Hanno tutti ragione - Paolo Sorrentino

>> mercoledì 24 agosto 2011

In Hanno tutti ragione, prima opera letteraria del regista Paolo Sorrentino, l'autore ha sviluppato un personaggio che aveva introdotto nel film "L'uomo in più" del 2001. Nel film il protagonista era interpretato da Tony Servillo che dieci anni dopo è stato chiamato a leggere il libro. E questa è stata una vera fortuna perchè l'audiolibro ha un grande valore aggiunto rispetto al volume scritto. La lettura di Servillo, con il suo accento marcatamente napoletano, le pause e le accelerazioni strategiche, le sottolineature fatte con la voce che cambia tono, ha dato colore e verve al lungo monologo che costituisce l'opera e che in molti tratti rischia di annoiare. Rispetto al film, Sorrentino ha caricato il protagonista di maggiore cattiveria, misantropia, disincanto, fatalismo.  E' interessante a livello sociologico la trasposizione dell'Italia medio-alto borghese dei fine anni settanta-inzio ottanta con i suoi cantanti melodici (il protagonista Tony Pagoda pare sia ispirato alle figure di Califano e Gagliardi), i suoi riti, le sue mode. E le sue contraddizioni e miserie. Complice la lettura di Servillo in parecchi casi si ride. Tutto procede sufficientemente bene fino all'insulso finale. Riporto di seguito le tre parti che mi sono piaciute di più: le lezioni sulla seduzione, la cattura del pipistrello e la descrizione del primo impatto di Pagoda con il Brasile popolato da  donne bellissime e scarafaggi onnipresenti.
Per farsi un'idea della differenza tra il libro scritto e l'interpretazione che ne dà Servillo si può guardare il video sulle sue prove.




LEZIONE NUMERO UNO SULLA SEDUZIONE
Il ritmo
Mi rivolgo a voi, a quelli che, come me, bellissimi non lo sono mai stati. Quelli, insomma, che non è che una passa e vi muore dietro, magari non vi nota neanche e allora, è palese, resta una sola e unica arma nel vostro bagaglio, ma un'arma che può essere possente e smisurata e può smuovere le montagne: la parola.
I belli e i bellissimi possono saltare a piè pari questa lezione, non ci interessate, senza alcuna invidia eh! Però, sapete com'è, bellissimi, voi vi mettete là e quelle arrivano, non dovete fare un cazzo di niente, vi crogiolate e vi alimentate solo del vostro esser belli. Allora sì, avete i lineamenti a posto, ma non avendo avuto lanecessità di sviluppare altre doti che cosa succede? Succede che per il resto siete insignificanti ed indifferenti, non avete il senso dell'umorismo perché nella vita non vi è servito, non vi spremete il cervello per il senso della conquista e questo fa di voi delle personcine aride e silenziose. L'unica arrampicata di pensiero che riuscite a organizzare è quella demente dello sguardo finto tenebroso. Siete patetici e mi fate piangere o ridere non so. Non ci interessate. Tenebroso di che? Cazzoni. Ci sono delle eccezioni, questo lo devo dire visto che mi sto momentaneamente occupando di saggistica. È il caso del mio maestro Mimmo Repetto, che non si è mai seduto sugli allori della sua straordinaria bellezza e ha sviluppato a tutto tondo fascino e seduzione, massime argute e canzoni fantastiche. È un uomo che ha sofferto Mimmo e la sua bellezza la fa passare in secondo piano. Ma è un'eccezione.
Torniamo a noi.
Non è che basta solo saper parlare bene.
Incontrate un professore universitario, quella risma lì sa proferire, altro che,
chiacchiera in apnea, senza bombole, come in una catena di sant'Antonio che tiene in mano solo lui, insomma non passa mai la palla, come i figli unici quando giocano a pallone. Però succede che al secondo capitolo della sua conversazione la donna, dall'altro capo, per quanto interessata, potete giurarlo, non sa scegliere se morire d'angoscia o di noia. Tiene le smanie alle gambe, le muove in preda a convulsioni epilettiche, come quando sei incastrato nella sedia del cinema e danno un film che ti fa cagare fino all'inverosimile. E, in quel momento, state pur tranquilli, intelligentoni, quella donna ha un unico pensiero, questo: sapere che ore sono. Vorrebbe sbirciare il suo orologio, ma pare brutto. Allora getta l'occhio al vostro di orologio, ma in prospettiva il quadrante appare capovolto rispetto a lei e così non è facile capire che ora è, e io lo so, voi state là imbalsamati e compiaciuti, credendo che vi sta studiando le mani, origliate le premesse delle carezze, pensate che di lì a poco vi dirà che le tenete belle e lunghe, mani affusolate, sagge e pelose. Questo credete che sta per dirvi e lei, invece, snervata e straziata da questa vocina vostra lenta e patetica, ora cavernosa, ora da frodo, insomma lei agli sgoccioli, si fa coraggio e vi chiede:
"Scusa, mi diresti l'ora?".
