La ragazza che giocava con il fuoco - Stieg Larsson

>> martedì 26 aprile 2011


Secondo episodio della trilogia di romanzi dello scrittore svedese morto prematuramente. Interessante la critica strisciante ad una Svezia decadente, oscura, piena di contraddizioni e di violenza che si cela sotto un'apparenza levigata e perfetta. Qui la coppia di estemporanei investigatori Lisbeth-Mikael deve risolvere un caso che vede la stessa protagonista femminile dalla parte degli indagati.  Non ha la stessa forza del precedente "Uomini che odiano le donne"che ha il merito di introdurre due personaggi indimenticabili e di costruire una trama investigativa che non perde colpi. Inoltre vi sono una serie di situazioni e personaggi poco credibili, per quanto possa essere una storia di finzione: la stessa sequenza di eventi attorno all'omicidio al centro della vicenda ha notevoli forzature nei tempi e nei modi per non parlare di chi colpito da tre pallottole, di cui una alla testa, e sepolto vivo, riesce subito a risorgere e avere ragione dei cattivi. Fortunatamente la qualità della scrittura e il ritmo fa passare inosservate le sbavature e le oltre settecento pagine del volume. Riporto due parti che mi sono piaciute particolarmente. Una è il benservito che il consiglio di amministrazione dà al suo socio Harriet:  il finale a sorpresa è una situazione lavorativa in cui presumo tutti vorrebbero trovarsi. E l'altra è l'incontro di boxe tra il gigante biondo e Paolo Roberto: è avvincente come quello raccontato da James Ellroy in Dalia Nera, e dimostra come con due approcci totalmente diversi (più tecnico quello di Ellroy) si può essere ugualmente efficaci nel far sentire il lettore accanto ai due contendenti.

Immediatamente dopo la conclusione dell'assemblea annuale, Erika Berger convocò una riunione extra dei soci. Questo comportò che lei, Mikael, Christer e Harriet si fermarono, mentre gli altri lasciarono la sala riunioni. Non appena la porta si richiuse dietro le loro spalle, Erika dichiarò aperta la riunione.
«Abbiamo un unico punto all'ordine del giorno. Harriet, in base all'accordo che abbiamo stipulato con Henrik Vanger, la quota sarebbe stata vostra per due anni. Ora siamo giunti alla scadenza del contratto. Dobbiamo dunque decidere cosa ne sarà di questa quota.» Harriet annuì. «Sappiamo tutti che la decisione di Henrik fu dettata da un impulso nato da una situazione molto speciale» disse Harriet. «Quella situazione non esiste più. Cosa proponete voi?». Christer Malm era infastidito. Era l'unico nella stanza a non sapere in cosa consistesse quella situazione speciale. Sapeva che Mikael ed Erika gli nascondevano qualcosa, ma Erika gli aveva spiegato che si trattava di una faccenda molto personale che riguardava Mikael e che lui non voleva per nessun motivo discutere. Christer non era tanto stupido da non avere capito che il silenzio di Mikael aveva qualcosa a che fare con Hedestad e Harriet Vanger. Si rendeva comunque conto che non gli occorreva sapere per prendere una decisione in linea di principio, e aveva abbastanza rispetto per Mikael da non dare troppa importanza alla cosa. «Noi tre abbiamo discusso la faccenda e siamo giunti a una decisione comune» disse Erika. «Ma prima di dire come la pensiamo vogliamo sapere come la pensi tu.»
