La Strada - Cormac McCarthy

>> domenica 18 dicembre 2011

Finalmente un bel libro! Era da un pò di mesi che un testo non mi appassionava così. Balza ai primi posti della mia personale classifica dei più bei romanzi da tre anni a questa parte.  Avevo letto altri libri di McCarthy (Cavalli selvaggi, Non è un paese per vecchi) ma non mi avevano convinto fino in fondo. Qui funziona tutto. Uno stile di scrittura asciutto, essenziale, con dialoghi che si mescolano nella prosa della narrazione, che ben si sposa con una storia cruda e apocalittica. La caratterizzazione dei personaggi, credibili nel loro muoversi in una situazione limite. La trama, che si svolge lungo il cammino dei due protagonisti verso una meta di cui non si conosce nulla (se potrà accoglierli, salvarli, ...) ma è l'unica cosa che hanno oltre all'affetto che li lega. La descrizione delle situazioni, che ti fa percepire il freddo, l'inedia, la scarsità di luce, l'odore nauseabondo di una umanità ridotta a mangiarsi l'un l'altro per sopravvivere in un mondo bruciato e coperto di cenere, dove flora e fauna sono estinti da anni.  Ricorda a tratti l'Ombra dello Scorpione, il capolavoro di Stephen King, per il tema della fine del mondo, il dualismo tra bene e male, l'introspezione dell'animo umano. Ma si discosta da questo per il suo stile unico, molto lontano dalla verbosità a volte eccessiva di King, dimostrando di essere ugualmente efficace nel riportare l'orrore o la tenerezza tra due persone che si vogliono bene.
Se nelle Benevole citavo come elemento distintivo del romanzo il "male" che si nasconde nella natura umana, qui siamo sul versante opposto: nell'uomo degradato e sottoposto a sfide estreme, dietro la scorza si fa strada il "bene".


