La fine è il mio inizio - Tiziano Terzani

>> domenica 7 novembre 2010

E' il primo libro che leggo di Terzani ed è stato un caso che sia partito dall'ultima sua opera. Il libro è uscito postumo dopo la sua morte ed è la trascrizione degli ultimi dialoghi con suo figlio in cui lo scrittore ripercorre la sua vita. E' il suo testamento spirituale, il suo tirare le somme sui viaggi, sugli affetti, sulle persone, sulla vita e sulla morte. Si ripercorre la storia dell'estremo oriente (Vietnam, Cambogia, Cina, Giappone,....) con le parole di chi l'ha vissuta sulla sua pelle e si percepisce tutta la delusione dell'autore su un'idea di una società o di un mondo migliore, spazzata via dai totalitarismi e dalle sopraffazioni dei vari regimi. Di notevole valore le considerazioni dello scrittore sulla fine dell'esistenza e su come lui stesso si sia preparato ad affrontarla.

Che cos'è che ci fa così spavento della morte?
Quello che ci fa paura, che ci congela davanti a quel momento è l'idea che scomparirà in quell'attimo tutto quello a cui noi siamo tanto attaccati. Prima di tutto il corpo. Del corpo ne abbiamo fatto un'ossessione. Tu pensa: uno cresce con questo corpo, ci si identifica. Guarda te, sei giovane, sei forte, pieno di muscoli. Oh, ero così anch'io! Ogni giorno correvo dei chilometri per tenermi in forma, facevo ginnastica, avevo delle gambe dritte, avevo i baffi e la testa piena di capelli corvini. Ero un bel ragazzo. Uno dice “TIZIANO Terzani” e pensa a quel corpo lì. Tutto da ridere! Guardami ora. Pelle e ossa, magrissimo, le gambe gonfie, la pancia come un pallone. Mi si è rovesciata la geometria del corpo. Prima uno ha le spalle larghe e la vita stretta; ora ho delle spalline strette strette e una vita enorme. Allora non posso essere attaccato a questo corpo. E poi, quale corpo? Un corpo che cambia tutti i giorni, che perde i capelli, che si azzoppa, che si acciacca, che viene tagliato a pezzi dal chirurgo?
Il corpo non siamo noi. Allora cosa siamo?
Crediamo di essere tutte le cose che ci preoccupa di perdere morendo. Con l'identità – giornalista, avvocato, direttore di banca – ti ci sei identificato e l'idea che tutto questo scompaia, che tu non sia più il grande giornalista, il bravo direttore di banca, che la morte ti porti via tutto questo ti sconvolge.
Tu possiedi la bicicletta, l'automobile, un bel quadro che hai comprato con i risparmi di tutta una vita, un campo, una casetta al mare. E' tua e ora muori e la perdi. La ragione per la quale si ha tanta paura della morte è che con quella bisogna rinunciare a tutto quel che ci stava tanto a cuore, proprietà, desideri, identità. Io l'ho già fatto. Negli ultimi anni non ho fatto che buttare a mare tutto questo e non c'è più nulla a cui sono legato. Perché ovviamente tu non sei il tuo nome, tu non sei la tua professione, non sei la casetta al mare che possiedi.

E se impari a morire vivendo, come hanno ben insegnato i saggi del passato – i sufi, i greci, i nostri amati rishi dell'Himalaya – allora ti abitui a non riconoscerti in queste cose, a riconoscerne il valore estremamente limitato, transitorio, ridicolo, impermanente. Se la casa che ti sei comperato al mare un giorno -vrumm! viene portata via dalla marea; se un figlio, uno come te che sei stato mio per così tanto tempo e a cui ho dedicato pensieri, a volte sofferenze e angosce, esce di casa, gli casca un tegolo in testa e -vrumm, finito! allora capisci che non è possibile che tu sia quelle cose che scompaiono così semplicemente.