Harriet guardò a uno a uno Erika, Mikael e Christer. Il suo sguardo si soffermò un momento su Mikael, ma non riuscì a leggere nulla sui loro volti. «Se volete liquidare la mia parte, vi costerà circa tre milioni di corone più gli interessi, il che corrisponde a quanto la famiglia Vanger ha investito in Millennium. Potete permettervelo?» domandò in tono pacato. «Sì, possiamo» disse Mikael, e sorrise. Aveva ricevuto cinque milioni di corone da Henrik Vanger per il lavoro che aveva svolto. Di questo lavoro faceva parte, ironia della sorte, anche il ritrovamento della scomparsa Harriet Vanger. «In tal caso la decisione è nelle vostre mani» disse Harriet. «Il contratto dice che potete liberarvi della quota Vanger a partire da oggi. Anche se personalmente io non lo avrei stipulato così, come invece ha fatto Henrik.» «Siamo in grado di liquidarti, se necessario» disse Erika. «La questione è dunque cosa vuoi fare tu. Sei alla guida di un gruppo industriale, anzi di due. L'intero nostro budget annuo corrisponde a quanto voi realizzate nel tempo in cui bevete un caffè. Che interesse hai a sprecare il tuo tempo in qualcosa di tanto marginale come Millennium? Teniamo un consiglio d'amministrazione una volta al trimestre e tu hai partecipato puntualmente a ogni riunione fin da quando sei entrata in sostituzione di Henrik.» Harriet Vanger fissò il suo presidente con sguardo benigno. Rimase in silenzio un lungo momento. Poi guardò Mikael e rispose. «Sono stata proprietaria di qualcosa dal giorno in cui sono nata. E passo le mie giornate a guidare un gruppo in cui ci sono più intrighi che in un romanzo d'amore di quattrocento pagine. La prima volta che entrai a far parte di un consiglio d'amministrazione fu per adempiere a doveri cui non mi potevo sottrarre. Ma sapete una cosa? Ho scoperto che mi trovo meglio in questo che in tutti gli altri messi insieme.» Mikael annuì meditabondo. Harriet spostò lo sguardo su Christer.
«Qui i problemi sono pochi e comprensibili. La società naturalmente vuole ottenere profitti e guadagnare denaro, questo è un presupposto. Ma voi date all'attività tutt'altro scopo, voi volete realizzare qualcosa.»
Bevve un sorso dal bicchiere di acqua minerale e puntò lo sguardo su Erika.
«Cosa sia esattamente questo qualcosa non è molto chiaro. Voi non siete un partito politico o una società d'affari. Non avete la necessità di essere leali verso nessuno tranne che voi stessi. Ma mettete in luce le deficienze della società e attaccate volentieri personaggi pubblici che non vi piacciono. Spesso tentate di cambiare qualcosa. Anche se voi tutti fingete di essere cinici e nichilisti, è solo la vostra morale a indirizzare il giornale e io ho sperimentato in svariate occasioni che si tratta di una morale piuttosto speciale. Non so come lo si possa esprimere, ma Millennium ha un'anima. Questo è l'unico consiglio d'amministrazione del quale in effetti sono fiera di far parte.» Harriet aveva finito, e rimase in silenzio così a lungo che Erika scoppiò in una risata. «Bene. Però non hai ancora risposto alla mia domanda.» «Con voi mi trovo bene e far parte di questo consiglio d'amministrazione mi ha giovato moltissimo. È una delle cose più matte che mi sia capitato di fare. Se voi volete che rimanga, ebbene rimango volentieri.» «Okay» disse Christer. «Abbiamo discusso in lungo e in largo e siamo tutti d'accordo. Risolviamo il contratto e ti liquidiamo.» Gli occhi di Harriet si dilatarono leggermente. «Volete liberarvi di me?»
«Quando abbiamo sottoscritto il contratto eravamo con il collo sul ceppo del boia, in attesa che calasse la mannaia. Non avevamo scelta. Ma abbiamo cominciato già allora a contare i giorni che ci separavano dal momento in cui avremmo potuto liquidare Henrik Vanger.» Erika aprì una cartelletta e mise sul tavolo delle carte che spinse verso Harriet insieme a un assegno dell'importo esatto da lei menzionato. Harriet diede una scorsa al contratto. Senza una parola prese una penna dal tavolo e firmò. «Bene» disse Erika. «È stato indolore. Desidero ringraziare Henrik Vanger per ciò che è stato e per tutto quello che ha fatto per Millennium. Spero che tu glielo dica da parte nostra.» «Lo farò» rispose Harriet in tono neutro. Non dava minimamente mostra di ciò che provava, ma si sentiva ferita e profondamente delusa perché le avevano lasciato dire che desiderava continuare a far parte del consiglio d'amministrazione per poi sbatterla fuori come se niente fosse. Non era proprio necessario. «E al tempo stesso vorrei cercare di interessarti a un contratto del tutto diverso» disse Erika. Tirò fuori una nuova serie di carte che passò a Harriet attraverso il tavolo.
