La scrittrice abita qui - Sandra Petrignani

>> domenica 2 ottobre 2011

E' una raccolta di note biografiche di scrittrici del secolo scorso (Grazia Deledda, Marguerite Yourcenar, Colette, Alexandra David-Néel, Karen Blixen, Virginia Woolf) che hanno come filo comune la visita della Petrignani alle loro case-museo.
Tali visite sono solo un pretesto perchè alla fine non vi è un reale valore aggiunto che mobili, suppellettili e arredamento danno alla conoscenza delle scrittrici che invece emerge dal racconto della loro storia, dalle lettere che hanno scritto in vita e da altri documenti d'epoca. Il libro della Petrignani è quindi assimilabile a una wikipedia sulle biografie. Sicuramente mi ha fatto nascere il desiderio di rileggere Canne al Vento che ricordo mi era piaciuto vent'anni fa e di affrontare la Yourcenair e la Blixen di cui non ho mai letto nulla.

Stanislao Manca incarnava l'esatto punto di confluenza fra i desideri delle due Grazie: quello intellettuale e quello amoroso. Di una nobile famiglia di Sassari (i duchi dell'Asinara), aveva sei anni più di lei ed era già un affermato giornalista a Roma. Era stato lui, incuriosito dalla giovane scrittrice e sinceramente interessato al suo lavoro, a scriverle per proporle di pubblicare qualcosa sulla «Tribuna », di cui era critico teatrale. E vanesio, seduttivo. Grazia non è abituata agli uomini fatali; e fraintende. Fa anche su di lui le sue ingenue fantasie matrimoniali, pensa che uno scambio di ritratti sia il suggello di un fidanzamento. E quando Stanis viene fino a Nuoro per conoscerla, non ha più dubbi. E il 1891, settembre. Lei che parla sempre in dialetto, figlia di una donna che porta il costume tradizionale, costretta con le sorelle, pur vestendo alla moda, a non uscire senza coprirsi la testa con «il fazzoletto di seta o di raso, che solo al maritarci possiamo lasciare», lei che si annoia «a morte nella nostra piccola casa color rosa» a meno che non «capitino amici dalle città dell'isola o dal continente», si mette il suo vestito più bello, di «setina nera a puntini d'oro», comprato coi primi guadagni letterari, e accoglie l'uomo dei sogni emozionata e timidissima, quasi muta. Successivamente farà una malattia di averlo ricevuto troppo modestamente, nella sala a pianterreno, là dove adesso hanno collocato una serie di vetrinette con i pochi oggetti superstiti che risalgono a quel periodo: gli occhiali, una scatola smaltata con motivi di fiori e di uccelli, un libricino regalo di De Gubernatis con dedica, varie penne con il pennino, fotografie, articoli di giornale ingialliti e lettere, testimonianza di una scrittura minuta, ordinata e maschile. La spazzolina montata in argento per eliminare la polvere dallo scrittoio, il timbro di legno e ottone per sigillare le lettere, il portapenne con fiorellini dipinti, la lampada azzurra, i calamai di cristallo, una piccola lente d'ingrandimento, che compaiono in tante fotografie, sono di epoca successiva e stanno al Museo Etnografico, dove è conservato lo studio che la Deledda aveva a Roma, opera del Clemente. In Cosima racconta così: «Le sorelle avevano steso un'antica tovaglietta di pizzo sul tavolino dove fu servito il caffè.» Ma la stanza è troppo povera per un duca. «Nella vecchia libreria si vedevano ancora le carte d'affari del padre morto.» E «l'uomo biondo la scrutava con piccoli occhi verdognoli che, a guardarli di sfuggita, quasi con spavento, a lei ricordavano quelli dei gatti selvatici in agguato contro gli uccellini di primo volo.» Non c'è amore in quegli «occhi tigreschi», ma Grazia non se ne accorge. Quando lui le scrive: «Mi fate spavento coi vostri sogni mostruosi», non vuole capire. Scrive lettere su lettere, senza risposta. Finge una disinvoltura che non ha, crolla e dichiara il suo amore, poi se lo rimangia, prega e minaccia. Finché lui la offende deliberatamente, con un sadismo, non può non saperlo, che la legherà a lui per sempre. «Un giorno le mandò una lettera strana, dove, fra le altre cose piacevoli, le diceva che ella gli era sembrata