Che la festa cominci - Nicolò Ammaniti

>> martedì 30 agosto 2011

Ammaniti ha una grande capacità di creare storie e caratterizzare i personaggi. Peccato che ad un certo punto sembra perdere le redini del racconto. Nella prima parte del libro le vicende dei due protagonisti, il leader della strampalata setta satanica e lo scrittore in crisi esistenziale-creativa, coinvolgono, intrigano, divertono. Poi con l'inizio della festa la trama si fa surreale, grottesca e sfida l'intelligenza del lettore. Magari la creazione di una riserva per la caccia alla volpe e alla tigre in uno dei più importanti parchi di Roma ci poteva anche stare. Ma il popolo dei rifugiati politici sovietici che da cinquant'anni vive nelle catacombe di Villa Ada lascia esterrefatti. Ad un certo punto gli eventi precipitano ma non si capisce come: finita infatti la rocambolesca (e divertentissima) corsa sugli elefanti, nei bivacchi degli invitati tutto è sottosopra e i coccodrilli fanno scempio di un ospite. Sembra di assistere ad un film che ha subito un taglio casuale di pellicola. Se si tralascia la trama (ma non è poco) il libro merita di essere letto per alcuni episodi che fanno ridere di gusto.

Il capo delle Belve, esasperato, sbatté le mani sul tavolo.
– Facciamo così. Datemi una settimana. Una settimana non si nega a nessuno.
– Che ci devi fare? – chiese Silvietta mordicchiandosil’anello sul labbro.
– Sto studiando un’azione esagerata. Una missione molto pericolosa… – Prese una pausa. – Però poi non potete tirarvi indietro. Perché a parlare sono tutti buoni. Ma quando arriva il rischio… – Fece una vocina lamentosa.– Non posso, scusami… Ho problemi di famiglia, mia madre sta poco bene… Devo lavorare –. E guardò in maniera particolare Zombie, che abbassò colpevole la testa sul piatto. – No. Si rischia tutti il culo nello stesso modo.
– Ma non ci puoi anticipare qualcosa? – domandò timidamente Murder.
– No! Vi posso solo dire che è un’azione che ci farà balzare di colpo in testa alla top list delle sette sataniche d’Italia.
Silvietta gli afferrò un polso.
– Mantos, dài ti prego,dicci qualcosina. Sono troppo curiosa…
– No! Ho detto di no! Dovete aspettare. Se fra una settimana non vi porto un progetto serio, allora grazie, ci diamo una bella stretta di mano e sciogliamo la setta. Va bene? – Si mise in piedi. Gli occhi neri gli erano diventati rossi, riflettevano le fiamme del forno delle pizze.
– Ora discepoli onoratemi! Gli adepti abbassarono il capo. Il leader sollevò gli occhi al soffitto e allargò le braccia.
– Chi è il vostro padre carismatico?
– Tu! – dissero in coro le Belve.
– Chi ha scritto le Tavole del Male?
– Tu!
– Chi vi ha insegnato la Liturgia delle Tenebre?
– Tu!
– Chi ha ordinato le pappardelle alla lepre? – fece il cameriere con una sfilza di piatti fumanti sulle braccia.
– Io! – Saverio allungò una mano.
– Non toccare che scottano. Il leader delle Belve di Abaddon si sedette e in silenzio cominciò a mangiare.
[...]
Con la fauna aviaria le cose furono un po’ più complesse. Stefano Coppé, steso accanto al suo Burgman250 dopo esser stato tamponato da una Opel Meriva sullo svincolo fra la Salaria e l’Olimpica, vide roteare sopra di lui uno stormo di avvoltoi e capi che le cose si stavano mettendo male. Una coppia di condor fece il nido sul balcone della famiglia Rossetti, in via Taro, e straziò Anselmo, il soriano di casa, che aveva tentato una difesa disperata del terrazzino. Gli atleti dell’Acqua Acetosa videro nibbi e barbagianni appollaiati sui pali delle porte di rugby. Il pescivendolo di via Locchi fu depredato di una spigola dì tre chili da un’aquila pescatrice. Pappagalli e tucani si spiaccicavano sui parabrezza delle macchine che correvano sulla tangenziale.
[...]
Fabrizio si accese una sigaretta. – Ora mi dici per favore che è successo?
Lei si tolse il cappello. – Samuel ci ha beccati,
– Chi cazzo è Samuel?
– Mio figlio. Ci ha beccati.
Fabrizio non capiva. – In che senso?
