Le Benevole - Jonathan Littell

>> sabato 10 dicembre 2011


Sono passati quasi tre anni di distanza e un centinaio di altri libri dalla lettura de Le benevole il romanzo di Littell continua ad essere saldamente al primo posto della mia classifica. Credo che il suo fascino inossidabile risieda nell'aver fatto emergere come il male sia parte della natura umana. Fomentato, indirizzato, organizzato può portare un intero popolo a decidere di decimarne un'altro inerme. Se il grande Primo Levi nella sua trilogia dei sommersi e salvati aveva dato la visione che nei campi di concentramento, dall'altra parte della barricata, vi fossero individui sanguinari e senz'anima, Littell ci dice che quelle belve sono come noi: hanno madri, sorelle, bambini, amano la musica, fanno progetti per una vita felice. Ed è veramente inquietante pensare che basti poco passare al lato oscuro della forza.

I passi più efficaci sono quelli in cui l’autore fa emergere le nefandezze e le bassezze del regime nazista dalla voce dei gerarchi SS, trascrivendo il loro punto di vista.
In Germania è stato possibile risolvere la questione ebraica, senza eccessi e in modo conforme alle esigenze dell’umanità. Ma quando abbiamo conquistato la Polonia, abbiamo ereditato altri tre milioni di ebrei. Nessuno sa cosa farne né dove metterli. (…) Abbiamo già giustiziato migliaia di ebrei e ne restano ancora decine di migliaia; più le nostre forze avanzano più ce ne saranno. Ma se giustiziamo gli uomini, non resta nessuno per mantenere le donne e i loro figli. La Wehrmacht non ha le risorse per nutrire decine di migliaia di inutili femmine ebree con i loro marmocchi. Non si può nemmeno lasciarli morire di fame: sono metodi bolscevichi. Includerle nelle nostre azioni, con i loro mariti e i loro figli, è in realtà la soluzione più umana, date le circostanze.
(…) Le fosse si riempivano troppo in fretta; i corpi cadevano a casaccio, si mescolavano, si sprecava molto spazio e quindi si perdeva troppo tempo a scavare; Blobel ci aveva illustrato la nuova pratica. I condannati nudi si sdraiavano sul ventre sul fondo della fossa, e qualche tiratore sparava loro un colpo alla nuca, a bruciapelo. Dopo ogni strato un ufficiale doveva procedere ad un’ispezione e assicurarsi che tutti i condannati fossero morti; poi li si copriva con un sottile strato di terra e il gruppo successivo veniva a sdraiarsi su di loro, disponendosi alternativamente dalla testa e dai piedi; quando si erano accumulati cinque o sei strati in questo modo, si chiudeva la fossa.

L’autore ha reso “umano” un maniaco-criminale. I pensieri del protagonista, così ragionevoli, condivisibili, intelligenti e che denotano una certa sensibilità danno un idea di quanto il male possa essere vicino alla gente comune o, anche, quanto possano convivere nella stessa persona normalità e perversione. La trascrizione seguente è un esempio della parte “buona” del protagonista unita ad un’interpretazione probabilmente veritiera di come tanti padri di famiglia abbiano potuto seviziare e trucidare persone indifese e innocenti.
Adesso credevo di capire meglio le reazioni degli uomini e degli ufficiali durante le esecuzioni. Se soffrivano come avevo sofferto io durante la Grande azione non era soltanto per gli odori e la vista del sangue, ma per il terrore e il dolore dei condannati; e analogamente chi veniva fucilato spesso soffriva più per il dolore e la morte, sotto i suoi occhi, delle persone amate, mogli, genitori, figli adorati, che non per la propria morte, che alla fine giungeva come una liberazione. In moti casi, mi dicevo perfino, quello che avevo preso per sadismo gratuito, l’inaudita brutalità con cui certi uomini trattavano i condannati prima di giustiziarli, era solo una conseguenza della mostruosa pietà che provavano e che, incapace di esprimersi altrimenti, si trasformava in rabbia, una rabbia impotente però, priva di oggetto, e che perciò doveva quasi inevitabilmente ritorcersi contro chi ne era la causa prima. Se i tremendi massacri dell’Est provavano qualcosa, è proprio paradossalmente, la spaventosa, inalterabile solidarietà umana. Per quanto brutalizzati e avversi fossero, nessuno dei nostri uomini poteva uccidere una donna ebrea senza pensare alla propria moglie, sorella o madre, o poteva uccidere un bambino ebreo senza vedere i propri figli davanti a sé nella fossa. Le loro reazioni, la loro violenza, il loro alcolismo, le loro depressioni nervose, i suicidi, la mia stessa tristezza, tutto ciò dimostrava che l’altro esiste, esiste in quanto altro, in quanto umano, e che nessuna volontà, nessuna ideologia, nessuna dose di stupidità e di alcol può spezzare questo legame, tenue ma indistruttibile.
E’ un libro di forti contrasti, dove si alternano descrizioni angoscianti e parti poetiche.
Mi diressi verso i sotterranei. “Non si avvicini troppo ai corpi”, mi disse un infermiere vicino a me. Tendeva il dito e guardai: un brulichio scuro e indistinto correva sui cadaveri ammucchiati, si staccava da loro, si muoveva tra le macerie. Guardai più da vicino e mi si rivoltò lo stomaco; i pidocchi abbandonavano in massa i corpi freddi alla ricerca di nuovi ospiti. Li aggirai con ogni cura e scesi; dietro di me, l’infermiere sogghignava. Nel sotterraneo, l’odore mi avvolse come un lenzuolo bagnato, una cosa viva e multiforme che si annidava nelle narici e nella gola, fatta di sangue, di cancrena, di ferite imputridite, di fumo di legna umida, di lana bagnata o intrisa di urina, di diarrea quasi dolce, di vomito. Respiravo dalla bocca, rauco, sforzandomi di trattenere i conati.
(...)
Scendeva la sera. Una spessa brina ricopriva tutto: i rami i contorni degli alberi, i fili e i pali delle recinzioni, l’erba fitta, la terra dei campi quasi nudi. Era una specie di mondo di orribili forme bianche, angoscianti, fantastiche, un universo cristallino da cui la vita sembrava bandita. Guardai le montagne: l’ampia muraglia azzurra sbarrava l’orizzonte, custode di un altro mondo, nascosto. Il sole, dalla parte dell’Abacasia probabilmente, scendeva dietro alle creste, ma la sua luce sfiorava ancor le cime, posando sulla neve sontuose e delicate luci rosa, gialle, arancione, fucsia, che correvano delicatamente da una vetta all’altra. Era di una bellezza crudele, da mozzare il fiato, quasi umana ma nel contempo al di là di ogni cruccio umano. A poco a poco, laggiù in fondo, il mare inghiottiva il sole, e i colori si spegnevano uno a uno, lasciando la neve azzurra, poi di un grigio bianco che splendeva tranquillamente nella notte. Gli alberi incrostati di brina gelata comparivano nel cono dei nostri fari come creature in movimento. Avrei potuto credere di essere passato dall’altra parte, in quella contrada che i bambini conoscono bene, e da cui non si ritorna.

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Lettura di Sciascia in biblioteca

5 Marzo ore 20,30, Biblioteca Castiglione delle Stiviere

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