Dalia Nera - James Ellroy

>> domenica 15 agosto 2010

Ottimo romanzo con una trama piena di colpi di scena e costruito su peronaggi multisfaccettati ricchi di contraddizioni. Difficile da etichettare: poliziesco, giallo, thriller, autobiografico, orrore,... il mix di temi è inaspettato e sicuramente non lascia indifferenti. 
Non mi convince sulle motivazioni che rende la Dalia Nera un ossessione per il protagonista (e per il suo socio), tuttavia ciò non scalfisce le qualità dell'opera. Di grande valore le parti che descrivono l'incontro di boxe tra i due poliziotti e la visita di Bleichert alla famiglia Sprague.

La folla andò in visibilio schiamazzando e battendo i piedi sul pavimento. Lennon restò zitto finché il clamore non si quietò in un mormorio e poi dichiarò: «Stasera avranno luogo dieci round per la categoria pesi massimi. Nell'angolo bianco, in calzoncini bianchi, agente della polizia di Los Angeles con un record da professionista di quarantatré vittorie, quattro sconfitte e due pareggi. Peso  novantadue chili e trecento grammi. Signore e signori il grande Lee Blanchard. Blanchard si sfilò l'accappatoio e baciando i guantoni rivolse inchini in tutte le direzioni. Lennon lasciò che gli spettatori si sfogassero, poi sovrastò i clamori con la voce amplificata. «Nell'angolo nero, peso ottantotto chili, poliziotto di Los Angeles, mai sconfitto. Trentasei vittorie da professionista, ecco a voi l'astuto Bucky Bleichert.» Andai a raccogliere i miei evviva cercando di stamparmi nella memoria le facce assiepate attorno al ring. Mi comportai come se non avessi deciso di fare il tuffo. Puntai verso il centro del ring mentre i clamori della palestra si smorzavano. Blanchard si mosse a sua volta e l'arbitro biascicò qualche parola che non riuscii a intendere. Fuoco e io sfiorammo i guantoni. Ritornai al mio angolo con la fifa addosso. Fisk mi infilò in bocca il proteggidenti. La campana suonò e niente altro ebbe più importanza. Si andava a incominciare. Blanchard mi si avventò contro. Lo attesi al centro del ring e accennai a due diretti di sinistro mentre lui si chiudeva e muoveva la testa. Fallito il bersaglio con i diretti, mi spostai sulla sinistra senza accennare un tentativo di risposta, nella speranza di trovare uno spiraglio per il destro. Il suo primo colpo fu un gancio avvitato al corpo. Vedendolo arrivare, arretrai, allungandogli nello stesso tempo un sinistro corto alla testa. Schivai il gancio di Blanchard, un colpo davvero potente. La sua destra era ancora abbassata quando infilai un montante corto. Arrivò a segno e mentre Blanchard si copriva gli assestai un unodue ai fianchi. Mi ritrassi per evitare a mia volta qualche colpo al corpo, ma fui scosso da un sinistro sul collo. Mi ripresi subito e ricominciai a saltellare in circolo sulla punta dei piedi. Blanchard mi stava addosso, ma io cercavo di stare al di fuori della sua portata, tenendo sotto tiro la testa con diretti di sinistro. Stavo attento a non colpire troppo forte per non aprire la ferita sul sopracciglio. Blanchard si acquattava e poi usciva con dei ganci al corpo. Io indietreggiavo e contrattaccavo con qualche colpo. Mi bastò un minuto per sincronizzare i miei diretti di sinistro con le sue finte e quando copriva la testa lo colpivo con ganci veloci ai fianchi. Ballonzolavo in circolo, ribattendo i suoi attacchi, mentre Blanchard si faceva sotto cercando un'occasione per piazzare il colpo grosso. In chiusura della ripresa i bagliori delle luci e la cortina di fumo mi offuscarono la vista impedendomi di distinguere le corde. Mi concessi un solo attimo di disattenzione per sbirciare l'angolo alle mie spalle, ma mi bastò per ricevere un cazzotto in faccia. Indietreggiai barcollando verso l'angolo bianco mentre Blanchard mi inseguiva. La testa mi scoppiava e le orecchie ronzavano come se vi fossero precipitati bombardieri giapponesi