quasi una nana», scrive Grazia alla fine della vita con un'ironia che non basta a cancellare l'antica bruciatura. Due anni dopo quel fatale incontro a Nuoro, si chiedeva ancora disperata: «che maledizione è questa?» perché, lasciato il Pirodda, uomo-schermo che l'aveva distratta per un po’, si ritrovava più presa che mai dal Manca («Stanis, oh Stanis! Stanis, Stanis, Stanis!») Lui le aveva dato anche della «squilibrata», si dichiarava innamorato di un'altra, giovane e bellissima. Ma Grazia, con tutta la sua razionalità, con la sua virile determinazione, era totalmente dentro l'incantesimo, l'unico caso in cui anche l'altra parte di sé, la parte artista e creativa, non era rimasta immune. I capelli hanno cominciato a imbiancarsi precocemente per il dolore, gli scrive: «vi amo ancora, sempre... sono gelosa di questa vostra collegiale con la treccia cadente... non fatemi soffrire più», «sento tutta l'umiliazione della vostra indifferenza, eppure vi scrivo e ne trovo piacere.» Dopo un anno delira che a dividerli non è stata la mancanza d'amore, ma la differenza sociale, e sostiene: «Sì, voi mi avete amato, forse mi amate ancora.» E' a questo punto che Stanis infligge il colpo mortale, quello della «nana» e lei allora risponde: «tutto è finito, proprio tutto» e cerca goffamente di vendicarsi: «Vi ho amato perché tutti dicono che siete antipatico e brutto. Anche a me la vostra persona fece una stranissima impressione, avvezza qual sono ai giovani bruni e sottili...» Ma, come sempre, è ad Angelo De Gubernatis che dice la verità: «E' un mistero profondo che invano cerco di studiare in me stessa, ma io l'odio e l'amo e lo disprezzo nel medesimo tempo, sento che sarò sempre legata a questo mistero, che sarò sempre infelice.» E' per sfuggire all'incantesimo che prende con se stessa la decisione di non amare mai più? Non in quella maniera delirante e inerme, perlomeno. Non in modo passionale. Non con la resa incondizionata e folle dell'innamorato. Ormai Grazietta ha preso il sopravvento: «Io, all'infuori dei miei racconti, non credo più all'amore, quest'amore bugiardo e dannoso che ci rende stolti e delle volte anche vili. Forse è per questo che la vita mi sembra così triste, - ma non amerò mai più.» Dette da chiunque altro, queste parole (scritte al solito De Gubernatis alla fine del 1894) potrebbero essere prese alla leggera: lo sfogo di una ragazza ferita in «una giornata vaporosa e triste.» Dette da Grazia Deledda, l'oscura giovane di Nuoro, che potè studiare solo fino alla quarta elementare e arrivò a vincere il premio Nobel, suonano con la forza di un'autoprofezia e di una ferrea decisione, sono il simbolo di una volontà incrollabile, di una personalità ferma fino all'eccesso, di un rigore un po’  impressionante.
[...]
Forse c'erano due Yourcenar, una intima e quasi irraggiungibile, attingibile solo a chi fosse l'oggetto del suo amore, e una per gli altri, egocentrica, indifferente, spietata. Petite Plaisance non è la casa di un "monumento" (Galey riportò così un incontro con l'ex-amica: «Alla fine, qualche minuto di commozione per la morte di Grace. Come si commuovono i monumenti. Appena una nuvoletta presto secca»).
Petite Plaisance è il contrario di un sacrario o di una reggia.
E' una casa tenera, avvolgente, femminile. Un posto impregnato di sentimenti, in cui ogni oggetto ha una storia, un nido fatto di ricordi di viaggio, di poltrone comode, di coperte calde da mettersi sulle ginocchia, di ammirazione per altri scrittori, di compassione per gli animali, di rispetto per le piante. Ma è una casa in cui due donne hanno vissuto insieme per tanto tempo, sono state una coppia, e una coppia negli anni attraversa tante fasi. Yourcenar preferiva non rivelarsi (non l'ha fatto nemmeno nei suoi libri, a parte quelli della giovinezza), ma poteva essere aspra e sincera, come quando, descrivendo cosa fosse stato il suo rapporto con Grace Frick, disse: «Insomma, è una cosa molto semplice: dapprima una passione, poi un'abitudine, infine solo una donna che cura un'altra donna malata.»