E se, vivendo, incominci a capire che non sei quelle cose, allora piano piano te ne stacchi, le abbandoni. Abbandoni anche le cose che ti paiono le più care, come l'amore che io ho per tua madre, Io ho amato tua madre per i quarantasette anni in cui siamo stati assieme e quando dico che me ne stacco non voglio dire che non la amo più, ma che questo amore non è più una schiavitù; che non sono più dipendente da questo amore; che sono, anche da questo, distaccato. Questo amore è parte della mia vita, ma io non sono quell'amore.
Sono tante altre cose... o forse nulla. Ma non sono quella cosa lì. E l'idea che morendo perdo quell'amore, perdo questa casa all'Orsigna, perdo te e la Saskia, perdo la mia identità, non mi preoccupa più, non mi fa più assolutamente paura, perché mi ci sono abituato. E qui, l'Himalaya, la solitudine lassù, la natura, la fortuna di questo malanno che mi ha dato l'occasione di riflettere su tutto questo è stata una grande maestra.

L'altra cosa che mi pare fondamentale nella vita di un uomo che cresce e che matura, come spero che in qualche modo mi sia successo, è il rapporto con i desideri. I desideri sono la nostra grande molla. Se Colombo non avesse desiderato di trovare una nuova strada per le Indie non avrebbe scoperto l'America. Tutto il progresso, se lo vuoi chiamare così, o il regresso, tutta la civilizzazione o la decivilizzazione dell'uomo è dovuta al desiderio. Desiderio di ogni tipo, a partire dal più semplice, quello carnale, quello di possedere la carne di un altro. Il desiderio è una grande molla, non lo nego. È importante e ha determinato la storia dell'umanità. Ma se tu cominci a guardare bene, di nuovo, cosa sono questi desideri, questi desideri dai quali non sfuggi mai? Specie oggi, in questa nostra società che ci spinge solo a desiderare e fra i desideri a scegliere solo i più banali, quelli materiali, in altre parole quelli del supermercato. Il desiderio di quelle scelte lì è inutile, è banale, è irrisorio.