in picchiata. Annaspai con le braccia per proteggere il viso. Blanchard cercò di farmele calare con una gragnuola di ganci di destro e sinistro, e io allora, con un barlume di lucidità, mi spinsi in avanti e placcai Fuoco con una presa da orso. Lo scorrere dei secondi mi restituì un po' di energie che utilizzai spingendolo verso il centro del ring. L'arbitro intervenne intimando il "Break!", ma non me ne diedi per inteso. Rimasi aggrappato a Lee finché l'arbitro non venne a separarci. Indietreggiai mentre il ronzio nelle orecchie svaniva. Blanchard si fece sotto appoggiando i piedi di piatto e a guardia scoperta. Fintai di sinistro e il grosso Lee sollevò macchinalmente il destro, ma finì pesantemente sul culo. Non so chi fosse il più scioccato dei due. Blanchard restò seduto a bocca aperta in attesa del conteggio dell'arbitro; io mi spostai in un angolo neutrale. Blanchard si rimise in piedi al sette. Adesso toccava a me di andare all'assalto. Fuoco mi aspettò a pie fermo, gambe divaricate, pronto a vendere cara la pelle, ma l'arbitro si intromise gridando: «Campana, campana». Tornai al mio angolo. Duane Fisk mi tolse la dentiera e mi rinfrescò con un asciugamano bagnato. Lanciai uno sguardo agli spettatori che acclamavano in piedi. Quelle facce mi dicevano ciò che già sapevo. Avrei potuto stendere Blanchard quando volevo. Fisk, che mi stava addosso, mi infilò la protezione. «Evita il corpo a corpo. Tieni le distanze, lavora di sinistro.» Suonò la campana. Fisk uscì dal ring; Blanchard aveva assunto una posizione eretta e mi teneva a distanza lavorando di sinistro, muovendosi in avanti un passo alla volta, cercando di prendere le misure per un colpo grosso di destro. Io mi muovevo in punta di piedi e gli lanciavo dei diretti di sinistro piuttosto inefficaci perché caricati troppo da lontano. Cercavo di darmi un ritmo che portasse Blanchard a scoprirsi.La maggior parte dei miei colpi andava a segno, ma BlanchardBlanchard aveva cura di proteggere il mento dai miei sinistri. Raccolti in difesa, ci colpivamo sulle braccia e le spalle. Blanchard era più potente di me, ma io non mi sottraevo ai colpi, proponendomi di assestarglieneBlanchard fece un passetto all'indietro e mi calò un sinistro sul ventre, un colpo pesante che mi fece indietreggiare. Sentendo le corde rialzai la guardia, ma prima di riuscire a sgusciare di lato fui colpito ai reni da un destro-sinistro. Abbassai la guardia e il gancio sinistro di Blanchard si abbattè sul mio mento. Rimbalzai contro le corde e finii al tappeto sulle ginocchia. La mascella e il cervello erano investiti da ondate di dolore. Vidi, comunque, che l'arbitro tratteneva Blanchard e lo spediva in un angolo neutrale. Mi rialzai su un ginocchio aggrappandomi a una delle corde inferiori, ma persi l'equilibrio e caddi in avanti. Blanchard aveva raggiunto l'angolo neutrale e si protendeva in avanti per vedere meglio ciò che mi stava succedendo. Respirai a fondo e la boccata d'aria fresca mi schiarì il cervello. L'arbitro riprese a contare. Al sei mi feci forza. Un po' malfermo sulle ginocchia, riuscii comunque a rimettermi in piedi. Blanchard stava lanciando baci ai suoi tifosi mentre io respiravo con tanta foga da rischiare di sputare fuori la dentiera. All'otto l'arbitro asciugò i miei guantoni sulla sua camicia e diede a Blanchard il segnale di riprendere il combattimento. Blanchard si fece sotto a corpo scoperto, i guantoni aperti, come se non valessi la pena di una botta. Travolto dalla collera, umiliato come un bambino, andai verso di lui a testa bassa. Non appena fui a portata di tiro gli lanciai un diretto sgonfio che Blanchard riuscì a schivare facilmente. Stava caricando il destro per finirmi, ma fui più lesto io a schiacciargli il mio destro sul naso. La testa gli rimbalzò all'indietro e io raddoppiai con un gancio sinistro al corpo. Questo gli fece abbassare