Questo vi chiede. Voi non lo ammetterete mai perché siete froci dentro nello spirito, intelligentoni, ma è così.
Insomma tutto questo per dire varie cose, innanzitutto che non ci interessano né i belli né questi pensatori da serie C2, girone B. Cosa resta? Un po' di cose e un po' di chance. Tanto per cominciare, è meglio sparare la più grossa cazzata del millennio piuttosto che tribolare nel luogo comune. Tutto ciò che è luogo comune non va detto. Sembra una banalità, ma non lo è, visto che quando ci piace qualcuna l'emozione viaggia ad alta quota e quando l'emozione si comporta in questa guisa ecco che il cervello riesce ad elaborare solo frasi fatte. E più sparpagliate frasi fatte, più vi giudicate negativamente, più vi fate impacciati, più vi deprimete, più tallonate l'arrendevolezza, più captate il fallimento, più giustificate in malafede la vostra necessità, menzogna, di una vita in solitaria. No. Impedite a voi stessi questa spirale. No. Ora non si deve mollare. Su questo c'è da lavorare, bisogna impegnarsi. A ritmi serrati, come gli schiavi. Dobbiamo essere di caucciù. Flessibili. E tenaci, come tutti i falliti del mondo quali siamo.
Solo il belloccio può permettersi di dire: "Carino questo ristorante".
Tu dovrai dire: " 'Sto posto che ho scelto va bene per gli zingari".
"Che significa?" dice lei con leggero stupore. Lo stupore va bene, la preoccupazione di non aver capito non giova semplicemente perché lei non penserà mai di non aver capito, a questa prospettiva ne preferisce
sempre un'altra: che siete voi che non sapete quello che dite. "Significa che io e te siamo liberi come zingari, io però, per grazia di dio, ci ho una casa, oltre alla roulotte." Questo lo dovete dire sotto tono, non come se fosse la battuta del secolo. Lei sarà ancora un po' intontita, non sa che pesci prendere ed ha già un obiettivo, capire che pesci dovrà prendere con voi e forse sorriderà. Ma subito dopo, rapidi come puma, si cambia registro. Il vero segreto è quello di non darle il tempo di pensare a lungo. Perché noi non siamo belli e se la lasciamo sola a pensare lei arriverà in quattro e quattr'otto alla conclusione che non vuole stare con voi.
In linea di massima la vostra lei scende di casa con la netta convinzione che non succederà niente, anche se le piacete di partenza, lei pensa sempre che non succederà un emerito nulla. Sta a voi far crollare il muro, sta a voi cambiare la rotta della sua decisione vecchia e precostituita. Sui rapporti amorosi mi pare di capire che, di base, le donne hanno una pigrizia interna. Un imperativo che gli frulla perennemente nel cervello è una cosa del tipo: "No, non voglio, non ora, no grazie". Madri apprensive le hanno allenate come atlete olimpioniche ad organizzare sfaccettate forme di rifiuto. Hanno colonizzato i cervelli delle ragazze perché ci odiano a noi uomini esterni, strepitosi predatori del sesso spinto. È tutta una negazione, all'inizio. Un no che si trasformerà in un sì tondo e pulito e una bocca semiaperta che penderà dalla vostra prossima battuta. Ma se mi state a sentire però. Perché noi dobbiamo vincere le madri. Che non è impresa da poco. Ingombrano per sempre, le madri, fino alla morte delle loro figlie. Dobbiamo sconfiggere l'affetto apparentemente disinteressato di quelle donne macigno fatte in ghisa. Dobbiamo dargli un'altra angolazione della vita, un'altra prospettiva su cui contare, ogni santa volta. Farle affacciare al mondo, come se quello lo avessimo inventato noi. Il bluff è il motore della nostra seduzione. Ma un bluff col sapore della verosimiglianza. Niente Goldrake del cazzo e Fantastici Quattro. Non dovete farla pensare per un po'. In quel po' dovete darci dentro. Ironia con la pala. Se non avete ironia non è detto che siete fottuti. Ma niente barzellette, per dio. E non vi mettete a fare i comici proprio adesso se in tutta la vostra vita non lo siete mai stati. Solo dopo che avete sparato il cinquanta per cento dei vostri colpi le date tregua con una pausa silenziosa nella quale lei penserà che non siete niente male, ripenserà a quello che vi siete detti, magari ve ne andate a fare in culo un attimo in bagno così riflette più distesa. Ma potete andare in bagno solo se avete accocchiato una battutina come si deve o un pensierino arguto. Dicevo che se non avete ironia non è detto che siete fottuti. C'è un trucco elementare per sopperire alla mancanza di ironia, ed è il ritmo del dialogo, dovete dargli un ritmo convulso, elettrico, agitato ma non troppo, altrimenti diventa snervante, vorticoso ed insensato. Le viene l'emicrania e il suo unico desiderio è trasformarvi in un Optalidon. Ma voi non siete Tony Binarelli e non potete trasformarvi in un Optalidon. Dovete saltare di palo in frasca soffermandovi massimo per una decina di battute su ogni fatto, argomento o stronzata qualsiasi. Non più di dieci battute a meno che l'argomento non sia uno dei suoi preferiti. Inoltre le dieci battute è il massimo che potete permettervi perché delle cime di certo non lo siete. Il ritmo, si diceva. Tutti i sentimenti della vita scaturiscono da questo segreto: il ritmo delle cose. E ci vuole pochissimo per mancare l'amore, quando le cose si dispiegano troppo lente o troppo veloci.
