Mille anni che sto qui - Mariolina Venezia

>> sabato 21 maggio 2011

Saga familiare e generazionale che si svolge in un paesino della Lucania dall'Unità d'Italia fino ai giorni nostri. Il meccanismo narrativo è quello della Isabel Allende di "La casa degli Spiriti". A differenza dell'opera della scrittice cilena ci si emoziona un pò meno ma si sorride sicuramente di più. Interessante l'uso del dialetto, appropriato e misurato sia nei dialoghi che nelle descrizioni delle situazioni. Per chi come me è nato negli anni sessanta, e al sud, ha un ulteriore valore perchè crea punti di riferimento riconoscibili negli usi e costumi sperimentati nella quotidianità dell'infanzia o nei racconti dei propri genitori e nonni. Il libro non sfiora le duecentocinquanta pagine ma sembra enormemente più lungo. Mi sono chiesto come mai e la risposta che mi sono dato è che il numero dei personaggi che sono stati introdotti è spropositato: molti sono poco sviluppati, di tanti c'è solo il nome. Questo porta ad una certa dispersione che è probabilmente il limite dell'opera. Non tutte le storie che si intrecciano sono belle ma alcune sono bellissime. Ho trascritto: la descrizione dell'inizio della storia d'amore tra Colino e Candida (delicata e poetica) e tra Giuseppe e Lucrezia (comica e paradossale) e la veglia funebre di Colino, un vero documento sociologico su come in  meridione sono ricordate le persone di valore.