la guardia e io infilai un gancio corto. La campana prese a suonare mentre lui si aggrappava alle corde. La folla urlava ritmando: «Buck-kie! Buck-kie! Buck-kie!» Dal mio angolo risposi al saluto. Sputai la dentiera e boccheggiando inalai più aria che potevo; guardai i tifosi. Le scommesse erano ribaltate, avrei potuto fare polpette di Blanchard, beccarmi il posto alla Squadra Mandati, mettere le mani sui dollari della vincita e mandare il vecchio all'ospizio con quei soldi. Duane Fisk urlò: «Fallo fuori! Fallo fuori!» Gli alti papaveri delle prime file mi sorridevano e io, dimentico dei denti sporgenti, li gratificai del mio miglior sorriso. Fisk mi ficcò in bocca una bottiglia d'acqua. Risciacquata la bocca, sputai nel secchio. Il mio secondo mi passò quindi sotto il naso un bastoncino di ammoniaca. Mi aveva appena infilata la dentiera quando suonò la campana. Adesso si trattava solo di muoversi d'astuzia, la mia specialità. Nei quattro round successivi mi limitai a danzare, fintare e lanciare diretti da lontano, utilizzando il vantaggio della lunghezza delle mie braccia, senza lasciarmi allacciare da Blanchard e farmi chiudere alle corde. Mi concentrai su un solo obiettivo, la cicatrice sull'occhio, e lì sopra battevo e ribattevo con i guantoni. Quando il mio diretto arrivava a segno, Blanchard sollevava la guardia e io piazzavo un gancio di destro sul bacino scoperto. La metà delle volte Blanchard mi centrava al corpo e ogni colpo che arrivava a segno mi toglieva un po' di agilità nelle gambe e di fiato. Verso la fine del sesto round cominciò a scendergli un rivolo di sangue dalle sopracciglia. A me dolevano i fianchi per tutta la loro lunghezza. Ansimavamo tutti e due. Il settimo round ebbe il carattere di una guerra di trincea combattuta da guerrieri esausti. Mi sforzai di tenere le distanze e lavorare con il diretto sinistro; Blanchard teneva alti i guantoni per ripulirsi gli occhi dal sangue e proteggere le ferite da altri colpi. Tutte le volte che mi facevo sotto mirando ai guantoni e allo stomaco, lui mi colpiva al plesso solare. L'incontro si stava trasformando di nuovo in una guerra di posizione. In attesa dell'ottavo round notai che alcune gocce di sangue imbrattavano i miei calzoncini. Gli urli "Buck-kie! Buck-kie!" mi trafiggevano le orecchie. Dal lato opposto del ring il secondo stava ripulendo le sopracciglia di Blanchard con una penna emostatica e applicava delle strisce sottili di adesivo sui brandelli di pelle. Mi abbandonai sullo sgabello e lasciai che Duane Fisk mi versasse l'acqua in bocca e mi massaggiasse le spalle. Tenni lo sguardo fisso su Fuoco per tutti i sessanta secondi. Per caricarmi e fare una scorta di odio per i prossimi nove minuti mi convinsi che somigliava al mio vecchio. Suonò la campana. Mi mossi verso il centro del ring sulle mie gambe legnose. Blanchard, raccolto in difesa, mi venne addosso. Anche le sue gambe tremavano. Le lacerazioni si erano richiuse. Allungai un debole diritto di sinistro. Blanchard lo incassò ma continuò ad avanzare. Le mie gambe si rifiutavano di indietreggiare. Mentre il mio guanto gli riapriva la ferita e la faccia di Blanchard si copriva di sangue, ebbi lo stomaco devastato da un colpaccio. Sentii le ginocchia piegarsi. Sputai la dentiera. Barcollai ali'indietro contro le corde. Un bomba di destro si stava abbattendo su di me. Mi dava l'idea di venire da molto lontano e pensai di avere tutto il tempo per contrario. Caricai il mio destro di tutto l'odio di cui disponevo e picchiai sulla ferita sanguinolenta che avevo di fronte. Sentii il rumore della cartilagine che si spappolava, poi tutto diventò nero e giallo. Mi resi conto che mi sollevavano per le braccia. Poi Duane Fisk e Jimmy Lennon si materializzarono. Sputai sangue e biascicai: «Ho vinto». Lennon mi rispose: «Stasera no, ragazzo. Hai perso per k.o. all'ottava ripresa.»
