David Grossman)
Un uomo (Oriana Fallaci)
I pilastri della terra (Ken Follet)
Due di due (Andrea De Carlo)"

Nella
Il nome della rosa (Umberto Eco),
L'insostenibile leggerezza dell'essere (m. Kundera),
Un uomo (O. Fallaci),
Il cacciatore di aquiloni (K. Hosseini),
L'armata perduta (V. M. Manfredi)"

Sonia
Ti prendo e ti porto via di Niccolò Ammaniti
Le ceneri di Angela di Frank McCourt
Non avevo capito niente di Diego De Silva
Venuto al mondo di Margaret Mazzantini
Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon"

Sonja
Due di due – Andrea De Carlo
Non ti muovere – Margaret Mazzantini
La versione di Barney – Mordecai Richler
L’eleganza del riccio – Muriel Barbery
L’insostenibile leggerezza dell’essere – Milan Kundera"

Lucia
Stoner di John E Williams
L'altra Grace di Margaret Atwood
Follia di Patrick McGrath
La cena di Herman Koch
La parte dell'altro di Eric-Emmanuel Schmitt

Tommaso
Nick Hornby: Febbre a 90°
Irvine Welsh: Colla
Keno Don Rosa: la storia di Paperon de' Paperoni
Marcus Du Sautoy: L'enigma dei numeri primi
Fedrico Buffa: Black Jesus

Eliana
Il   Giardino dei Finzi- Contini/  Bassani Giorgio
La  Nausea/Jean Paul Sartre
Nessuno al mio fianco / Gordimer Nadine
Medea/  Wolf Christa
Il  Maestro e Margherita / Bulgakov, Mihail Afanas'evic "

Fabio
Colazione da Tiffany - Truman Capote
L'Immoralista - André Gide
I Pitard - Georges Simenon
La Neve dell'Ammiraglio - Alvaro Mutis
Diario del 71 e 72 - Eugenio Montale
 
Luca
Le affinità elettive - Goethe
Gli anni della nostalgia - Kenzaburo Oe
Scritti corsari - P.P. Pasolini
La Caverna - Saramago
Alice nel paese delle meraviglie - Carroll

Daniela
Non avevo capito niente (Diego de Silva)
In viaggio contromano (Michael Zadoorian)
La bambina prodigio (Nikita Lalwani)
Stoner (John Williams )
La valle delle donne lupo (Laura Pariani)

Graziella
Collodi, Pinocchio
Calvino, Il barone rampante
Manzoni, I promessi sposi
Yehoshua, Viaggio alla fine del millennio
Garcia Marquez, Cronaca di una morte annunciata

Maria
Il grande mare dei Sargassi (Jean Rhys)
 Il partigiano Johnny (Beppe Fenoglio)
 La luna e i falò (Cesare Pavese)
 La vita agra (Luciano Bianciardi)
 Ritratto dell'artista da giovane (James Joyce)

Maura
Irene Nemirovsky    IL BALLO
Benedetta Cibrario  ROSSOVERMIGLIO
Lidia Ravera   ETERNA RAGAZZA
Christa Wolf   MEDEA
Laura Pariani   LA VALLE DELLE DONNE LUPO

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La valle delle donne lupo - Laura Pariani

>> venerdì 29 marzo 2013

Il libro che il Circolo Lettori ha discusso ieri sera ha incontrato un apprezzamento unanime. Il romanzo trae ispirazione dai racconti tramandati oralmente dagli anziani delle alte valli piemontesi registrati dall'autrice su nastro nel corso degli anni. La scrittura è molto particolare perchè unisce l'italiano al dialetto italianizzato. La storia della protagonista, ormai anziana, emerge poco per volta nell'intervista che questa concede ad una giornalista con la quale ripercorre, dall'adolescenza ai giorni nostri, le sue vicende e quelle della sua famiglia e delle persone del piccolo paese in cui vive.  Lo sfondo è quello epico e leggendario delle valli ma l'umanità che le abita non ha nulla di bucolico e idiliaco, anzi. Sin dalle prime pagine si delinea il ritratto di una società rude, opprimente, fortemente maschilista. Il ruolo della donna è quello della serva silente su cui sfogare ogni genere di impulso. Peggior sorte è destinata alle "balenghe", quelle che uniscono alla sventura di essere nate donne un comportamento fuori dagli standard che si può manifestare con la testa un po' per aria o con un timido desiderio di emancipazione. Nel migliore dei casi queste sono mandate al riformatorio, nel peggiore all'ospedale psichiatrico o trucidate. Molto bella a riguardo la storia di Anna che riporto integralmente di seguito.
Il pessimismo è assoluto e tutto il romanzo è permeato da dolore, freddo, violenza e solitudine. L'uomo è più cattivo del più cattivo degli animali che per antonomasia è il lupo e che viene a sua volta riabilitato da un originale processo di straniamento che lo accomuna alle balenghe e al loro tragico destino.
    