Grace si era ammalata di cancro nel 1958, a cinquantacinque anni.
L'avevano operata asportandole un seno ed era stata sottoposta a radioterapia. Il male sembrava sconfitto. Ma in realtà aveva un tumore al sistema linfatico che progressivamente attacca quasi tutto il corpo.
C'è una sua foto nel soggiorno, in mezzo a quelle di Monsieur, FuKu e Valentine. E' un espressivo primo piano. «L'ultima bella foto di Grace», diceva Yourcenar mostrandola agli ospiti. Scattata nel '71 in Europa. Appena prima della devastazione che la malattia operò sul suo fisico negli ultimi anni. Non era mai stata bella, ma l'espressione arguta, lo sguardo briccone, la bocca decisa, il mento appuntito, dicono molto di lei e le danno un'aria attraente, quanto o più che nella giovinezza. L'aggravarsi del male procedeva di pari passo con il crescendo di gloria che cominciò a illuminare la vita della compagna. Memorie di Adriano era uscito nel 1951 con un successo straordinario. L'opera al nero, giudicato un capolavoro ancora più importante, viene pubblicato nel '68. E Grace, che si era sempre fatta in quattro per sostenerla quando nessuno credeva in lei, che aveva ricopiato in bella ogni riga nel piccolo studio di Perite Plaisance sull'unica scrivania con le macchine da scrivere sistemate una di fronte all'altra, Grace che aveva discusso con Marguerite ogni perplessità, che era la sua unica traduttrice in inglese, che aveva desiderato quei risultati quanto o più di lei, ora si lascia divorare dalla gelosia ben più di quanto conceda al cancro di invaderla. Anzi al cancro oppone una guerra forsennata; prova ogni nuova terapia; resiste a dolori atroci; cerca di mantenersi in piedi mentre il corpo cade letteralmente a pezzi diventando una cicatrice aperta e impressionante a vedersi.
L'attaccamento alla vita coincideva con l'attaccamento a Marguerite.
«Grace», scrive ne L'invenzione di una vita Josyane Savigneau,convincente biografa della scrittrice, «non sopporta l'idea che Marguerite possa sopravviverle.» Non sopporta di perdere la presa su di lei, quella presa che si faceva tanto più stretta e  insopportabile per gli altri, quanto più Yourcenar diventava una celebrità che tutti volevano incontrare, conoscere, possedere almeno un po’. Ma per arrivare a questo punto bisogna tornare molto indietro, nella Parigi del 1937. Una Marguerite trentaquattrenne, bruna e piuttosto in carne, dagli straordinari occhi blu e la bocca voluttuosa, sta conversando al bar dell'Hotel Wagram con un amico. Parlano di Coleridge. Dicono sciocchezze, secondo Grace, seduta al tavolo vicino. Tanto da spingerla a intromettersi nella discussione sostenendo che si stanno sbagliando.
In realtà è irresistibilmente attratta dall'orgogliosa sconosciuta e il giorno dopo la invita nella sua stanza a «vedere gli uccelli dalla finestra.» Marguerite accetta e diventano amiche. Ma se l'americana Grace Frick, alta, sottile, determinata, in Francia per motivi di studio, libera, s'innamora immediatamente di una passione esclusiva che si dimostrerà intramontabile, Marguerite si trova in una situazione completamente diversa. E una giovane donna dall'erotismo acceso e perverso; ha fortemente amato un padre dandy e giramondo, che l'ha altrettanto fortemente ricambiata, morto nel 1929. La madre non l'ha mai conosciuta, l'ha uccisa lei nascendo. E se si vuole un'analisi convincente di tanto complesso materiale edipico e delle sue conseguenze sulla vita amorosa adulta, basta leggere Vous, Marguerite Yourcenar. La passion et ses masques di Michele Sarde. Così si può capire l'origine di una «nevrosi passionale» di tipo masochista che la predispone al «sacrificio e al dolore in amore, contribuendo a sviluppare la tendenza al deprezzamento di sé e che si traduce nell'opera in una svalutazione della figura femminile» e in un gigantismo proiettivo di quella maschile. Ma anche senza scomodare la psicoanalisi, che la Yourcenar osteggiò sempre con disprezzo, i fatti parlano da soli. A ventisei anni, rimasta orfana anche del padre, con un piccolo patrimonio presto sperperato in viaggi, cattivi investimenti e vita dissoluta, la giovane scrittrice, autrice di un libretto di versi e del racconto Alexis, sfrenata seduttrice di uomini e di donne, s'innamora dell'affascinante biondo André Fraigneau, di quattro anni più giovane di lei. E' un amore insensato e irrimediabile.