[...]
Suonai il campanello di casa Sprague alle otto in punto. Mi  ero vestito di tutto punto in blazer blu, camicia bianca e pantaloni grigi di flanella, anche se progettavo di spogliarmi al più presto, non appena Madeleine e io fossimo arrivati a casa mia. Nonostante la doccia, ero ancora rincitrullito da dieci ore filate di lavoro al telefono. Avevo l'orecchio sinistro ancora indolenzito per il chiacchiericcio incessante su Dalia e non mi sentivo del tutto a mio agio. Venne ad aprire Madeleine in gonna e maglietta di cashmere attillate, una visione da togliere il fiato. Mi prese per mano dicendo: «Scusa il contrattempo, ma ho accennato a te con mio padre e lui ha insistito perché ti fermassi a cena. Gli ho detto che ci siamo conosciuti a quella mostra allo Stanley Rose's Bookshop e se ti saltasse in mente di verificare il mio alibi, fallo con un po' di tatto, d'accordo?» «Ma certo» risposi prendendola sottobraccio e lasciandomi guidare dentro. Se l'esterno era Tudor, l'atrio era spagnolesco. Sui muri rivestiti di tappezzerie spiccavano delle spade d'acciaio incrociate, il pavimento incerato era coperto da tappeti persiani. L'atrio dava su un'enorme soggiorno arredato con gusto virile: poltrone di cuoio, tavolini bassi, divani, un enorme camino di pietra, tappetini orientali multicolori disseminati ovunque sul pavimento di quercia. Ai muri rivestiti in legno di ciliegio erano appesi ritratti di antenati e vecchie foto di famiglia. Notai uno spaniel imbalsamato che teneva fra i denti la copia ingiallita di un giornale. «Questo è Balto» mi spiegò Madeleine. «Il giornale è il Times del 1 agosto 1926, il giorno in cui papà seppe di avere messo assieme il primo milione. Balto era il nostro cane. Il commercialista aveva chiamato papa per annunciargli: "Emmett, sei milionario!" proprio mentre lui stava pulendo le pistole. Balto entrò in quel momento con il giornale in bocca e mio padre, per consacrare quell'attimo, gli sparò. Se osservi da vicino noterai il foro nel petto del cane. Trattieni il fiato, tesoro, ti presento la famigliola.» Lasciai che Madeleine mi introducesse in un salotto dai muri ricoperti di vecchie foto incorniciate. Lo spazio interno era interamente occupato da tre Sprague, seduti su poltrone identiche. Alzarono lo sguardo, ma nessuno si alzò in piedi. Sorrisi senza mettere in evidenza i denti e salutai: «Buonasera». Madeleine fece le presentazioni e io rivolsi un inchino a quella sorta di natura morta. «Bucky Bleichert, ti presento la mia famiglia. Mia madre Ramona Cathcart Sprague, mio padre Emmett Sprague. Mia sorella Martha McConville Sprague.» Il quadretto si animò di piccoli cenni e sorrisi. D'un tratto Emmett Sprague si alzò in piedi e mi porse la mano. «È un piacere conoscerla, signor Sprague» dissi stringendogli la mano e guardandolo fisso negli occhi. Il patriarca, un uomo di bassa statura, dal petto robusto, la faccia abbronzata e una massa di capelli bianchi che un tempo dovevano essere stati bruni, mi restituì lo sguardo. Giudicai che doveva essere sulla cinquantina e la sua stretta di mano lasciava intuire una certa dimestichezza con il lavoro fisico. L'accento scozzese se possibile era più pronunciato della imitazione che ne aveva fatto Madeleine. «L'ho vista combattere con Mondo Sanchez» mi disse «quella volta in cui lo ridusse a uno straccio. Ma lo sa che lei avrebbe potuto diventare un altro Billy Conn?» Ripensai a Sanchez, un peso medio stupido e goffo che il mio manager era andato a pescare per costruirmi