La Casa degli Spiriti - Isabel Allende

>> lunedì 9 agosto 2010

Il libro è costruito su tanti personaggi le cui storie si intrecciano nell'arco di una generazione. Le descrizioni sono eccellenti e i personaggi sembrano vivi: si gioisce e ci si emoziona con loro. Interessante l'utilizzo in alcune parti della prima persona in cui si spiega il punto di vista del protagonista principale.

Nessuno mi leverà dalla testa l'idea che sono stato un buon padrone. Chiunque avesse visto Le Tre Marie ai tempi dell'abbandono e le vedesse ora, che è un'azienda modello, dovrebbe essere d'accordo con me. Per questo non posso tollerare che mia nipote venga a parlarmi della lotta di  classe, perché, se stiamo ai fatti, quei poveri contadini stanno molto peggio adesso che non cinquant'anni fa. Ero come un padre per loro. Con la riforma agraria siamo stati fottuti.
Per togliere Le Tre Marie dalla miseria avevo investito tutto il capitale risparmiato per sposarmi con Rosa e tutto quello che mi mandava il capocantiere dalla miniera, ma non è stato il denaro a salvare quella terra, bensì il lavoro e l'organizzazione. Corse la voce che alle Tre Marie c'era un nuovo padrone e che stavamo togliendo le pietre con buoi e arando i campi per seminare. Immediatamente cominciarono ad arrivare uomini a offrirsi come braccianti, perché io li pagavo bene, davo loro pasti abbondanti. Comprai animali. Gli animali erano sacri per me e benché dovessimo passare un anno senza assaggiare carne, non venivano uccisi. Così crebbe l'allevamento. Organizzai gli uomini in squadre e dopo avere lavorato nei campi, ci mettevamo a ricostruire la casa padronale. Non erano falegnami né muratori, ho dovuto insegnar loro io ogni cosa con l'aiuto di qualche manuale che avevo comprato. Con quest'aiuto riuscimmo a fare persino il lavoro da idraulico, aggiustammo i tetti, dipingemmo tutto a calce, ripulimmo fino a rendere la casa splendente dentro e fuori. Distribuii i mobili tra gli operai, tranne il tavolo della sala da pranzo, che era ancora indenne nonostante le tarme avessero infettato tutto, e il letto di ferro forgiato a mano che era stato dei miei genitori. Rimasi a vivere nella casa vuota senz'altri mobili che quelle due cose e alcune casse sulle quali mi sedevo, finché Férula non mi mandò dalla capitale i mobili nuovi che le avevo ordinato. Erano mobili grossi, pesanti, pomposi, adatti a resistere per molte generazioni e consoni alla vita della campagna, prova ne sia che ci volle un terremoto per distruggerli. Li sistemai contro le pareti, pensando alla praticità e non all'estetica, e una volta che la casa fu confortevole, cominciai ad abituarmi all'idea che avrei trascorso molti anni, forse tutta la vita, alle Tre Marie. Le donne dei mezzadri si davano il turno per servire nella casa padronale e si occupavano del mio orto. Presto vidi i primi fiori nel giardino che avevo tracciato con le mie stesse mani e che, con pochissime modifiche, è lo stesso che c'è oggi. A quell'epoca la gente lavorava senza fiatare. Credo che la mia presenza avesse restituito loro la sicurezza e videro che a poco a poco quella terra si trasformava in un luogo rigoglioso. Era gente buona e semplice, non c'erano ribelli. C'è anche da dire che erano molto poveri e ignoranti. Prima che io fossi arrivato si limitavano a coltivare i loro piccoli poderi familiari che producevano l'indispensabile perché non morissero di fame, sempre che non fossero colpiti da qualche catastrofe, come siccità, gelata, grandine, formiche o lumache, allora le cose si mettevano molto male per loro. Con me tutto questo cambiò. Recuperammo i terreni a uno a uno, ricostruimmo il pollaio e le stalle e cominciammo a tracciare un sistema d'irrigazione affinché le semine non dipendessero dal clima, ma piuttosto da qualche meccanismo scientifico. Però la vita non era facile. Era molto dura. Talvolta io andavo in