Nel maggio successivo alla morte della Tilde, la Grisa scappa per la prima volta. Il cancello dell’orto è rimasto socchiuso: un vecchio sportellino cigolante che non serra bene. La bambina – che va per i tre anni – si inoltra a passettini incerti nel prato deserto, puntando poi dritto verso il bosco. Chi lo sa cosa l’attrae? Forse il canto di un uccello, un battere d’ala di farfalla, il muschio verde e cedevole, il balenio di una pietra sotto un raggio di sole che filtra tra i rami, una pigna che cade pesante per terra; o magari l’ombra della Tildina che le è sembrato vedere muoversi tra i rovi... Un passo dietro l’altro, sempre piú nel folto.
La sera, quando il Biâs e la Terésia chiamano per la cena, della piccolina non c’è traccia. Frugano tutti gli angoli della casa, sotto i letti, negli armadi, nel grotto che funge da cantina. Madonna Santa, non c’è. Le voci scannarozzate echeggiano per la valle, con angoscia crescente:
«Grisa, dove sei?»
Di corsa i quattro becchini si portano di casolare in casolare, fino al Paese Piccolo. Niente di niente. Tornano indietro col fiatone. In coro, con la paura del peggio in fondo al cuore, spolmonandosi:
«Griiisa! Griiisaaaa!»
I richiami si perdono tra i burroni scoscesi della riàle, da balma a balma. Nessuna risposta. Solo il lamento dei primi uccelli notturni e la voce bassa dell’acqua che corre nel buio dei prati. Piú tardi, con alcune lanterne, si addentrano nel bosco. Il bagliore rosso dei lumini rischiara il volto chiuso dei tronchi, il groviglio minaccioso delle rame, le erbe gravi di rugiada. Una civetta piange: uccello che porta male. Quella notte si sente l’ululato di un lupo, vicino vicino. Il Biâs rabbrividisce, la Terésia caragna.
Qualche mese dopo, il miracolo: dei cacciatori trovano sotto una balma, nei pressi della cascata, l’ingresso di una caverna nascosto da un macchione di lamponi. Con una torcia fanno lume e vedono un paio di lupacchini che mostrano i denti e spalancano degli occhi verdegialli al raggio di luce e alle grida di sorpresa. Gli uomini li tirano fuori: uno è proprio un lupatto, l’altro è la Grisa. Deve essersi amicata alla caverna e alla nuova famiglia lupa, perché fa un verso che non è umano:
«Uuuuuuuuh».
In paese è festa grande. La piccola sta bene, sana e robusta piú di prima, tranne per il fatto che non parla, neanche quelle brevi frasi ingarbugliate come tutti i piccinàja della sua età, che prima di scomparire sapeva pronunciare. Quando ci si rivolge a lei, si limita a scuotere la testa bionda in segno di no. A niente valgono implorazioni carezze bomboni; menochemài le botte. Guarda sopà e somà come le fossero estranei. In casa striscia le mani lungo le pareti, quasi cercasse una sensazione di fresco, oppure sta cucciata vicino alla porta; raccoglie ossi dal cesto della spazzatura, li nasconde sotto il letto, quando nessuno la guarda se li rigira tra le mani, si direbbe che li stia contando. Poi, appena le danno il permesso di uscire, corre al gabbiotto dove hanno rinchiuso il lupatto catturato insieme a lei, infila le mani nei buchi della rete e il suo antico compagno di caverna le lecca le dita, quasi con tenerezza, fissandola con le iridi giallastre. Se poi qualcuno la stacca di lí a viva forza, apre la bocca in uno strano verso di denti digrignati, i capelli le si rizzano per il nervoso, le braccia si irrigidiscono e diventano gelide. Però la notte, ogni volta che il lupatto rinchiuso prende a ululare, la Grisa balza a sedere sul letto, le orecchie tese; allora una specie di sorriso le rischiara il viso attento e ulula di rimando:
«Uuuuuuuuh».
Naturalmente viene chiamato il medico che scuote la testa senza sapere che fare. Si chiede il parere della biszía Ginòria, una carampàna lamentosa che non esce di casa da piú di quarant’anni, ovverossía da quando il sò Lipèt scomparve in una battuta di caccia al lupo, lasciandola in patema a occhieggiare invano il suo ritorno. La vecchia sospirosa dà il suo parere invocando a testimone la santa Verità: che si tratta di opera del diavolo Tartàifel; che non c’è niente come i lupi per trasmettere alle persone la loro dannazione bestiale; che i lupi portan tríboli a crepacuore, come ben dimostra la scomparsa del pòer Lipèt.
Un mattino d’inverno trovano il lupatto morto, rattrappito in un cantone. Il Biâs lo estrae dal gabbiotto e lo getta sul letamaio. Quando la Grisa ne scopre il corpo freddo e rigido, si siede vicino a lui e lo struca forte a sé, quasi per trasmettergli un poco del sò calore, grattandogli insistentemente la testa tra gli orecchi e mugolando di tenerezza. Poi, stupita e spaventata del silenzio dell’amico e del fatto che non le faccia festa, corre dai grandi, gli occhi gonfi di lagrime, Uuuuuuuuh, li trascina fino al luogo dove la bestia giace immobile.
E sopà:
«È morto, non toccarlo. Appena ho tempo, lo scuoierò e poi tomà ti farà un bel paio di pantofoline».
Ma la Grisa, desolata, continua a ululare. La sgridano. Va a rannicchiarsi in un angolo, sconcertata. Tira fuori da un nascondiglio che nessuno conosceva una grande quantità di ossi e si mette a lisciarli carezzandoli uno per uno. Pare che la cosa la quieti, anzi si addormenta stringendo al petto il suo tesoretto. Si sveglia che è quasi buio, si dirige a passetti verso il letamaio, ma la bestia non c’è piú. La cerca ovunque senza trovarla, urla con voce spezzata:
«Uuuuuuuuh».
Naturalmente il Biâs va su tutte le furie:
«Múccala di far versi, era solo una bestia, un lupo... Deograzie che è morto, e tu sei ’na cristiana. Piantala di comportarti come un’insensata!»
La trascina nella stanza da letto e, patàf patàfa, la batte con rabbia per farla smettere. La debole lampadina sul comodino illumina il viso paonazzo della piccola, la bocca urlante. D’un tratto la Fenísia che, rintanata in un cantone, ha seguito la scena tremando, fa un fischio per richiamare l’attenzione della cuginetta. Le strizza l’occhio con complicità, poi alza le mani: le basta un semplice movimento delle dita, ed ecco che l’ombra disegna sul soffitto la testa di un lupo che muove le orecchie aprendo e chiudendo la bocca. A quella magia la piccola Grisa smette di gridare, si infila il pollice in bocca e si lascia mettere a letto senza ulteriori proteste. Succhiandosi il dito, lo sguardo fisso al soffitto dove la testa del lupo continua a ingrandirsi e rimpicciolirsi, si addormenta.
La Terésia partorisce un’altra bambina a cui viene dato il nome di Tilde: vive solo poche ore. Il trambusto che ne deriva sembra calmare per un attimo la Grisa: diviene piuttosto taciturna, neanche una parola o un piccolo guizzo di riso. Un paio di settimane piú tardi cerca nuovamente di scappare e prendere la strada del bosco, finché sopà la lega con una catena al cancello del cimitero, perché non si perda un’altra volta. Quando il Biâs fa scattare la serratura del lucchetto, la Terésia scoppia a caragnare. Ma lui la zittisce:
«Quando non c’è rimedio, la carezza fa piú male che bene».
Parole che ripete continuamente, quasi voglia convincere soprattutto se stesso; come se temesse che un cedimento di fronte alle lagrime della moglie possa portare altri guai e dolori.
In genere la piccola se ne sta ingrugnita dove le si dice di mettersi, e con torpidi movimenti delle dita rigira il sò mucchietto di ossi, studiandoli e odorandoli. Alla Fenísia la cosa sembra divertente: le piacerebbe tanto imitare la cugina, ma ha paura di finire alla catena pure lei; tanto piú che in casa tutti insistono:
«Mi raccomando, da’ il buon esempio alla Grisa! Non scalciare, non gridare, non fare la pazza come lei! Vedi bene che fastidi ci dà quella là con il suo brutto vizio di urlare come una lupa. Invece tu sei una brava fiòla, ormai quasi una donnina...»
Eccosí, anche se a lingua legata, la Fenísia impara a rispondere sí: che ubbidirà prontamente, che non si butterà per terra a sguignire di dolore, che sarà composta, che non avrà «brutti vizi».
[...]
Un mattino di marzo, la Fenísia viene mandata in busca della Grisa, perché non la trovano da nessuna parte. La ragazza cerca la cugina nel cimitero tra le lapidi. La scorge nell’orto, imbambolata a fissare un folto di alberi di mele. Chiama, ma l’altra non risponde. La Fenísia si avvicina indispettita. Solo allora si accorge che il melo piú vecchio ha un ramo innaturalmente piegato, e non è per il peso della fioritura. C’è una figura bianca che pende dal ramo. Una donna con un lungo camicione: i piedi nudi sono leggermente sollevati da terra, come fosse una fata capace di levitare.
Le ci vuole un po’ a capire che è la Terésia che si è impiccata.
Il curato ha parole tremende contro la Terésia. La ribellione di una sposa, anche nel caso di una convivenza trista, è per lui inammissibile. Pazienza e mansuetudine sono virtú che sbandiera crudamente nella predica della domenica successiva:
«C’era un uomo che aveva l’indole e l’aspetto di una fiera selvaggia: una malattia che pativa da gran tempo lo metteva in uno stato perenne di furore. Vero cuore di ferro che respingeva con ferocia la moglie che gli si faceva dappresso per portargli del conforto o una vivanda delicata. Invasato da furia, afferrava i piatti che la moglie gli porgeva e glieli sbatteva in faccia villanamente. A ogni atto brutale, la donna chinava il capo e si ritirava offrendo la sua pena a Domineddio... Questa è la vera sposa cristiana: paziente, sottomessa, lavoriera, che si lascia mansuetamente mettere in croce. Guai alla donna che si fa prendere dalla collera, che getta fiamme dagli occhi! Il barometro del suo cuore segna cattivo tempo, la disobbedienza coniugale discende sempre piú in basso e l’ultimo grado di abbassamento è la tempesta: perdita di ogni divozione, ferali proponimenti... Non c’è bisogno che l’indetti io: sapete tutti che non si potrà darle sepoltura al cimitero».
La pazienza è una virtú che non è mai abbondata in casa della Fenísia, ma adesso il Biâs col suo viso legnoso, fermo in una smorfia di disgusto, fa veramente paura. Sulla fronte la cicatrice della lontana ferita di guerra gli diventa viola quando va in furia, proprio lí, dove sotto non ha piú l’osso ma una placca di metallo, che gli hanno messo i dottori. Si impizza per una malòmbra, a volte per dargli fastidio basta un colpo d’unghia sull’orlo di un bicchiere.
Una sera la Grisa, stanca dei maltratti che dopo la morte della Terésia si sono moltiplicati, riprova a scappare da casa. Sopà la riacciuffa sulla strada che scende in città: la agguanta per i capelli in cima alla testa e la trascina indietro. La ragazzina si dibatte, digrigna i denti dalla rabbia.
Il Biâs perde la sintèresi:
«Ah sí? Vuoi mordermi? Tu con me non ce ne puoi. Non ti rendi conto che ti posso piegare come voglio, ché sono io quello che comanda!»
Fa pena la Grisa tenuta per i capelli. La Malvina – che da quando la Terésia è morta viene spesso al cimitero a dare una mano nei lavori – implora il Biâs:
«Per l’amor di Dio, lasciatela stare, non è cosí che si fa con una creatura...»
E lui:
«Macché creatura. Questa l’è una lupa. E coi lupi di carezze e zuccherini non c’è di bisogno».
Sostiene che occorre levarle il brutto vizio di ribellarsi, che lui alla fine saprà farla rigare dritto. I padri comandano e i bocia devono obbedire. Il padre insegna. Il figlio impara.
[...]
Al filo della mezzanotte di San Giovanni, come tutte le nubili della valle, la Fenísia riempie una scodella d’acqua e la lascia fino all’alba sul davanzale, dopo averci versato dentro una chiara d’uovo, perché si rapprenda con la rugiada. Il pronostico sembra buono. I benís vengono dunque distribuiti. Lei prepara il buché, la velettina blu, il vestito da festa col collo abbottonato alto; lui compra gli ori. Allo sposalizio le parole di don Adolfo la inquietano – «Prometti di onorare tuo marito...» – ché quella parola «onorare» è uguale a quella che il parroco precedente tirava fuori per reclamare l’obbedienza a un padre che picchia senza amore.
Finita la funzione, si dà il via a una pacciatòria memorabile, tanto che alla fine della soarè le comari raccontano ridendo l’antica favola degli sposi che passarono la prima notte a fare una tale spropter-màgnam di confetti, che dovettero tornare a casa dai parenti a farsi curare con una purga l’infesciatura dei sò visceri.
Il Billio compra un casale fuori dal Paese Piccolo: con tutte le comodità, dal bagno alla televisione. Il luogo è piuttosto isolato ma va ben cosí, sostiene il barba «Didòn»: ché la Fenísia non è remissiva né di primo pelo, epperciò la convivenza con la cognata Dolinda avrebbe portato complicazioni: chi vuol viver e stare sano, dai parenti stia lontano. Eppoi il casale è in un’ottima posizione: nonostante la valle sia stretta e piuttosto buia, lassòpra batte il sole per parecchie ore; in piú non c’è vento, la casa è protetta da una balma; senza contare che si gode la vista della riàle d’acqua schiumosa e gagliarda che scompare in forre nere, per poi riapparire trasparente tra colonnate di larici.
Da vecchia la Fenísia tornerà spesso col pensiero alle speranze di quei mesi. Ché la vita spillícchia le carte poco a poco, per cui spesso è impossibile vedere il marcio all’inizio: ogni rapporto nelle prime fasi ha un aspetto attraente, quando il pomo offre la sua buccia di bei colori, addormentando i presentimenti, finché una poracrista si brusca il proprio pelo.
I proverbi dicono che per conoscere un uomo, bisogna mangiarci insieme uno staio di sale; e, d’altra parte, che il male non vien mai tanto tardi, che non sia troppo presto... La Fenísia è spaventata dalla meschinità del Billio e dalle sue insistenze a farsi intestare la dote di lei; ma soprattutto dalla grossolana brutalità dei suoi rapporti sessuali e dalla volgarità con cui la prende in giro per la sua ritrosia a letto: lui sí che ha visto il mondo, ché le donne in Germania sono vere femmine babiloniche e mica fanno storie a calarsi le mutande per lasciarsi speronare, eppoi la danno cosí cosà... Questi modi suscitano nella Fenísia una progressiva ripugnanza nei confronti del marito. È una lenta guerra che si va manmano inasprendo, perché lei rifiuta di fingere quell’espressione di grata beatitudine a cui il maschio nella sò boria quasi sempre crede, anche se è malrecitata. Di rimbalzo, lui passa sempre piú tempo fuori: la casa sembra gli serva solo per il rifocillo quando la sera torna dal lavoro eppoi via, al bar a giocare a soldi, purtroppo senza la protezione di san Macario. Lei resta sola in casa davanti al televisore: per compagnia, le inchieste del commissario Maigret e le sventure di David Copperfield.
La Fenísia si spaventa trovando in un cassetto del Billio un pacchetto di polvere bianca. Bicarbonato, sostiene lui. Ma, all’odore, lei sospetta ben altro. Per precauzione rispolvera i contravveleni della nonna e sta in campana.
Perché l’ha sposato? Per cercare di avere una vita diversa, col desiderio di non svegliarsi piú nel cuore della notte con la voce della Ghitín che le sussurra nell’orecchio: «Questo è un segreto da non dire a nessuno»; con la voce della Grisa che le singhiozza nell’orecchio: «Questo è un segreto da non dire a nessuno»; con la voce del parroco che le tuona all’orecchio: «Bisogna onorare il padre»; come se onorare fosse importante, la sola salvezza, come se la vita diventasse meno triste per il fatto di onorare. Lei che per tutta l’infanzia avrebbe avuto voglia di chiedere al curato: «Perché onorare chi batte la propria figlia?...» Somà e sonònna non le avevano mai chiesto di onorarla.
In paese si mormora che il «Pal-de-fèr» ronzi da mesi intorno alla Cít, che ha ventun anni; lui dimostra una cera da galletto, la voglia visibilmente in punta. Una volta che la Fenísia scende dal tabacchino per compere, la Centina la prende da parte e, facendo finta di spurinarla – «poverina qui», «poverina là» – ma bagnandosi il savoiardo nelle disgrazie dell’altra, le spiattella la schifenza dell’adulterio senza usare lunghi giri di perifrasi. La Fenísia si sente mancare il fiato: gambe di pezza, nebbia in testa. Cerca comunque di dominare il tremito mordendosi le labbra.
Si ritrova poco dopo a camminare verso casa, come lottando con un’aria che si è fatta cosí spessa da mozzarle il respiro. La gola le brucia, la lingua impastata. Un po’ d’acqua, per carità. I piedi la portano automaticamente verso un fontanino, ma quest’estate è secco, ne sgorga solo un filino d’acqua, i sassi quasi asciutti. Nessun sollievo. Perfino il pianto non viene, neanche una lagrima da bere.
Chi sa come ritrova l’uscio di casa. Si siede in cucina. Le solite vocine: «Non urlare! Non scalciare! Fa’ la brava...» Le ci vuole un po’ per sciogliersi in uno squasso di pianto. Negli occhi gli oggetti della cucina spallidiscono, tremano. Piangere, urlare, scalciare: oh, come le fa bene sta caragnata. S’è alzato il vento, alle finestre le tende prendono a muoversi debolmente: un piccolo sollievo dopo la gran sudata del ritorno a casa. La Fenísia sospirando si impone di affrontare con durezza il marito, appena rientrerà: gli chiederà conto. Si sdraia sull’alto lettone matrimoniale, rigida, a occhi sbarrati.
Le marcolfe linguacciute hanno di nuovo su che ricamare finezze da trobàr cortés: il Billio è scappato con la Cít. Carezzandosi gli orecchi con grande mormorazione di lingua e dardeggiando sguardate d’intesa, la Centina «Portapía» sentenzia:
«Si vede che lui per la Fenísia non provava piú niente, ché l’amore all’inizio fa passare il tempo e poi il tempo fa passare l’amore. Eh, verità verissima, certi uomini di donne non ne hanno mai a basta: piú di Maometto hanno bisogno di averne. Mica come il pòer Dionigi che la femmina non gli tira la sò maschilità, e lo posso ben dire io perché all’ora di scegliere un pasticcino dal cabarè sul bancone del bar, slunga la mano solo per la dolcería a forma tubolare».
Le sorelle Ferretto rivangano maliziosamente la storia scabrosa con la Grisa e la triste nomea di settespiriti che grava sulla malarazza della Malvina:
«C’era da aspettarselo: di pelo rosso non è buono neanche il capretto, figurarsi una donna; tanto piú con quegli anni tra i barabítt che ha alle spalle. Lui alla fine ha afferrato l’antifona e se l’è squagliata».
E, visto che nessuno vede la Fenísia piangere, la Dolinda «Senzatètt» commenta:
«Ha il cuore di pietra. L’avevo detto io che pelo rosso, cattiva lana».
Vero, la Fenísia non piange, chiusa com’è in un pensiero fisso: che basta un niente, e le sicurezze che una persona si costruisce faticosamente si sgretolano come farina che si perde da un sacco bucato. Alle linguesporche non risponde. Per non fare il loro gioco, l’unica linea di condotta possibile le pare il continuare nel solito atteggiamento cortese, come se nulla fosse accaduto. Ché le comari gongolerebbero a vederla ferita.
Le viene la notte una penosa sensazione allo sterno, stretto come in una morsa. Rabbrividisce perché comincia a vedersi doppia, un’altra con la sua stessa voce. La sera, spente le luci, rimane a parlare tra sé. Ma non è piú il gioco della Fenísia bambina, quella prima del «collegio», che aveva vicino la Grisa che l’ascoltava. Non è neppure la Fenísia tornata al paese dopo la reclusione, sempre all’erta sul chi-va-là. Adesso c’è un’altra Fenísia ancora, che si osserva dal di fuori, come se nella stanza ci fossero veramente due persone: una sbandata in lunghi conversari verso l’altralèi invisibile che ascolta. Sta per caso diventando matta come sò cugina? A volte si chiede se è cosí che la morte fa luce nella testa della gente.
Il pensiero della fine solitaria della Ghitín le spírita nella mente. Madre... Non riesce a ricostruirne l’immagine, non la vede, non sa cercarla, non ha mai imparato a cercarla. Si sente i piedi impigliati nelle radici del sò sangue in lutto, ma non conosce la strada per andare avanti. Se somà venisse a illuminarla...
Durante uno dei suoi vagabondaggi inquieti si ritrova in un prato fiorito di aconito blu. «Cappucci di monaco» li chiamano qui in valle. La Malvina raccomandava di tenersene lontani: è una specie di arsenico vegetale; se si viene a contatto con la pianta, bisogna lavarsi accuratamente le mani prima di toccare qualsiasi cibo. La Fenísia quasi senza pensarci affonda le dita nella terra, ne carezza la radice grumosa, quasi tastasse l’uovo a una gallina. Basterebbe metterla in bocca, masticarla: tempo un minuto e la sarebbe finita.
Spesso si ferma alla cappelletta che sta ai margini del prato delle Balenghe: ché se tutti hanno dimenticato le donne senza nome che stanno sepolte quassòpra, non cosí la Madonna, che femmina era pure lei e di incomprensioni ne sapeva qualcosa. Chissà chi eresse la cappellina proprio qui? quale mano pietosa, quale sfantasía di pincisanti ambulante concepí questa rozza immagine? Ha la testa un po’ piegata su una spalla, sta Madre Santa, una spada infilzata nel cuore, la bocca severa su cui si intravede la compassione: col volto solido delle donne di questa valle, che lavorano duro cominciando la sò giornata al barlume della stella boàra.
Alla mente della Fenísia riaffiora la preghiera accoracuore che per tutta l’infanzia ha sentito ripetere da sonònna Malvina:
«Per quel dolore amarissimo che quasi vi ridusse alle agonie, o Inconsolabile, quando doveste rendere a Nicodemo l’unico oggetto dei vostri amori...»
[...]
«Fenísia, non le fa impressione avere sulla porta di casa l’immagine del Giorno del Giudizio?»
No, non le ha mai dato fastidio sto affresco. Qui lei è sempre stata nel suo naturale. Eppoi ha mai pensato che il mondo dei morti fosse cosí. Per lei, morte significa ossa bianche, polvere, vialetti ordinati, il cipresso che vigila. È il mondo dei vivi che è terribile. Comunque di questo lavoro hanno campato tutti i suoi, per generazioni. E lei lo stesso, finché è durato il Paese Piccolo.
Se non le pare insolito questo lavoro per una donna? Chi lo sa. Tutti i mestieri dan da mangiare. La vita è fatta di tante cose che non si scelgono. Il padre, la madre, uno se li sceglie? Il posto dove uno nasce? Eccosí succede per il mestiere. Mica uno può cambiare. Sarebbe bella che il destino fosse come un paio di braghe che, se ti van corte o strette, ne puoi mettere delle altre. Comunque lei trova che il lavoro del becchino sia molto vario: si tratta mica solo di scavare le fosse o di curare le tombe; prima i morti vanno ripuliti e vestiti. Quella è la parte piú delicata del lavoro. La Fenísia si è abituata a seguire sopà nelle case in lutto. Mal sottile, cancrene, infarti, piaghe non hanno avuto segreti per lei. Ha imparato osservando sopà nella preparazione dei corpi da chiudere nella bara. L’anticamera del nulla le è diventato familiare.
