La Camera Azzurra - Georges Simenon

>> sabato 8 ottobre 2011

Romanzi come questo ti riconciliano con il piacere di leggere. E' un thriller poliziesco dove il punto di vista non è quello di un commissario ma di un imputato che si avvia ad essere condannato per un crimine che forse non ha materialmente commesso. La scena parte da un particolare (i due amanti nella camera azzurra di un albergo) e poi con una zoommata all'indietro si estende fino a comprendere tutto lo spazio e il tempo in cui si muovono gli altri personaggi e si realizzano gli eventi. Il dialogo che si svolge in quel momento iniziale condizionerà la vita di entrambi e diventerà l'ossessione per il superficiale protagonista. E' un romanzo fortemente moralista: sorprende che sia stato scritto dal libertino Simenon che si racconta abbia sedotto, nell'arco della sua vita, migliaia di donne.

La camera era azzurra, di un azzurro - aveva notato un giorno - simile a quello della liscivia. Un azzurro che lo riportava all'infanzia, ai sacchetti di tela grezza pieni di polvere colorata che sua madre diluiva nella tinozza del bucato prima di risciacquare la biancheria e stenderla sull'erba scintillante del prato. A quel tempo lui doveva avere cinque o sei anni, e si chiedeva come mai una polverina azzurra potesse ridare il bianco ai tessuti. Gli sembrava un miracolo. In seguito, quando la madre era morta da un pezzo e ormai i tratti di quel viso familiare cominciavano a svanire dalla sua memoria, si era anche chiesto perché la povera gente come loro, nonostante gli abiti rattoppati, attribuisse tanta importanza al candore della biancheria.
Era a questo che stava pensando in quel momento? L'avrebbe capito soltanto dopo. L'azzurro della camera non somigliava solo al colore della liscivia, ricordava anche il cielo di certi caldi pomeriggi d'agosto, prima che il tramonto lo tinga di rosa e poi di rosso.
Perché era proprio un tardo pomeriggio di agosto, più precisamente erano le cinque del 2 agosto, e sul tetto della stazione, la cui facciata bianca era immersa nell'ombra, cominciava a far capolino qualche nuvola dorata, leggera come panna montata.
«Ti piacerebbe passare con me il resto della tua vita?».
Registrava automaticamente le parole di Andrée senza prestarvi una particolare attenzione. Non più di quanto facesse con le immagini o gli odori. Come poteva sapere che avrebbe rivissuto quella scena decine e decine di volte? E sempre in uno stato d'animo diverso, da un punto di vista diverso...
Per mesi si sarebbe sforzato di ricordare ogni minimo dettaglio. Non tanto di sua spontanea volontà, ma perché altri l'avrebbero costretto a farlo.
Il professor Bigot, per esempio, lo psichiatra incaricato dal giudice istruttore, gli avrebbe chiesto con insistenza, spiando ogni sua reazione:
«Andrée la mordeva spesso?».
«É capitato».
«Quante volte?».
«Ci siamo incontrati solo otto volte in tutto, a l'Hôtel des Voyageurs».
«Otto volte in un anno?».
«In undici mesi... Sì, undici, visto che la cosa è iniziata a settembre...».
«Quante volte l'ha morso?».
«Tre, forse quattro».
«Durante il rapporto?».
«Mi pare... Sì...».
Sì... No... Quel giorno, in realtà, era successo dopo, quando si era staccato da lei per girarsi su un fianco a guardarla con gli occhi socchiusi, incantato dalla luce che li avvolgeva.
Fuori, nella piazza della stazione, l'aria era torrida. Il sole batteva in pieno sulla camera, ed era così ardente, di un calore così vivo che sembrava quasi di sentirne il respiro anche all'interno.
Tra le persiane, che Tony non aveva chiuso del tutto, restava una fessura di una ventina di centimetri. Dalla finestra aperta giungevano i rumori della cittadina, alcuni confusi, quasi un coro lontano, altri vicini e distinti, ben riconoscibili, come le voci dei clienti seduti al bar di sotto.
Poco prima, mentre si abbandonavano freneticamente all'amore, quei rumori arrivavano sino a loro fondendosi con i loro corpi, la loro saliva, il loro sudore, con il candore del ventre di Andrée e il colore più scuro della pelle di lui, con la losanga di luce che tagliava in due la stanza, con l'azzurro delle pareti, un riflesso danzante sullo specchio e l'odore dell'albergo. Un odore che sapeva ancora di campagna, in cui si mescolavano gli effluvi del vino e dei liquori serviti nel salone all'entrata, dello stufato che cuoceva a fuoco lento in cucina, del materasso di crine vegetale un po' ammuffito.