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La prima impressione sulla stanza di Colette, è che non sembra la camera da letto-studio di una scrittrice. E' rosso fuoco. Come in un vecchio bordello. Rosse le pareti, foderate di seta, e anche il soffitto. Diceva che non aveva senso lasciarlo bianco se doveva passare tanto tempo distesa a guardarlo. Rosso il letto e le lenzuola. La coperta, che compare anche in tante ultime fotografie, è di pelliccia.
Alcune poltroncine sono ricamate a mano da lei, broderie anglaise. Fiori e farfalle. Si dedicò al «punto inglese» durante le due guerre («E' un vizio che riesco a soddisfare solo in tempo di guerra»), ricamava soprattutto copricuscini per sé e per le amiche che dalla campagna la rifornivano di cibo. Fu proprio durante l'ultima guerra che cominciò a soffrire di reumatismi alle gambe. I dolori erano già così forti da impedirle di camminare, certi giorni. «Oh, detestabile vecchiaia», si lamentava. «Non c'è niente di allegro nell'ultima parte della vita», scriveva a Marguerite Moreno. E alle amiche di campagna: «La vecchiaia è una scomoda suppellettile.» Nel 1942 Maurice Goudeket, il terzo marito, più giovane di sedici anni, le comprò una sedia a rotelle. E comunque lei riusciva a praticare «l'ottimismo come forma "contagiosa" di resistenza.» Solo raramente perdeva il controllo e si lasciava andare a uno sfogo: «E' una cosa spaventosa, idiota, non dovrebbe essere permesso.
E un orrore, è disgustosa, è impossibile!» gridò una sera a cena in mezzo a pochi amici carissimi. Poi sui suoi fogli rifletteva: «In me si muove - oltre al dolore straziante, come una grossa vite di pressione - un trapano molto meno familiare del dolore, un'insurrezione che nel corso della mia lunga vita ho spesso rinnegato, poi battuto d'astuzia, infine accettato, perché scrivere non porta che a scrivere» (nel Panai bleù) Per l'intera esistenza aveva tenuto a bada l'esibizione delle emozioni, le aveva dissimulate, protette dietro una durezza che molti temevano, dentro un'ironia che ne faceva la grande protagonista della vita culturale parigina. In Il mio noviziato si legge: «...le lacrime pubbliche sono frutto di una sorta di incontinenza... A causa forse della fatica che ho fatto per soffocarle, ne ho orrore.» Avvertì Francio Carco, lo scrittore «maledetto», che fra le tante «fidanzate» aveva contato anche Katherine Mansfield e che a Colette aveva fatto da guida nei bassifondi di Parigi: «Soffro molto, te lo dico senza mezzi termini. Ma non fare alla mia artrite troppa pubblicità.» Durante la guerra, all'amica Renée Hamon (che chiamava «la piccola corsara» perché aveva girato il mondo in bicicletta per tre anni) aveva detto: «Dobbiamo rifiutarci le parole affettuose e le buone lacrime tumultuose.»
Controllare le emozioni aveva richiesto un lungo allenamento che ora le permetteva di resistere al dolore, anche quando divenne costante e insopportabile. Ma pure a quel punto evitava di intossicarsi con i farmaci, rifiutava persino una comune aspirina, per rimanere lucida, perché la mente, quella, doveva restare intatta. Il tarlo dell'introspezione, invece, a cui la costrinse l'immobilità, era un colpo basso della vita che proprio non aveva previsto. «Che bella vita ho avuto, peccato che non me ne sia accorta prima» (Belles saisons).