Nella lavatura dei cadaveri, che ha eseguito per anni, lei non ha mai provato schifo, anche quando si macchiava le sottane nere coi loro umori putridi: macchie grasse, come i succhi marci della frutta quando casca a terra per la sò maduranza. Sopà le raccomandava continuamente di non dimenticare di lavarsi le mani quando aveva finito, soprattutto se i parenti del morto le offrivano da mangiare, come si usava da queste parti.
Cosa provava? Cosa vuole che provasse? Quante domande curiose fa sta sciura milanese. Chiaro che certe cose la Fenísia non può contarle per filo e per segno. Come si fa a spiegare quel che si sente lavando i cadaveri e preparandoli per la cassa? Come si fa a raccontare quel momento in cui il corpo già rigido pare tremare sotto le dita, come se avesse un ultimo soprassalto di vita?... L’importante comunque è, mentre si compone il corpo nella cassa, continuare a ripetere il nome del morto. È l’usanza. Primo, perché i non-piú-vivi non devono aver l’impressione di traversare la grande frontiera da soli; secondo, perché il morto se lo ricordi eternamente, nel caso che qualcuno dall’altra parte glielo domandi. Eggià. La sola cosa che l’ha sempre inquietata era lo sguardo vuoto dei cadaveri: quell’enormità di nulla che vi intravedeva a dispetto dei ricami di parole – la resurrezione di Lazzaro e il destino di luce che ci attende – distillati dal curato durante i funerali. Quella consolazione promessa che invita alla pazienza, perché verrà il giorno che le lagrime si asciugheranno: ball de Pèder gall... Comunque sopà le ha insegnato a non tirarsi mai indietro, ché pulire i morti l’è la carità piú granda. Lui si disperava solo del fatto di non aver potuto accomodare nella bara il sò povero fratello, il Martino. Disperso in guerra, nell’inferno gelato della ritirata di Russia, tra genti che lo consideravano un nemico e di sicuro non hanno provato nessuna pietà. Una morte senza funerali, senza lagrime, senza preghiere. Perché Domineddio non ha previsto neanche un briciolo di compassione per chi muore da nemico. Lasciato a marcire senza neppure una pietra che gridi al mondo il sò nome. Ché dopo la guerra sono venuti al paese a mettere un cippo a tutti i poveri pistapàuta caduti. E c’eran dei politiconi, di quelli che si vedeva che paciottavano alla benbene. E nella spatafiàda che han propinato alla gente, patapín e patapàn, uno ha detto che quelli come il Martino avevano dato la propria vita in sacrificio contro la barbarie russa. Ma si capiva, tutti i presenti capivano, che la barbarie erano loro, con le loro mani guantate, i loro visi ben sbarbati, la boria delle scarpe belle lustre. Ah, la Fenísia proprio ne ha piònda di quella gentaglia lí...
Purtroppo cosí va il mondo: chi le fa piú sporche, è bravo. Ci sono tombe ingiustamente dimenticate e tombe ingiustamente onorate. Lei si ricorda che tutti gli anni, nell’anniversario della morte di un gran malamènti, un porco carognone, la sua lapide si copriva di fiori. Che vergogna. E lei non parla soltanto di quelli della valle: tutto il mondo è paese e, in materia di forca, tanto strozza la seta che la canapa. Mascalzoni, intrallazzisti, sautabànchi capaci di ogni tipo di discorso a trucco, rimangono nel ricordo della gente; e nessuno se ne sdegna. Invece per i poveretti, nisba: neanche un fiore, un cero. Esiste forse la tomba dell’inventore del pane? Quella dell’uomo che ha costruito la prima sedia o il catino? Eppure sarebbero da riverire, ché son loro i veri benefattori del mondo.
«...»
Il destino taglia i fili quando vuole. Un cacciatore risparmia le bestie piccole, il pescatore ributta in acqua il pesce che non ha ancora compiuto il suo ciclo. Ma quel che trova nella sua rete, il destino se lo tiene senza misericordia. Ma il tremendo è che a volte gioca al gatto col topo. La sciura ha mai visto un gatto quando ha a portata di zampa la sò preda e sa che non può sfuggirgli? I baffi gli vibrano di soddisfazione, come se pregustasse già il sapore della plücca, di quel bomboncino di carne fresca, senza ancora sfoderare le unghiette dallo sciampíno di velluto, ma con i nervi e muscoli ben tesi, la coda che cerca il punto di appoggio perché tutto il corpo prenda lo slancio e salti... Cosí fa il destino.
«Fa una certa impressione sentirla parlare in questo modo, Fenísia. Come se non ci fossero consolazione o giustizia possibili».
Uno prende la purga e l’altro va di corpo: questa è la prima regola della vita. Quanti vanno alla forca che non ne han né mal né colpa. Cosí va il mondo. Si fa per la meglio; alla peggio ci siamo. Si vive da ottenebrati. Quel che i tuoi occhi non stanno vedendo oggi può darsi che dovrai soffrirlo come colpa posdomani. Per non sbagliare non bisognava nascere.
[...]
L’estate è smeraldo: boschi, lucertole, perfino le pietre sono verdi. Anche la casa sembra invasa da una luminosità di quel colore: sarà per il profumo della menta e della camomilla appese in fasci alle travi. L’acqua bevuta dalla secchia col mestolo di ferro lega gradevolmente i denti e sa di radici profonde.
Seduta sulla panca addossata al muretto del cimitero, la Grisa ascolta la Fenísia che chiacchiera rivangando la comune infanzia:
«Perché i padri picchiano le figlie e si giustificano che è per il loro bene, per punire il loro “brutto vizio”, e che da grandi le figlie intenderanno? Ma intendere cosa?... Perché le botte e le cinghiate? E alla fin fine cos’era sto brutto vizio?»
Il fischio di un uccello chiama la pioggia. La Fenísia continua dandosi da sé una risposta:
«Era semplicemente che, quand’una nasce, la famiglia è già pronta con uno stampino, come quello delle torte. Ma evidentemente qualche bambina ha una forma che non si adatta allo stampo. Per questo la pestano cosí tanto: perché non si rassegna, non si arrende».
[...]
La Fenísia ha già coperto il mucchio di ricci con la sabbia: cosí le castagne resteranno fresche fino a primavera. Ora sta preparando la riserva di legna per l’inverno: da dietro casa si alza il rumore secco del mazzuolo quando viene battuto sul cuneo.
Lavora da sola, perché la Grisa ha da fare nel capanno degli attrezzi, affianco alla legnaia, dove ha installato una specie di laboratorio. È sempre stata brava a riparare un contatto elettrico saltato dopo un cortocircuito, con l’aiuto di un temperino sa rimettere in moto un meccanismo che si è fermato; ma adesso l’impegno che le prende quasi interamente la giornata è la costruzione di strani apparati. Si tratta di «macchine» – cosí le chiama la Grisa – dall’utilità fantastica. C’è presèmpio, la macchina «per far passare la paura»: un’armatura di plastica e legno, a cui sono legati vari fili elettrici, con due fori per le mani a cui sono applicati i meccanismi di un paio di macinini a manovella. Oppure quella «per non far volar via le parole e i pensieri»: una specie di passamontagna di lamiera da infilarsi intorno al capo. Ché la Grisa è molto preoccupata della possibilità che qualcuno le entri nella testa e la derubi dei propri pensieri; sostiene che le parole scendono dal cervello fin giú nella bocca ma che, nel momento in cui arrivano alla lingua, un non meglio specificato «nemico» le prosciuga. La sua speranza è di riuscire a fabbricarsi una testa nuova.
Adesso, infagottata in una vecchia tuta maschile da lavoro con ampie tasche laterali gonfie di attrezzi, la Grisa è tutta intenta alla costruzione di un grosso cubo in legno di ciliegio a cui vuole applicare un motorino: l’ha chiamato la macchina «per fabbricare tempeste».
Alla Fenísia gli apparati della cugina fanno una strana impressione: tra l’addobbo di un albero di Natale e un’armatura degna dell’armata Brancaleone. Comunque non le spiace che la Grisa quasi non l’aiuti nei lavori di casa, anzi la asseconda: è convinta che se una ha passato piú di trent’anni all’inferno ha ben diritto di tornare bambina. Certe sere, quando la chiama per la cena, la vede venir fuori dal capanno degli attrezzi, con la faccia arrossata, tutta un sudore.
La Fenísia borbotta inquieta:
«Perché affannarsi cosí tanto? Che fretta c’è?»
L’altra ride e scuote la testa. La Fenísia corre a prepararle una maglia asciutta e una tazza di latte caldo.
Nel laboratorio il notes della Grisa si va riempiendo della sua magra grafia: per lo piú sono progetti di «macchine», tracciati con inchiostro blu, un po’ sbavato; ma soprattutto schegge di pensieri o ricordi. Pagine di frasi misteriose:
«Un’altra volta è entrato nonsoché nel dito. La Cosa può nascondersi anche in una roba piccolissima. Nella gola, nel petto, nella pancia».
«Quando non ci sono morti sul soffitto, si può fare il giro della stanza».
«Se le parole non scappano dalla bocca, la Cosa non le può mangiare».
Prima di dormire, davanti alla stufa accesa, una tazza fumante di decotto. Il profumo del genepí si spande per la stanza: scalda forte e fa bene.
La Fenísia ha preso l’abitudine di leggere alla cugina qualche pagina a voce alta. Dei pochi libri che stanno in casa, il preferito è la Bibbia: un vecchio volume con severe illustrazioni: Caino il peccatore, che si guarda alle spalle; l’arca di Noè carica di animali; la moglie di Lot trasformata in statua di sale; la caduta delle mura di Gerico al suono delle trombe; la bellissima Ester in ginocchio davanti al re; la magica scritta «Mane, Tekel, Fares» sul muro del palazzo del re ingiusto; Giuditta nella tenda di Oloferne... La Grisa ha preso la solita pastiglia e ha un’aria rilassata, ché via via che la medicina fa effetto, il diavolío di pensieri dolorosi che spesso la prendono alla sera si attenua: come alle fiere di paese quando, dopo un giro vorticoso di manovella, la ruota della fortuna coi bigliettini dei premi prende a rallentare. Nella testa le immagini traballano e frenano la corsa, il soffitto si fa sempre piú lontano, l’aria si addensa.
La Fenísia alza gli occhi dal libro. La luna piena imbianca il cimitero. I fiori di ghiaccio brillano sui vetri. Dice:
«Che luce, là fuori. Non sembra neppure notte».
Poi zittisce, accorgendosi che l’altra si è addormentata sul divano in un sonno tranquillo, il braccio destro piegato sotto la nuca.
Sul notes la Grisa stasera ha scritto:
«Gesú stava nel cortile del Tempio. Vennero gli scribi farisei a portargli una donna. Dissero: Guarda, Figlio dell’Uomo, questa è una pazza. La Legge dice che quelle come lei vanno rapate.
E lui si mette a scrivere con un dito nella polvere.
Allora quelli dàgli a insistere: Cosa fai di bello, Figlio dell’Uomo, cosa ci dici di bello?
Amen».
[...]
«Allora torniamo a quel prato delle Balenghe».
Per lei è un luogo di storie. Non sue, sia chiaro. Narrazioni che lei ha sentito da bambina nelle stalle, quando le vecchie filavano in circolo. Storie di fatica, di patate da cavare con le mani sgrabelate, di lupe che urlano di fame, di figli ingrati, di gente capace di accoltellarsi per una fascina di legna. Lei ne ha sentite tante, ma proprio tante. Eh, il sangue di una vecchia la sa lunga.
Perché il prato si chiama cosí? Ste Balenghe chi erano? Donne che vivevano da sole. Donne che, secondo la comunità, avevano qualcosa di strano: albine, presèmpio, o gobbe o strabiche o mancine... Insomma, che avevano caratteristiche fuori dal comune oppure che soffrivano del morbo della malinconia. Ognuna balenga per il sò particolare motivo. La sciura vuole sentirne una?
C’era l’Anna. Balenga, le dicevano tutti: balenga, perché non sapeva neppure dire quante paia fanno tre mosche. Innocente, forse cosí l’avrebbero chiamata se fosse vissuta in un altro posto. Ma qui in valle la gente è di legno. Nuca dura e mano quadra. Lo scherno come regola. Ché, a contarla intera, la pecca dell’Anna era semplicemente il fatto che fin dalla nascita non parlava né sentiva. Viveva in un mondo tutto suo, vuoto di suoni: ci volavano le nuvole, i falchi, le foglie portate dal vento; scendeva a valle la riàle, verdeggiavano i prati a ogni primavera, veniva la tormenta di neve alla sò stagione; ma tutto per lei succedeva in silenzio.
Innocente: non aveva conosciuto l’uomo, non doveva niente a uno sposo, come le altre femmine; mai la cannetta della schiena le si era piegata in una riverenza davanti a un maschio per cui spazzare, cucire, fare ordine, dare conforto. Ma non offendeva nessuno, anzi sorrideva sempre. Per tutta risposta, la gente le faceva intorto prendendola in giro: ché gli asini non conoscono i confetti. Per i giovanotti poi era uno spasso: le gridavano dietro le frasi piú sconce. Perfino i bambini usavano canzonarla. Ma lei sempre a rispondere solo con gli occhi di un verde sabbioso che non sapeva il rancore; la bocca infantile, con una piega agli angoli, che pareva tremare di continuo, non si capiva se di riso o di pianto.
L’unica parente era una zia che abitava in un villaggetto all’altro capo della valle. Una brava donna di nome Gnetta. L’Anna saliva a trovarla una volta al mese, a portarle i suoi sospiri; restava là un paio di giorni, poi tornava giú a riprendere il suo lavoro di canestraia. Chi le voleva bene veramente era un canlupo nero che la seguiva dovunque andasse.
Si combatteva a quel tempo là. Ché di guerre ce n’è sempre una, con un prete pronto a benedire le bandiere: non fu mai altrimenti né mai sarà. Con i montagnini che non ce ne possono: ché, vinca l’uno o l’altro, sempre di padroni si tratta, che ci fan da giudice, ci guardano come fossimo ladri e non ci lascian altro che grattarci con comodo i maroni, con rispetto parlando. Insomma era una di quelle guerre che venivano da lontano, di là dalle montagne. La valle era, come adesso, di difficile accesso, ma delle soldataglie erano riuscite comunque a arrivarci. Lungo il sentiero che da un paesino all’altro procede lungo la scarpata, si snodavano in fila, con vociare e grida, il cacafuoco sottobraccio, lo staffile al fianco. Lo sa Dio cosa cercavano: ché tra le nostre montagne non c’è niente che possa far gola, qui è un posto di vita accontentata, mica come a Milano dove anche i moroni fanno uva.
Gli invasori guardavano con aria superba le donne e i vecchi inginocchiati nella polvere. Avevano lineamenti differenti dai nostri, una voce sprezzosa: entravano nei villaggi, facevano suonare le campane e pretendevano ruote di pane, brente di vino, rosticciana d’agnello. Chi non donava veniva ammazzato, stalle e ovili bruciati: la vita dei paesani valeva quanto una foglia che si può accartocciare tra le dita. Le donne, che in un colpo solo perdevano la roba i mariti e l’onore, si rotolavano per terra dalla disperazione, mordendosi le mani. La paura prendeva tutti alle busecche appena sentivano avvicinarsi un drappello di quei plúfferi. Tutti meno l’Anna, ché il silenzio in cui viveva la chiudeva come in una fortezza. Era la sua fortuna: ché se c’è anche un Signúr dei ciucchi, ci sarà bene anche quello dei lucchi.
Era novembre. Già fioccava a pelo di gatto. Una coltre di neve soffice copriva il sentiero, mentre lei saliva a trovare la zia. Un silenzio piú vasto del solito. Le faceva piacere camminare nella caligine del mattino. In un varco di nebbia ogni tanto occhieggiava il lumino lontano dell’ultimo villaggio della valle. Il canlupo sempre dietro a lei.
Dapprima vide il campanile, alto sopra i boschi. Poi la casa, un po’ discosta dalle altre. Salí i gradini della scaletta di pietra, bussò. Le aprí una donna sconosciuta che le spiattellò in faccia:
«Tua zia l’è morta e sepolta da due settimane».
La ragazza però non intese; anzi, cominciò a far la riverenza, come per ringraziare. Finché si ritrovò seduta sui gradini, con le braccia intorno al collo del canlupo. La porta chiusa sprangata; di fianco a lei stava una cassetta di sbarlafusi appartenuta alla vecchia Gnetta: tutta la sua eredità. Quando finalmente intese, scese stranita gli scalini insieme alla bestia.
Corse col canlupo attraverso la neve profonda. Solo quando fu in mezzo al bosco, si acquietò. In pace, mentre il suo silenzio interno si fondeva col bianco della neve. Il canlupo le leccò le mani per compatirla. Camminò in fretta, la bestia sempre trotterellando al suo fianco e ficcando il naso tra i cespugli carichi di neve. Il pomeriggio intorno a lei era tranquillo.
Giunse in vista del Paese Piccolo, il cammino le aveva messo una gran fame. Incrociò un ragazzo che, aggrottando le sopracciglia, le gridò qualcosa che però lei non capí. Avanti, avanti, un passo dietro l’altro, affondando nella neve. Sul motto che dominava il gruppo di case che si stringevano intorno alla chiesa, si fermò presa da un’insolita paura. In basso, vicino ai fienili del Rosualdo, dove fin dai tempi di Adamo si tenevano le riunioni, si affollava la gente: pugni rabbiosi si sollevavano sopra le teste e gli stivali dei pastori calpestavano un picia-pucia di neve e fango; il vapore denso delle respirazioni aleggiava sulla folla. Dal lato opposto stava un gruppo di soldati stranieri; due di loro tenevano per le braccia l’Emiliona, la locandiera del paese.
Era successo che un soldato l’aveva accusata di avergli ripulito le tasche. La gente gridava:
«Confessa, troia! Sempre hai venduto la micca scrocca, ma derubare un soldato è davvero troppo!»
L’Emiliona confessò cupamente che sí era colpevole, sputando sulla neve il sangue delle bastonate ricevute.
«Ammazzarla, ci vuole, quella figlia di cagna», urlavano le donne, che ce l’avevano con lei perché oltre al vino l’Emiliona vendeva ai loro mariti anche altri favori di porcheria di cui la decenza è solita tacere.
Comparve il Rosualdo. Era il capo della comunità: ché, siccome avareggiava alla grande, possedeva le stalle e gli ovili di mezza valle. Tagliò il frastuono con la mano orizzontale e tutti si tacitarono di colpo. Alto una testa piú degli altri e forte come un toro; ma piú che altro tutti lo temevano per la lingua tagliente e il cuore di sasso. Un uomo senza angelo custode: gli altri, come acqua li beveva, come erba li calpestava; ché chi fa e guasta diventa maestro. Disse:
«Ammazzarla non se ne parla nemmeno. Primo, perché penso che l’Emiliona abbia imparato l’antifona e non ripeterà piú quello che ha fatto; secondo, non ci conviene consegnarla a questi soldati: in fondo qui in valle fa il suo bel servizio».
Poi, infilando tre volte l’indice destro nella sinistra chiusa a pugno, fece un gesto sconcio. Quindi riprese fiato guardando verso il motto da dove in quel momento l’Anna scendeva verso il villaggio. La seguí per un attimo a occhi socchiusi, mentre sul viso gli si disegnava una smorfia volpina; poi continuò:
«Comunque son d’accordo con voi che non si può lasciare passare liscia una faccenda simile: ogni delitto va punito severamente e, per distogliere la gente cattiva dall’idea di ripetere un furto, non c’è che la morte. Il peccato si uccide insieme al peccatore: come esempio e perpetuo timore di chi ci voglia riprovare».
Tutti intorno a lui assentirono con la testa, nella maggiore sospensione.
«Tanto piú che bisogna dare soddisfazione agli offesi»,
aggiunse il Rosualdo, accennando ai soldati foresti che formavano un cerchio intorno a loro. Poi proseguí:
«C’è però da considerare un altro lato della questione: di puttane ne abbiamo una sola, mentre di pecoraie o canestraie ne abbiamo tante. È piú facile per questo scopo rinunziare a una di loro piuttosto che all’Emiliona».
Nel dire questo additò l’Anna che aveva ormai raggiunto il gruppo. E rise:
«Batt i pàgn, fœra la stría...»
Lo pensarono tutti: era orfana, disgraziata, buona soltanto da fà la zuppa. Nessuno l’avrebbe pianta. Non ci voleva la zingara per indovinarle la sorte.
Detto fatto, tutti si adeguarono al parere del Rosualdo. A nessuno venne in mente di discutere la sua proposta: era la colpevole che ci voleva, perché la comunità aveva bisogno della sua colpa.
Giusto in quel momento l’Anna era arrivata allo spiazzo davanti ai fienili, dove la gente stava radunata. La ragazza si accorse che tutti la guardavano truci. Sorrise voltandosi a dritta e a manca, ma i visi di tutti continuarono a fissarla allo stesso modo.
Il Rosualdo le puntò l’indice contro:
«Rassègnati, tanto non puoi farci niente lo stesso».
E tutti fecero coro.
Però lei non sentiva. Si meravigliò delle braccia tese da tutte le parti a brancicarla per le vesti. Cercò di serrarsi nel suo scialletto, ma glielo strapparono via. Si agitò senza comprendere, mentre la folla la trascinava fuori dal villaggio. Il canlupo abbaiava, rizzando il pelo; lo presero a pedate.
L’Anna vedeva le bocche che si aprivano in smorfie paurose e orrende; si lasciava trascinare con impaccio. Camminarono nella neve intatta dell’ultimo prato prima del burrone. Davanti i bambini curiosi, dietro i vecchi zoppicando sul bastone. I soldati foresti seguivano a breve distanza il gruppo di paesani vocianti e osservavano la scena, impassibili.
La spinsero sotto il noce. Siccome il canlupo le girava intorno spaventato, lei si chinò a carezzargli il capo. Era l’ultimo prato prima dell’orrido. Veniva sera, il cielo fiammeggiava rosso. L’Anna aspirò l’aria fredda, sentí la neve bruciarle le caviglie ché nel camminare, a furia di spintoni, aveva perduto le zoccole. Sentiva l’odore dei fiati intorno a lei, acidi di vino rabbia e paura. Il sorriso le si spense in bocca quando incontrò lo sguardo del Rosualdo. Chi sa se comprese il suo destino. Giunse le mani, intorno a lei il silenzio era totale, puro come il bianco della valle.
I paesani la circondavano con il braccio alzato, una pietra in ciascun pugno. A lei parve un cerchio di mostri. Il primo sasso la colpí alla spalla e ruzzolò pesantemente ai suoi piedi. Volse gli occhi increduli a chi aveva tirato. Si accorse che il canlupo aveva il pelo ritto, slungò il braccio per raggiungerlo. Poi non guardò piú. Cadde. Morse la neve, ci affondò il viso. Il sangue si raffreddò in fretta sull’erba gelata. Presto ci fu un cumulo di pietre sopra il cadavere. Un grande mucchio, quasi che tutta la comunità volesse assicurarsi che il suo corpo non potesse scapparsene via e svanire nel crepuscolo del mondo.
Il cielo si scuriva; si accesero le torce. Una vecchia appese a un ramo del noce lo scialletto nero che aveva strappato alla ragazza. Dal bosco, dove il canlupo era fuggito quando la sassaiola era cominciata, si levò un ululato minaccioso, che fece rizzare i capelli a tutti. Le donne si segnarono, una vecchia disse:
«Il sangue chiama il cielo».