Attraversarono la città a mezzogiorno dell'indomani.
L'uomo aveva la pistola a portata di mano, sopra il telo di plastica piegato in cima al carrello. Si teneva il bambino stretto al fianco. La città era quasi completamente bruciata. Nessun segno di vita. Per le strade automobili incrostate di cenere, ogni cosa coperta da cenere e polvere. Impronte fossili nel fango secco. In un androne un cadavere ridotto a cuoio. Con una smorfia di scherno rivolta al giorno. Si strinse ancora di più al bambino. Ricordati che le cose che ti entrano in testa poi ci restano per sempre, gli disse. Forse dovresti rifletterci.
Però certe cose uno se le dimentica, no?
Sì. Ci dimentichiamo le cose che vorremmo ricordare e ricordiamo quelle che vorremmo dimenticare.
A un paio di chilometri di distanza dalla fattoria di suo zio c'era un lago dove in autunno lui e lo zio andavano sempre a fare legna. Lui si metteva seduto a poppa della barchetta con una mano abbandonata nella scia fredda, mentre lo zio si piegava sui remi. I piedi del vecchio dentro le scarpe nere da ragazzino puntate contro i montanti. Il suo cappello di paglia. La pipa di pannocchia che teneva fra i denti e un filino di saliva che colava dal fornello. Lo zio si voltò per dare un' occhiata alla sponda opposta, tenendosi in grembo le impugnature dei remi e togliendosi la pipa di bocca per asciugarsi il mento con il dorso della mano. La sponda era costeggiata da betulle che si stagliavano pallide come ossa contro il colore scuro dei sempreverdi alle loro spalle. La riva del lago era un conglomerato di ceppi ritorti, grigi e slavati, residui lasciati da un uragano anni prima. Gli alberi invece erano stati segati e portati via da un pezzo per farne legna da ardere. Lo zio girò la barca e tirò dentro i remi e si lasciarono trasportare dalla corrente verso le secche, finché la poppa non sfregò sulla sabbia. Un pesce persico morto fluttuava a pancia in su nell'acqua limpida. Foglie ingiallite. Lasciarono le scarpe sulle tiepide assi dipinte, trascinarono la barca sulla spiaggia e gettarono l'ancora. Un barattolo di strutto riempito di cemento con un anello di ferro piantato nel mezzo. Camminarono lungo la riva e lo zio esaminava i ceppi tirando boccate di fumo, una corda di canapa arrotolata in spalla. Ne scelse uno e lo fecero rotolare appoggiandosi alle radici finché non prese a galleggiare nell'acqua. Nonostante i calzoni arrotolati alle ginocchia si bagnarono lo stesso. Legarono la corda a un gancio sulla parte posteriore della barca e riattraversarono il lago con il ceppo che li seguiva lentamente, a scossoni. Ormai si era fatta sera. Solo il lento e regolare cigolio strascicato degli scalmi. Lo specchio scuro del lago e le finestre che si illuminavano lungo la riva. Da qualche parte una radio. Nessuno dei due aveva aperto bocca. Quella era stata la giornata ideale della sua infanzia. La giornata su cui modellare tutte le giornate a venire.
Nei giorni e nelle settimane seguenti proseguirono verso sud. Solitari e ostinati. Una regione scabra e collinosa. Case di lamiera. A tratti sotto di loro intravedevano la superstrada in mezzo alle nude macchie di foresta secondaria. Freddo, sempre più freddo. Appena superato il profondo avvallamento fra le montagne si fermarono e spinsero lo sguardo oltre quella vasta gola verso sud, dove non c'era che terra mangiata dal fuoco a perdita d'occhio, con le sagome annerite delle rocce che spiccavano fra i banchi di cenere e i pennacchi di cenere che si alzavano e venivano sospinti lungo la distesa brulla. La traccia di un sole smorto che si muoveva invisibile oltre le tenebre.
Impiegarono interi giorni per attraversare quella piana cauterizzata. Il bambino si era dipinto delle zanne sulla mascherina con dei pastelli che aveva trovato e andava avanti senza lamentarsi. Una delle ruote anteriori del carrello si era mezzo scassata. Che ci potevano fare? Niente. Poiché davanti a loro tutto era ridotto in cenere, accendere fuochi era impossibile e le notti erano lunghe, buie e fredde come mai prima. Un freddo che spaccava le pietre. Un freddo assassino. L'uomo teneva stretto a sé il bambino tremante e contava ogni suo fragile respiro nell'oscurità.