«Come sei bello, Tony».
Glielo ripeteva a ogni incontro, mentre lei rimaneva distesa e lui andava su e giù per la camera cercando le sigarette nella tasca dei pantaloni buttati su una sedia impagliata.
«Perdi ancora sangue?».
«No, quasi più niente».
«E che le dici se ti chiede qualcosa?».
Lui aveva alzato le spalle: non capiva perché Andrée si preoccupasse tanto. Nulla, in quel momento, gli pareva importante. Si sentiva bene, in armonia con l'universo.
«Le dirò che ho sbattuto... Contro il parabrezza, per esempio. Una frenata brusca...».
Si era acceso una sigaretta, e gli sembrava che avesse un gusto particolare. Ricostruendo quella conversazione, si sarebbe poi ricordato di un altro odore, quello dei treni, riconoscibile fra tutti. Un convoglio merci faceva manovra nella zona riservata al traffico locale, e la locomotiva lanciava ogni tanto un breve fischio.
Il professor Bigot - un ometto magro, rosso di capelli e con le sopracciglia folte e arruffate - avrebbe insistito:
«Non ha mai pensato che lo facesse apposta a morderla?».
«Perché?».
In seguito, l'avvocato Demarié, il suo difensore, sarebbe tornato alla carica.
«Penso che questi morsi potrebbero giocare a nostro favore».
Ma, ancora una volta, come gli sarebbe potuta venire in mente una cosa del genere, allora, in un momento in cui era occupato solo a vivere? Se anche aveva pensato qualcosa, non se n'era reso conto. Rispondeva ad Andrée senza riflettere, a fior di labbra, in tono leggero, svagato, convinto che quelle parole buttate lì non avessero alcun peso, e dunque non lasciassero traccia.
Un pomeriggio - era il loro terzo o quarto appuntamento - Andrée, dopo avergli detto che era bello, aveva aggiunto:
«Sei così bello che mi piacerebbe fare l'amore con te davanti a tutti, in mezzo alla piazza della stazione...».
Tony era scoppiato a ridere, ma senza sorprendersi. Neanche a lui dispiaceva mantenere un certo contatto col mondo esterno mentre erano l'uno nelle braccia dell'altro, percepire i suoni, le voci, le variazioni di luce, perfino il rumore dei passi sul marciapiede e il tintinnio dei bicchieri ai tavolini del bar di sotto.
Un giorno che era passata la banda si erano divertiti a fare l'amore a tempo di musica. Un'altra volta era scoppiato un temporale e Andrée aveva insistito perché spalancasse la finestra e le persiane.
In fondo era un gioco, e lui non ci aveva visto nessuna malizia. Lei era nuda, sdraiata di traverso sul letto, in una posa volutamente lasciva. Lo faceva apposta, appena chiusa la porta della camera, a mostrarsi quanto più impudica possibile.
Capitava che, una volta spogliati, Andrée mormorasse con una falsa innocenza che faceva anch'essa parte del gioco:
«Io ho sete. E tu?».
«No».
«Tra poco l'avrai. Chiama Françoise e dille di portarci da bere...».
Françoise, la cameriera, era una donna sulla trentina. Abituata a servire nei bar o negli alberghi da quando aveva quindici anni, ormai non si stupiva più di niente.
«Desidera, signor Tony?».
Lo chiamava così perché era il fratello del proprietario, Vincent Falcone, il cui nome stava scritto sull'insegna e la cui voce echeggiava dal bar.
«Non si è mai chiesto se questo atteggiamento mirasse a raggiungere uno scopo preciso?».
Ciò che stava vivendo - una mezz'ora, ma neanche... qualche minuto della sua esistenza - sarebbe stato frammentato in singole immagini, in suoni isolati, sarebbe stato passato al setaccio, e non solo dagli altri, pure da lui.
Andrée era alta. A letto non si notava, ma superava Tony di tre o quattro centimetri. Nonostante fosse del posto, aveva i capelli scuri, quasi neri, come una francese del Sud o un'italiana: un bel contrasto con la pelle bianca e liscia, che sotto la luce sembrava cangiante. Aveva un corpo opulento, le forme piene, le carni - soprattutto i seni e le cosce - morbide e sode.
[...]
Aveva appena acceso i fari nel crepuscolo, quando si era accorto della Due cavalli grigia sul ciglio della strada. Andrée, vestita di chiaro, gli faceva segno di fermarsi.
Naturalmente aveva frenato.
«É una fortuna che tu sia passato da qui, Tony...».
In seguito, quasi costituisse una prova contro di lui, gli avevano chiesto:
«Vi davate già del tu?».