– Ci ha beccati… – Cristina prese aria come se facesse fatica a parlare. – … mentre facevamo l’amore in cucina.
– Cazzo! – Anche Fabrizio si sedette sul letto.
E se il ragazzino lo raccontava a Gelati? Ci metteva una mano sul fuoco che quel pezzente avrebbe messo tutto a tacere pur di non passare per cornuto. Per certi versi era meglio così. Quella storia doveva finire. Non avrebbe neanche dovuto inventare una palla per troncarla. E poi ora la sua mente funzionava come un missile teleguidato che ha un solo obbiettivo da colpire: Larita e il loro trasferimento a Maiorca.
Fabrizio si mise le mani nei capelli cercando di apparire costernato. – Porca miseria…
Mi dispiace tanto… Poverino, si deve essere traumatizzato.
Cristina fece un sorrisino a labbra strette. – Traumatizzato? Quello? Vuole un sacco di soldi se no la nostra scopata finisce su internet.
Forse Fabrizio non aveva capito bene. – Cosa hai detto?
– Ci ha ripreso con il telefonino.
– Ma scusa… Come cazzo si chiama… Tuo figlio non sta in collegio in Svizzera?
– Di solito sì. Solo che quel weekend era a Roma. Mi aveva detto che stava a casa di un amico al mare. Deve essere rientrato in casa e…
– Ma tu l’hai visto ’sto video?
– Me l’ha mandato per email.
– Ma che si vede?
– Io e te. Ci si vede benissimo. Sembra un film porno. La fine poi è terribile, tu mi scopi da dietro mentre io sto mantecando le pennette ai quattro formaggi.
– Pure quello ha ripreso?
– Sì.
[...]
Era pazzo di Serena ma non aveva modo di poterla avere. Lui era l’ultimo dei ragionieri e lei la figlia del padrone. Sfilava come una dea in minigonna attraverso i corridoi del mobilificio e Saverio sognava anche di poterle solo parlare. Lei però non lo degnava di uno sguardo. Anche se gli passava davanti tutti i giorni non lo aveva nemmeno notato. Ed era giusto così.
Una sera Saverio era in ufficio a ricontrollare per l’ennesima volta il bilancio semestrale. I suoi colleghi erano andati via ed era solo nel mobilificio. A un tratto aveva sollevato gli occhi e, dall’altra parte del corridoio vide Serena con un sacco di buste dello shopping in mano.
Il cuore di Saverio era esploso. Tremando si era tolto le cuffie e aveva timidamente sollevato una mano per salutare, ma lei non aveva nemmeno risposto.
Però poi era tornata indietro e aveva piegato la testa per osservarlo. – Tutto solo?
- bè.. si.. – era riuscito a dire cercando di tenersi dritto sulla sedia.
Lei era entrata nell’ufficio contabilità e si era guardata attorno come per controllare che veramente non ci fosse nessuno. Saverio non l’aveva mia vista così in forma.
- Ti annoi?
- No, - aveva risposto Saverio di getto, poi aveva pensato che nessuno sano di mente si diverte a controlare i bilanci semestrali e aveva corretto – Un po’. Ma tanto fra poco finisco.
Lei si era data una ravvivata ai capelli e gli aveva chiesto: - Ti va un pompino?
A Saverio era sembrato gli avesse chiesto se voleva un pompino. Ma doveva aver capito male. Doveva avergli chiesto se voleva un cappuccino.
- Il distributore è rotto. Dovrebbero ripararlo in settimana.
- Ti ho domandato se ti va un pompino.
Saverio non poteva credere alle sue orecchie. Forse i funghi nella pizza erano allucinogeni.
Continuava a guardarla a bocca spalancata, come un idiota.
- Allora? – Lei, masticando la gomma, aveva ripetuto la domanda proprio come se gli chiedesse se voleva un cappuccino.
- Come?
- Lo vuoi o no? – Serena cominicava a stufarsi.
- Come? – La mente di Saverio era in stallo.
- Non lo conosci? Il pompino è una pratica sessuale per cui io ti prendo in bocca l’uccello e lo ciuccio.
Perché stava facendo questo? Era ovvio. Era una trappola per poterlo accusare di molestie sessuali come nei film americani.
- Vabbè ho capito -. Serena era passata attorno alla scrivania, si era accucciata, si era data un’aggiustata ai capelli, si era tolta la gomma da masticare e gliel’aveva consegnata. – Tienila per favore.