Fu svegliato dal brontolio di un tuono in lontananza e si mise a sedere. La luce fioca tutto intorno, tremolante e senza una fonte precisa, si rifrangeva nella pioggia di fuliggine portata dal vento. Coprì se stesso e il bambino con il telo di plastica e rimase a lungo in ascolto. Se si fossero bagnati non ci sarebbe stato nessun fuoco ad asciugarli. Se si fossero bagnati probabilmente sarebbero morti.
L'oscurità in cui si svegliava in quelle notti era cieca e impenetrabile. Un' oscurità che faceva male alle orecchie a forza di ascoltare. Spesso non poteva fare a meno di alzarsi. Non un suono oltre al vento fra gli alberi nudi e anneriti. Si alzò in piedi e rimase lì, vacillante in quel buio freddo e autistico, le braccia tese per mantenersi in equilibrio mentre i calcoli vestibolari in corso nel suo cervello sfornavano risultati. Una vecchia storia. Inseguire la verticalità. Non c'è caduta che non vada per gradi. Si addentrò nel nulla a lunghi passi di marcia, contandoli per riuscire poi a tornare. Occhi chiusi, remate di braccia. Verticalità rispetto a cosa? Un'entità senza nome nella notte, vena o matrice.
Attorno alla quale lui e le stelle giravano come un unico satellite. Come il grande pendolo nella sua rotonda che segna i lunghi moti giornalieri dell'universo di cui sembrerebbe che non sappia nulla e tuttavia non può non sapere.
[...]
Cominciò a scendere gli scalini di legno grezzo. Chinò la testa poi accese l 'accendino e protese la fiammella verso il buio come un'offerta. Freddo e umidità. Un puzzo inumano. Il bambino gli si aggrappava al giaccone. Intravedeva una parete di pietra. Un pavimento di argilla. Un vecchio materasso macchiato di scuro. Si chinò, scese un altro gradino e illuminò lo spazio davanti a sé. Rannicchiate contro la parete opposta c'erano delle persone nude, maschi e femmine, che cercavano di nascondersi, riparandosi il viso con le mani. Sul materasso era steso un individuo con le gambe amputate fino ai fianchi e i moncherini anneriti e bruciati. L'odore era micidiale.
Gesti, sussurrò l'uomo.
Uno dopo l'altro i prigionieri si voltarono, battendo le palpebre per quel barlume di luce. Aiuto, mormorarono. La prego, ci aiuti.
Cristo, disse lui. Oh Cristo.
Si voltò e afferrò il bambino. Svelto, disse. Svelto. L'accendino gli era caduto. Non c'era tempo per cercarlo. Spinse il bambino su per le scale. Aiuto, imploravano quelli.
Svelto.
Ai piedi delle scale apparve un volto barbuto. Ti prego, gridò battendo le palpebre. Ti prego.
Svelto. Svelto, per l'amor di Dio.
Spinse il bambino fuori dalla botola facendolo cadere a terra. Usci, afferrò lo sportello, lo richiuse brutalmente e si voltò per raccogliere il bambino, che però si era già rialzato e stava facendo il suo solito balletto del terrore.
Per l'amor di Dio, muoviti, gli sibilò. Ma il bambino stava puntando il dito verso la finestra e quando l'uomo guardò fuori si sentì gelare il sangue. Quattro individui barbuti e due donne stavano attraversando il prato diretti verso la casa. Afferrò la mano del bambino. Cristo, disse. Corri. Corri.
[...]
Rovistarono fra le rovine carbonizzate di case in cui un tempo non avrebbero messo piede. Un cadavere che galleggiava nell'acqua nera di una cantina in mezzo ai rifiuti e alle tubature arrugginite. L'uomo si fermò dentro un salotto parzialmente incenerito e aperto al cielo. Le assi deformate dall'acqua inclinate verso il giardino. Volumi fradici sugli scaffali di una libreria. Ne prese uno, lo aprì e lo rimise a posto. Tutto era umido. Marcescente. In un cassetto trovò una candela. Non c'era modo di accenderla. Se la mise in tasca. Usci fuori nella luce livida, rimase lì in piedi e per un attimo vide l'assoluta verità del mondo. Il moto gelido e spietato della terra morta senza testamento. L'oscurità implacabile. I cani del sole nella loro corsa cieca. Il vuoto nero e schiacciante dell'universo. E da qualche parte due animali braccati che tremavano come volpacchiotti nella tana. Un tempo e un mondo presi in prestito e occhi presi in prestito con cui piangerli.
[...]
Si alzò e uscì sulla strada. Un nastro nero dal buio verso il buio. Poi un rombo sommesso in lontananza. Non un tuono. Lo si avvertiva sotto i piedi. Un suono senza pari e quindi impossibile da descrivere. Qualcosa di imponderabile che si muoveva là fuori nel buio. La terra stessa che si contraeva per il freddo. Non si ripeté. In che stagione erano? Quanti anni aveva il bambino? L'uomo arrivò in mezzo alla strada e si fermò. Il silenzio. Il salnitro che si asciugava venendo in superficie. I contorni imbrattati di fango delle città allagate, bruciate fino alla linea di piena. A un incrocio, un campo contrassegnato da dolmen dove le ossa parlanti degli oracoli giacciono in decomposizione. Non un suono all'infuori del vento. Che cosa dirai? E stato un vivente a pronunciare queste parole? Ha affilato una penna d'oca con il suo temperino per vergarle su legno di prugnolo o nero fumo ? In un momento dato e scolpito nella pietra? Sta arrivando a rubarmi gli occhi. A sigillarmi la bocca con la terra.