la reputazione di stendimessicani. «La ringrazio signor Sprague.» «Grazie a lei per avermi fatto godere di quell'eccezionale esibizione. Che cosa ne è stato di lui?» «E morto per un'overdose di eroina.» «Dio l'abbia in gloria. Peccato che non sia morto sul ring, avrebbe risparmiato un dolore alla famiglia. A proposito di familiari, le presento i miei.» Martha Sprague si alzò in piedi. Era bassa di statura, bionda, grassottella e somigliava moltissimo al padre. Gli occhi azzurri erano così chiari da sembrare bianchi, il collo coperto di foruncoli era arrossato dall'eccessivo grattare. Aveva ancora addosso la ciccia dell'infanzia e l'aria di un'adolescente la cui bellezza non era sbocciata. Le strinsi la ma no con un senso di pena. La ragazza dovette percepire immediatamente ciò che mi stava passando per la testa perché si ritrasse e il suo sguardo pallido si accese per un attimo. Fra i tre, Ramona Sprague era l'unica a somigliare vagamente a Madeleine. Senza di lei avrei supposto che la ragazza fosse stata adottata. Aveva la stessa capigliatura corvina e la pelle chiara di Madeleine, ma meno smaglianti, e a parte ciò non aveva nulla di attraente. Si era messa solamente il rossetto e il suo viso flaccido appariva sghembo. Stringendomi la mano mi disse con tono strascicato: «Madeleine ci ha parlato di lei in termini molto lusinghieri». Il fiato non puzzava di alcol, ma mi sorse il dubbio che fosse imbottita di pillole. Madeleine sospirò. «Papa, andiamo a mangiare? Bucky e io vorremmo andare allo spettacolo delle nove e mezzo.» Emmett Sprague mi mollò una pacca su una spalla. «Obbedisco sempre agli ordini della mia figlia maggiore. Bucky, perché non ci racconta qualche aneddoto sulla sua carriera di pugile o di poliziotto?» «Mi sforzerò di farlo fra un boccone e l'altro» gli risposi. Sprague mi mollò un'altra pacca sulla spalla. «Mi da proprio l'idea che lei, come Fried Allen, di colpi alla cabeza ne abbia ricevuti pochi. Andiamo, la cena è servita.» Entrammo in una sala da pranzo con i muri rivestiti di legno. Al centro spiccava una tavola di dimensioni ridotte con cinque posti già apparecchiati. Da un carrello portavivande posto accanto alla porta emanava l'aroma inconfondibile di corned beef e cavoli. Il vecchio dichiarò: «II cibo genuino fa crescere la gente sana, la haute cuisine fa crescere degenerati. Si serva, amico mio. La cameriera va alle riunioni voodoo alla domenica sera, e rimaniamo solo noi bianchi.» Presi un piatto e lo riempii di carne. Martha Sprague si versò il vino e Madeleine si servì di una modesta porzione di entrambe le portate. Si accomodò a tavola facendomi cenno di sedere accanto a lei e io accettai volentieri. Martha disse: «Voglio sedere davanti al signor Bleichert, così potrò ritrarlo.» Emmett incrociò il mio sguardo e ammiccò. «Bucky, dovrà assoggettarsi a una crudele caricatura. La matita di Martha non perdona. Ha solo diciannove anni, ma è già un'artista quotata. Maddy è più graziosa, ma Martha ha preso il mio genio.» Martha abbozzò. Si sistemò proprio di fronte a me posando la matita e il taccuino sul tovagliolo. Ramona Sprague si sedette accanto a lei e le posò carezzevole una mano sul braccio. Emmett, in piedi accanto alla sedia a capotavola propose un brindisi: «Al nostro nuovo amico e al grande sport della boxe». «Amen» soggiunsi e infilata con la forchetta una fetta di carne la trangugiai. Era grassa e secca, ma dichiarai lo stesso in tono deliziato: «Eccellente». Ramona Sprague mi lanciò un'occhiata