«Ci chiediamo se non avresti voglia di diventare socio di Millennium. La cifra è la stessa che hai appena ricevuto. La differenza nel contratto è che non ci sono limiti temporali o clausole di esclusione. Tu entreresti come socio effettivo, con la nostra stessa responsabilità e i nostri stessi doveri.» Harriet inarcò le sopracciglia.
«Perché questo procedimento complicato?» «Perché prima o poi andava fatto» disse Christer. «Avremmo potuto rin-novare il vecchio contratto di anno in anno fino al primo grosso scontro nel consiglio d'amministrazione in occasione del quale ti avremmo buttata fuori. Ma era comunque un contratto che andava risolto.» Harriet si appoggiò sui gomiti e lo scrutò con occhio indagatore. Spostò lo sguardo su Mikael e quindi su Erika. «Il punto è che stipulammo il contratto con Henrik per motivi economici» disse Erika. «Con te invece lo faremmo perché lo vogliamo. E a differenza di prima non sarebbe più tanto facile darti il benservito in futuro.» «Per noi fa un'enorme differenza» disse Mikael a bassa voce. Fu il suo unico contributo alla discussione. «Succede semplicemente che pensiamo che tu significhi qualcosa per Millennium oltre alle garanzie economiche che il nome Vanger comporta» disse Erika. «Sei saggia e intelligente e proponi sempre soluzioni costruttive. Finora hai mantenuto un basso profilo, più o meno come un ospite in visita. Ma tu dai a questo consiglio d'amministrazione una stabilità e una direzione che non abbiamo mai avuto prima. Tu gli affari li conosci. Una volta hai chiesto se potevi fidarti di me e io mi sono chiesta grossomodo la stessa cosa di te. A questo punto, tutte e due conosciamo la risposta. Mi piaci e ho fiducia in te, e questo vale per noi tutti. Non vogliamo averti sulla base di una condizione eccezionale e di una costruzione assurda. Ti vogliamo come socia a pieno titolo.» Harriet tirò verso di sé il contratto e lo lesse attentamente riga per riga per cinque minuti. Alla fine alzò gli occhi. «E su questo siete tutti e tre d'accordo?» domandò. Tre teste annuirono. Harriet prese la penna e firmò. Rispedì l'assegno al mittente attraverso il tavolo. Mikael lo stracciò.
[...]
«Dov'è Lisbeth Salander?» «Non lo so» mormorò Miriam.
«Risposta sbagliata. Ti darò ancora una possibilità prima di mettere in funzione questa.» Si sedette sui talloni e diede una pacca alla sega. «Dove si nasconde Lisbeth Salander?» Miriam Wu scosse la testa.
Paolo Roberto esitava. Ma quando il gigante biondo allungò la mano per prendere la sega entrò a passi decisi nel locale e gli sferrò un destro potente contro i reni. Paolo Roberto non era diventato un pugile di fama mondiale comportandosi da vigliacco sul ring. Nella sua carriera da professionista aveva disputato trentatré match vincendone ventotto. Quando colpiva si aspettava una reazione. Ad esempio che l'oggetto delle sue attenzioni si accasciasse e avesse male da qualche parte. Paolo Roberto ebbe la sensazione di avere sbattuto il pugno a tutta forza contro un muro di cemento. Non aveva mai provato niente di simile in tutti gli anni in cui aveva tirato di boxe. Guardò esterrefatto il colosso che aveva davanti. Il gigante biondo si voltò e guardò il pugile con altrettanto stupore. «Che ne diresti di prendertela con qualcuno della tua categoria?» disse Paolo Roberto. Gli tirò una serie di destro-sinistro-destro contro il diaframma gonfiando i muscoli. Erano colpi pesanti. Ma gli pareva di martellare contro un muro. L'unico effetto fu che il gigante arretrò di mezzo passo, più per lo stupore che per effetto dei pugni. Tutto d'un tratto sorrise. «Ma tu sei Paolo Roberto» disse.