Se parlate al rallentatore è meglio che ve ne state a casa. Siete spacciati, oppure vi toccherà una demente psicopatica prossima al ricovero, in corsia però, perché tanto stanze private non se le può permettere perché i soldi veri nella vita non li ha fatti. La lentezza della vostra conversazione è direttamente proporzionale alla sua entrata nel club delle persone che non vi vorranno mai più vedere in vita loro. Se poi cominciate al ralenti con troiate tipo "Sai cosa penso..." o "Io ritengo che al giorno d'oggi..." allora potete anche sventolare il fazzoletto bianco e guardare coi vostri occhi la vostra lei che si allontana sulla nave popolata da tutti gli uomini del mondo, tranne che da voi, unici sciocchini rimasti a terra sul molo. Sedurre è come scrivere una bella canzone, tutto tecnica e ritmo, tecnica e ritmo. Il talento dell'ironia è una freccia supplementare che non sempre potete avere al vostro arco. In questo caso ci vuole tanto ritmo. Un battito che, perlopiù, viene fornito dagli aggettivi. Spiazzanti e convincenti, iperbolici e precisi. Se sono rari e poco usati nella lingua è ancora meglio e fate più bella figura. Le donne non si seducono né con i complimenti, né con i fiori, né con gli sguardi a pesce lesso. Queste sono puttanate da cofanetto Sperlari. Tutti ne parlano, tutti le vogliono, ma nessuno se le compra queste caramelle Sperlari. Gli aggettivi seducono, i sostantivi annoiano. Questo è il grande segreto. Gli aggettivi li dovete dispensare con generosità, en passant, e a ritmo sostenuto e vedrete che andrete a letto con chiunque, a meno che non avete di fronte una lobotomizzata assoluta che non capisce neanche il suo nome. In quel caso non ne vale neanche la pena. Per voi ci vogliono donne intelligenti. Perché il sesso, in fin dei conti, è poca roba. Ve lo dico io che pure frocio non lo sono mai stato. E sedurre è tanto. Le cretine lasciatele andare coi cretini. Voi non siete belli, ecco perché non siete neanche cretini.
Insomma, a riepilogare, il ritmo dev'essere elettrico ed elettrizzante, mai convulso, mai lento come in un documentario su inutili animali che cazzeggiano nella tundra o nella steppa.
È consentito un solo rallentamento, è quando dovete dire la parolina magica, il sim sala bim del colpo finale, un colpo duro e maestoso, quando cioè le dovete dire o che la amate o che la desiderate o che vi piace assai o che ci volete andare a letto. Ma per il sim sala bim non c'è formulina magica, la frase migliore la dovete trovare voi a seconda di chi ci avete di fronte, l'importante è che lo dite bello e buono, magari stavate parlando della mozzarella di bufala e toh, rallentamento, occhiata rapida, voce un paio di toni più bassi e giù con un "Mi piaci mica poco, tu". E poi coltivare una sana speranza.
È pure superfluo che vi sottolinei che se avete davanti a voi un puttanone fenomenale non potete scegliere lo stesso colore, cioè non dovete dire robe del tipo "ti scoperei". Se fate questo passetto qua siete proprio dei dementi in saldi. La donna di fronte a voi è sempre un elastico tesissimo, voi non potete allungarlo di più.
Dovete solo ridurre la tensione, questo è il vostro compito. Quindi, al puttanone rifilate il "ti amo". Alla romanticona del secolo scorso osate pure il "ti legherei alla spalliera del mio letto, e mica ci si libera così... è ottone massiccio". Che ve lo dico a fare? Scendono di casa, sfilano lungo l'androne con gli stronzi neon, aprono il portone, vi vengono incontro e quello che vogliono dimostrare non sono. Sono l'opposto. Ci potete fare un'equazione sopra. Questa è matematica. È così. È così che vanno le faccende dei sessi opposti.