Saverio aveva stretto il chewimng-gum fra le dita mentre la figlia del suo principale, con la stessa fredda abilità di un’infermiera che leva i vestiti a un ferito, gli slacciava la cinta e sbottonava la patta dei pantaloni.
- Potrebbe piacerti. – Gli aveva abbassato le mutande e osservato l’uccello senza fare commenti. Poi lo aveva soppesato e lo aveva strizzato come si farebbe con le mammelle di una vacca. Ma lo spettacolo non era ancora finito. Serena aveva spalancato la bocca, con la lingua piccola e appuntita si era umettata le labbra e poi lo aveva ingoiato tutto quanto, fino alle palle. Saverio era talmente terrorizzato da non poter neppure provare piacere, ma poi era bastato pensare che Serena custodiva nella sua bocca tutto il suo cazzo per strappargli un orgasmo esplosivo e imbarazzante.
Lei si era passata il dorso della mano sulla bocca, lo aveva guardato negli occhi e gli aveva domandato con voce soddisfatta: - Senti, domani mi accompagneresti da Ikea?
Lui aveva risposto un solo e semplice – Sì.
Ma quello era il primo sì. Primo di una sequela infinita.
Saverio Moneta, da quel giorno, da oscuro ragioniere si trasformò in sherpa durante le razzie che Serena compiva nei centri commerciali, in auto del suo Suv, fattorino, facchino, pony express, idraulico, riparatore di antenne paraboliche, marito e padre dei suoi figli.
Ah, quello fu il primo e ultimo pompino che ricevette in dieci anni di convivenza.
[...]
Il centroavanti si sporse dalla cesta, verso il conducente – Oh… niño…
Il filippino si girò e guardò in su. – Eh?
– ¡Descánsate! –
Il centroavanti mollò uno spintone al poveraccio, che perse l’equilibrio, sparendo senza un grido in un cespuglio di more. Con la sua proverbiale agilità Paco saltò sul collo dell’elefante e cominciò a menare cazzotti sulla testa del pachiderma. La bestia roteò l’occhio grosso come una padella e squadrò il calciatore, che però non smetteva. Allora sollevò la proboscide emettendo un barrito potente e partì al galoppo.
Paco, Milo e le fidanzate urlavano eccitati. Ciba vide l’elefante dietro di loro venirgli addosso come una locomotrice senza freni e poi i due animali cominciarono a prendersi a spallate. Le ceste ondeggiavano paurosamente.
– Che cazzo fate? – urlò lo scrittore, che per poco non cadde di sotto.
– Spostatevi, lumache! – Milo Serinov si stava proprio divertendo.
– Fatece passa’, – strillò Taja Testari, ma il ramo di una quercia secolare la colpì sul setto nasale e uno schizzo di sangue imporporò il vestito di Mariapia Morozzi.
– Ahhh! Che dolore! – urlò la modella afflosciandosi dentro il cesto.
– Meno uno! – strillò Ciba, che aveva perso il suo aplomb intellettuale e si stava eccitando.
Anche Paco sembrava un invasato. Niente poteva fermarlo. – ¡Ándale! ¡Ándale con juicio! – E li stava superando quando, a una decina di metri, veloce come una freccia rossa gli tagliò la strada la volpe, che chissà come era riuscita a farla ai suoi cacciatori.
Al suo passaggio tutti urlarono: – La volpe! La volpe!
– Questa è la caccia alla tigre. Che ci fa qui la volpe? – domandò Larita.
Il vecchio Cinelli si ridestò dal coma e con un colpo di mano afferrò il fucile dal fondo del cesto urlando anche lui: – La volpe! La volpe! – E cominciò a sparare a caso nella boscaglia.
I proiettili fischiavano da tutte le parti.
La cantante si rannicchiò con le mani sulle orecchie mentre Ciba acchiappò la canna del fucile cercando di strapparlo al vecchio rincoglionito, che continuava a premere il grilletto senza sosta. Un proiettile colpì la fibbia di metallo della cesta dell’elefante di coda. Il cinturone si aprì e il gruppo rock metal di Ancona si ribaltò. I musicisti finirono in un campo di ortiche.
Finalmente il fucile di Cinelli si scaricò. Il vecchio si guardò intorno. – L’ho presa, eh? L’ho presa?
La corsa degli elefanti continuava e travolgeva tutto. Rami, alberi abbattuti, cespugli.