Quella mattina aveva preso le forbici che servivano per sventrare i polli e con un colpo secco si era tagliata la treccia che le arrivava al sedere, come dalla parte opposta della terra altre avrebbero fatto di lì a poco, anche se per motivi un po' diversi. Quando Gennarino si ritrovò la treccia in mano, avvolta in un pezzo di giornale, scosse la testa come se avesse già visto quella scena tante volte. I capelli tagliati non gli servivano! Dovevano essere caduti naturalmente, con l'attaccatura ancora intatta. In cambio della treccia, poiché si era accorto che ci era rimasta male, poteva darle al massimo un sona sona. Ne aveva uno lì, in mezzo alle cianfrusaglie. Lo scosse per farle sentire come faceva. Lo strumento gracchiò. Candida non rispose. Se ne andò senza nemmeno riprendersi la treccia e cominciò a vagare fra i banchi, con gli occhi che si riempivano di lacrime.
Colino si trovava dietro al banco insieme a suo padre, e quando Candida gli posò gli occhi addosso stava srotolando una pezza di taffettà color prugna matura, così frusciante che lei nel ricordo ancora la sentiva cantare. Aveva gli occhi levantini, neri e languidi come quelli degli uomini che vengono dalla marina, così carezzevoli che nemmeno la pezza più cara del bancone, quella di velluto misto seta, poteva reggere la concorrenza. Aveva le labbra ben disegnate e i denti bianchi, tutti dritti e sani. Le mani con le dita lunghe e insomma era tale e quale al Cristo deposto che Candida aveva tanto amato, o almeno a lei così sembrò, come se da marmo che era si fosse fatto all'improvviso di carne. A quell'epoca Colino aveva diciott'anni. Mancava dal paese da una decina d'anni, trascorsi con lo zio Cataldo, commerciante di imbottite a Bari. Adesso era venuto per aiutare suo padre in quei giorni di fiera, e gli affari non erano mai andati così bene. A causa sua le donne si affollavano intorno al bancone fingendo di interessarsi alle stoffe che Minguccio il Merciale decantava  rintronandole di chiacchiere. I lampi provocanti di molti occhi lo bersagliavano in continuazione ma nessuno l'aveva mai colpito. Con grande soddisfazione di sua madre gelosa e fiera del miracolo che aveva fatto, Nicola si era conservato vergine. Malgrado tutte le occasioni che aveva avuto non si era mescolato a nessuna vedova o donna di malaffare, né aveva incrinato la virtù di qualche giovinetta. Un'innocenza malandrina lo proteggeva da qualunque tentazione. Una dolcezza che sconfinava nell'inganno gli si irradiava intorno. Si era ormai abituato a tutte quelle donne che gli andavano appresso come un bue alle mosche, e se non poteva scacciarle con un placido colpo di coda usava i suoi sguardi limpidi per annegare i loro ardori. Colino stava misurando la stoffa col palmo della mano quando alzò gli occhi e nella traiettoria del suo sguardo trovò Candida.All'inizio attirò la sua attenzione solo perché aveva i capelli tagliati in quel modo. Poi, quando anche lei lo guardò, successe una cosa strana. Fu come se si fosse aperta una porta. Colino attraversò pieno di meraviglia corridoi e stanze, alcune luminose, altre più scure e segrete, angoli nascosti e freddi, ripostigli, terrazze assolate …
Guagliò ! Una pacca sulle spalle lo fece sobbalzare. Suo padre, Minguccio u Mercial, ne aveva seguito lo sguardo per scoprire cosa lo distraesse, ma non aveva visto nulla. Solo una bambina con le spalle rachitiche e il torace piatto, i capelli tagliati all'altezza del mento e gli occhi pieni di lacrime, che un sorriso illuminò proprio in quel momento.
[…]
Arrivato al paese raccontava dell' America come se fosse tutto rose e fiori, sfoggiando un completo gessato e un cappello che aveva un nome come un cristiano, Borsalino, cose che da quelle parti non si erano mai viste. Ricordava quelle rondini a cui i bambini tagliano le ali e ingrassano.
Come moglie gli avevano proposto Angelica, che ormai cercavano di piazzare a chiunque fosse stato via abbastanza da aver dimenticato la sua età. Giuseppe la incontrò in un salottino in penombra, che la proteggeva dai frastuoni del mondo e nascondeva la perdita di nitore della sua figura, unica conseguenza dell' età avanzata. Se ne erano stati seduti sul divano, lei contegnosa, lui che non sapeva che dire, intimidito malgrado il completo gessato, biascicando ogni tanto qualche parola in una lingua ibrida che parlavano soltanto in un certo quartiere di Nuova York o per essere precisi, in quella forma, lui soltanto. Tutta la famiglia aspettava gli esiti del colloquio al di là della porta chiusa, e una volta tanto erano tutti d'accordo. Angelica non avrebbe potuto trovare di meglio. Avrebbero accettato qualunque condizione. Ma caso volle che Giuseppe, goffo e intimidito com' era, rovesciasse col gomito la bottiglia di rosolio. Il cristallo era andato in pezzi e il liquido appiccicoso si era riversato sul tappeto. Angelica, minimizzando, aveva mandato a chiamare Lucrezia. Da quando aveva imparato a camminare, la figlia della Rabbia passava da loro tutto il tempo che le avanzava dalle altre faccende e quando c'era da fare era sempre in prima fila.
Anche quella volta si era buttata a corpo morto. Di muso a terra strofinava e strecava, col busto schiacciato fino alla vita, le braccia allungate e il sedere proiettato in alto che faceva su e giù come quello di una giumenta. Un sedere incommensurabilmente ben fatto, schietto, tondeggiante come la luna piena. Mentre Angelica continuava le sue insulse chiacchiere di circostanza, l'attenzione di Giuseppe era stata via via catturata dai movimenti ondulatori di quel deretano, dalle sue proporzioni perfette, dalla sua esuberanza e dalla sua voglia di vivere, fino a non poterne più staccare gli occhi.
Il senso di oppressione che lo aveva colto da quando era entrato in quella stanza si stava dissipando lentamente, e tutte le tristezze della sua vita trovavano consolazione. Quando fini il colloquio e la famiglia lo accompagnò alla porta temporeggiando, Giuseppe deglutì due o tre volte, si fece forza, poi sotto gli occhi speranzosi di tutti chiese in moglie Lucrezia.
[…]
O frat mi, o frat mi. O frat miiiiii.
Nel salone con le volte ornate di fiori era esposta la salma di Colino. Fin dal mattino tutto il paese ci sfilava davanti, e le donne si scapellavano e raccontavano episodi della sua vita battendosi il petto.
O frat mi, o frat mi, quant'era buono, quant'era bravo, quante me n'hai fatte, o frat miiiiiii. Quell' anno, quell'anno disgraziato che gelò a maggio, venni alla bottega e ti cercai i ceci e la farina che non tenevo faccia e tu me li desti e non dicesti niente, niente dicesti cumba Coli, e poi ti dissi cumba Coli, tengo a Lucietta mia ca fasc zit', e quando gliela voglio fare la dote a quella figlia, quando gliela devo fare che resterà zitella, zitella deve restare, e tu mi dicesti statt citt, statt citt, statt citt mi dicesti, che non ti voglio più sentire, lé lé, levat d'annanz, ma ti devi levare, e mi hai tagliato la tela per le lenzuola e per la parure, tié pigghiatill e vattin, pigghiatill e vattin, che non ti voglio più sentire. Eri buono, eri buono assai cumba Colì. Lucietta teneva già tre figli, tre figli teneva benedett'iddio quando ci siamo tolti il debito, e chi se lo può scordare, chi se lo deve scordare ca cur u padretern non ne fa una dritta, doveva prendere a qualche notun, a qualche notun si doveva portare e non a te che eri bravo, che eri buono, che vuoi avere tante benedizioni per quante ce ne hai fatte a tutti quanti cumba Coli. O frat mi, o frat mi, u cerson, la mia quercia...
Candida se ne stava accasciata su una sedia, come priva di vita, poi tutt' a un tratto si avvicinava alla bara e sembrava posseduta da una forza sovrumana. Oh la pupa, la pupa che mi comprasti. La pupa c'è ancora e tu te ne stai andando... Vennero i braccianti dalle campagne, a raccontare di quando gli dava la pasta a credito, e vennero i piccoli proprietari, ché da lui prendevano il concime e lo pagavano soltanto quando avevano venduto il raccolto. Vennero le femmine che gli vendevano le uova e quelle che per lui pulivano i lampascioni e la radica saponaria. Ognuno aveva qualcosa da raccontare, risalendo fino ai lontani tempi della guerra, quando Colino avrebbe potuto arricchirsi col mercato nero come avevano fatto in tanti, e invece non ne aveva voluto sapere, ma non si era mai tirato indietro quando c'era da far passare sottobanco un po' di grano o di ricotta, impedendo che molti di loro morissero di fame. O frat mi, o frat mi. Venne Lucrezia che si batteva il petto e diceva perché non sono morta io al posto tuo, io dovevo morire, che mi levavo d'annanz e tutti sarebbero stati più contenti. Non ci fu abitante di Grottole quel giorno che non passò a rendere omaggio. Nelle settimane, nei mesi e negli anni successivi a casa di Candida continuarono a bussare contadini che venivano a saldare i loro debiti, anche se avrebbero potuto farne a meno perché Colino li segnava in un modo che capiva solo lui.

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Lettura di Sciascia in biblioteca

5 Marzo ore 20,30, Biblioteca Castiglione delle Stiviere

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