Ci ha il vestitino a fiorellini? State sicuri che non vede l'ora che la prendete per la testa e la sbattete sette otto volte contro il calcestruzzo. Si è messa i quintali di rossetto infuocato per fare la bocca a cerchio preciso alla Giotto? Allora dormite pure fra diciotto guanciali che per avere un pompino vi dovrete mettere a fare l'elemosina su un tappetino di ceci organizzato da preti sadici. A volte le cose vanno in maniera del tutto diversa e imprevedibile, ma è raro, in quel caso è possibile che vi trovate di fronte a una razza superiore. Potrebbe essere la donna della vostra vita. Tutt'altro registro. Si può pensare di lavorarla ai fianchi per giorni e giorni per sposarsi e fare figli. Ma col tempo, vi faccio vedere io se poi non ci rimanete male. Ci rimarrete malissimo, altro che. Un'ultima regoletta, se siete uno che fa un lavoro non c'è male, del tipo artistico, che ne so, cantante come me, attore, pittore, musicista, allora durante il primo incontro fatele sapere che lavoro fate ma non attaccate a entrare nello specifico della vostra attività. Questo privilegio glielo dovete far sudare. Fate i brillanti su altri temi così lei penserà, faccio un esempio cretino: "Gesù, se questo sa tutte queste cose su come si fa la parmigiana di melanzane pensa quando arriverà a parlarmi del suo ultimo spettacolo teatrale che io ho visto e in cui lui faceva la parte di Amleto e sapeva pure tutta la parte a memoria... mmm... mi devo ricordare di chiedergli come fa a ricordarsi tutto a memoria". Se pensa cose così allora è più facile che digerire la pasta cruda. E fatta! E direi che per ora la lezione number one si può dire anche conclusa. Non vi scoraggiate, su, anche voi potete sedurre, che sono quelle facce? Siate up e sorridete, ma sappiate che io già sono in lutto per i vostri sorrisi. Ora andate.
E seducete!
[...]
È mezzanotte. Arrivo al rione Sirignano. Busso alla porta della baronessa. Mi apre
Marcello il maggiordomo, con un candelabro che ospita tre candele striminzite.
Sembra Dracula.
Io dico: "Che? È andata via la luce?".
Lui: "No, risparmiamo".
Non sono mai stato di sera a casa della baronessa. Tutta un'altra storia. Altri panorami. Una tenebra. Mi irrigidisco e ho paura. Penso ai fantasmi in bicicletta.
Balbetto: "Dimitri è arrivato?".
E Marcello: "Ha chiamato. Dice che non viene. Che sta stanco. Ha detto pensaci tu al pappagallo".
Scelgo mentalmente l'arma più efficace e che mi fa meno impressione con la quale uccidere l'indomani Dimitri.
Rientro nella realtà e dico: "E dove sta il pappagallo?".
"Pare, nella biblioteca."
"Andiamo insieme."
"Ho paura."
"Perché io no Marcello? O ti pensavi che ho familiarità coi pappagalli che fanno le violazioni di domicilio?"
"Va bene, ma vai avanti tu."
"E perché?"
"Perché tu sei giovane. Io no."
Il ragionamento non fa una piega. Ci appropinquiamo. Io e il vecchio Marcello. In preda ad un terrore di marmo. Valichiamo un numero imprecisato di stanze, illuminate fiocamente da quel candelabro. Si esaurisce il mozzicone di una delle tre candele. Si vede ancora meno di prima. Tutto fa paura, pure i divani e l'argenteria sui tavolini.
Chiedo, poiché il silenzio mi terrorizza: "E la baronessa dove sta?".
"Si è chiusa nella sua stanza da letto. Ha paura."
Io lo intrattengo e mi intrattengo: "Ma avete lasciato qualche finestra aperta?".
"Qua le finestre non si aprono da un paio d'anni."
"Ma da dove cacchio è entrato 'sto pappagallo?"
"Mistero" dice lui "come molte cose di questa casa."
"Così non mi aiuti, Marcello. Se continui su questa linea di risposta prendo e me ne vado" dico in preda a una paura pura, limpida e cristallina. Poi commetto un errore gigantesco. Imperdonabile. Domando: "Si sono sentite oggi le biciclette sul tetto?".
E lui, con una semplicità disarmante: "Certo che si sono sentite. Si sentono tutti i giorni".
Sto per morire. Mi sono cacciato in un dialogo senza uscita. Imploro: "Vabbè, però si sentono di giorno, mica di sera?". Lui non lascia cadere, insegue la precisazione e si fa solerte: "No, no, alle volte si sentono pure di sera".
Ho la lingua avvolta in un jeans. Dico con la tonalità dell'ischemico di fresco: "Stasera no, però?".