paese e tornavo con un veterinario che controllava le vacche e le galline e, al tempo stesso, dava un'occhiata ai malati. Non è detto che io condividessi il principio che se le conoscenze del veterinario erano sufficienti per gli animali potevano servire anche per i poveri, come dice mia nipote quando vuol farmi imbestialire. Il fatto è che non si trovavano medici in quelle terre sperdute. I contadini consultavano una fattucchiera indigena che conosceva il potere delle erbe e della suggestione, nella quale avevano una grande fiducia. Molto più che nel veterinario. Le partorienti davano alla luce i figli con l'aiuto delle vicine, della preghiera e della levatrice che non arrivava quasi mai in tempo, perché doveva fare il viaggio su un asino, ma che serviva sia per far nascere un bambino sia per tirar fuori da una vacca un vitello podalico. I malati gravi, quelli che né gli incantesimi della fattucchiera né le pozioni del veterinario potevano guarire, venivano portati su un carretto, da Pedro Secondo García o da me, all'ospedale delle monache, dove talvolta c'era qualche medico di turno che li aiutava a morire. I morti andavano a riposare le loro ossa in un piccolo cimitero vicino alla parrocchia abbandonata, ai piedi del vulcano, dove ora c'è un cimitero come Dio comanda. Una o due volte all'anno trovavo un sacerdote che veniva a benedire le unioni, gli animali e le macchine, a battezzare i bambini e a dire qualche preghiera in ritardo per i defunti. Gli unici diversivi erano castrare i maiali e i tori, le lotte dei galli, il gioco del mondo e le incredibili storie di Pedro García, il vecchio, che riposi in pace. Era il padre di Pedro Secondo, e diceva che suo nonno aveva combattuto nelle file dei patrioti che avevano scacciato gli spagnoli dall'America. Insegnava ai bambini a lasciarsi pungere dai ragni e a bere orina di donna gravida per immunizzarsi. Conosceva tante erbe quasi quante la fattucchiera, ma si confondeva al momento di decidere della loro applicazione e commetteva qualche errore irreparabile. Per togliere i molari, tuttavia, riconosco che aveva un sistema insuperabile che gli aveva procurato giusta fama in tutta la zona, era una mistura di vino rosso e di padrenostri, che faceva sprofondare il paziente in un trance ipnotico. A me aveva tolto un molare senza farmi male e, se fosse vivo, sarebbe il mio dentista. Ben presto cominciai a sentirmi a mio agio in campagna. I miei vicini più prossimi stavano a una buona distanza a dorso di cavallo, ma a me non interessava la vita sociale, mi piaceva la solitudine e inoltre avevo molto lavoro per le mani. Stavo trasformandomi in un selvaggio, dimenticavo le parole, mi si era ridotto il vocabolario, ero diventato molto autoritario. Siccome non avevo bisogno di far bella figura davanti a nessuno, mi si era accentuato il cattivo carattere che avevo sempre avuto. Tutto mi irritava, mi arrabbiavo se vedevo i bambini girare nelle cucine per rubare il pane, se le galline schiamazzavano in cortile, se i passeri invadevano i campi di granoturco. Quando il cattivo umore cominciava a darmi fastidio e mi sentivo a disagio nella mia stessa pelle, andavo a caccia. Mi alzavo molto prima dell'alba e partivo con un fucile in spalla, il mio tascapane e il mio bracco. Mi piacevano le cavalcate al buio, il freddo dell'alba, i lunghi appostamenti nell'ombra, il silenzio, l'odore della polvere da sparo e del sangue, sentire l'arma rinculare con un colpo secco contro l'omero e vedere la preda cadere scuotendo le zampe, tutto questo mi tranquillizzava e quando tornavo da una partita di caccia, con quattro miserabili conigli nel tascapane e qualche pernice così sforacchiata che non serviva per essere cucinata, mezzo morto di fatica e pieno di fango, mi sentivo sollevato e felice.Quando penso a quei tempi, mi viene una grande tristezza. La vita mi è passata molto in fretta. Se dovessi ricominciare non farei certi errori, ma in genere non mi pento di niente. Sì, sono stato un buon padrone, su questo non ci sono dubbi.