Paolo Roberto si fermò sconcertato. Aveva appena messo a segno quattro colpi che da manuale avrebbero dovuto stendere il gigante biondo permettendo a lui di tornare nel suo angolo e all'arbitro di cominciare il conto alla rovescia. Invece non uno dei suoi pugni pareva avere sortito il benché minimo effetto. Santo Iddio. Questa cosa non è normale. Poi, quasi al rallentatore, vide il gancio destro del biondino arrivare attraverso l'aria. Il gigante era lento e segnalava il colpo in anticipo. Paolo Roberto si scansò e parò parzialmente con la spalla sinistra. Ebbe la sensazione di essere stato colpito da un tubo di ferro. Fece due passi indietro, pieno di rispetto per il suo avversario. C'è qualcosa che non va. Nessuno può colpire così duro. Parò automaticamente un gancio sinistro con l'avambraccio e avvertì subito un intenso dolore. Non fece in tempo a parare il gancio destro che arrivò dal nulla e gli si abbatté sulla fronte. Paolo Roberto volò come un guanto all'indietro attraverso la porta. Atterrò con un gran baccano contro una pila di sgabelli di legno e scosse la testa. Sentì subito il sangue che gli colava sul viso. Mi ha spaccato il sopracciglio. Bisognerà ricucirlo. Di nuovo. Il gigante rientrò nel suo campo visivo e Paolo Roberto istintivamente rotolò di lato. Per un pelo riuscì a evitare i suoi enormi pugni. Arretrò rapidamente di tre quattro passi e alzò le braccia in posizione di difesa. Era scosso. Il gigante biondo lo guardò con espressione incuriosita e quasi divertita. Poi assunse la stessa posizione di difesa. Questo è un pugile. Cominciarono lentamente a girare in cerchio. I centottanta secondi che seguirono furono il match più bizzarro che Paolo Roberto avesse mai disputato. Mancavano corde e guantoni. Secondi e arbitro non esistevano. Non c'era nessun gong a mandare le parti ognuna nel proprio angolo del ring per qualche secondo di pausa con acqua e sali e un asciugamano con cui togliere il sangue dagli occhi. Paolo Roberto si rese conto d'improvviso che stava lottando per la vita. Tutti quegli anni di allenamento, di pugni contro il sacco di sabbia, di sparring e l'esperienza accumulata nei match si radunarono nell'energia che riuscì a sviluppare quando l'adrenalina cominciò a pompare con un'intensità che non aveva mai sperimentato prima. Adesso non misurava più i colpi. Volavano in un'alternanza nella quale Paolo Roberto metteva tutta la sua forza. Sinistro, destro, sinistro, sinistro di nuovo e un martellare con il destro contro la faccia, schivare il gancio sinistro, arretrare di un passo, attaccare con il destro. Ogni colpo che sferrava andava a segno. Stava combattendo l'incontro più importante della sua vita. Lottava con il cervello e con i pugni, e riusciva a schivare o parare ogni colpo che il gigante gli indirizzava contro. Mise a segno un gancio destro perfetto contro una mascella che gli diede l'impressione di essersi rotto un osso della mano. Avrebbe dovuto far afflosciare a terra l'avversario in un mucchio. Diede un'occhiata alle sue nocche e vide che erano insanguinate. Notò arrossamenti e gonfiori sul viso del gigante biondo, che però non sembrava nemmeno accorgersi dei suoi pugni. Paolo Roberto arretrò e fece una pausa di valutazione. Non è un pugile. Si muove come un pugile, ma non è capace di tirare di boxe. Finge soltanto. Non sa parare. Segnala i colpi. Ed è lento come una lumaca. Un attimo dopo il gigante mandò a segno un gancio sinistro contro il suo torace. Era la seconda volta che colpiva davvero. Paolo Roberto sentì il dolore invadergli il corpo quando le costole scricchiolarono. Cercò di arretrare ma inciampò e cadde sulla schiena. Per un secondo vide il gigante torreggiare sopra di lui ma riuscì a rotolare di lato e si rimise in piedi barcollando. Indietreggiò e cercò di radunare le forze. Il gigante gli era nuovamente addosso e lui si trovava sulla difensiva. Schivò, schivò di nuovo e si scansò. Avvertiva una fitta ogni volta che parava un colpo con la spalla. Poi arrivò l'attimo che ogni pugile almeno una volta ha sperimentato con terrore. La sensazione che può comparire dal nulla nel bel mezzo di un incontro. La sensazione di non farcela. Dannazione, sto per perdere. È l'attimo decisivo di quasi tutti gli incontri di boxe. È l'attimo in cui le forze improvvisamente ti abbandonano e l'adrenalina pompa così intensamente da diventare paralizzante, e una capitolazione rassegnata fa capolino come uno spettro sul ring.