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Mondo senza fine - Ken Follett

>> domenica 24 marzo 2013



Il libro più corposo di Ken Follett (nella sua edizione standard supera le 1.300 pagine) è sicuramente uno dei suoi migliori. Siamo allo stesso livello dei Pilastri della Terra (da molti ritenuto il suo capolavoro anche se io continuo a preferire l'inarrivabile Una Fortuna Pericolosa), di cui ne è idealmente il seguito anche se si svolge due secoli dopo e i collegamenti tra i personaggi e le vicende delle due opere sono quasi inesistenti. 
Tre a mio avviso le qualità principali: 
- una scrittura di altissimo livello, spesso curda ed estremamente realistica, che rende comunque il tutto scorrevole, avvincente e godibile fino all'ultima pagina; 
- una ricostruzione storica che approfondisce aspetti poco noti del periodo medievale (le corporazioni e le loro modalità di funzionamento, la medicina e la cura dei malati, l'atmosfera apocalittica durante la Peste Nera del 1348, le atrocità commesse dagli inglesi in territorio francese durante la guerra dei cent'anni, le deficienze tattiche e comportamentali dei francesi nella battaglia di Crecy che portarono all'annientamento della loro cavalleria nonostante la schiacciante superiorità numerica rispetto agli avversari);
-  la creazione di personaggi indimenticabili che si staccano dalle pagine del libro e sembrano vivere di vita propria tanto sono credibili nei loro pregi, difetti e debolezze. Sia i "buoni" che i "cattivi" hanno caratteristiche ambivalenti che li rendono umani in cui ogni lettore può riconoscere tratti di se stesso, modalità decisionali, incertezze, timori. Molti scrittori contemporanei dovrebbero prendere esempio.
Le parti che ho più apprezzato riguardano le alchimie manipolatorie per esercitare il potere messe in pista dal priore Godwyn (da manuale la sua elezione a priore) e le strategie attuate da Gwenda per riscattare la sua vita di donna povera, sfortunata e brutta. Gwenda al pari se non più della sua amica Caris (che nasce comunque in una famiglia privilegiata), incarna la donna moderna che con una straordinaria forza di volontà riesce a farsi valere in un mondo governato da bieche regole maschili.