[...]
I giorni si trascinavano uno dopo l'altro, innumerevoli e innumerati. Sulla superstrada, in lontananza, lunghe file di macchine carbonizzate e arrugginite. I cerchioni nudi delle ruote su un ammasso grigio di gomma fusa e solidificata dentro anelli anneriti di fil di ferro. I cadaveri inceneriti ridotti alle dimensioni di bambini e appoggiati sulle molle scoperte dei sedili. Diecimila sogni sepolti dentro i loro cuori bruciacchiati. Andarono avanti. Percorrevano quel mondo senza vita come criceti sulla ruota. Le notti immobili come la morte, e più nere ancora. Un freddo. Parlavano poco o niente. L'uomo tossiva in continuazione e il bambino lo guardava sputare sangue. Si trascinavano oltre. Lerci, cenciosi, senza speranza. L'uomo si fermava e si appoggiava al carrello e il bambino proseguiva, poi anche lui si fermava e si girava e l'uomo alzava gli occhi piangenti e lo vedeva lì sulla strada voltato a guardarlo da qualche futuro impensabile, radioso come un tabernacolo in quella desolazione.
La strada attraversava un acquitrino prosciugato, dove colonne di ghiaccio si alzavano dal fango gelato come stalagmiti in una grotta. I resti di un fuoco sul ciglio. Ancora oltre, una lunga strada rialzata di cemento. Una palude morta. Alberi senza vita che spuntavano dall'acqua grigia con barbe di muschio fossile. I soffici mucchietti di cenere contro lo spigolo dell'asfalto. L'uomo si fermò e si sporse dal parapetto di calcestruzzo ruvido. Forse, guardandone la distruzione, finalmente sarebbero riusciti a vedere come era fatto il mondo. I mari, le montagne. Il poderoso contro spettacolo delle cose che cessano di esistere. La sconfinata desolazione, idropica e gelidamente terrena. Il silenzio.
[...]
Devi andare avanti, disse. lo non ce la faccio a venire con te. Ma tu devi continuare. Chissà cosa incontrerai lungo la strada. Siamo sempre stati fortunati. Vedrai che lo sarai ancora. Adesso vai. Non ti preoccupare.
Non posso.
Non ti preoccupare. Questo momento doveva arrivare da tempo. E adesso è arrivato. Continua ad andare verso sud. Fa' tutto come lo facevamo insieme.
Fra poco ti passa, papà. Ti deve passare.
No, non passerà. Tieni sempre la pistola con te. Devi trovare gli altri buoni, ma non puoi permetterti di correre rischi. Niente rischi. Capito?
Voglio restare con te.
Non puoi.
Ti prego.
Non puoi. Devi portare il fuoco.
Non so come si fa.
Sí che lo sai.
È vero? Il fuoco, intendo.
Sí che è vero.
E dove sta? Io non lo so dove sta.
Sí che lo sai. È dentro di te. Da sempre. Io lo vedo.
Portami con te. Ti prego.
Non posso.
Ti prego, papà.
Non ce la faccio. Non ce la faccio a tenere fra le braccia mio figlio morto. Credevo che ne sarei stato capace, e invece no.
Hai detto che non mi avresti mai lasciato.
Lo so. Mi dispiace. Hai tutto il mio cuore. Da sempre. Tu sei il migliore fra i buoni. Lo sei sempre stato. Quando non ci sarò più potrai comunque parlarmi. Potrai parlare con me e io ti risponderò. Vedrai.
E riuscirò a sentirti?
Sí. Mi sentirai. Fa' come se ci parlassimo con la mente. E allora vedrai che mi senti. Ci vorrà un po' di allenamento. Ma non ti arrendere. Ok?
Ok.
Ok.

2 commenti:

Cesare Bresciani 20 dicembre 2011 alle ore 10:05  

Perfettamente d'accordo.
Anche il film tratto dal romanzo non è male, ma certo l'ambientazione, le facce e le voci dei personaggi creati dalla mente di ciascuno di noi lettori non è riproducibile.
P.S.: ti faccio un appunto invece sulla tua classifica: Larssen secondo me è sopravvalutato; opinione personale, ovvio.

Antonio De Bellis 20 dicembre 2011 alle ore 14:20  

Grazie per il contributo. Su Larsson mi piacerebbbe aprire una discussione sotto il post realtivo http://leggereconpiacere.blogspot.com/2011/03/uomini-che-odiano-le-donne-stieg.html e capire cosa non ti è piaciuto. Ciao

Lettura di Sciascia in biblioteca

5 Marzo ore 20,30, Biblioteca Castiglione delle Stiviere

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