«Certo, dai tempi della scuola».
Che diavolo poteva mai annotare il giudice sul foglio dattiloscritto che aveva davanti?
«Continui».
«Andrée mi disse: "Guarda un po' se dovevo bucare proprio la volta che, per mancanza di spazio, ho lasciato a casa il cric... Tu ce l'hai?"».
Tony non aveva avuto bisogno di togliersi la giacca, perché faceva ancora caldo e perciò non se l'era neanche messa. Quel giorno - se lo ricordava bene - indossava una camicia a maniche corte con il colletto sbottonato e un paio di pantaloni di tela azzurra.
Ovviamente, si era offerto di smontare la ruota.
«Ce l'hai quella di scorta?».
Mentre lui lavorava, si era fatto del tutto buio. In piedi vicino a lui, Andrée gli passava gli attrezzi.
«Arriverai in ritardo per la cena».
«Non è la prima volta. Sai, con il mio lavoro...».
«Tua moglie non dice niente?».
«Lo sa che non è colpa mia».
«L'hai conosciuta a Parigi?».
«No, a Poitiers».
«É di lì?».
«Di un paese vicino, ma lavorava in città».
«Ti piacciono le bionde?».
Gisèle era bionda, con una pelle sottile, diafana, che si colorava di rosa alla minima emozione.
«Non so. Non ci ho mai riflettuto».
«Mi chiedevo se le brune non ti facessero un po' paura».
«Perché?».
«Perché un tempo hai baciato più o meno tutte le ragazze di Saint-Justin, tranne me».
«É probabile che non ci abbia pensato».
Scherzava, e intanto si ripuliva le mani col fazzoletto.
«Vuoi provare almeno una volta a baciarmi?».
Lui l'aveva guardata con stupore, ed era stato lì lì per chiederle di nuovo:
«Perché?».
Nel buio la vedeva a malapena.
«Vuoi?», aveva ripetuto Andrée, con voce quasi irriconoscibile.
Tony ricordava il bagliore rosso delle luci di posizione, l'odore dei castagni, poi l'odore e il sapore della bocca di lei. Con le labbra incollate alle sue, Andrée gli aveva preso una mano per accostarsela al seno, e lui si era stupito di trovarlo così tondo e sodo, così vivo.
E dire che gli era sembrata una statua!
Si stava avvicinando un camion. Per sottrarsi alla luce dei fari erano indietreggiati - senza staccarsi l'uno dall'altro - verso la banchina, dove crescevano i primi alberi del bosco. E subito Andrée si era messa a tremare come non gli era mai capitato di vedere in una donna. Addossandosi a lui con tutto il peso del corpo, gli ripeteva:
«Vuoi?».
Si erano ritrovati a terra, fra l'erba alta e le ortiche.
Tony non disse nulla di tutto ciò né ai poliziotti né al giudice. Solo il professor Bigot, lo psichiatra, gli strappò a poco a poco la verità. Era stata lei ad alzarsi la gonna fino al ventre, a sbottonarsi la camicetta per liberare i seni e a ordinargli con voce rauca, quasi rantolante:
«Scopami, Tony!».
In effetti, era stata lei a possederlo, mentre i suoi occhi esprimevano insieme il trionfo e la passione.
«Non avevo mai immaginato che Andrée fosse così...».
«Che intende dire?».
«La ritenevo una donna fredda, altera, come sua madre».
«E dopo? Non era un po' imbarazzata?».
Distesa sull'erba, immobile e con le gambe ancora aperte - come quel pomeriggio nella stanza d'albergo -, gli aveva detto:
«Grazie, Tony».
Sembrava pensarlo davvero. Si mostrava umile, quasi infantile.
«Era da tanto che lo desideravo... Dai tempi della scuola, ci credi? Ti ricordi di Linette Pichat? Era strabica, ma questo non ti ha impedito di correrle dietro per mesi».
Ora Linette Pichat faceva l'insegnante in Vandea ma tornava a casa ogni anno per passare le vacanze con i genitori.
«Una volta vi ho sorpresi insieme. Dovevi avere quattordici anni».
«Dietro la fabbrica di mattoni?».
«Non l'hai dimenticato, allora?».
Tony si era messo a ridere.
«Non l'ho dimenticato perché era la mia prima volta».
«Anche per lei?».
«Non lo so. Ero troppo inesperto per rendermene conto».
«Come l'ho odiata! Per mesi, rigirandomi di sera nel letto, continuavo a scervellarmi sul modo di farla soffrire».
«E l'hai trovato?».
«No. Mi sono limitata a pregare perché si ammalasse o rimanesse sfigurata in un incidente».
«Faremmo meglio a rientrare a Saint-Justin».
«Ancora un minuto, Tony. No, non alzarti! Dobbiamo pensare a come fare per rivederci, e non sul ciglio della strada.

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Lettura di Sciascia in biblioteca

5 Marzo ore 20,30, Biblioteca Castiglione delle Stiviere

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