Si bloccò davanti alla camera in cui si trovavano Richard e Margery. «Seguimi dentro» sussurrò a Philemon. «Non fare e non dire nulla, ed esci quando esco io.»
Philemon posò la scopa.
«No, portala.»
«D'accordo.»
Godwyn spalancò la porta ed entrò a grandi passi. «Voglio che questa camera sia pulita da cima a fondo» disse ad alta voce. «Spazza ogni angolo e... oh, chiedo scusa! Credevo non ci fosse nessuno!»
Nell'arco di tempo impiegato da Godwyn e Philemon per correre dal dormitorio all'ospitale, gli amanti si erano dati da fare: Richard stava sopra Margery, con la lunga veste talare sollevata intorno alla vita. Le belle gambe bianche di lei erano sollevate in aria contro i fianchi del vescovo. L'atteggiamento era inequivocabile.
Richard cessò di spingere e guardò Godwyn con espressione di rabbiosa frustrazione e al contempo di colpevole timore. Margery lanciò un urlo di orrore e fissò Godwyn con occhi pieni di paura.
Il sacrista protrasse il momento. «Vescovo Richard!» esclamò, fingendosi sbalordito. Voleva che Richard sapesse senza ombra di dubbio di essere stato riconosciuto. «Ma come... E Margery?» Diede a vedere di comprendere solo allora. «Perdonatemi!» Girò sui tacchi. Poi, rivolto a Philemon, aggiunse: «Fuori! Vai via subito!». Philemon si affrettò a uscire, sempre con la scopa in mano.
Godwyn lo seguì, ma sulla soglia si voltò indietro per accertarsi che Richard lo vedesse bene. I due amanti erano rimasti raggelati nella loro posizione, stretti nell'atto sessuale, ma la loro espressione era cambiata. La mano di Margery era volata alla bocca nel gesto tipico di chi è colto in flagrante. Richard stava freneticamente cercando una via d'uscita. Voleva dire qualcosa, ma non trovava le parole. Godwyn decise di risparmiare loro ulteriore imbarazzo: in fondo aveva fatto tutto quello che gli serviva.
Mentre stava per chiudere la porta alle sue spalle, si bloccò sgomento. Una donna stava salendo le scale. Fu assalito dal panico. Era Philippa, la moglie dell'altro figlio del conte.
Comprese all'istante che il segreto avrebbe perso valore se condiviso con altri. Doveva avvertire Richard. «Lady Philippa!» esclamò ad alta voce. «Benvenuta al priorato di Kingsbridge!»
Dall'interno provenne un trambusto concitato. Con la coda dell'occhio Godwyn vide che Richard balzava in piedi.
Per fortuna, Philippa si fermò a parlargli. «Forse mi puoi aiutare.»
"Dalla sua posizione, non vede dentro la stanza" pensò Godwyn.
«Ho perduto un bracciale; non vale granché, è di legno intagliato, ma mi piace molto.»
«Che peccato» fece Godwyn in tono partecipe. «Chiederò ai frati e alle suore di cercarlo.»
«Io non l'ho visto» disse Philemon.
«Forse vi è scivolato dal polso» suggerì Godwyn.
Lei corrugò la fronte. «La cosa strana è che da quando sono qui non l'ho mai messo. Appena arrivata l'ho tolto e l'ho posato sul tavolo, e adesso non lo trovo più.»
«Forse è rotolato in un angolo buio. Lo cercherà il nostro Philemon. È lui a pulire le camere degli ospiti.»
Philippa squadrò il giovane. «Sì, ti ho incontrato mentre uscivo, più o meno un'ora fa. Non lo hai visto mentre pulivi?»
«Non ho fatto in tempo a spazzare, perché la signorina Margery è entrata proprio quando stavo per cominciare.»
Intervenne Godwyn. «Philemon è tornato adesso per pulire la vostra camera, ma la signorina Margery è...» Lanciò un'occhiata nella stanza. «... In preghiera» concluse. Margery era chinata sull'inginocchiatoio con gli occhi chiusi. Godwyn si augurò che stesse chiedendo perdono per il suo peccato. Richard, dietro di lei con le mani giunte, a capo chino, muoveva le labbra in un mormorio indistinto.
Godwyn si spostò di lato per fare entrare Philippa. Lei rivolse al cognato un'occhiata sospettosa. «Salve, Richard. Non è da te pregare nei giorni feriali.»
Lui portò le dita alle labbra come a zittirla, e indicò Margery sull'inginocchiatoio.
«Margery può pregare quanto le pare» ribatté Philippa seccamente «ma questa è la camera delle donne, e quindi devi andartene.»
Richard nascose il suo sollievo e uscì lasciando sole le due donne.
Lui e Godwyn si trovarono faccia a faccia nell'ingresso. Il sacrista si rese conto che il vescovo esitava sulla strategia da adottare. Probabilmente l'istinto gli suggeriva di dire: "Come osi irrompere in una stanza senza bussare?" ma era così palesemente in torto che gliene mancava il coraggio. D'altronde, non poteva certo scongiurare Godwyn di tenere per sé quel che aveva visto, perché sarebbe stato come ammettere di essere in suo potere. Fu un momento di doloroso imbarazzo.
Poiché Richard esitava, fu Godwyn a parlare. «Nessuno lo verrà a sapere da me.»
Il vescovo parve sollevato, poi guardò Philemon. «E lui?»
«Desidera farsi frate e sta imparando la virtù dell'obbedienza.»
«Ti sono debitore.»
«Bisogna confessare i propri peccati, non quelli degli altri.»
«Comunque, ti sono grato, fratello...»
«Godwyn, il sacrista. Sono il nipote del priore Anthony.» Era meglio mettere in chiaro che con le sue parentele influenti avrebbe potuto procurargli guai seri. 
[...]
Joby chiamò la figlia con un cenno della mano. «Ho trovato una mucca.»
Gwenda si avvicinò per osservarla: sui due anni, magra e bizzosa, sembrava però sana. «Mi pare che vada benissimo» commentò lei.
«Lui è Sim Chapman, l'ambulante.» Il padre indicò col pollice la tunica gialla. Gli ambulanti andavano di villaggio in villaggio a vendere piccoli oggetti utili come aghi, fermagli, specchi e pettini. Forse la mucca era rubata, ma al padre non importava, se il prezzo era buono.
«Come ti sei procurato il denaro?» domandò Gwenda.
«In realtà, non la pago» rispose il padre con aria evasiva.
Gwenda si era aspettata che avesse qualcosa in mente. «E allora?»
«Più che altro è un baratto.»
«Cosa gli dai in cambio della mucca?»
«Te.»
«Non dire sciocchezze.» Ma in quell'istante sentì un cappio scenderle sulla testa e stringersi attorno al corpo fino a bloccarle le braccia lungo i fianchi.
Rimase sconcertata. Una cosa del genere non poteva succedere. Cercò di divincolarsi, ma Sim tirò più forte la fune.
«Su, non fare tante storie» le disse il padre.
Lei non riusciva a credere che parlasse sul serio. «Ma cosa ti salta in mente?» domandò incredula. «Sei pazzo, non puoi vendermi!»
«A Sim serve una donna, e a me una mucca» disse il padre. «Semplicissimo.»
Sim parlò per la prima volta. «È piuttosto brutta, tua figlia.»
«Ma è ridicolo!» esclamò Gwenda.
Sim le sorrise. «Gwenda, non preoccuparti. Sarò buono con te, se ti comporterai bene e farai quello che ti dico.»
Gwenda capì che non era uno scherzo: quei due erano decisi a procedere allo scambio. Il timore che ciò potesse veramente accadere la trafisse come una lama gelida.
«Questo gioco è durato fin troppo» intervenne Caris, la voce chiara e forte. «Liberatela subito.»
Sim non si lasciò intimorire dal tono perentorio. «E tu chi sei, per dare ordini?»
«Mio padre è castaldo della corporazione parrocchiale.»
«Ma tu no e, se anche lo fossi, non avresti alcuna autorità su di me o sul mio amico Joby.»
«Non si può barattare una ragazza con una mucca.»
«Perché no?» chiese Sim. «La mucca è mia, e la ragazza è sua figlia.»
La discussione animata attrasse l'attenzione dei passanti, che si fermarono a guardare la ragazza legata con la fune. «Cosa succede?» chiese qualcuno.
«Ha barattato la figlia con una mucca» rispose un altro.
Gwenda scorse un'espressione di panico sul volto del padre: evidentemente rimpiangeva di non aver fatto lo scambio in un vicolo tranquillo. Ma non era tanto acuto da prevedere la reazione della gente. Gwenda si rese conto che i passanti potevano essere la sua unica speranza.
Caris fece un cenno con la mano a un monaco che stava uscendo dai cancelli del priorato. «Frate Godwyn!» chiamò. «Vieni a risolvere questa controversia, per favore.» Guardò Sim con aria di trionfo. «Il priorato ha giurisdizione su tutti gli scambi che si concludono alla fiera della lana» disse. «Frate Godwyn è il sacrista. Penso che dobbiate accettare la sua autorità.»
«Salve, cugina Caris. Cosa succede?» si informò Godwyn.
Sim emise un grugnito di disappunto. «Tuo cugino, eh?»
Godwyn gli lanciò un'occhiata gelida. «Qualunque sia l'oggetto del contendere, come uomo di Dio cercherò di giudicare con equità... Potete fare affidamento su di me, spero.»
«Siamo ben felici di sentirlo, signore» replicò Sim, d'un tratto ossequioso.
Joby fu altrettanto viscido. «Io ti conosco, fratello: mio figlio Philemon ti è molto affezionato. Per lui tu sei la gentilezza in persona.»
«Va bene, basta così» disse Godwyn. «Cosa succede?»
«Questo tipo, Joby, vuole barattare Gwenda con una mucca. Digli che non può» spiegò Caris.
«È mia figlia, signore, ha diciotto anni e non è ancora sposata; dal momento che è mia, fa quello che voglio io» ribatté Joby.
«Ciò nonostante, vendere i propri figli mi pare una pratica vergognosa» commentò Godwyn.
Joby assunse un'aria patetica. «Non lo farei, signore, ma a casa ho altri tre figli. Sono un bracciante, non possiedo terra e d'inverno non riesco a sfamarli senza una mucca. Quella che avevamo è morta.»
Dalla folla che si radunava sempre più numerosa si levò un mormorio di solidarietà. Tutti conoscevano la rigidità dell'inverno e a quali estremi rimedi talvolta si doveva ricorrere per provvedere alla famiglia. Gwenda cominciò a disperare.
«Tu puoi anche considerarlo vergognoso, frate Godwyn, ma è peccato?» Sim parlò come se conoscesse già la risposta, e Gwenda pensò che probabilmente non era la prima volta che si trovava coinvolto in una disputa del genere.
Con ovvia riluttanza, Godwyn rispose: «Sembra proprio che la Bibbia autorizzi la vendita di una figlia come schiava. Libro dell'Esodo, capitolo ventuno».
«Bene, hai visto!» esclamò Joby. «È una legge cristiana.»
Caris era fuori di sé. «Il Libro dell'Esodo!» disse sprezzante.
«Noi non siamo figli di Israele» si intromise una donna tra la folla. Piccola e massiccia, aveva un mento prominente che le conferiva un'aria determinata. Era sicura di sé, nonostante fosse vestita poveramente. Gwenda la riconobbe: era Madge, la moglie di Mark Webber. «Non ci sono più schiavi, al giorno d'oggi» aggiunse la donna.
«Allora cosa mi dici degli apprendisti che non vengono pagati e possono essere picchiati dal loro padrone? O delle suore e dei monaci novizi? O di quelli che sgobbano nei palazzi dei nobili in cambio di vitto e alloggio?» ribatté Sim.
«Magari la loro vita è dura, però non possono essere venduti e comprati. Vero, frate Godwyn?» insistette Madge.
«Non intendo dire che questo baratto sia legittimo» rispose Godwyn. «A Oxford ho studiato medicina, non legge. Però, dalle Sacre Scritture e dagli insegnamenti della Chiesa non risulta che questi uomini stiano commettendo peccato.» Guardò Caris stringendosi nelle spalle. «Mi dispiace, cugina.»
Madge Webber incrociò le braccia sul petto. «Bene, ambulante, come hai intenzione di far uscire la ragazza dalla città?»
«Legata a una fune. Nello stesso modo in cui ho fatto entrare la mucca.»
«Ah, ma prima non sei stato costretto a far passare la mucca davanti a me e a queste persone.»
Il cuore di Gwenda ebbe un sussulto di speranza. Non sapeva quanti fra gli astanti fossero dalla sua parte ma, se si fosse arrivati alle mani, molto probabilmente sarebbero stati con Madge, che era una della città, mentre Sim era forestiero.
«Ho già avuto a che fare con donne ostinate» disse Sim con una smorfia «e non sono mai state un grosso problema.»
Madge posò la mano sulla fune. «Forse ti è andata bene.»
Lui le strappò la fune. «Non toccare la mia proprietà e non ti succederà niente.»
Madge posò provocatoriamente la mano sulla spalla di Gwenda.
Sim le allungò uno spintone e lei indietreggiò barcollando, ma dalla folla si alzò un mormorio di protesta.
«Non lo faresti se conoscessi suo marito» affermò qualcuno.
Seguì uno scroscio di risate. Gwenda pensò a Mark, il marito di Madge, il gigante buono. Se solo si fosse fatto vedere!
Invece arrivò John il conestabile. Un naso molto sensibile all'odore di guai lo portava verso ogni assembramento nel momento stesso in cui si formava. «Niente spintoni, qui» disse. «Stai creando guai, ambulante?»
Gwenda ricominciò a sperare. I venditori ambulanti godevano di una pessima reputazione e il conestabile aveva subito supposto che fosse Sim la causa del trambusto.
Sim ritornò ossequioso, cosa che sapeva fare più in fretta che cambiare cappello. «Chiedo scusa, mastro conestabile, ma quando un uomo paga il prezzo pattuito per un acquisto, gli si deve permettere di uscire da Kingsbridge con la propria mercanzia intatta.»
«Certamente.» John non poté fare a meno di confermarlo. La fama di una città sede di mercato si basava sulla correttezza negli affari. «Ma cos'hai comprato?»
«Questa ragazza.»
«Ah.» John parve pensieroso. «Chi l'ha venduta?»
«Io» disse Joby. «Sono il padre.»
«E questa donna dal mento sporgente vuole impedirmi di portare via la ragazza» continuò Sim.
«Infatti» disse Madge. «Perché né io né nessun altro qui abbiamo mai sentito che al mercato di Kingsbridge si può vendere o comprare una donna.»
«Un uomo può fare del proprio figlio ciò che vuole.» Joby si guardò intorno in cerca di consenso. «C'è qualcuno che non è d'accordo?»
Gwenda sapeva che nessuno l'avrebbe contraddetto. Alcuni trattavano i figli con gentilezza, altri con durezza, ma tutti concordavano sul fatto che un padre avesse potere assoluto sulla propria prole. Gwenda sbottò rabbiosa: «Se aveste un padre come lui non ve ne stareste qui muti come pesci. Quanti di voi sono stati venduti dai genitori? Quanti di voi da bambini sono stati costretti a rubare perché potevano infilare facilmente le loro piccole mani nelle borse della gente?».
Joby cominciava a preoccuparsi. «Sta farneticando, mastro conestabile» protestò. «Nessuno dei miei figli ha mai rubato.»
«Non importa» disse John. «Ascoltatemi tutti. Prenderò una decisione, e quelli che non sono d'accordo potranno andare a lamentarsi dal priore. Se vedo spintoni, o qualsiasi altro comportamento violento, arresto tutti i responsabili. Spero di essere stato chiaro.»
Si guardò attorno con aria bellicosa. Tutti tacquero, impazienti di conoscere la sua decisione.
«Non vedo motivo di ritenere illegittimo questo baratto, pertanto Sim l'ambulante è autorizzato ad andarsene con la ragazza» concluse.
«Te lo dicevo anch'io, non...»
«Chiudi quella boccaccia, Joby, sciocco che non sei altro» lo interruppe il conestabile. «Sim, vattene, e in fretta. Madge, se alzi un dito ti metto ai ceppi, e neppure tuo marito mi fermerà. E tu, Caris, non dire una parola, per favore: se vuoi, lamentati con tuo padre.»
John non aveva ancora finito di parlare che Sim diede uno strattone alla fune. Gwenda fece un balzo in avanti e piantò il piede per non cadere; poi, mezzo incespicando e mezzo correndo, si avviò lungo la strada. Con la coda dell'occhio vide Caris al suo fianco. Un attimo dopo l'amica fu fermata da John il conestabile; non fece in tempo a protestare che scomparve dalla visuale di Gwenda.
Sim camminava veloce per la strada fangosa tirando la fune e mantenendo Gwenda sempre in equilibrio precario. Mentre si avvicinavano al ponte, lei cominciò a disperare. Fece uno scatto all'indietro, ma lui rispose con un forte strattone che la fece cadere nel fango. Le braccia erano ancora legate, quindi non poté proteggersi con le mani. Cadde in avanti, il petto e la faccia nella melma. A quel punto rinunciò a opporre qualsiasi resistenza e tentò in tutti i modi di rimettersi in piedi. Imbrigliata come un animale, dolente, terrorizzata e coperta di fango fetido, attraversò il ponte e seguì barcollando il suo nuovo padrone lungo la strada che portava alla foresta.
Sim l'ambulante condusse Gwenda attraverso i sobborghi di Newtown fino a un crocevia chiamato "incrocio del Patibolo", dove venivano impiccati i criminali. Poi prese verso sud, in direzione di Wigleigh. Si assicurò la fune al polso per impedire alla ragazza di fuggire, qualora si fosse distratto. Skip li seguiva, ma Sim gli lanciò addosso dei sassi e quando uno lo colpì al naso il cane di Gwenda si ritirò con la coda tra le zampe.
Dopo parecchie miglia, quando il sole cominciava a calare, Sim svoltò nella foresta. Gwenda non aveva colto alcun segnale indicatore lungo la strada, ma le sembrò che Sim avesse scelto con attenzione: percorso qualche centinaio di passi tra gli alberi, infatti, arrivarono a un sentiero. Abbassando lo sguardo, Gwenda scorse sul terreno piccole impronte nitide di decine di zoccoli e si rese conto che era una pista dei cervi. Portava sicuramente all'acqua, pensò. E in effetti arrivarono a un piccolo ruscello, ai lati del quale la vegetazione era stata calpestata.
Sim si inginocchiò, riempì di acqua pulita le mani e si abbeverò. Poi, per liberare quelle di Gwenda, le spostò la fune intorno al collo e la condusse all'acqua.
Lei si lavò le mani nel ruscello e bevve avidamente.
«Lavati la faccia» ordinò lui. «Sei già abbastanza brutta di tuo.»
Gwenda fece come le era stato ordinato, domandandosi stancamente perché gli importasse del suo aspetto.
Proseguirono lungo il sentiero che continuava dal lato opposto della pozza. Gwenda era una ragazza robusta, in grado di camminare una giornata intera, ma sconfitta, infelice e terrorizzata com'era si sentiva esausta. Una volta giunti a destinazione, probabilmente l'attendeva un destino assai triste, ma ciò nonostante non vedeva l'ora di arrivare per potersi sedere.
Si stava facendo buio. La pista dei cervi si insinuava tra gli alberi per un miglio, poi terminava ai piedi di una collina. Sim si fermò accanto a una quercia imponente e lanciò un breve fischio.
Qualche attimo dopo, dalla semioscurità della foresta si materializzò una figura. «Tutto bene, Sim.»
«Tutto bene, Jed.»
«Cos'hai lì, una crostata di frutta?»
«Puoi averne una fetta, Jed, come gli altri, solo se hai una moneta da sei penny.»
Gwenda si rese conto del piano di Sim. L'avrebbe fatta prostituire. Quel pensiero fu un colpo duro: la ragazza vacillò e cadde sulle ginocchia.
«Sei penny, eh?» La ragazza percepì eccitazione nella voce di Jed, che peraltro le sembrava lontana. «Quanti anni ha?»
«Il padre sostiene che ne ha sedici, ma io credo che sia vicina ai diciotto.» Sim diede uno strattone alla fune. «Alzati, tu, vacca pigra, non siamo ancora arrivati.»
Gwenda si alzò. "Ecco perché ha voluto che mi lavassi la faccia" pensò e, per qualche ragione, quella consapevolezza la fece piangere.
Disperata, avanzò incespicando sulle orme di Sim finché giunsero a una radura, al centro della quale c'era un falò. Attraverso le lacrime, intravide quindici o venti persone sdraiate lungo i bordi, la maggior parte delle quali avvolte in coperte o mantelli. Quasi tutti quelli che la guardavano alla luce del fuoco erano maschi, però scorse anche il volto bianco di una donna, con l'espressione dura ma il mento delicato, che le lanciò una rapida occhiata per poi scomparire nuovamente nel suo giaciglio di stracci. Un barile di vino capovolto e tazze di legno sparpagliate ovunque erano ciò che restava di un'ubriacatura generale.
Gwenda capì che Sim l'aveva condotta in un covo di fuorilegge.
Gemette. A quanti di loro avrebbe dovuto cedere?
Nel momento in cui si pose la domanda conosceva già la risposta: a tutti.
Sim la trascinò dalla parte opposta della radura, verso un uomo che sedeva con la schiena appoggiata a un albero. «Tutto bene, Tam» disse Sim.
Gwenda capì subito chi era quell'uomo: Tam il latitante, il fuorilegge più famoso della contea. Aveva un bel viso, benché arrossato dal bere. Dicevano che fosse di nobili origini, ma era una leggenda popolare che riguardava tutti i banditi famosi. Osservandolo, Gwenda si sorprese della sua giovane età: non doveva avere più di venticinque anni. D'altronde, uccidere un fuorilegge non era un crimine, per cui, con tutta probabilità, pochi arrivavano alla vecchiaia.
«Tutto bene, Sim» gli fece eco Tam.
«Ho barattato la mucca di Alwyn con una ragazza.»
«Bravo.» Tam aveva la voce leggermente impastata.
«Faremo pagare sei penny a tutti, ma ovviamente per te sarà un omaggio. Immagino ti farà piacere essere il primo.»
Tam scrutò attentamente Gwenda, gli occhi iniettati di sangue. Forse era perché lei se lo augurava con tutte le forze, ma credette di scorgere una punta di pietà nel suo sguardo. «No, grazie, Sim» disse il fuorilegge. «Comincia pure tu e fai divertire i ragazzi, anche se forse dovrai aspettare fino a domani. Abbiamo intercettato un barile di buon vino che due monaci stavano portando a Kingsbridge, e adesso sono quasi tutti ubriachi fradici.»
Il cuore di Gwenda ebbe un sussulto di speranza. Forse la tortura sarebbe stata rimandata.
«Devo sentire Alwyn» disse Sim dubbioso. «Grazie, Tam.» Se ne andò tirandosi dietro Gwenda.
Poco più avanti, un uomo dalle spalle larghe tentava di mettersi in piedi. «Tutto bene, Alwyn» disse Sim. Sembrava che i fuorilegge usassero quella frase come forma di saluto e anche come parola d'ordine.
Alwyn era nella fase irritabile della sbornia. «Cos'hai lì?»
«Una fresca pollastrella.»
Alwyn afferrò il mento di Gwenda, stringendolo con forza ingiustificata, e la costrinse a voltare il viso verso il fuoco. Lei dovette guardarlo negli occhi. Era giovane, come Tam il latitante, e con la stessa aria malsana di chi conduce una vita dissoluta. L'alito gli puzzava di vino. «Cristo, ne hai portata una brutta.»
Una volta tanto, Gwenda fu felice di essere ritenuta tale: forse Alwyn non avrebbe fatto niente con lei.
«Ho preso quel che potevo» replicò Sim stizzito. «Se quell'uomo aveva una figlia bella, non me la cedeva in cambio di una mucca, no? Anzi, la faceva sposare al figlio di un ricco mercante di lana.»
Al pensiero del padre, Gwenda si adirò: lui doveva sicuramente sapere, o almeno sospettare, ciò che sarebbe accaduto. Come aveva potuto farle una cosa del genere?
«Va bene, va bene, non importa» tagliò corto Alwyn. «Con solo due donne nel gruppo, quasi tutti i ragazzi stanno morendo dalla voglia.»
«Tam ha detto che dovremmo aspettare fino a domani, perché stanotte sono troppo ubriachi; comunque sta a te decidere.»
«Tam ha ragione. La metà di loro dorme già.»
La paura di Gwenda diminuì un poco. Durante la notte poteva succedere di tutto.
«Bene» disse Sim. «Anch'io sono stanco morto.» Guardò Gwenda. «Sdraiati, tu.» Non la chiamava mai per nome.
Lei si stese e Sim le legò insieme i piedi e poi le mani dietro la schiena, quindi lui e Alwyn si sistemarono di fianco alla ragazza, uno per parte, e si addormentarono dopo pochi istanti.
Gwenda era esausta, ma non pensava assolutamente a dormire. Con i polsi legati dietro la schiena, tutte le posizioni erano dolorose. Cercò di muoverli dentro la fune, ma Sim l'aveva stretta saldamente e annodata bene. Il risultato fu che si procurò un'escoriazione, e la fune le bruciò la carne viva.
La disperazione si trasformò in impotenza rabbiosa, e Gwenda immaginò la vendetta sui suoi aguzzini: li avrebbe presi a frustate mentre loro si facevano piccoli davanti a lei. Vane fantasie. Volse la mente a concrete ipotesi di fuga.
Prima di tutto doveva farsi slegare, dopodiché sarebbe scappata. Le sarebbe bastato assicurarsi di non essere seguita e catturata di nuovo.
Sembrava impossibile.