Il vero desiderio, se uno ne vuole uno, è quello di essere se stessi. L'unica cosa che uno può desiderare è di non avere più scelte, perché la scelta vera non è quella fra due dentifrici, fra due donne, fra due macchine. La scelta vera è quella di essere te stesso. Se ti abitui o fai degli esercizi, se rifletti, rifletti! vedi che quei desideri sono una forma di schiavitù. Perché più tu desideri e più limitazioni ti crei. Desideri una cosa al punto che non pensi ad altro, non fai altro, diventi schiavo di quel desiderio. Allora tu puoi, nell'età matura, più adulta, cominciare a vedere tutto questo ...ride... e metterti a ridere dei desideri che hai, a ridere dei desideri che hai avuto, a ridere nel vedere che questi desideri non servono a niente, che sono effimeri come tutto il resto che è la vita. Così cominci a imparare a toglierteli, a toglierli di mezzo. Compreso quel desiderio ultimo, che tutti hanno, della longevità. Uno dice “Va bene, non voglio più soldi, non voglio più fama, non voglio più comprare niente; ma voglio almeno una pillola che mi fa vivere altri dieci anni!”
Anche questo desiderio io non l'ho più, proprio non l'ho più. Sono fortunato. Perché gli anni di solitudine in quella casetta nell'Himalaya mi hanno fatto vedere che non avevo niente da desiderare. Avevo bisogno di un po' d'acqua per bere ed era lì, nella fonte dove bevevano gli animali. Mangiavo un po' di riso e qualche verdura cotta sul fuoco. Quali altri desideri potevo avere? Non quello di andare al cinema a vedere l'ultimo film. Che me ne importa?! Cosa cambia nella mia vita? Niente a questo punto, niente. Perché quella che ora mi sta davanti è forse la cosa più strana, curiosa, nuova che mi sia mai capitata.
Per questo dico che non ho più voglia di stare in questa vita, perché questa vita non mi incuriosisce più. L'ho vista di fuori e di dentro, l'ho vista da ogni suo lato e i desideri che mi dovrebbe suscitare non mi interessano più. Allora la morte diventa davvero...ride... l'unica cosa nuova che mi può succedere, perché questa non l'ho mai vista, non l'ho mai vissuta. L'ho solo vista negli altri. Può darsi che non sia niente, che sia come l'addormentarsi la sera. Perché in verità noi moriamo ogni sera, no? Quella coscienza dell'uomo sveglio che lo fa, appunto, identificare con il suo corpo e con il suo nome, che lo fa desiderare, che lo fa telefonare e andare a un appuntamento a pranzo, nell'attimo in cui ti addormenti — puff! scompare. Pur nel sonno in qualche modo rimanendo, perché sogni.
Ma chi è il sognatore? Chi è il testimone silenzioso del tuo sogno? Be', forse nella morte avviene qualcosa di simile al sonno. O forse non avviene niente. Ma ti assicuro che mi avvicino a questo appuntamento non come a un incontro con una signora vestita di nero, con una falce che miete, che è sempre stata una visione dell'orrore. Mi avvicino a questo appuntamento di quiete, secondo me, a cuor leggero, come davvero non l'ho mai avuto prima. E forse lo debbo proprio alla combinazione di fatti che ti ho spiegato: quello di avere un po' imparato a morire prima di morire, quello di aver rinunciato ai desideri, e quello di aver succhiato dal terreno sacro dell'India la sensazione che l'India ti dà: che è nata, è morta, è nata e morta tanta gente; e che quest'esperienza del nascere, vivere e morire è quella più comune agli uomini.
[...]
Allora vado a questo appuntamento – perché tale lo sento e mi dispiacerebbe mancarlo, perché è come se mi fossi già vestito a festa – a cuor leggero e con una certa quasi giornalistica curiosità. Io che ormai ho smesso da tempo di fare del giornalismo sento che ho una curiosità che chiamo giornalistica per sorridere, ma che è la curiosità umana di “Che cos'è questa cosa?”. La si prova nella vita quando muore il padre. Io ricordo che, quando morì il mio, quello che mi colpì era che ora ero in prima fila io. Sai, alla guerra c'è sempre uno che è avanti a te, c'è una prima linea, come nella Prima guerra mondiale, una prima trincea. E morto tuo padre non c'è più quella trincea, tocca a te. Be', ora tocca proprio a me. E quando io morirò ti sentirai tu in prima trincea. Ma intanto tu sei venuto a tenermi per mano e questo ci dà l'occasione di parlare del viaggio di quel ragazzino, nato in un letto in via Pisana, un quartiere popolare di Firenze, che si ritrova nelle grandi storie del suo tempo – la guerra in Vietnam, la Cina, la caduta dell'impero sovietico – poi va sull'Himalaya, e adesso è qui, in una sua piccola Himalaya, ad aspettare questa ora secondo me piacevole.
Allora questa è la fine, ma è anche l'inizio di una storia che è la mia vita e di cui mi piacerebbe ancora parlare con te per vedere insieme se, tutto sommato, c'è un senso.
[...]
FOLCO: L'importante è non avere dolori perché quelli ti distraggono. La chiave per
aggirare i dolori è staccarsi dal proprio corpo ed esserne l'osservatore.
TIZIANO: Sì, certo.
FOLCO: Lo so che dev'essere difficilissimo, quando ti prende il dolore, scrollartelo di dosso. Ma sai, lo si diceva del freddo. Io, a uno dei miei sadhu preferiti – uno che è matto da legare ma divertentissimo, proprio uno spirito libero, uno di quelli che vanno su per le montagne sempre scalzi, uno che non ha scarpe, non ha soldi, non ha progetti – a quello gli ho chiesto “Ma lassù nella neve, non ti fa freddo?” E lui ha risposto “Non fa freddo. Fa ta-ta-ta-ta-ta”. Osservi la sensazione e invece di dirti “Ora ho freddo, devo coprirmi”, ti dici “Ora sento ta-ta-ta...” come fossero dei piccoli spilli che senti sotto i piedi, e allora è quasi divertente. Loro fanno questi esercizi per indurirsi piano piano.
ANGELA: Molto bello.
TIZIANO: Sono d'accordo, in parte. Stanotte per esempio mi hanno preso dei crampi alla pancia. So come fare, no? Ti concentri, vai lì con la mente, ti chiedi se sono quadrati, se sono tondi, se sono rossi, se sono gialli...
FOLCO: Ah, questo è divertente! Dove l'hai imparato?
TIZIANO: Il dolore, devi chiederti com'è. Quel tuo amico dice che fa ta-ta-ta. Devi chiederti se è quadrato o se è tondo, se fa rumore, se batte o se non batte. Se ha un colore, che colore è? Così ti distrai un po'. Ma se il dolore è forte a un certo punto non ce la fai più. Infatti, stavo per venirti a svegliare. 
[...]
Lo dice bene il dio Krishna, tutto quello che nasce muore e tutto quello che muore nasce. Anch'io la fine la sento come un inizio. L'inizio è la mia fine e la fine è il mio inizio. Perché sono sempre più convinto che è un'illusione tipicamente occidentale che il tempo è diritto e che si va avanti, che c'è progresso. Non c'è. Il tempo non è direzionale, non va avanti, sempre avanti. Si ripete, gira intorno a sé. Il tempo è circolare. E questo lo sento così forte. Lo vedi anche nei fatti, nella banalità dei fatti, nelle guerre che si ripetono.