Un urlo agghiacciante si levò dal bosco alla loro sinistra. In sella a uno stallone Paolo Bocchi galoppava roteando una sciabola come un ussaro alla battaglia di Marengo. Sfilò accanto agli elefanti e li superò gridando: – Savoia o morte! – Indossava solo i pantaloni da cavallerizzo. Il petto nudo era sfregiato dai rami e dalle spine. Al passaggio del destriero i due elefanti si imbizzarrirono ancora di più e accelerarono la corsa. Il chirurgo, veloce come il vento, saltò una siepe e sparì nel bosco. Un istante dopo una muta ululante di cani schizzò sotto le zampe dei pachidermi inseguendo Bocchi e la volpe. L’elefante guidato da Paco Jiménez inchiodò terrorizzato. Il centroavanti della Roma e la cesta schizzarono come proiettili e scomparvero nella vegetazione.
Un suono di corno inglese si levò dalle tenebre del bosco. E uno scalpiccio di zoccoli si fece sempre più vicino. Contromano si materializzarono trentotto cavalieri in giubba rossa assetati di sangue di volpe. Videro troppo tardi gli elefanti che gli sbarravano la strada. Tra le file dei cavalieri caddero in molti, altri furono trascinati con il piede incastrato nelle staffe per chilometri. Pochissimi ne uscirono illesi.
L’elefante con l’agente cinematografico Elena Paleologo Rossi Strozzi, lo stilista magrebino e il direttore della fiction Rai cappottò come una A 112 Abarth sul curvone di Monte Mario.
Fabrizio Ciba ancora in groppa all’elefante si accorse che il guidatore filippino era sparito. Provò a fermare l’animale colpendolo con il calcio del fucile, ma la bestia scartò di lato e parti verso il folto del bosco. Il vecchio Cinelli roteò su se stesso, volò indietro, rimbalzò su una chiappa dell’elefante e rimase appeso alla coda. Il nipote tentò un gesto eroico e disperato nello stesso tempo. Uscì dalla cesta e reggendosi con una mano al bordo cercava con l’altra di afferrare il nonno.
Il vecchio prese la mano del nipote. – Tira, tira!
I due ruzzolarono a terra tra i cespugli di pungitopo.
Ciba e Larita erano soli in groppa alla bestia impazzita.
[...]
Per fortuna quel trabiccolo era lento.
Mantos, senza più fiato, allungò una mano, si aggrappò al portellone posteriore e con un salto maldestro ci montò sopra. L’autista non si era accorto di nulla. Nel cassettone erano stipate delle grandi pentole da cui usciva un intenso odore di curry.
Ora doveva mettere fuori gioco il guidatore. Tirò su il cappuccio, si contrasse come un gatto e cacciando un ruggito alla Sandokan si lanciò sull’uomo, che sentendo quell’urlo bestiale e credendo fosse la tigre, inchiodò d’istinto.
Il leader delle Belve di Abaddon, spada nella mano, proseguì invece il volo, planò oltre il cofano della macchina e si schiantò a pelle di leone in mezzo alla strada. La Durlindana gli volò via. Il paraurti si fermò a venti centimetri dai suoi piedi. Mbuma Bowanda, originario del Burkina Faso, dove aveva fatto per anni il pastore, aveva visto una strana creatura librarsi sopra la sua testa, superarlo e scomparire davanti, al muso della macchina.
Nel suo piccolo villaggio vicino Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso, c’era l’antica credenza che nelle nottate di luna piena dal fango dei fiumi si formassero dei demoni alati, neri come la pece, che si rubavano le pecore e le vacche. Li chiamavano Bonindà. Lui non credeva a queste favole folcloristiche, eppure quell’essere era proprio tale e quale ai mostri di cui gli parlava sua nonna quando da bambino lo addormentava.
Si sollevò tremante sul sedile. Il demone era ancora steso davanti alla macchina.
Sembrava morto.
Ora gli passo sopra…
Ma non lo fece. Intanto non era sicuro che i demoni si potessero uccidere così, e comunque le ruote della sua automobile erano troppo piccole per potergli passare sopra.
Ingranò la retromarcia quando il demone nero si sollevò da terra, a testa bassa, poggiò le mani sul cofano e cacciò un urlò terrificante.
A Mbuma avevano raccontato che la gente si piscia addosso per la paura, ma gli era sempre sembrata un’esagerazione. Si dovette ricredere. Se l’era appena fatta nelle mutande.

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Lettura di Sciascia in biblioteca

5 Marzo ore 20,30, Biblioteca Castiglione delle Stiviere

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