12

Gwenda si svegliò infreddolita. Era piena estate, ma l'aria era fresca e addosso non aveva altro che il vestito leggero. Il cielo stava schiarendo dal nero al grigio. Diede un'occhiata alla radura circostante immersa nella debole luce: non si muoveva nessuno.
Aveva bisogno di orinare. Pensò di farlo lì e di inzupparsi il vestito. Se questo la rendeva disgustosa, tanto meglio. Ma accantonò subito l'idea: avrebbe significato arrendersi, e non era quello che voleva.
Che fare?
Alwyn dormiva accanto a lei, il lungo pugnale nel fodero ancora assicurato alla cintura, e questo le fece balenare l'idea. Non era sicura di avere il fegato per realizzare il piano che stava prendendo forma nella sua mente, tuttavia ignorò la paura: doveva tentare.
Aveva le caviglie legate, però riusciva a muovere le gambe. Diede un calcio ad Alwyn, che parve non accorgersene. Tirò un altro calcio, e lui si scosse. La terza volta si mise a sedere. «Sei stata tu?» chiese confuso.
«Devo orinare.»
«Non nella radura. È una regola di Tam: venti passi per pisciare, cinquanta per cacare.»
«Allora anche i fuorilegge seguono delle regole.»
Lui la fissò interdetto senza cogliere l'ironia. Non era intelligente, si rese conto Gwenda, e questo le sarebbe tornato utile, però era forte e cattivo. Doveva fare molta attenzione.
«Legata in questo modo non posso andare da nessuna parte.»
Lui grugnì, ma le slegò le caviglie.
La prima parte del piano aveva funzionato, eppure Gwenda si sentì ancor più spaventata.
Faticò a mettersi in piedi. Le dolevano i muscoli delle gambe per non averle mai potute muovere durante la notte. Fece un passo, vacillò e cadde. «È troppo difficile con le mani legate.»
Lui la ignorò.
La seconda parte del piano non aveva funzionato.
Doveva tentare di nuovo.
Si alzò e si infilò tra gli alberi. Alwyn, alle sue spalle, contava i passi sulle dita. Arrivato a dieci, ricominciò. Quando finì le dita la seconda volta, disse: «Lì va bene».
Lei lo guardò desolata. «Non posso alzare il vestito.»
Ci sarebbe cascato?
La fissò senza dire una parola. Le sembrava di sentire gli ingranaggi del cervello dell'uomo che si muovevano con il rumore dei mulini a vento. Alwyn avrebbe potuto tenerle sollevato il vestito mentre lei orinava, ma questo era ciò che facevano le madri con i bambini piccoli e per lui sarebbe stato umiliante. Oppure avrebbe potuto slegarle la corda attorno ai polsi. Con mani e piedi liberi, Gwenda se la sarebbe data a gambe. Ma era piccola, stanca e con i muscoli intorpiditi: era impossibile che corresse più veloce di un uomo con gambe lunghe e muscolose. Probabilmente lui stava pensando che liberarla non avrebbe rappresentato un rischio.
Slegò la corda che le stringeva i polsi.
Gwenda distolse lo sguardo per nascondere l'espressione trionfante e si massaggiò le braccia per riattivare la circolazione. Avrebbe voluto cavargli gli occhi, invece gli sorrise il più dolcemente possibile. «Grazie» disse, come se le avesse fatto una gentilezza.
Lui rimase a guardarla muto, in attesa.
Gwenda si aspettava che l'uomo guardasse altrove mentre lei sollevava la gonna e si accucciava, invece continuò a fissarla con insistenza. Decisa a non mostrarsi imbarazzata nel fare una cosa naturale, lo ignorò. Alwyn schiuse la bocca e a lei parve che avesse il respiro concitato.
A quel punto l'aspettava la parte più difficile del piano.
Si alzò lentamente, permettendogli di darle una bella occhiata prima di far ricadere il vestito. Lui si leccò le labbra. Lei capì di averlo in pugno.
Gwenda gli si avvicinò. «Vuoi essere il mio protettore?» chiese con una voce da bambina che non le apparteneva.
Alwyn non si mostrò sospettoso. Senza parlare le afferrò il seno con la mano ruvida e lo strizzò.
Lei rimase senza fiato per il dolore. «Non così forte!» Gli prese la mano tra le sue. «Con più delicatezza.» Se la portò contro il seno sfregando il capezzolo, che si inturgidì. «È più bello se fai piano.»
L'uomo grugnì, ma continuò ad accarezzarla dolcemente. Poi con la mano sinistra le afferrò lo scollo del vestito e con la destra estrasse il pugnale. Era lungo un piede e appuntito; la lama brillava per la recente affilatura: era ovvio che voleva tagliarle il vestito. Non andava bene, perché sarebbe rimasta nuda.
Gwenda gli strinse leggermente il polso e lo trattenne per un momento. «Non c'è bisogno di usare il coltello. Guarda.» Fece un passo indietro, sciolse la cintura e con un movimento rapido si sfilò il vestito dalla testa. Era il suo unico indumento.
Lo distese per terra e vi si sdraiò sopra, quindi abbozzò un sorriso, che probabilmente assomigliava di più a un'orrenda smorfia. Poi aprì le gambe.
Lui esitò solo un attimo.
Il pugnale nella mano destra, si calò i mutandoni e si inginocchiò tra le sue cosce. Le puntò la lama contro il viso. «Se fai la furba, ti affetto la guancia.»
«Non ce ne sarà bisogno» lo ammonì lei, cercando disperatamente di pensare alle parole che un uomo del genere avrebbe voluto sentire da una donna. «Mio grande e forte protettore.»
Lui non reagì. Si sdraiò sopra di lei, spingendo alla cieca.
«Non così in fretta» disse Gwenda serrando i denti per il dolore provocato da quei movimenti maldestri. Allungò la mano per guidarlo dentro di sé, poi con uno scatto alzò le gambe per facilitargli il compito.
Lui si sollevò spostando tutto il peso sulle braccia. Posò il pugnale sull'erba accanto alla testa di lei, la palma destra sull'impugnatura. In attesa del momento propizio, Gwenda lo assecondò, fingendo disponibilità, mentre lui si muoveva gemendo, e, con gli occhi fissi sul suo viso, si impose di non spostare lo sguardo sul pugnale. Era terrorizzata e disgustata, ma una piccola parte della sua mente rimaneva lucida e calma.
L'uomo, sempre sollevato sulle braccia tese, chiuse le palpebre alzando la testa come un animale che annusi la brezza. Gwenda azzardò un'occhiata al pugnale: la mano di lui si era spostata leggermente e copriva solo in parte l'impugnatura. Avrebbe potuto afferrarlo, ma quanto veloce sarebbe stata la reazione di Alwyn?
Lo guardò di nuovo in faccia. Era concentrato, la bocca distorta in una smorfia. Accelerò le spinte e lei lo assecondò.
Con sgomento, sentì un calore diffondersi nei lombi. Era disgustata di se stessa. L'uomo era un fuorilegge, un assassino, poco più che una bestia, intenzionato a farla prostituire per sei penny. Lei stava agendo così per salvarsi la vita, non certo per divertimento! Eppure si sentì improvvisamente bagnata. Lui accelerò il movimento.
Gwenda sentì che l'uomo stava per raggiungere il piacere. "Ora o mai più" pensò. Quando Alwyn emise un lamento e sembrò abbandonarsi, lei entrò in azione.
Gli sfilò rapidamente il pugnale da sotto la mano. Non vi fu alcun mu-tamento nell'espressione estatica di lui: non si era accorto di nulla. Terro-rizzata che Alwyn capisse quello che lei stava facendo e la fermasse all'ultimo istante, con uno scatto non esitò a sferrargli una coltellata dal basso. Lui avvertì il colpo e spalancò gli occhi: sul volto, si dipinsero sconcerto e paura. Gwenda lo colpì selvaggiamente conficcandogli la lama in gola, appena sotto la mandibola, poi imprecò nel rendersi conto di avere mancato le parti vitali del collo, la trachea e la vena giugulare. Lui ruggì di rabbia e di dolore, ma Gwenda comprese di non averlo neutralizzato: non era mai stata tanto vicina alla morte.
Agì d'istinto, senza riflettere. Col braccio sinistro gli diede un colpo all'interno del gomito, che cedette. Preso alla sprovvista, Alwyn si abbatté su di lei. Gwenda spinse a fondo il pugnale che, con il peso dell'uomo, penetrò nella testa da sotto il mento. Mentre la lama si conficcava, dalla bocca uscì un fiotto di sangue che le schizzò in faccia. Di riflesso lei distolse il viso, ma continuò a spingere il pugnale. Per un attimo la lama fece resistenza, poi scivolò finché uno dei bulbi oculari sembrò esplodere e la punta uscì dall'orbita con uno schizzo di sangue misto a materia cerebrale. L'uomo crollò inerte su di lei, morto. O quasi. Il peso del corpo abbandonato le tolse il respiro: era come essere incastrati sotto un albero caduto. Per un attimo Gwenda fu incapace di muoversi.
Inorridita, lo sentì eiaculare dentro di sé.
Era annientata da un terrore irrazionale: lui era più spaventoso così di quando l'aveva minacciata con il pugnale. In preda al panico, riuscì a sgusciargli da sotto.
Scattò in piedi tremante, con il respiro affannoso, il sangue sul seno, il seme tra le cosce. Lanciò un'occhiata timorosa verso l'accampamento dei banditi. Qualcuno era sveglio e aveva sentito Alwyn urlare oppure, se dormiva, era stato destato dal rumore?
Gwenda si infilò il vestito e allacciò la cintura, con appesi la borsa e il coltellino che usava soprattutto per mangiare. Non osava quasi staccare lo sguardo da Alwyn, terrorizzata che potesse essere ancora vivo. Sapeva che avrebbe dovuto finirlo, ma gliene mancava il coraggio. Un rumore proveniente dalla radura la fece trasalire. Doveva allontanarsi in fretta. Si guardò intorno per orientarsi, poi puntò verso la strada.
[...]
Dopo il primo giorno, Annet smise di portare il pranzo al fidanzato, così Gwenda preparava da mangiare per lei e Wulfric, usando ciò che c'era nella sua dispensa: pane, birra, uova, maiale, cipolline e barbabietole. Il ragazzo accettò il cambiamento senza commentare.
Gwenda conservava ancora la pozione d'amore. Teneva la boccetta di terracotta in una borsina di pelle che portava legata intorno al collo, nascosta fra i seni. Avrebbe potuto versare la pozione nella birra di Wulfric ogni volta che pranzavano insieme, ma i suoi effetti sarebbero cominciati nei campi in pieno giorno e lei non avrebbe potuto approfittarne.
La sera Wulfric andava a casa di Perkin a mangiare con Annet e i suoi familiari, lasciando Gwenda da sola. Spesso tornava incupito, ma non le diceva niente e quindi lei dava per scontato che avesse messo a tacere le obiezioni della promessa sposa. Siccome Wulfric andava subito a letto, senza mangiare né bere nulla, Gwenda non poteva dargli la pozione.
Il sabato dopo la fuga di Gram, Gwenda preparò per cena verdure bollite e maiale salato. Wulfric aveva in casa provviste sufficienti a sfamare quattro adulti e quindi il cibo non mancava mai. La sera era fresca, benché ormai fosse luglio, e dopo mangiato la ragazza mise un altro ceppo nel camino e si sedette a guardarlo bruciare pensando alla vita semplice e tranquilla che aveva vissuto fino a poche settimane prima, stupita di come tutto fosse poi crollato improvvisamente come il ponte di Kingsbridge.
Quando sentì aprirsi la porta, pensò che Wulfric fosse di ritorno. In genere, quando arrivava, scambiavano qualche parola, poi lui andava a dormire e lei si ritirava nella stalla. Alzò gli occhi trepidante, aspettandosi di vedere il bel viso dell'amato. Invece rimase di sasso.
Sulla porta non c'era Wulfric, bensì suo padre.
Era insieme a uno sconosciuto dall'aria feroce.
Gwenda trasalì, spaventata. «Che cosa volete?»
Skip cominciò ad abbaiare, ma poi si ritrasse di fronte a Joby, impaurito.
«Bambina mia, non devi aver paura. Sono il tuo papà.»
A Gwenda tornarono alla mente i vaghi avvertimenti che le aveva fatto sua madre in chiesa. «Chi è costui?» chiese, indicando l'altro uomo.
«Jonah di Abingdon, un mercante di pelli.»
Poteva anche essere un mercante di Abingdon, pensò Gwenda, ma aveva gli stivali consunti, gli abiti lerci e non doveva vedere un barbiere da anni.
Mostrando più coraggio di quel che in realtà avesse, intimò loro: «Andatevene».
«Ti avevo avvertito che è un po' ribelle» disse Joby a Jonah. «Ma è una brava ragazza. Ed è anche forte.»
Jonah aprì bocca per la prima volta. «Non è un problema» replicò. Si leccò le labbra e squadrò la ragazza da capo a piedi. Gwenda rimpianse di avere addosso soltanto un vestito di lana leggera. «Ne ho domate parecchie, in vita mia» aggiunse l'uomo.
Gwenda era certa che suo padre l'avesse venduta di nuovo, come aveva minacciato di fare. Lei aveva pensato che andandosene di casa sarebbe stata al sicuro e che gli abitanti del villaggio l'avrebbero difesa, invece... Era buio, nessuno si sarebbe accorto di nulla fino al mattino e a quel punto lei ormai sarebbe stata lontana.
Non l'avrebbe aiutata nessuno, però lei avrebbe cercato comunque di difendersi.
Si guardò intorno disperata, alla ricerca di un'arma. Il ceppo che aveva aggiunto al fuoco poco prima stava già bruciando a un'estremità, ma era lungo e anche abbastanza comodo da afferrare. Gwenda si chinò velocemente e lo prese.
«Non fare così» disse Joby. «Non vorrai fare del male al tuo papà, vero?» Fece un passo verso di lei.
Gwenda si sentì invadere dall'ira: come osava parlarle in quel modo visto che stava cercando di venderla? Tutt'a un tratto, le venne una gran voglia di fargli del male. Urlando di rabbia, gli si lanciò contro con il ceppo ardente in mano.
Joby fece un salto all'indietro, lei però continuò ad avvicinarsi minacciosa, in preda a una terribile collera. Skip abbaiava furioso. Joby alzò le mani per proteggersi, ma Gwenda riuscì lo stesso a colpirlo al volto. Il padre lanciò un urlo di dolore. La sua barba prese fuoco mandando un nauseante odore di bruciato.
Gwenda si sentì afferrare da dietro: era Jonah che cercava di bloccarla. Lasciò cadere il ceppo e la paglia per terra si incendiò all'istante. Skip, che aveva il terrore delle fiamme, scappò subito fuori. Gwenda cercava di divincolarsi, ma Jonah era più forte di lei e la sollevò da terra.
Sulla soglia apparve un'ombra. Gwenda la vide solo un istante prima che scomparisse. Poi Jonah la scaraventò a terra e lei perse i sensi.
Quando tornò in sé, vide che Jonah era chino su di lei e le stava legando i polsi con una corda.
L'ombra sulla porta riapparve e Gwenda riconobbe Wulfric, che aveva in mano un grosso secchio di legno. Rapido, lo svuotò sulla paglia, spegnendo le fiamme, quindi lo abbatté sulla testa di Jonah, in ginocchio accanto a Gwenda.
Libera dalla sua stretta, lei si sciolse rapidamente i legacci. Wulfric colpì di nuovo Jonah, ancora più forte, e questa volta l'uomo chiuse gli occhi e crollò per terra.
Premendosi la manica sulla barba, Joby era riuscito a spegnere le fiamme e gemeva di dolore, accovacciato sul pavimento.
Wulfric afferrò Jonah per la tunica e lo sollevò, ancora privo di sensi. «Chi è costui?»
«Si chiama Jonah. Mio padre voleva vendermi a lui.»
Wulfric lo prese per la cintola e lo scaraventò fuori dalla porta.
Joby continuava a lamentarsi per il dolore. «Aiutatemi, ho la faccia bruciata.»
«Aiutarti?» disse Wulfric. «Dai fuoco alla mia casa, aggredisci la mia bracciante e poi mi chiedi aiuto? Vattene subito!»
Joby si alzò in piedi gemendo e uscì barcollando. Gwenda non sentiva alcuna compassione per lui: si accorse che il poco affetto che provava ancora per suo padre si era spento definitivamente quella sera. Sperava che non le avrebbe mai più rivolto la parola.
In quel momento arrivò Perkin, con una candela in mano. «Che cosa succede?» domandò. «Mi è sembrato di sentire delle grida.» Gwenda vide che dietro di lui c'era Annet.
«Joby è venuto qui con un altro furfante» spiegò Wulfric. «Hanno cercato di portare via Gwenda.»
Perkin sbuffò. «Vedo che il problema è stato risolto.»
«Già, senza troppa fatica.» Wulfric si rese conto di avere ancora il secchio in mano e lo posò.
«Ti sei fatto male?» gli chiese Annet.
«No.»
«Hai bisogno di qualcosa?»
«Voglio solo andare a dormire.»
Perkin e Annet capirono il messaggio e si congedarono. Sembrava che nessun altro avesse sentito niente.
Wulfric chiuse la porta e guardò Gwenda al bagliore del fuoco nel camino. «Come ti senti?»
«Un po' scossa.» Si sedette sulla panca e appoggiò i gomiti sul tavolo.
Wulfric si avvicinò alla credenza. «Bevi un po' di vino, ti farà bene.» Posò sul tavolo una botticella e prese due tazze dallo scaffale.
Gwenda si riscosse: forse era arrivato il momento di usare la pozione. Cercò di riflettere. Doveva agire in fretta.
Wulfric versò il vino nelle tazze e andò a rimettere la botticella nella credenza.
Gwenda aveva soltanto un attimo a disposizione. Mentre lui le voltava le spalle, estrasse la boccetta dalla borsina che teneva al collo, la stappò con mano tremante e ne versò il contenuto in una tazza.
Wulfric si voltò mentre Gwenda stava rimettendo via la boccetta. Lei finse di aggiustarsi la veste, ma Wulfric non aveva notato nulla di strano. Si sedette di fronte a lei.
Gwenda alzò la tazza per brindare. «Mi hai salvato la vita» disse. «Grazie.»
«Ti tremano le mani» osservò lui. «Sei ancora sconvolta.»
Bevvero entrambi.
Gwenda si chiese quanto tempo avrebbe impiegato la pozione per fare effetto.
Wulfric disse: «Anche tu mi hai salvato la vita, aiutandomi nei campi. Grazie».
Bevvero di nuovo.
«Non so che cosa sia peggio» rifletté Gwenda a voce alta. «Se avere un padre come il mio o non averlo per niente.»
«Mi dispiace per te» disse Wulfric pensoso. «Almeno io ho un buon ricordo dei miei genitori.» Svuotò d'un fiato la sua tazza. «Non bevo quasi mai vino, perché mi intorpidisce. Ma questo è buonissimo.»
Gwenda lo osservò attentamente. Mattie la guaritrice l'aveva avvisata che sarebbe diventato languido. Di certo Wulfric la stava guardando come se la vedesse per la prima volta.
Dopo un momento, le sussurrò: «Hai davvero un bel viso, sai? Molto dolce».
Per sedurlo, Gwenda adesso avrebbe dovuto fare ricorso alla propria femminilità, ma si accorse con sgomento che non sapeva da che parte cominciare. Certe donne, come Annet, erano brave a farsi corteggiare, ma lei non era abituata a sorridere con aria civettuola e a sbattere le ciglia... Si sarebbe sentita una stupida. «Sei gentile» gli disse, cercando di prendere tempo. «Ma nei tuoi occhi non vedo soltanto gentilezza.»
«E cos'altro vedi?»
«Forza. Quella che non viene dai muscoli, ma dalla determinazione.»
«Stasera mi sento forte, è vero.» Wulfric sorrise. «Dici che nessun uomo può zappare venti acri, ma io sento che potrei farcela, stanotte.»
Gwenda posò la mano su quella di lui, appoggiata al tavolo. «Riposati, piuttosto» gli disse. «Per zappare c'è sempre tempo.»
Lui osservò le dita minute. «Guarda, abbiamo la pelle così diversa!» disse, come se fosse una cosa straordinaria. «La tua è più scura.»
«Abbiamo anche gli occhi e i capelli diversi, non solo la pelle. Chissà come sarebbero i nostri figli...»
Wulfric sorrise, al pensiero. Poi però cambiò espressione, come se lei avesse detto qualcosa che non andava, e si fece serio. Gwenda avrebbe forse potuto ridere di quel brusco cambiamento, se non l'avesse turbata tanto. «Non avremo figli insieme» disse lui in tono solenne. E ritrasse la mano.
«Cambiamo discorso» mormorò lei, disperata.
«Non pensi mai a come sarebbe bello se...» Wulfric lasciò la frase a metà.
«Se cosa?» domandò lei.
«Se il mondo fosse diverso.»
Gwenda si alzò e si andò a sedere accanto a lui. «Desiderarlo non basta» gli disse. «Siamo soli, è notte: possiamo fare ciò che vogliamo.» Lo guardò negli occhi. «Tutto ciò che vogliamo.»
Wulfric la fissò intensamente e lei si accorse che la desiderava. C'era voluta una pozione perché accadesse, ma la sua passione era sincera. In quel momento, l'unica cosa al mondo che gli importava era fare l'amore con lei.