Lui, implacabile: "Mi pare di sì, invece".
Mi faccio definitivo: "Marcello, mi sto fottendo dalla paura, io accendo la luce".
Non me la conta giusta, perché, serafico, consiglia:
"Sì, sì, accendi pure. Te la sei portata la lampadina?".
"Che significa?"
"Significa che la baronessa le ha tolte tutte da mezzo le lampadine, perché le cameriere accendevano di nascosto."
Rifletto lucidamente e mi dico mentalmente: stasera strangolo la baronessa, domani Dimitri. E lo penso seriamente, mica scherzo. Nel frattempo, la febbre da insolazione mi è svanita dentro. Finalmente approdiamo alla lugubre biblioteca. Siamo oppressi da librerie di legno scurissimo che contengono enormi volumi scurissimi. Insomma, una bara di settanta metri quadrati. A terra, meravigliose piastrelle a scacchi bianche e nere. Ma con questa luce, anche le mattonelle bianche sembrano nere. Un mausoleo. Io e Marcello siamo sospesi come due barche senza bussola in mezzo alla stanza quando un sibilo ci sfiora le orecchie facendoci gustare il sapore di ciò che accade subito prima dell'ictus.
È passato vicinissimo, veloce come un condor, il pappagallo. Poi, un rumorino sordo ci lascia intuire che è rimbalzato contro il vetro della finestra. Silenzio. Lungo. Macabro. Mi faccio ottimista: "Sarà morto. Hai sentito che botta?".
Marcello si fa pessimista: "Non ci scommetterei".
Naturalmente scopro l'acqua calda quando dico che in questa vita i pessimisti hanno sempre ragione e gli ottimisti sempre torto. Infatti non solo non è morto, ma non è neanche un pappagallo. È qualcosa che io non auguro di incontrare neanche a Dimitri o a Mussolini se
fosse ancora vivo. Perché è un pipistrello. Impazzito. Selvaggio.
E ora ha il radar malandato che sta dando i numeri, perché percepisce ostacoli e pareti dappertutto e gli suona nel cervello ogni mezzo secondo. Dunque, l'animale si palesa nuovamente e prende a volteggiare e a sbattere dovunque, lasciandoci morire lentamente a tutti e due dalla paura. Io e Marcello ci accovacciamo all'unisono, come in una gara a chi si fa il bidet più velocemente. Ma anche accosciati percepiamo un pericolo troppo imminente. Cosicché, scomposti, repentini, improvvisi, ci sdraiamo letteralmente per terra. Ma nel compiere questa operazione Marcello commette un errore che mi fa venire voglia di piangere.
Si lascia cadere da mano il candelabro e le due candele si spengono. Ora, buio totale. E quell'essere maledetto che continua a volteggiare come Satana. Come cazzo si fa adesso? Non ci può salvare nessuno. Neanche il fantasma in bicicletta saprebbe come cavarsela.
"Che facciamo?" ululo io con un piede nella fossa. Marcello, nell'oscurità, mi dà una risposta che poi, semplicemente, diventerà una delle poche barzellette non sconce, ma molto in voga. Mi dice serio: "Dobbiamo aspettare che muore di vecchiaia".
Non rido.
Ma quello, il pipistrello, ha altri progetti piuttosto che morire di vecchiaia. Opta per un'altra scelta. Si lascia andare in picchiata e si ferma direttamente nei miei capelli. Si è impigliato. Lui non sa come uscirne. Io non so come uscirne. Vedo il coma nei paraggi, tanto è il terrore che mi sta avviluppando. Mi scalmano, come un tarantolato. Piango veramente, adesso. La breve vita che ho vissuto mi si srotola davanti agli occhi in pochi istanti, culmina nella bella immagine della bellezza nuda di Ventotene e muoio. Ma invece non sono morto. Sono solo svenuto. E allora si ristabiliscono degli equilibri. Perché non si diventa maggiordomi per caso. Si diventa maggiordomi perché si è in grado di risolvere una pletora di problemi piccoli e grandi. E allora quando riprendo i sensi, riprendo anche a tornare a vivere normalmente. Scorgo dal pavimento Marcello seduto all'indiana. Illuminato dal candelabro che ha ripristinato. E piange. Io sono smarrito. Piange come un bambino e si guarda le mani. Guardo pure io. Tra le mani ha il pipistrello. Morto. Mi dice con una partecipazione commovente: "Tony, ma non ti fa una grande pena?".
"Molta" dico io permeato di una felicità che mi risplende di nuovo in tutto il corpo. Ci solleviamo, puntiamo la spazzatura in cucina per buttarci dentro il cadavere del pipistrello quando un vocione baritonale tuona come dall'aldilà e dice: "Carissimo". Con otto "s" strascicate. Marcello mi guarda e dice professionale: "La baronessa ti vuole ringraziare. Vai. Tieniti il candelabro, che io me ne vado a dormire".