Gli indiani questo ce l'hanno profondo dentro di sé. Tutta la loro mitologia è basata sul continuo ciclo di distruzione e creazione. Lì hanno ragione, non c'è creazione senza distruzione, per cui nella loro trinità c'è il creatore, il mantenitore e il distruttore. Il distruttore passa e -vrumm! distrugge tutto, così che il creatore può ricreare, il conservatore può conservare, il distruttore può ridistruggere.

Questo, non dico che è consolante perché io spero di ritornare, anzi, per niente. Credo che una delle poche cose che ho imparato, che mi sono entrate dentro vivendo da solo nella baita sull'Himalaya, è la rinuncia ai desideri, che è la vera, ultima grande forma di libertà. E credo che ci sono riuscito. Non desidero più niente. Non desidero certo più la longevità, ormai. Ma non desidero nemmeno l'immortalità, questo dire “Finisce, ma ricomincia e questo mi consola”. No, non è questo che sento. E la bellezza, la bellezza che ciò che finisce ricomincia. Perché così è l'universo. Perché dentro a un seme che cade per caso c'è già un albero enorme. Caduto, il seme sembra morto, finito. E ricomincia. Questa bellezza mi piace, questa bellezza che vedo dappertutto, ormai, e che vedo per giunta nella fine della mia vita terrena.

Sento questa mia vita che sfugge, ma che non sfugge, perché è parte della stessa vita di quegli alberi. Una cosa bellissima, il disfarsi nella vita del cosmo ed essere parte di tutto. Questa mia vita non è la mia vita, è la vita dell'Essere, è la vita cosmica di cui mi sento parte. Per cui non perdo niente, staccandomi dal corpo io non perdo niente.
Allora, questa è la fine ma è anche l'inizio.

E l'immagine che mi viene in mente quasi ogni giorno del mio abbandonare il mio corpo è quella di un monaco zen che si siede nel silenzio della sua cella, prende un bel pennello, lo intinge nel mortaio dove ha sparso la china e poi si raccoglie davanti al pezzo di carta di riso e con grande concentrazione fa un cerchio che si chiude. Ma un cerchio, non fatto con il compasso, un cerchio fatto con l'ultimo gesto della mano su questa terra. La vita si conclude.

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Lettura di Sciascia in biblioteca

5 Marzo ore 20,30, Biblioteca Castiglione delle Stiviere

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