Tuttavia, non osava fare la prima mossa.
Gwenda gli prese la mano e, senza che lui opponesse resistenza, se l'avvicinò alle labbra. Accarezzando le dita ruvide e forti, si premette la palma contro la bocca, la baciò e poi la sfiorò appena con la punta della lingua. Quindi se la posò sul seno.
Wulfric glielo accarezzò, ansimando. Gwenda inclinò la testa all'indietro, invitandolo a baciarla.
Ma Wulfric rimase immobile.
Allora lei si alzò in piedi e si sfilò la veste da sopra la testa, lasciandola cadere a terra e rimanendo nuda davanti a lui. Wulfric la guardò con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata, come se avesse appena assistito a un miracolo.
Gwenda gli prese di nuovo la mano e, questa volta, se la avvicinò al ventre, posandosela sul triangolo di peli fra le cosce. Era così bagnata che il dito di Wulfric scivolò dentro di lei, facendola gemere di piacere.
Ma Wulfric non stava facendo niente di propria iniziativa, paralizzato dall'indecisione. La desiderava, ma pensava ancora ad Annet. Gwenda avrebbe potuto muoverlo come un burattino per tutta la notte e fare l'amore con il suo corpo inerte, ma non sarebbe servito a niente. Bisognava che lui lo volesse.
Si chinò, sempre tenendo la sua mano fra le cosce, e gli disse: «Baciami». Avvicinò la bocca alle sue labbra. «Ti prego.» Era a un soffio da lui, ma non voleva avvicinarsi di più: doveva essere lui a colmare quell'ultima distanza.
Tutt'a un tratto, Wulfric si mosse.
Ritrasse la mano, voltò la testa dall'altra parte e si alzò in piedi. «Non va bene» disse.
E Gwenda capì che aveva perso.
Le si riempirono gli occhi di lacrime. Raccolse la veste e si coprì.
«Mi dispiace» mormorò Wulfric. «Non avrei dovuto fare queste cose. Ti ho ingannato, sono stato crudele.»
"Non è vero" pensò lei. "Sono stata io a ingannarti. Io sono stata crudele. Tu, invece, sei forte, fedele e leale. Sei troppo buono per me."
Lo pensò, ma non disse niente.
Lui cercava di non guardarla. «Meglio che tu torni nella stalla» le sussurrò. «Dormiamoci su. Domattina non ci sentiremo più così, spero. Tutto tornerà come prima.»
Gwenda corse via dalla porta sul retro, senza neppure infilarsi la veste. La luna brillava in cielo, ma in giro non c'era nessuno e, comunque, non le importava. Nel giro di pochi secondi era nella stalla.
In fondo alla costruzione di legno c'era un soppalco con il fieno pulito. Era lì che lei dormiva la notte. Vi salì e si gettò sulla paglia a piangere, delusa e piena di vergogna, troppo disperata per sentire la paglia che le pungeva la pelle nuda.
Quando alla fine si calmò, si alzò, si rivestì e si mise una coperta sulle spalle. In quel momento sentì un rumore di passi e guardò da una fessura nel graticcio.
La luna era quasi piena, la notte chiara. Fuori della stalla c'era Wulfric. A un certo punto, lo vide andare verso la porta e le balzò il cuore in gola: forse aveva cambiato idea! Ma poi lui esitò e tornò indietro verso casa. Prima di entrarvi, però, si voltò di nuovo e ritornò sui suoi passi.
Gwenda, con il cuore che batteva all'impazzata, lo osservò andare avanti e indietro, indeciso, ma non si mosse: aveva fatto tutto il possibile per incoraggiarlo, adesso toccava a lui.
Wulfric, alla fine, si fermò davanti alla porta sul retro, illuminato dalla luna. Gwenda lo vide, di profilo, portarsi la mano ai mutandoni e capì che cosa stava per fare, avendo spiato diverse volte il fratello maggiore. Lo sentì gemere, mentre compiva quel gesto che imitava l'amplesso, e lo guardò sgomenta sprecare il suo desiderio, temendo che le si sarebbe spezzato il cuore.
[...]
«Dov'è mio nipote Saul?» domandò, vedendo entrare Godwyn.
«È rimasto al convento di St John, mio signore. Gli ho portato il vostro messaggio...»
«Messaggio? Era un ordine!»
Lady Philippa, accanto al letto, gli sussurrò: «Non agitarti. Sai che ti fa male».
«Frate Saul ha semplicemente detto di non potere accettare la nomina» spiegò Godwyn.
«E perché diavolo non può?»
«Ha riflettuto e pregato...»
«Certo che ha pregato: non è questo che fanno i monaci? Che motivi ha addotto per contraddire il mio volere?»
«Non si sente all'altezza di un incarico tanto difficile.»
«Sciocchezze. Perché mai sarebbe difficile? Non gli ho chiesto di guidare mille cavalieri in battaglia, ma solo di far cantare inni a un po' di monaci alle giuste ore del giorno.»
Era una sciocchezza, e Godwyn si limitò a chinare il capo senza ribattere.
Il tono del conte cambiò di colpo. «Adesso ho capito chi sei. Sei il figlio di Petranilla, vero?»
«Sì, mio signore.» "Quella Petranilla che hai piantato in asso" pensò Godwyn.
«Era una donna astuta e immagino che tu non sia da meno. Come faccio a sapere che non hai convinto Saul a non accettare? Tu vuoi che diventi priore Thomas Langley, dico bene?»
"Ho piani ben più ambiziosi, sciocco che non sei altro" disse fra sé Godwyn e poi, a voce alta: «Saul mi ha chiesto che cosa potreste volere voi in cambio della sua nomina».
«Ah, ecco. E tu che cosa gli hai risposto?»
«Che vi aspettate che vi presti ascolto, in quanto siete un conte, suo zio e suo sostenitore.»
«E lui è stato troppo cocciuto per accettarlo, presumo. Va bene, ho capito, nominerò quel grassone di un frate. Adesso vattene.»
Godwyn dovette stare attento a non mostrare quanto fosse contento. Chinò la testa e uscì. La penultima fase del suo piano aveva funzionato alla perfezione. Il conte Roland non sospettava minimamente di essere stato raggirato.
Adesso occorreva passare alla fase finale.
Uscì dall'ospitale ed entrò nel chiostro. Era l'ora dedicata allo studio, prima della funzione di sesta, a mezzogiorno, e quasi tutti i monaci erano intenti a leggere, ad ascoltare le letture degli altri o a meditare.
Godwyn vide Theodoric, il suo giovane alleato, e lo chiamò a sé con un cenno del capo. A voce bassissima gli disse: «Il conte Roland nominerà frate Murdo. Vuole che diventi lui priore».
Theodoric rimase sbigottito. «Che cosa?» esclamò ad alta voce.
«Sst.»
«Ma è impossibile!»
«Lo so.»
«Nessuno voterà per lui.»
«Per questo sono soddisfatto.»
Theodoric finalmente capì. «Ah, be'... certo! Dunque per noi è una buona notizia.»
Godwyn si domandò come mai gli toccasse sempre spiegare certe cose anche ai più intelligenti. Sembrava che nessuno, a parte lui e sua madre, sapesse vedere oltre la superficie delle cose. «Spargi la voce in giro, senza farti vedere troppo indignato. Si arrabbieranno anche senza incoraggiamento.»
«Devo dire che è una svolta positiva per Thomas?»
«No di certo.»
«Va bene» assentì Theodoric. «Capisco.»
Evidentemente non aveva capito nulla, invece, ma Godwyn era sicuro che avrebbe comunque seguito le sue istruzioni.
Si congedò da lui e andò a cercare Philemon. Lo trovò che spazzava il refettorio. «Sai dov'è Murdo?» gli chiese.
«Sarà in cucina.»
«Vallo a cercare e dagli appuntamento nella casa del priore all'ora di sesta, quando tutti saranno in chiesa a pregare. Non voglio che vi vedano insieme.»
«D'accordo. Che cosa gli devo dire?»
«Prima di tutto, digli: "Frate Murdo, nessuno deve sapere quel che vi rivelerò". È chiaro?»
«"Nessuno deve sapere quel che vi rivelerò." Sì, va bene.»
«Poi fagli vedere l'atto della regina. Ti ricordi dov'è, vero? Nella camera da letto, dietro l'inginocchiatoio, c'è un baule con dentro una borsa rossiccia.»
«È tutto?»
«Fagli notare che le terre che Thomas ha portato al priorato in origine appartenevano alla regina Isabella e che questo fatto è rimasto segreto per dieci anni.»
Philemon sembrava confuso. «Ma noi non sappiamo che cosa stia nascondendo Thomas.»
«No, ma c'è sempre un motivo per tenere un segreto.»
«Non pensi che Murdo userà queste informazioni contro di lui?»
«Certamente.»
«Che cosa farà?»
«Non lo so ma, qualsiasi cosa faccia, sono certo che andrà a scapito di Thomas.»
Philemon aggrottò la fronte. «Pensavo che noi fossimo dalla sua parte.»
Godwyn sorrise. «Questo è ciò che pensano tutti.»
Suonò la campana per la preghiera di mezzogiorno.
Philemon andò a cercare Murdo e Godwyn si unì agli altri monaci in chiesa. Unendosi al coro, recitò: «Signore, vieni in mio aiuto, Signore, affrettati ad aiutarmi» con insolito fervore. Nonostante si fosse mostrato sicuro di sé in presenza di Philemon, sapeva infatti di correre un grosso rischio. Aveva puntato tutto sul segreto di Thomas, ma non sapeva come sarebbe andata a finire.
Il suo piano aveva funzionato: i monaci sembravano agitatissimi. Inquieti, parlottavano fra loro, tanto che Carlus dovette richiamarli due volte durante i Salmi. Provavano antipatia per i frati minori in generale, che si credevano superiori perché non avevano possedimenti terreni e poi vivevano alle spalle degli altri, ma soprattutto per Murdo, che era pomposo, ubriacone e arrogante. Avrebbero votato chiunque, pur di non avere lui come priore.
Uscendo dalla chiesa dopo la funzione, Simeon disse a Godwyn: «Non possiamo far eleggere frate Murdo».
«Sono d'accordo con te.»
«Carlus e io abbiamo deciso di non proporre un altro nome: se sembreremo divisi, il conte imporrà il suo candidato. Appoggeremo Thomas, dunque. Se dimenticheremo le nostre differenze, mostrandoci uniti, il conte farà più fatica a opporsi a noi.»
Godwyn si fermò e lo guardò negli occhi. «Grazie, fratello» disse, sforzandosi di apparire umile e di nascondere la contentezza.
«È per il bene del priorato.»
«Lo so. Dimostri comunque grande generosità di spirito.»
Simeon annuì e si allontanò.
Godwyn sentì di essere vicino alla vittoria.
I frati si riunirono in refettorio per il pranzo. C'era anche Murdo, che spesso e volentieri mancava alle funzioni, però mai ai pasti. I monasteri, in genere accoglievano alla loro mensa chiunque si presentasse, monaco o frate minore che fosse. Ma nessuno ne approfittava quanto Murdo. Godwyn lo osservava: pareva eccitato, come se non vedesse l'ora di rivelare il segreto appena appreso. Si trattenne per tutta la durata del pasto, tuttavia, e rimase zitto ad ascoltare il novizio che leggeva.
Il brano di quel giorno era la storia di Susanna e i perfidi anziani. Godwyn disapprovava che venisse letta in una comunità votata al celibato, in quanto troppo sensuale. Quel giorno, però, i tentativi di due vecchi lascivi di ricattare una donna affinché si concedesse loro non attirarono più di tanto l'attenzione dei presenti, che continuavano a borbottare e a guardare Murdo in tralice.
Quando il pasto fu terminato, e il profeta Daniele ebbe dimostrato l'innocenza di Susanna sottolineando le incongruenze fra il racconto dei due uomini, interrogati separatamente, i monaci si apprestarono a lasciare il refettorio.
In quel momento, Murdo si rivolse al matricularius. «Quando arrivasti qui, frate Thomas, mi risulta che fossi ferito. Una ferita di spada, se ben ricordo.»
Lo disse a voce abbastanza alta perché tutti lo sentissero. I monaci si fermarono ad ascoltare.
Thomas lo guardò, impassibile. «Sì, è così.»
«Quella ferita ti causò poi la perdita del braccio sinistro. Mi chiedo: ti venne inferta mentre eri al servizio della regina Isabella?»
Thomas impallidì. «Sono in questo monastero da dieci anni. La mia vita precedente è dimenticata.»
Murdo continuò imperterrito. «Te lo chiedo per via delle terre che portasti al priorato quando vi entrasti. Cinquecento acri, nei pressi di un fiorente villaggio vicino a Norfolk: Lynn, dove vive la regina.»
Godwyn intervenne, fingendosi indignato. «Che cosa può sapere un forestiero delle nostre proprietà?»
«Ho letto i documenti» disse Murdo. «Queste non sono cose segrete.»
Godwyn guardò Carlus e Simeon, che erano seduti vicini e avevano l'aria sgomenta. Essendo vicepriore e tesoriere, erano al corrente di tutto. Probabilmente si chiedevano come avesse fatto Murdo a trovare l'atto. Simeon aprì la bocca per parlare.
Murdo lo precedette. «O, per lo meno, non dovrebbero esserlo.»
Simeon chiuse di nuovo la bocca. Se avesse chiesto a Murdo come aveva fatto a scoprirlo, gli altri avrebbero potuto domandare a lui come mai l'aveva tenuto segreto.
Murdo continuò: «Le terre di Lynn vennero donate al priorato da...». Fece una pausa, per aumentare la curiosità di tutti. «... dalla regina Isabella.»
Godwyn si guardò intorno. I monaci erano tutti costernati, a parte Carlus e Simeon, i cui volti sembravano scolpiti nella pietra.
Frate Murdo si protese in avanti, il prezzemolo dello stufato che aveva mangiato a pranzo incastrato fra i denti, e, in tono aggressivo, si rivolse ancora a Thomas: «Te lo chiedo un'altra volta: quella ferita ti venne inferta mentre eri al servizio della regina Isabella?».
«Tutti sanno che prima di farmi monaco ero un cavaliere. Combattevo in battaglia e uccidevo i nemici» rispose Thomas. «Ho confessato i miei peccati e sono stato assolto.»
«Un monaco può lasciarsi alle spalle il proprio passato, ma il priore di Kingsbridge porta fardelli ben più onerosi: deve rendere conto di chi ha ucciso e per quale motivo, e soprattutto delle ricompense ricevute per il sangue versato.»
Thomas lo fissò senza ribattere. Pareva turbato, in preda a forti emozioni. Godwyn cercò di indovinare quali fossero. Thomas non sembrava afflitto da senso di colpa o imbarazzo: qualsiasi fosse il suo segreto, non lo riteneva vergognoso. Non era neppure rabbia, quella che lo animava. Il tono petulante di Murdo avrebbe provocato una reazione violenta in molti, ma non in lui. No, quella che Thomas sembrava provare era un'emozione diversa, più fredda dell'imbarazzo e meno focosa della rabbia. Paura, ecco cos'era! Thomas aveva paura. Di Murdo? Godwyn non lo credeva proprio. Il matricularius temeva piuttosto che a causa di Murdo potesse succedere qualcosa, che la rivelazione del suo segreto avesse conseguenze nefaste.
Murdo insistette: «Se non rispondi qui, adesso, dovrai risponderne in altra sede».
La buona riuscita del piano di Godwyn richiedeva che a quel punto Thomas cedesse, ma il sacrista non era affatto sicuro che l'avrebbe fatto. Il matricularius era tenace: in quei dieci anni aveva dimostrato di avere un carattere riservato, paziente e incrollabile. Quando Godwyn gli aveva chiesto di candidarsi per la carica di priore, doveva aver pensato che ormai il suo passato fosse stato dimenticato. Invece ora capiva che non era così. Quale sarebbe stata la sua reazione? Avrebbe ammesso il proprio errore e si sarebbe ritirato in buon'ordine, oppure avrebbe mostrato i denti e cercato di raggiungere comunque il proprio obiettivo? Godwyn si morse un labbro, ansioso.
Alla fine, Thomas dichiarò: «Penso che tu abbia ragione: se non rispondo adesso, dovrò farlo in un'altra sede. Credo che ti adopereresti in qualunque modo, per quanto pericoloso e poco fraterno, perché succedesse».
«Stai forse insinuando...»
«Basta così!» esclamò Thomas, alzandosi di colpo in piedi.
Murdo trasalì. La stazza di Thomas, il suo fisico da soldato e il tono di voce deciso lo fecero rimanere, per una volta, senza parole.
«Non ho mai dato risposta alle domande sul mio passato» disse Thomas, abbassando di nuovo la voce. Tutti stavano zitti ad ascoltare. «E mai lo farò.» Puntando il dito contro Murdo, aggiunse: «Ma questo verme mi ha fatto capire che, se diventassi priore, certe domande mi verrebbero ripetute fino alla nausea. Un monaco può tenere per sé il proprio passato, un priore no. Ora lo capisco. Un priore può avere nemici e i segreti lo indeboliscono. E, se il suo capo è debole, anche l'istituzione ne risente. Sarei dovuto giungere da solo alle conclusioni cui mi ha portato la malvagità di frate Murdo, e cioè che un uomo che non vuole dare spiegazioni sul proprio passato non può essere eletto priore. Pertanto...»
Il giovane Theodoric esclamò: «No!».
«Ritiro la mia candidatura.»
Godwyn tirò un sospiro di sollievo: aveva raggiunto il proprio obiettivo.
Thomas si sedette. Murdo aveva l'aria soddisfatta e gli altri cercavano di parlare tutti insieme.
Carlus batté il pugno sul tavolo e a poco a poco nella sala tornò il silenzio. «Frate Murdo» gli disse «non avendo tu il diritto di votare all'elezione, ti chiedo di lasciarci soli.»
Murdo si avviò lentamente, con espressione trionfante.
Non appena se ne fu andato, Carlus aggiunse: «È una tragedia! Murdo rimane l'unico candidato!».
«Non dovremmo permettere a Thomas di ritirarsi» suggerì Theodoric.
«Lo ha già fatto!»
«Cerchiamo un altro candidato» propose Simeon.
«Giusto» approvò Carlus. «Propongo Simeon.»
«No!» si oppose Theodoric.
«Posso dire una cosa?» intervenne Simeon. «Dobbiamo scegliere chi fra di noi ha più probabilità di essere votato da tutti i confratelli, e io non sono adatto perché credo di non godere dell'appoggio dei più giovani. Il nuovo candidato deve avere il favore di tutti.»
Si voltò verso Godwyn.
«Sì!» esclamò Theodoric. «Godwyn!»
I giovani lanciarono urla esultanti, i più anziani fecero una faccia rassegnata. Godwyn scosse la testa, come se non volesse rispondere. Ma i monaci iniziarono a battere le palme sul tavolo e a scandire il suo nome: «God-wyn! God-wyn!».
Alla fine, Godwyn si alzò. Era euforico, ma cercò di non farsene accorgere. Alzò le mani per zittire le grida. Non appena ci fu silenzio, disse in tono modesto, a voce bassissima: «Obbedisco al volere dei miei confratelli».
Nel refettorio scrosciò un applauso.
[...]
Il convento sembrava deserto, ma la cosa non la sorprese: era un piccolo istituto in un villaggio e non ci si poteva aspettare che fosse sempre vivace e indaffarato come il grande priorato di Kingsbridge. Eppure a quell'ora, in cui solitamente veniva preparato il pasto serale, avrebbe dovuto esserci una spirale di fumo che usciva dal camino della cucina. Procedendo, però, Caris notò altri segnali inquietanti e si sentì a poco a poco invadere dallo sgomento.
Il primo edificio, che pareva una chiesa, non aveva più il tetto. Le finestre erano cavità vuote, senza né imposte né vetri. I muri erano in parte anneriti, come se fossero affumicati.
C'era un gran silenzio: niente campane, niente grida degli stallieri o degli sguatteri. Caris, profondamente scoraggiata, rallentò l'andatura e si rese conto che il luogo era disabitato e che, come ogni altro edificio del villaggio, era stato dato alle fiamme. La maggior parte delle mura di pietra era ancora in piedi, ma le travi del tetto erano crollate, le porte e gli altri infissi di legno erano stati bruciati e le finestre di vetro erano esplose per il calore.
Mair esclamò, incredula: «Hanno incendiato il convento?».
Caris era altrettanto scioccata. Aveva creduto che gli eserciti invasori rispettassero sempre gli edifici religiosi. Era una regola ferrea, almeno così si diceva. Un comandante non avrebbe esitato a mettere a morte il soldato che avesse violato un luogo sacro. Era una verità che lei non aveva mai messo in discussione. «Alla faccia della cavalleria» disse.
Smontarono di sella e, muovendosi con cautela per evitare le travi carbonizzate e le macerie, giunsero agli alloggi delle monache. Mentre si avvicinavano alla porta della cucina, Mair lanciò un grido e disse: «Oh, mio Dio, cos'è quella?».