[...]
Ai brasiliani è estraneo il concetto della fretta. È una caratteristica che alligna con facilità laddove è elevato il tasso di disoccupazione. In questo, il Brasile sa essere imbattibile. Impadronirsi dei gesti di questi uomini lenti fino al punto di credere che quei gesti sono tuoi. Acquattarsi sulla sdraio e studiare le manovre di avvicinamento dei ragazzi alle ragazze e delle ragazze ai ragazzi. E io lì a ridacchiare col mio sorriso carico del già visto. Un bonario sorriso di superiorità. Hanno il sesso in testa, quelli lì, giustamente. Però, attraverso la ginnastica più popolare della storia, sperano di innamorarsi, di godere, di ridere, di non sentirsi più soli. È sconvolgente la quantità di speranze che la gente giovane ripone nel sesso. Un'idea mal ripagata di panacea per tutti i malesseri, ma è solo adrenalina che pompa a tremila per sette minuti e ti accantona pure il raffreddore per quegli istanti, poi tutto riprecipita nel prima, un po' peggio di prima, visto che non hai l'autonomia necessaria per ricominciare immediatamente con la giostra.
Ma anche la spiaggia, alla lunga, ti intontisce come un anestetico di noia. Sulle prime te la godi, poi il rumore delle onde è sempre quello, diventa una ninna nanna che ti ferma il respiro, soprattutto se l'insonnia ti aggredisce. Anche lo spettacolo di osservare ragazzini di dodici anni, ingenui funamboli del pallone e futuri consapevoli dopati in Europa, all'inizio ti appare meraviglioso, poi diventa un circo triste.
M'ingozzavo di frutti di mare mirabolanti e giganteschi come cocomeri. Anche quella vertigine lussuosa giunge alla frutta. Non si può trascorrere tutta la vita davanti al mare. Hai voglia a ingannare il prossimo, Loredana, con lo struggimento del mare d'inverno e i cavalloni giganteschi che ti riconciliano con le forze secche e brutali della natura, poi scorgi dietro il muretto le controindicazioni meteorologiche. D'inverno, a mare, butta un vento che ti deprime e ti spacca il fisico contemporaneamente. Poche storie. E sotto la pioggia che cade in orizzontale non c'è ombrello che tenga. Il cattivo tempo in Brasile è peggio che in Islanda. La sabbia si innalza senza contegno e ti chiude le palpebre e ti fa una sfinge di un metro e settanta. Si posiziona sotto le unghie e dentro i peli sotto le braccia. Ci ha i problemi del K2 il mare d'inverno. E l'oceano mette una paura ancestrale. Diventa un nemico da abbattere che non puoi abbattere, ci mancherebbe. Alla lunga, il mare è vuoto. Il bel panorama è un peso. Ho una dimestichezza limitata con le bellezze della natura. Devo stare, scava scava, dove gli uomini muoiono e faticano. Non necessariamente in quest'ordine. Ma non è neanche questo. È che io stanziale lo sono fino ad un certo punto. Ci ho il nomadismo al posto del deodorante sotto le ascelle, io. Alla fine, semplicemente, si cambia tanto per cambiare. Mica c'è da scomodare dio davanti ai gesti miserabili degli esseri umani.
Così mi sono trasferito a Manaus, il cittadone nel cuore dell'Amazzonia. Dove, tra l'altro, fattore non secondario, i charter degli italiani più volgari del mondo faticavano ancora ad atterrare, mentre Natal, invece, mi stava già diventando una succursale di Castelvolturno e di Bellaria Igea Marina. Però ci ho messo poco, venendo a Manaus, a capire un fatto sempliciotto: che volevo complicarmi la vita. Qui, gli uomini convivono patriarcali e democratici con gli scarafaggi. Enormi e puzzolenti. Sembrano cani patinati. Neri lucidi come la palla numero otto del biliardo. Inquietanti nella loro programmatica assenza di latrati, gli scarafaggi. Attraversano i marciapiedi guardando prima a destra e poi a sinistra per evitare di finire sotto le macchine. Sono operosi e hanno fretta. Schizzano in tutti i quartieri con una velocità olimpionica e non ti abitui mai alla loro presenza.