Aveva sempre vissuto di corsa, senza negarsi niente, ed eccola costretta a negarsi tutto. Il giorno della Liberazione può solo guardare la festa dalla finestra, da quella sua stanza rossa. Vede le bandiere francesi «che stormivano come fogliame lungo la rue Vivienne» e immagina quante donne quella notte faranno l'amore. Le invidia. Da più di vent'anni non si concedeva il brivido che danno le carezze di uno sconosciuto, l'eccitazione del primo contatto sessuale con una persona nuova. Era successo nell'estate del 1933 l'ultima volta, nella sua casa di Saint Tropez, detta «La pergola di moscato» (è ancora lì, col suo fittissimo giardino fiorito, e la targa di marmo giallo che recita «La Treille Muscate») Lui era un dandy, tanto per cambiare, uno dei pericolosi (eroticamente) fratelli Kessel, Georges. Affascinante, drogato, alcolizzato, che altro? Gli mancava una gamba, persa non in guerra come il capitano, ma per un incidente stradale, mentre guidava «imbottito di cocaina, dopo una notte di orge», dice Judith Thurman, autrice di Una vita di Colette. Per le avventure di una notte, questi tipi avevano una presa irresistibile su Colette. E quando Maurice, che era rimasto a Parigi lo venne a sapere (c'è sempre qualcuno che non si fa i fatti suoi) perse l'abituale aplomb e le spedì un messaggio velenoso. Lei rispose con una lettera che un po balbetta delle scuse, un po' rivendica «l'autorità totale» della sua sessualità, che non le permette di tirarsi indietro quando si tratta di «partecipare a un banchetto fisico e morale, non per niente sono figlia di mia madre e, al diavolo, non ho avuto niente sotto i denti per tutta l'estate, non posso mica brutalizzarti e tormentarti per il tuo bene!» Come tutte le persone che non sanno resistere alle tentazioni, Colette, però, riconosceva l'importanza della fedeltà nella coppia. In un'intervista, raccolta in Mes verites, ad André Parinaud disse: «La fedeltà non è indispensabile, ma è meglio. Alla fine si scopre che la fedeltà è, nelle sue peripezie e nei suoi risultati, qualcosa di più comodo, di più... direi, bassamente pratico, che l'infedeltà.» Ma dunque, nella notte di baldoria per la Liberazione, deve limitarsi a guardare dalla finestra, deve contentarsi di riflettere con malinconia (Stella della sera): «Felici quelle, quella notte, che non trattennero le loro frenesie. Felici quelle che furono fuori di sé.» Era la stessa donna, solo più vecchia, che con un matrimonio fallito alle spalle, una storia omosessuale consolatoria con la travestita aristocratica Mathilde de Morny, detta Missy, e un intermittente amante più giovane, Auguste Hériot, follemente innamorato di lei, aveva scritto nei Dialoghi di bestie, carica di energia e di futuro: «Voglio fare quello che voglio... Voglio salire sulla scena... Voglio danzare nuda... voglio scrivere libri tristi e casti... voglio amare l'uomo che mi ama, e dargli tutto ciò che posseggo al mondo... il mio corpo, che non sopporta di essere spartito, il mio cuore tenero, la mia libertà.» Aveva trent'anni. La malattia non la priva solo dell'evento eccezionale. Ciò che è più insopportabile, come nota la sua biografa, è la perdita dell'«improvvisazione», la possibilità di decidere sul momento: vado a fare una passeggiata al Bois con i cani, a mangiare ostriche al ristorante all'angolo, a cercare porcellane al marche aux puces. Non è la solitudine che le pesa, è la mancanza d'indipendenza.
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Nell'ultima intervista radiofonica che rilasciò a una televisione belga, tre mesi prima di morire, alla domanda cos'è più importante nella vita, Karen Blixen rispose: «Coraggio, capacità d'amare, senso dell'umorismo.»

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Lettura di Sciascia in biblioteca

5 Marzo ore 20,30, Biblioteca Castiglione delle Stiviere

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