Caris conosceva già la risposta. «È una suora morta.» Aveva il corpo nudo e i capelli corti. Il cadavere era in qualche modo sfuggito al fuoco. La donna era morta da circa una settimana. Gli uccelli le avevano divorato gli occhi e qualche altro animale le aveva scarnificato parte del volto. Inoltre, qualcuno le aveva asportato i seni con un coltello.
Mair, sconvolta, chiese: «E sono stati gli inglesi a fare questo?».
«Di certo non i francesi.»
«Nelle nostre truppe ci sono anche soldati stranieri, giusto? Gallesi, germani e altri. Forse sono stati loro.»
«Sono tutti agli ordini del nostro re» rispose Caris, in tono di secca condanna. «E stato lui a condurli qui. Ciò che hanno fatto è una sua responsabilità.»
Rimasero entrambe a contemplare quello spettacolo ripugnante. A un tratto, un topo uscì dalla bocca del cadavere. Mair gridò e si voltò.
Caris l'abbracciò. «Calmati» le disse con fermezza, ma le accarezzò la schiena per consolarla. «Su» disse dopo un attimo. «Andiamocene da qui.»
[...]
L'acquazzone fu violento ma breve e, quando smise di piovere, Ralph guardò verso la valle e vide, con un fremito di paura, che il nemico era arrivato.
Gli inglesi si erano fermati su un crinale che andava da sudovest a nordest. Alle loro spalle, verso nordovest, c'era una foresta. Di fronte e su entrambi i lati le colline digradavano in un pendio. Il fianco destro del loro schieramento sovrastava la cittadina di CrécyenPonthieu, annidata nella valle del fiume Maye.
I francesi stavano arrivando da sud.
Ralph era sul fianco destro, con gli uomini del conte Roland, agli ordini del giovane principe di Galles. Avevano adattato la formazione a erpice che si era dimostrata tanto efficace contro gli scozzesi. A sinistra e a destra c'erano gli arcieri, schierati a triangolo, come i due denti di un erpice. Tra i denti, piuttosto indietro, c'erano armigeri e cavalieri, questi ultimi a piedi. Era un'innovazione radicale, a cui molti cavalieri facevano ancora resistenza: amavano i loro cavalli e a piedi si sentivano vulnerabili. Ma il re era stato irremovibile: tutti a piedi. Sul terreno di fronte ai cavalieri, gli uomini avevano scavato delle trappole, buche quadrate larghe e profonde un piede, per far inciampare i destrieri dei francesi.
Alla destra di Ralph, al bordo dell'altura, c'era una novità: tre nuove macchine chiamate "bombarde", o "cannoni", che usavano polvere esplosiva per sparare pietre rotonde. L'esercito se le era trascinate dietro fin dalla Normandia, ma finora non le aveva usate, e nessuno sapeva con certezza se avrebbero funzionato o no. Quel giorno re Edoardo doveva sfruttare tutti i mezzi a sua disposizione, perché la superiorità del nemico era da quattro a sette francesi per ogni inglese.
Sul fianco sinistro dello schieramento inglese, gli uomini del conte di Northampton erano disposti nello stesso modo. Dietro le prime linee c'era un terzo battaglione di riserva, al comando del re. Alle spalle del re c'erano due vie di scampo. La prima era costituita dai carri delle vettovaglie, disposti in circolo, che racchiudevano all'interno i non combattenti, cuochi, ingegneri militari e stallieri, e i cavalli. La seconda era la foresta stessa dove, in caso di rotta, i sopravvissuti dell'esercito inglese avrebbero potuto rifugiarsi, perché i cavalieri francesi avrebbero avuto difficoltà a seguirli.
Erano lì dall'alba, senza altro cibo che zuppa di piselli e cipolle. Ralph indossava l'armatura e sudava dal caldo, perciò il temporale era stato graditissimo. Aveva anche reso fangoso il pendio che i francesi avrebbero dovuto risalire nella loro carica, con il rischio di scivolare.
Ralph pensava di sapere che tattica avrebbero adottato i francesi. I balestrieri genovesi avrebbero tirato al riparo dei grandi scudi, per sfoltire le file degli inglesi. Poi, quando avessero fatto danni a sufficienza, si sarebbero fatti da parte e ci sarebbe stata la carica dei cavalieri francesi.
Non c'era nulla di più spaventoso di quella carica. Detta furor franciscus, era l'arma fondamentale dei nobili francesi. Il codice imponeva loro di non tenere in nessun conto la propria salvezza. Quegli enormi destrieri da guerra, montati da cavalieri completamente chiusi nell'armatura, tanto che parevano uomini di ferro, travolgevano al loro passaggio arcieri, scudi, spade e soldati.
Naturalmente, non sempre funzionava. La carica poteva essere respinta, specie quando il terreno favoriva gli avversari, come in quel caso. Comunque, i francesi non si scoraggiavano facilmente e tornavano alla carica. E la loro superiorità numerica, quel giorno, era così schiacciante che Ralph non vedeva come gli inglesi avrebbero potuto respingerli all'infinito.
Aveva paura, ma nello stesso tempo non rimpiangeva di essere con l'esercito. Per sette anni aveva vissuto la vita d'azione che aveva sempre desiderato, quella in cui gli uomini forti dominavano e i deboli non contavano niente. Aveva ventinove anni e di rado gli uomini d'azione diventavano vecchi. Aveva commesso atroci peccati, ma era stato assolto da tutti proprio quella mattina, dal vescovo di Shiring, che adesso era accanto a suo padre il conte, armato di una mazza dall'aria assai pericolosa: i preti non avrebbero dovuto spargere sangue, una regola che rispettavano in modo molto superficiale adottando in battaglia armi non affilate.
I balestrieri con le casacche bianche giunsero in fondo al pendio. Gli arcieri inglesi, che avevano atteso seduti, con le frecce conficcate di punta nel terreno davanti a sé, cominciarono ad alzarsi e a tendere le corde degli archi. Ralph intuì che la maggior parte di loro si sentiva proprio come lui, e provava un misto di sollievo per la fine della lunga attesa e timore al pensiero di quante poche probabilità avessero di sopravvivere alla battaglia.
Ralph pensò che c'era ancora tempo. Vide che i genovesi non avevano i lunghi pavesi che costituivano un elemento essenziale della loro tattica. La battaglia non sarebbe iniziata finché non fossero giunti gli scudi, ne era certo.
Migliaia di cavalieri si stavano riversando nella valle da sud e a mano a mano si distribuivano a destra e a sinistra dietro i balestrieri. Il sole tornò a illuminare i vivaci colori dei loro stendardi e delle gualdrappe dei cavalli. Ralph riconobbe le insegne di Carlo, conte di Alençon, il fratello di re Filippo.
I balestrieri si fermarono ai piedi della collina. Erano migliaia. Come a un segnale, lanciarono tutti insieme un grido terrificante. Qualcuno saltò. Risuonarono le trombe.
Era il loro grido di guerra, destinato a terrorizzare i nemici. Con alcuni avrebbe potuto funzionare, ma l'esercito inglese era composto di esperti combattenti che avevano alle spalle sei settimane di carapagna, e ci voleva molto più di un grido per spaventarli. Restarono impassibili.
Poi, con enorme stupore di Ralph, i genovesi sollevarono le balestre e tirarono.
Cosa stavano facendo? Non avevano gli scudi!
Il fragore improvviso fu terrificante, cinquemila dardi di ferro che fendevano l'aria. Ma il lancio risultò fuori bersaglio. Forse i balestrieri non avevano tenuto conto del fatto che tiravano verso la cima della collina; inoltre, il sole pomeridiano alle spalle dello schieramento inglese doveva aver abbagliato i nemici. Qualunque fosse la ragione, i loro dardi caddero troppo vicini, senza colpo ferire.
Dal centro della prima linea inglese partì un lampo di fuoco e un boato simile al tuono. Stupefatto, Ralph vide il fumo levarsi dal punto in cui erano state piazzate le nuove bombarde. Il rumore era impressionante, ma quando guardò i ranghi del nemico non gli parve che avessero subito seri danni. Comunque, parecchi balestrieri rimasero abbastanza sconvolti da ritardare l'operazione di ricarica.
In quel momento, il principe di Galles ordinò ai suoi arcieri di tirare.
Duemila longbows si alzarono. Sapendo che erano troppo lontani per tirare in linea retta parallela al terreno, gli arcieri puntarono verso l'alto, calcolando istintivamente una traiettoria curva per le loro frecce. Tutti gli archi si inclinarono allo stesso tempo, come spighe di grano in un campo attraversato da un'improvvisa brezza estiva; poi le frecce partirono all'unisono con un clangore che rammentava il rintocco di una campana. Le saette, volando più veloci di qualsiasi uccello, salirono in aria, quindi puntarono in basso e si abbatterono sui balestrieri come una grandinata.
Lo schieramento nemico era molto fitto e le cotte imbottite dei genovesi offrivano ben poca protezione. Senza i loro scudi, i balestrieri erano spaventosamente vulnerabili. Caddero a centinaia, morti o feriti.
Ma quello fu solo l'inizio.
Mentre i balestrieri sopravvissuti ricaricavano le loro armi, gli inglesi tirarono di nuovo, e poi ancora e ancora. Un arciere ci metteva quattro o cinque secondi a estrarre una freccia dal terreno, incoccarla, tendere l'arco, prendere la mira, tirare ed estrarre un'altra freccia. Quelli più esperti e abili riuscivano a farlo più in fretta. Nello spazio di un minuto, ventimila frecce piombarono sugli indifesi balestrieri.
Fu un massacro, con un'inevitabile conseguenza: i genovesi si voltarono e fuggirono.
In un attimo si portarono fuori tiro e gli inglesi interruppero il lancio di frecce, ridendo per l'inaspettato trionfo e schernendo il nemico. Ma per i balestrieri era in serbo un altro pericolo: i cavalieri francesi stavano avanzando. Un fitto gruppo di balestrieri in fuga si trovò di fronte a uomini a cavallo che non vedevano l'ora di caricare. Seguirono attimi di confusione.
Ralph rimase a osservare con enorme stupore i nemici che combattevano fra loro. I cavalieri estrassero la spada e cominciarono a menare fendenti contro i balestrieri, che scaricarono le loro armi addosso ai cavalieri e poi continuarono a combattere con i coltelli. I nobili francesi avrebbero dovuto tentare di fermare quella carneficina ma, per quel che riusciva a vedere Ralph, quelli con le armature più sontuose, che montavano i cavalli più grossi, erano in prima linea e attaccavano i loro alleati con incontenibile furia.
I cavalieri sospinsero i balestrieri su per la collina finché non furono nuovamente alla portata dei longbows. Ancora una volta il principe di Galles diede ai suoi l'ordine di tirare. E questa volta la grandinata di frecce colpì tanto i cavalieri quanto i balestrieri. In sette anni di guerra, Ralph non aveva mai visto nulla del genere. Centinaia di nemici erano a terra, morti o feriti, mentre nessuno tra gli inglesi aveva riportato neppure un graffio.
Alla fine i cavalieri francesi si ritirarono e i balestrieri rimasti si dispersero. Il pendio sotto la postazione inglese era disseminato di corpi. I fanti gallesi e quelli provenienti dalla Cornovaglia, armati di coltelli, uscirono di corsa dai ranghi e si precipitarono nel campo di battaglia per finire i feriti francesi, recuperare le frecce intatte in modo che gli arcieri potessero riutilizzarle e, senza dubbio, già che c'erano, derubare i cadaveri. Nello stesso tempo i giovani attendenti portavano agli uomini in prima fila nuove frecce prese dal convoglio dei rifornimenti.
La pausa non durò a lungo.
I cavalieri francesi si riorganizzarono, rinforzati da nuovi arrivi che si presentavano a centinaia, a migliaia. Osservando i ranghi del nemico, Ralph notò che alle insegne di Alençon si erano aggiunte quelle delle Fiandre e della Normandia. Lo stendardo del conte di Alençon si spostò in testa, poi risuonarono le trombe e i soldati a cavallo iniziarono a muoversi.
Ralph abbassò la visiera dell'elmo e sfoderò la spada. Pensò a sua madre. Sapeva che pregava per lui ogni volta che andava in chiesa e per un attimo si sentì colmo di commossa gratitudine per lei. Poi osservò il nemico.
Gli enormi cavalli si misero in marcia lentamente, oppressi dal peso dei cavalieri con l'armatura completa. Il sole al tramonto scintillava sulle visiere dei francesi e le bandiere sventolavano nella brezza serale. Lo scalpiccio degli zoccoli sul terreno si fece via via più risonante e la carica acquistò velocità. I cavalieri urlavano parole di incoraggiamento ai destrieri e ai loro compagni, agitando le spade e le lance. Giunsero come un'onda su una spiaggia e, a mano a mano che si avvicinavano, sembravano più numerosi e più veloci. Ralph aveva la bocca secca e il cuore gli batteva come un tamburo.
Quando furono abbastanza vicini, il principe diede di nuovo ordine agli arcieri di tirare. Ancora una volta, le frecce volarono in aria e ricaddero come una pioggia mortale.
I cavalieri erano completamente coperti dall'armatura e ci voleva davvero molta fortuna per colpire le giunture fra le varie parti, ma i loro cavalli avevano soltanto una protezione sul muso e una cappa di maglia di ferro sul collo, perciò erano loro i più vulnerabili. Quando le frecce li trafissero sulle spalle e sui fianchi, alcuni morirono sul colpo, altri caddero, altri si voltarono per fuggire. Le grida disperate degli animali riempivano l'aria. Gli scontri fra cavalli fecero cadere altri cavalieri, che si ammassarono sopra i corpi dei balestrieri genovesi. I cavalieri che arrivavano da dietro erano troppo lanciati per tentare di deviare, così passavano al galoppo sui caduti.
Ma i cavalieri erano migliaia, e continuavano ad arrivarne.
La distanza diminuì e gli arcieri scelsero una traiettoria più lineare. Quando la carica fu a circa cento iarde di distanza, passarono a un diverso tipo di freccia, che invece della punta aveva un'estremità piatta di acciaio in grado di perforare un'armatura. Adesso potevano uccidere i cavalieri, anche se un tiro che colpiva il cavallo era altrettanto accettabile.
Il terreno era fradicio di pioggia e a quel punto la carica cominciò a incontrare le buche scavate in precedenza dagli inglesi. Lo slancio dei cavalli era tale che ben pochi animali riuscivano a finire in una fossa profonda un piede senza inciampare, così molti caddero disarcionando i loro cavalieri, in balia degli zoccoli dei destrieri che sopraggiungevano.
I cavalieri in arrivo cercavano di evitare gli arcieri, così, come gli inglesi avevano previsto, la carica fu incanalata in uno stretto corridoio dove i nemici, colpiti da destra e da sinistra, venivano sterminati.
Era la chiave della tattica inglese. A quel punto fu chiaro che costringere i cavalieri inglesi a smontare da cavallo era stata una scelta molto saggia. Se fossero stati in sella non avrebbero resistito all'impulso di lanciarsi alla carica, quindi gli arcieri avrebbero dovuto smettere di tirare per paura di colpire i loro. Ma siccome i cavalieri e gli armigeri restavano nelle file di retroguardia, fu possibile massacrare il nemico senza una sola perdita fra gli inglesi.
Ma non bastava ancora. I francesi erano troppi e troppo coraggiosi. Continuavano ad avanzare e alla fine raggiunsero le schiere degli uomini a piedi nella parte interna fra le due linee avanzate di arcieri, e fu allora che iniziò la vera battaglia.
I cavalli travolsero le prime file nemiche, ma la loro carica era stata rallentata dalla ripida collina fangosa e ben presto furono bloccati dalle fitte schiere inglesi. Ralph si trovò all'improvviso nel pieno dello scontro, impegnato a evitare colpi mortali inferti dai cavalieri, a colpire con la spada le zampe dei loro cavalli, puntando ad azzoppare le bestie nel modo più semplice e sicuro, recidendo i tendini. Si combatteva con ferocia: gli inglesi non avevano vie di scampo e i francesi sapevano che se si fossero ritirati avrebbero dovuto riattraversare quella mortale grandinata di frecce.
Gli uomini cadevano attorno a Ralph, abbattuti da spade e asce da combattimento e poi calpestati dai tremendi zoccoli rivestiti di ferro dei cavalli da guerra. Ralph vide il conte Roland crollare colpito da una spada francese. Il figlio di Roland, il vescovo Richard, roteò la mazza per proteggere il padre caduto, ma un cavallo lo spinse da una parte e il conte venne calpestato.
Gli inglesi furono costretti a retrocedere e Ralph si rese conto che i francesi avevano un bersaglio: il principe di Galles.
Ralph non provava un particolare affetto per il privilegiato erede al trono sedicenne, ma sapeva che sarebbe stato un colpo tremendo per il morale degli inglesi se il principe fosse stato ucciso o catturato. Indietreggiò verso sinistra, unendosi a parecchi altri che andarono a ingrossare le file degli uomini che facevano scudo attorno al principe. Ma i francesi intensificarono i loro sforzi, ed erano a cavallo.
Ralph si ritrovò a combattere proprio a fianco del principe, che riconobbe dalla sopravveste inquartata, con gigli in campo blu e leoni araldici in campo rosso. Un attimo dopo, un cavaliere francese colpì il principe con un'ascia, e il giovane cadde a terra.
Fu un brutto momento.
Ralph scattò e con un affondo riuscì a colpire l'uomo che aveva attaccato il principe, conficcandogli la spada nell'ascella, dov'era il giunto dell'armatura. Ebbe la soddisfazione di sentire la punta che penetrava nella carne e vide il sangue sprizzare dalla ferita.
Un soldato si era messo a cavalcioni sopra il principe caduto e roteava a due mani un'enorme spada colpendo indifferentemente uomini e cavalli. Ralph vide che era l'alfiere del principe, Richard FitzSimon, che aveva lasciato cadere lo stendardo sopra il suo signore a terra. Per qualche minuto Richard e Ralph combatterono selvaggiamente per difendere il figlio del re, senza neanche sapere se fosse vivo o morto.
Giunsero i rinforzi. Il conte di Arundel comparve insieme a una nutrita schiera di uomini freschi. I nuovi arrivati si unirono alla battaglia con vigore e capovolsero la situazione. I francesi iniziarono a retrocedere.
Il principe di Galles si tirò su in ginocchio. Ralph si sollevò la visiera e lo aiutò ad alzarsi in piedi. Il giovane era ferito, ma non gravemente, così Ralph si voltò e ricominciò a combattere.
Un attimo dopo, i francesi erano in rotta. Nonostante l'assurdità della tattica, il loro coraggio era quasi bastato a sfondare le linee inglesi, ma alla fine avevano dovuto cedere e adesso fuggivano, cadendo in gran numero mentre passavano sotto le forche caudine degli arcieri. Nel tentativo di raggiungere la loro postazione, correvano giù per il pendio insanguinato e inciampavano nei corpi dei loro compagni. Gli inglesi, esausti ma trionfanti, lanciarono grida di esultanza.
Ancora una volta i gallesi invasero il campo di battaglia, tagliando la gola ai feriti e raccogliendo migliaia di frecce. Anche gli arcieri raccoglievano le frecce per rifornire le loro faretre. Dalle retroguardie giunsero gli inservienti con boccali di birra e di vino, e i cerusici si precipitarono a curare i nobili feriti.
Ralph vide William di Caster chinarsi sul conte Roland, che respirava ma aveva gli occhi chiusi e pareva in punto di morte.
Ralph ripulì sul terreno la sua spada insanguinata e si alzò la visiera per bere un boccale di birra.
Il principe di Galles gli si avvicinò e gli chiese: «Come ti chiami?».
«Ralph Fitzgerald di Wigleigh, mio signore.»
«Hai combattuto con coraggio. Domani sarai sir Ralph, se il re mi darà ascolto.»
Ralph si illuminò. «Grazie, signore.»
Il principe annuì con garbo e si allontanò.



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