inespressiva e Emmett commentò: «Lacey, la nostra cameriera, crede nel voodoo, o perlomeno in una variazione cristiana dello stesso. Con ogni probabilità ha operato un sortilegio sulla carne e chiesto l'intercessione del Gesù nero per renderla tenera e succosa. A proposito di marmaglia, che emozioni ha provato stendendo quei delinquenti neri, Bucky?» Madeleine mi sussurrò: «Assecondalo». Emmett colse il sussurro e ridacchiò. «Ma sì ragazzo, mi assecondi. In effetti bisognerebbe sempre assecondare i ricchi sulla sessantina. Potrebbero ricordasene nel testamento.» Scoppiai a ridere mettendo in evidenza i denti sporgenti. Martha afferrò subito la matita. «Non ho provato niente di particolare. Si trattava di noi o di loro.» «E il suo collega? Quel tipo biondo con cui si è battuto l'anno scorso?» «Lee l'ha presa peggio di me.» «I biondi sono sempre molto sensibili» commentò Emmett. «Lo so perché anch'io lo ero. Per fortuna ci sono due bruni in famiglia con una certa tendenza al pragmatismo. Maddy e Ramona hanno quella tenacità da mastini che a Martha e a me manca.» Il cibo che avevo in bocca mi impedì di scoppiare in una risata. Pensai alla ragazza viziata, frequentatrice dei bassifondi che più tardi mi sarei scopato e guardai la madre che mi sorrideva scioccamente. L'impulso di ridere si fece più pressante. Riuscii a trangugiare il boccone, ruttai invece di sbellicarmi dalle risa e sollevando il bicchiere dissi: «Alla sua salute signor Sprague. Era una settimana che non ridevo così di gusto.» Ramona mi lanciò un'occhiata infastidita; Martha si concentrò sulla sua opera d'arte. Madeleine mi faceva piedino sotto la tavola e Emmett rispose al mio brindisi chiedendomi. «Ha avuto una settimana pesante?» Ripresi a ridere. «Molto. Sono stato distaccato alla Ornicidi per il caso Dalia Nera. Mi hanno tolto i giorni di riposo, i] mio collega sta perdendo la testa su questa faccenda e attorno al caso brulica una quantità di mitomani e di scarafaggi. Siamo in duecento impegnati su un singolo caso, è assurdo.» «Tragico, direi» ribadì Emmett. «Ma lei che idea si è fatto? Chi può avere fatto un tale scempio di un essere umano?» Poiché la famiglia non era al corrente dei legami sia pure tenui che fossero, di Madeleine con Betty Short, decisi di non approfondire l'argomento del suo alibi. «Secondo me è stato un assassinio casuale. Quella Short era una ragazza , come dire, piuttosto facile, oltre che irrimediabilmente bugiarda. E frequentava centinaia di uomini. Solo il caso ci consentirà di catturare l'assassino.» «Speriamo che riusciate a beccarlo e a trovargli un ricovero in una di quelle stanzette verdi di San Quentin» commentò Emmett. Facendo scorrere le dita sulla mia coscia Madeleine disse con tono imbronciato: «Papa, stai monopolizzando la serata. Lascia mangiare Bucky in pace.» «Quando siete arrivato negli Stati Uniti?» gli chiesi incuriosito. Emmett assunse un'espressione raggiante. «Sarò felice di raccontarle la mia storia di immigrato. E il suo, Bleichert, che razza di nome è? Olandese per caso?» «Tedesco» lo corressi. Emmett sollevò il bicchiere. «Un grande popolo il vostro. Forse Hitler ha esagerato un po', ma temo che un giorno rimpiangeremo di non esserci alleati con lui contro i rossi. Da quale parte della Germania arriva, amico mio?» «Ah, Monaco. Mi sorprende che se ne sia andato» disse Emmett. «Se fossi nato a Edimburgo o in qualche altra grande città a quest'ora porterei ancora il kilt. Ma sono di Aberdeen, un posto dimenticato da