È l'attimo che distingue dilettanti da professionisti e vincitori da perdenti. Pochi pugili sull'orlo di quel baratro hanno la forza di capovolgere il match e trasformare una sconfitta annunciata in una vittoria.
Paolo Roberto fu colpito da quella sensazione. Sentiva un ronzio in testa che lo stordiva e per un momento gli parve di osservare la scena da fuori, come se stesse guardando il gigante biondo attraverso l'obiettivo di una macchina fotografica. Si trattava di vincere o sparire. Arretrò descrivendo un ampio semicerchio per recuperare le forze e guadagnare tempo. Il gigante lo seguiva determinato ma lento, come se sapesse che il match era già deciso ma volesse prolungare il round. Sa chi sono. È un dilettante. Ma ha una forza quasi inconcepibile e sembra del tutto indifferente a qualsiasi colpo. I pensieri vorticavano tumultuosi nella sua testa mentre cercava di valutare la situazione e decidere cosa fare. Stava rivivendo quella notte di due anni prima a Mariehamn. La sua carriera di pugile professionista era finita nella maniera più brutale quando aveva incontrato l'argentino Sebastián Luján o, per essere più esatti, quando aveva incontrato il diretto di Sebastián Luján. Aveva sperimentato il primo knockout della sua vita ed era rimasto privo di sensi per quindici secondi.
Aveva spesso pensato a cosa mai fosse andato storto. Era in ottima forma. Era concentrato. Sebastián Luján non era meglio di lui. Ma l'argentino aveva mandato a segno un colpo perfetto e tutto d'un tratto il round si era trasformato in una tempesta oceanica. Più tardi aveva rivisto in video se stesso barcollare indifeso sul ring come una specie di Paperino. Il knockout era arrivato ventitré secondi dopo. Sebastián Luján non era più bravo o più in forma di lui. I margini erano così ristretti che il match avrebbe potuto concludersi anche nella maniera opposta. L'unica differenza che in seguito era riuscito a individuare era che Luján era più affamato di lui. Quando Paolo Roberto era salito sul ring a Mariehamn era pronto a vincere ma non aveva una vera voglia di battersi. Non era più questione di vita o di morte. Una sconfitta non sarebbe stata una catastrofe. Due anni più tardi era ancora un boxeur. Non era più un professionista e disputava solo incontri amichevoli. Ma continuava ad allenarsi, e non aveva messo su né peso né pancia. Naturalmente non era più uno strumento così bene accordato come lo era stato in vista dei match per il titolo mondiale, ma era Paolo Roberto e ancora non perdeva colpi. E a differenza di quello di Mariehamn, il match nel deposito a sud di Nykvarn significava letteralmente o vita o morte.