Mi mettevano paura il primo giorno che sono arrivato, mi hanno fatto la stessa identica paura fino all'ultimo giorno del diciottesimo anno di permanenza in Brasile. Coabitano con te dietro al letto e si lavano nel tuo lavandino. Guardano il ddt e ridono beffardi come camorristi di punta. Se ne fottono del ddt, gli scarafaggi di Manaus. Se lo inalano come aperitivo senza noccioline a tutte le ore. È una guerra persa che, tra l'altro, combattevo solo io, perché gli indigeni, e in questo hanno la mia stima totale, si mostrano completamente indifferenti al problema. Ignorano gli scarafaggi, mantenendo saldo un complesso di superiorità che li porta ad una nobile, chic noncuranza della loro presenza. Come i monegaschi con i poveri. Allora, dopo poche settimane e qualche domandina in giro, avevo imparato un mezzo trucchetto: sistemare sotto i piedi del letto quattro bacinelle piene d'acqua, per impedire loro l'accesso alla cassaforte del mio sonno. Ma quelli niente. Freddi e logici come una dotatissima équipe medica di Houston nel momento dell'emergenza, guardavano il problema, analizzavano il problema, risolvevano il problema. Impiegando, in termini di ragionamento, da uno a tre secondi. Mai una frazione in più. Una cosa sconvolgente che ti conduceva lentamente alle pesanti lacrime della sconfitta e dell'impotenza. Una roba che ti avrebbe anche fatto spalancare la bocca carica di meraviglia, che però poi si evitava di fare per la semplice ragione che c'era il rischio che lo scarafaggio ti saltasse dritto dritto tra le labbra come un popcorn. Si tuffavano, andavano in apnea, nuotavano nella bacinella senza maschera e boccaglio e via ad arrampicarsi indefessi in verticale lungo il piede del letto.
Preparati, atletici e testardi come i giovanotti del battaglione San Marco. Sanno fare tutto gli scarafaggi. Tutti gli sport e tutte le guerre. Ma che cazzo sono questi qui? Io non lo so. Campioni di decathlon. Il giorno che li inviteranno a partecipare alle Olimpiadi, i neri di Chicago avranno gli attacchi di panico. Lo scarafaggio sa fare tutto. Lo scarafaggio di Manaus è dio. Senza iperboli. Però devo essere sincero, quello che ti stupisce per tutta la vita, la considerazione perenne che ti poni, la cosa che non finisce mai di lasciarti come davanti a un ufo è la loro grandezza. Gli scarafaggi di Manaus sono monumentali. Travalicano la definizione di insetti per sfociare, pericolosamente, nella categoria dei felini. Più ti mettono paura per le loro dimensioni, più masochisticamente ti affascinano come la donna della tua vita. E come vivere tutti i giorni allo zoo. Non ci si abitua alla giraffa, manco per il cazzo. La giraffa è uh mistero vivente pure per la giraffa stessa. Uguale con gli scarafaggi. Ti sorprendono sempre le stesse cose. E la loro rapidità di movimento ti emoziona come davanti al record del mondo dei cento metri. Tutti i giorni così, a tutte le ore. Alle volte, di notte, poi, l'incontro fatale: lo scarafaggio è su di te. Ma non fai in tempo a saltare giù dal letto che quello ha già guadagnato il battiscopa. Veloce come un ghepardo, anzi di più. Si prende gioco di te e ti ricorda costantemente che non puoi sconfiggerlo. Non si vince mai la battaglia con la velocità. Tu ti meravigli nel cuore della notte sudaticcia di aver evitato l'ictus e quello, lesto come una stella cadente, sta già a casa della signora del piano di sopra. Allora poi lo cerchi dappertutto questo stronzo di merda preistorico, ma quello non c'è più. Finisci per mormorare terrorizzato, senza coscienza, antiche litanie lamentose che tua madre esternava invece per vezzo, tipo: "Anima di quei quattro, venite a quattro a quattro". Metà degli anni trascorsi a Manaus sono stati occupati da un unico, insistente pensiero: dove sta lo scarafaggio?
Poi qualcuno riesci ad assassinarlo, ma è una soddisfazione gambizzata, perché sai benissimo che non hai risolto e mai risolverai il problema. Ne uccidi uno per ritrovartene cento. Non attecchisce il maoismo, in Amazzonia. Niente attecchisce, solo animali arcaici e mostruosi e piante rampicanti che ti fasciano gli avambracci. Quando dormi, si scatenano incubi e deliri, pensi che gli scarafaggi prenderanno il sopravvento, li scorgi al bar, attaccati alle birre, che brindano alla concessione di un leasing da parte di uno scarafaggio borghese che fa il concessionario di automobili, li spii al ristorante che flirtano, che pasteggiano col Veuve Clicquot, che fanno rifornimento alle pompe di benzina e tutti gli uomini, invece, a strisciare a quattro zampe, ma con una goffaggine che non fa ridere nessuno, neanche gli scarafaggi, ormai austeri e classisti proprietari del mondo.