Dio e sono stato costretto a venire in America subito dopo la fine della prima guerra mondiale. Ho ammazzato una quantità di tedeschi durante la guerra, ma ho un'attenuante, loro cercavano di uccidere me, per cui credo di essere giustificato. Ha visto Balto nel soggiorno?» Annuii. Madeleine sospirò. Ramona Sprague ebbe un sussulto e infilzò una patata. Emmett soggiunse: «Lo ha imbalsamato il mio amico Geòrgie Tilden. Quel Geòrgie era un tipo geniale. Eravamo nello stesso reggimento scozzese durante la guerra e gli ho salvato la vita sottraendolo alle baionette di un gruppo di suoi connazionali. Geòrgie andava matto per il cinema. Tornati a casa ad Aberdeen dopo l'armistizio trovammo che la città era un mortorio e Geòrgie insistette perché partissi per la California con lui. Voleva lavorare nell'industria del cinema muto, ma temeva di non riuscire a combinare nulla senza di me. Dato che ad Aberdeen non c'era futuro gli dissi: "D'accordo Geòrgie, California sia. Magari facciamo soldi a palate. E se no, almeno saremo già dove tramonta il sole."» Ripensai al mio vecchio, che era venuto in America nel 1908, anche lui carico di speranze. Ma si era sposato subito con la prima tedesca che aveva trovato e si era ridotto a lavorare con un salario da fame per la Pacific Gas and Electric. «E poi come è andata?» lo sollecitai. Emmett Sprague picchiò la forchetta sul tavolo. «Arrivai al momento giusto. Hollywood era ancora un pascolo per vacche, ma il successo del cinema era nell'aria. Geòrgie andò a lavorare come assistente alle luci, io invece mi misi a costruire case a buon mercato. Dormivo sotto le stelle e investivo tutto, fino all'ultimo centesimo, nel mio lavoro. Chiesi prestiti a tutte le banche e a tutti gli usurai disponibili. Con quel denaro comprai degli ottimi terreni a buon mercato. Geòrgie mi fece conoscere Mack Sennett e lavorai ai suoi teatri di posa negli studios di Edendale. Poi gli chiesi un finanziamento per comprare altre proprietà. Il vecchio Mack aveva fiuto per la gente capace di farsi strada e me lo concesse a patto che entrassi in un progetto di urbanizzazione che gli stava a cuore, Hollywoodland, proprio sotto quell'enorme insegna alta trenta metri sul Mount Lee. Il vecchio Mack sapeva far fruttare i dollari. La gente che lavorava per lui faceva il doppio lavoro. Andavo a prendere le comparse sul set con un autocarro e quelli, dopo dieci o dodici ore di lavoro nei teatri di posa, si facevano altre sei ore nell'edilizia a lume di torcia. A me capitò persino di lavorare come aiuto regista in un paio di film. Il vecchio Mack era felicissimo di come riuscivo a spremere i suoi schiavi.» Madeleine e Ramona continuavano a mangiare con aria imbronciata, come se avessero sentito la storia chissà quante volte prima. Martha mi fissava e continuava a disegnare. «E del suo amico che ne è stato?» gli chiesi. «Purtroppo per ogni storia di successo ce n'è una di fallimento. Geòrgie frequentò la gente sbagliata. Non riuscì a indirizzare bene il suo talento naturale e non combinò nulla. Nel '36 restò sfigurato in un incidente e adesso è ridotto a una larva. Gli ho dato qualche lavoretto, fa il guardiano in alcune mie proprietà e lavora allo scarico dei rifiuti per il comune.» Alzai lo sguardo verso l'altro lato del tavolo udendo un rumore stridulo. Ramona aveva sbagliato mira e invece di infilare la patata aveva fatto scivolare la forchetta sul piatto. «Mamma, ti senti bene? Il cibo è di tuo gradimento?» disse Emmett. Tenendo lo sguardo