Paolo Roberto prese una decisione. Si fermò di botto e lasciò avvicinare il gigante. Fece una finta col sinistro e puntò tutto su un gancio destro. Ci mise tutta la forza di cui disponeva e fece partire un tiro fulmineo che colpì l'avversario sulla bocca e sul naso. Il suo attacco arrivò del tutto inatteso. Finalmente sentì che qualcosa stava cedendo. Continuò con un sinistro-destro-sinistro, sempre puntando al viso. Il gigante biondo rispose al rallentatore con un destro. Paolo Roberto lo vide segnalare il tiro con molto anticipo e schivò il pugno enorme. Vide l'altro spostare il peso e capì che aveva intenzione di dare seguito con il sinistro. Invece di parare, si piegò all'indietro e lasciò che il gancio gli passasse davanti al naso. Rispose con un colpo potente subito sotto le costole. Quando il gigante si girò per fronteggiare l'attacco, lui lasciò partire verso l'alto un gancio sinistro e lo colpì di nuovo sul naso. Finalmente sentiva che quello che stava facendo era giusto e che aveva lui il controllo del match. Il nemico arretrava. Sanguinava dal naso. E non sorrideva più. Poi il gigante biondo tirò un calcio. Il suo piede scattò cogliendo totalmente di sorpresa Paolo Roberto. Era abituato alle regole della boxe e non si aspettava un calcio. Gli sembrò di essere stato colpito nella parte bassa della coscia destra, subito sopra il ginocchio. Un dolore acuto gli si diffuse per tutta la gamba. No. Fece un passo indietro, e di nuovo inciampò. Il gigante abbassò lo sguardo su di lui. Per un breve attimo i loro sguardi si incrociarono. Il messaggio non poteva essere frainteso. Il match era finito. Gli occhi del gigante si dilatarono quando Miriam Wu lo colpì da dietro con un calcio in mezzo alle gambe. Ogni singolo muscolo nel corpo di Miriam urlava di dolore, ma in qualche modo era riuscita a far passare le mani ammanettate sotto il sedere così da portarle davanti. Nelle sue condizioni era stata una prestazione acrobatica. Le dolevano le costole, il collo, la schiena e i lombi e aveva difficoltà a mettersi in piedi. Alla fine aveva raggiunto barcollando la porta e aveva vi-sto Paolo Roberto - da dove diavolo era spuntato? - colpire il gigante biondo con un gancio destro e una serie di pugni al viso prima di essere abbattuto da un calcio. Miriam si rese conto che non le importava un fico secco di sapere come e perché Paolo Roberto fosse arrivato lì. Lui era un good guy. Per la prima volta in vita sua provava un desiderio assassino di fare del male a un'altra persona. Fece qualche rapido passo in avanti e mobilitò ogni grammo di energia e tutti i muscoli validi che aveva. Arrivò vicino al gigante da dietro e gli stampò il calcio in mezzo alle gambe. Non era una mossa elegante, ma ebbe l'effetto desiderato.
Mimmi annuì saggiamente fra sé. Gli uomini possono anche essere grandi e grossi come case e fatti di granito ma hanno sempre le palle allo stesso posto. E il calcio era stato così perfetto che avrebbe meritato una citazione nel Guinness dei primati. Per la prima volta il gigante biondo sembrò scosso. Emise un gemito e si afferrò il basso ventre scivolando in ginocchio. Miriam rimase lì indecisa per qualche secondo prima di rendersi conto del fatto che doveva dare un seguito a quell'azione e cercare di andare a una conclusione. Stava per tirargli un calcio in faccia, ma con sua sorpresa lui alzò un braccio. Avrebbe dovuto essergli impossibile riprendersi così in fretta. Ma l'impressione fu quella di colpire il tronco di un albero. Lui le prese il piede, la fece cadere e cominciò a tirare. Lei lo vide alzare un pugno e scalciò disperatamente con la gamba libera. Lo colpì sopra l'orecchio nell'attimo stesso in cui il pugno di lui si abbatteva sulla sua tempia. Miriam Wu ebbe l'impressione di avere picchiato a tutta forza la testa contro un muro. La vista le si oscurò mentre al tempo stesso vedeva dei lampi. Il gigante biondo cominciò a rimettersi in piedi. Fu allora che Paolo Roberto lo colpì sulla nuca con l'asse nella quale era inciampato. Il gigante biondo cadde in avanti atterrando con un tonfo.

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Lettura di Sciascia in biblioteca

5 Marzo ore 20,30, Biblioteca Castiglione delle Stiviere

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