Gli scarafaggi, a Manaus, ti tollerano. Non viceversa. Sono operosi come le api, veloci come i ghepardi, furbi come le volpi, prudenti come le formiche, affamati come gli avvoltoi, assennati come gli scoiattoli e non dormono mai. Mai. Ve lo giuro. Non ho mai visto uno scarafaggio dormire. Non ne hanno il tempo, devono conquistare il mondo e hanno deciso che questa espansione irreversibile comincerà esattamente da dove vivo io adesso. Dal terzo piano di un appartamentino in un quartiere anonimo e qualsiasi leggermente periferico rispetto al centro di Manaus. È il loro quartier generale prima di una serie ininterrotta di colpi di stato in giro per il mondo. Vogliono passare alla storia, gli scarafaggi, ma senza strombazzarlo sui giornali e senza la vanità di andare in televisione. Come una loggia massonica. Gli scarafaggi non sono vanitosi, proprio come le iene e gli sciacalli.
Quando hai un unico, immenso progetto nella vita non puoi contemplare la vanità. È un orpello che intralcia.
L'altro orpello che intralcia ininterrottamente a Manaus è l'umidità. Se parlate ad un locale della parola venticello questo vi guarda come in una fiaba senza finale. Vi prende per ET-telefono-casa. Non capisce. Non è mai esistito, neanche casualmente, il soffio d'aria a Manaus, circondata com'è da miliardi di alberi dell'Amazzonia alti trenta trentacinque metri. L'ossigeno è come sospeso in una pozzanghera vecchia. Galleggia immobile e finisci per respirare quello di miliardi di anni fa, sempre lo stesso. Inali la roba dei dinosauri e dei licheni. Esiste solo l'umidità, gli scarafaggi e le donne più belle del pianeta. Nel passato, orde di tedeschi in cerca di caucciù hanno cercato anche le brasiliane dando loro figlie mulatte con gli occhi azzurri. Queste sono oggi le donne di Manaus. Il più grande spettacolo meticcio del mondo. Ma solo lo sprovveduto ingenuo potrebbe pensare che si tratti di una gioia, di un sollievo, di una ricompensa a una vita affollata solo di scarafaggi e calore appiccicoso. Non è così. Perché, queste divinità umane non le puoi guardare per più
di tre secondi che subito interpreti te stesso come un complesso d'inferiorità che deambula. A tonnellate, vagano incoscienti della loro bellezza in mezzo alla città. Uno spettacolo di successo di Broadway che si produce per ventiquattr'ore di seguito. Perché anche a notte fonda le trovi in giro, dal momento che l'umidità e gli scarafaggi non le fanno dormire. Se il concetto di perfezione esiste, ecco quello ha trovato la sua camera d'albergo proprio qua, in mezzo alle donne di Manaus. Sepolte vive in mezzo a una natura fatiscente e invalicabile. Ti tolgono il respiro per sempre, producendo un tale carico di bellezza da inibire il desiderio. Una bellezza di tale, inaudita potenza da paralizzarti. Nessuno desidera scopare con la Venere del Cranach. La guardie basta, senza credere che sia potuto accadere veramente. È lo stesso con queste creature. Le guardi e basta. E quando ti lasciano capire che c'è spazio per accedere a loro, tu non sei pronto. Perché vuoi solo continuare a guardare. Non si violentano le opere d'arte, non s'infila il cazzo dentro i dipinti di Caravaggio. No, questo non si fa. Non si tocca la perfezione, mai. Potrebbe condurti dritto dritto al suicidio. Questo è come la penso io. E non ve l'aspettavate. Ma solo le teste di cazzo possono credere che la mia reticenza alla frequentazione del museo e della cultura in senso lato mi impedisca di conoscere e amare la Venere del Cranach. Tutti gli uomini sono sorprendenti. E io anche un po' di più. E la Fonseca ci aveva scandalizzato con l'istruzione a me e a Dimitri il Magnifico. Bisogna stare accorti, comunque, a Manaus, con le donne e con gli scarafaggi e se fai la gita fuori porta mica ci sta la trattoria dei Castelli, macché, ci sono i piranha e le anaconda, le vedove nere e insetti mai catalogati da nessuno che, con un rutto, ti avvelenano una volta e per tutte.
I dintorni di Manaus sono la guerra di dio contro l'uomo. Un duello senza storia. Su quello si era cautelato a dovere l'amico, era stato accorto, e si era detto che se avesse voluto ci faceva morire tutti quanti in Amazzonia. Basta un colpo di coda del coccodrillo e puoi andarti a depositare disinvolto dentro una bara su misura. E sperare che qualcuno si ricordi di chiuderla se no sono sicuro che già avete capito chi verrà a farvi compagnia dentro la cassa anche da morti. Ma certo! Sempre loro. Queste maledette cacche nere con le zampette.

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Lettura di Sciascia in biblioteca

5 Marzo ore 20,30, Biblioteca Castiglione delle Stiviere

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