abbassato, Ramona rispose: «Sì papa». Martha le posò una mano sul gomito. Madeleine riprese a farmi piedino e Emmett soggiunse: «Mamma, tu e quella tua figlia di genio non siete state di compagnia con il nostro ospite. Perché non vi degnate di partecipare alla conversazione?» Stavo cercando una battuta per alleggerire l'atmosfera, ma Madeleine mi distrasse toccandomi la caviglia con il piede. Ramona Sprague infilò un boccone fra le labbra e masticandolo con degnazione disse: «Sapevate che il Ramona Boulevard ha preso il nome da me, signor Bleichert?» Aveva un'espressione molto sussiegosa e pronunciava le parole con una strana dignità. «No, signora Sprague» risposi. «Non lo sapevo.» «Quando Emmett mi sposò, per mettere le mani sul denaro di mio padre, beninteso, promise alla mia famiglia di usare le sue conoscenze nella municipalità per dedicare una strada a mio nome. Non aveva nient'altro da offrire: aveva investito fino all'ultimo centesimo nei terreni. Non gli erano restati neanche i soldi per comprare l'anello. Papà pensava a una bella strada residenziale, ma Emmett riuscì a ottenere solo una strada in un quartiere malfamato, nel distretto di Lincoln Heights. Conosce la zona signor Bleichert?» Adesso il tono si era fatto spigoloso e rasentava la collera. «Ci sono cresciuto, signora» le risposi. «Allora saprà che le prostitute messicane si espongono in vetrina per attirare i clienti. Bene, quando Emmett riuscì a ottenere che la Rosalind Street fosse rinominata Ramona Boulevard, mi portò a fare un giro da quelle parti. Le prostitute lo salutavano per nome. Alcune lo chiamavano con dei nomignoli anatomici. La cosa mi ferì alquanto, ma me ne feci una ragione. Quando le ragazze erano piccole organizzavo piccole rappresentazioni, qui in giardino. Usavo i bambini dei vicini come comparse e mettevo in scena delle vicende del passato del signor Sprague, che lui avrebbe forse preferito dimenticare...» La tavola tremò sotto il pugno del padrone di casa. I bicchieri si rovesciarono e i piatti tintinnarono. Abbassai lo sguardo per dare ai miei ospiti il tempo di recuperare la loro dignità e vidi che Madeleine aveva afferrato il ginocchio del padre. Con l'altra mano strinse anche il mio: con una forza dieci volte maggiore di quanto pensavo fosse capace. Seguì un silenzio imbarazzante. Ramona Cathcart disse infine: «Papa, sono disposta a fare la padrona cordiale quando vengono a cena il sindaco Bowron o il consigliere Tucker, ma non me la sento di farlo con i gigolò di Madeleine. Un semplice piedipiatti. Mio Dio, Emmett, che scarsa considerazione hai di me.» Udii delle sedie strisciare sul pavimento, sentii delle ginocchia che urtavano contro la tavola e dei passi che si allontanavano dalla sala da pranzo. Mi accorsi di stringere la mano di Madeleine, la quale mi sussurrava: «Mi dispiace Bucky, mi dispiace». Una voce mi chiamò: «Signor Bleichert?» Alzai la testa perché il tono mi era parso allegro e normale. Era Martha McConville Sprague. Reggeva in mano un foglio di carta e me lo porgeva. Lo presi con la mano libera e Martha se ne uscì sorridente. Madeleine mormorava ancora qualche parola di scuse mentre io lasciavo cadere un'occhiata sul disegno. Eravamo noi due nudi. Madeleine era a gambe spalancate, io la penetravo e la mordevo con i miei dentacci.

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Lettura di Sciascia in biblioteca

5 Marzo ore 20,30, Biblioteca Castiglione delle Stiviere

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