[...]
Alla morte di sua madre, Férula si era trovata sola e senza niente di utile cui dedicare la sua vita, in un'età in cui non s'illudeva di potersi sposare. Per un certo tempo era andata a visitare i rioni popolari ogni giorno, in una frenetica opera pia che le procurò una bronchite cronica e non portò alcuna pace alla sua anima tormentata. Esteban avrebbe voluto che viaggiasse, che si comprasse abiti e che si divertisse per la prima volta nella sua malinconica esistenza, ma lei aveva l'abitudine dell'austerità ed era stata troppo tempo chiusa nella sua casa. Aveva paura di tutto. Il matrimonio del fratello la immergeva nell'incertezza, perché pensava che sarebbe stato un motivo in più di allontanamento per Esteban, che era il suo unico appoggio. Temeva di finire i suoi giorni lavorando all'uncinetto in un ricovero per zitelle di buona famiglia, perciò si sentì molto felice quando scoprì che Clara era incompetente in tutte le cose di carattere domestico e ogni volta che doveva affrontare una decisione assumeva un'aria distratta e vaga. "È un po' idiota", aveva concluso Férula soddisfatta. Era evidente che Clara era incapace di amministrare la grande casa che suo fratello  stava costruendo e che aveva bisogno d'aiuto. In modo sottile e indiretto fece sapere a Esteban che la sua futura moglie era un'inetta, e che lei, col suo spirito di sacrificio così ampiamente dimostrato, avrebbe potuto aiutarla ed era disposta a farlo. Esteban non seguiva la conversazione quando prendeva questa piega. A mano a mano che si avvicinava la data del matrimonio e si presentava l'urgenza di decidere la sua sorte, Férula cominciò a disperarsi. Convinta che con suo fratello non avrebbe ottenuto nulla, cercò l'occasione di parlare da sola con Clara e la avvicinò un sabato alle cinque del pomeriggio quando la vide passeggiare per strada. L'invitò all'Hotel Francese a prendere il tè. Le due donne si sedettero circondate da pasticcini alla crema e porcellane di Baviera, mentre in fondo al salone un'orchestra di signorine interpretava un malinconico quartetto d'archi. Férula osservava con dissimulazione la sua futura cognata, che sembrava avere quindici anni e che aveva ancora la voce stridula, per via degli anni di silenzio, senza sapere come affrontare l'argomento. Dopo una lunghissima pausa durante la quale mangiarono un vassoio di paste e bevvero due tazze di tè al gelsomino a testa, Clara si sistemò una ciocca di capelli che le cadeva sugli occhi, sorrise e diede un colpetto affettuoso con la sua mano su quella di Férula.
"Non preoccuparti. Vivrai con noi e noi due saremo come due sorelle" disse la ragazza. Férula ebbe un sussulto, chiedendosi se non fossero veri i pettegolezzi sull'abilità di Clara di leggere nel pensiero degli altri. La sua prima reazione fu di orgoglio e avrebbe rifiutato l'offerta non foss'altro che per la bellezza del gesto, ma Clara non gliene diede il tempo. Si chinò e la baciò sulle guance con un candore tale, che Férula perse il controllo e scoppiò in singhiozzi. Era molto tempo che non piangeva più e constatò stupita il bisogno che aveva di un gesto di tenerezza. Non ricordava l'ultima volta che qualcuno l'aveva toccata spontaneamente. Pianse a lungo, sfogando molte tristezze e solitudini passate, tenendo per mano Clara, che l'aiutava a soffiarsi il naso e tra un singhiozzo e l'altro le dava altri pezzi di dolce e sorsi di tè. Rimasero a piangere e a parlare fino alle otto e quella sera, all'Hotel Francese, sigillarono un patto di amicizia che durò molti anni.  

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Lettura di Sciascia in biblioteca

5 Marzo ore 20,30, Biblioteca Castiglione delle Stiviere

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