L'Isola dei Pirati - Michael Crichton

>> domenica 13 febbraio 2011

Crichton è uno dei miei scrittori preferiti perchè nelle sue prove migliori (che secondo me sono Timeline, Preda, Jurassic Park, Punto Critico, Rivelazioni) riesce a fondere mirabilmente scienza e fantasia, prefigurando scenari futuri su cui è stimolante ragionare per anticipare tendenze e costruire innovazione. Non tutta la sua produzione va nella direzione della techno-fiction, ha creato anche romanzi storici in cui ha sempre dato prova di essere uno scrittore attento, che studia accuratamente l'epoca e riesce con le conoscenze acquisite a dare veridicità all'ambientazione del racconto e, altra sua caratteristica che apprezzo tanto, ad acculturare il lettore. Avendo letto tutto di lui mi mancava questo libro, uscito postumo dopo la sua morte. Il romanzo purtroppo non è all'altezza degli alti livelli raggiunti nella sua carriera, sembra un racconto di gioventù dove si intravede un certo mestiere che però ha bisogno di tempo, lavoro, esperienza per evolversi nella giusta direzione. La storia e i personaggi sembrano piatti come i quadri dei pittori dilettanti che danno un'idea di cosa rappresentino ma le immagini non fuoriescono dalla tela. In diverse parti sono introdotti avvenimenti e situazioni che rimagono in sospeso, non portate a compimento o risolte molto frettolosamente. 
Riporto di seguito alcune parti in cui l'autore "accultura" il lettore e le ultime fasi dell'avvincente duello tra il galeone spagnolo e quello corsaro.

«Per prima cosa vi eravate raccomandato di procurare una miccia lunga e a lenta combustione. Giusto?». Hunter annuì. «Le micce abituali sono inutilizzabili», spiegò diligente l’Ebreo. «In alternativa, si potrebbe ricorrere a una riga di polvere da sparo, che però brucia troppo rapidamente, o alle normali micce a lenta combustione, che però sono troppo lente.» Queste ultime erano costituite da pezzi di cordicella o spago impregnati di salnitro. «E la fiamma, inoltre, è spesso troppo debole per dar fuoco all’esplosivo vero e proprio. Mi spiego?»
«Sì.»
«Bene. Quanto a intensità della fiamma e velocità di combustione della miccia si può trovare una via di mezzo accrescendo la proporzione di zolfo contenuta nella mistura infiammabile. Tale mistura, però, è nota per la sua inaffidabilità. E noi non vogliamo che la fiamma si metta a tremolare per poi spegnersi.»
«No, infatti.»
«Ho provato diversi tipi di corda e di stoppino e di tessuto, senza apprezzabili risultati. Nessuna delle soluzioni sperimentate si è rivelata utile allo scopo. Allora mi sono messo a cercare qualcosa che potesse contenere la polvere di innesco e ho trovato questo.» Mostrò a Hunter una bianca e sottile sostanza membranosa. «Le
budella di un topo», sorrise felice, «leggermente asciugate su carboni tiepidi per depurarle di ogni umore e succo, preservandone al contempo l’elasticità. Ebbene, introducendo un certo quantitativo di polvere nell’intestino, si ricava una miccia con le caratteristiche richieste. Ve lo dimostro.»
Ne prese un pezzo lungo all’incirca tre metri, biancastro, al cui interno si coglieva, in trasparenza, l’ombra della polvere. Lo posò sul terreno e ne incendiò un’estremità. La miccia cominciò a bruciare in silenzio, con pochi scoppiettii, lentamente, consumandosi mediamente al ritmo di quattro o cinque centimetri al minuto.
L’Ebreo si illuminò. «Visto?»
«Avete ottimi motivi per andar fiero di voi», si complimentò Hunter. «È trasportabile questo tipo di miccia?»
«Con le appropriate precauzioni», disse l’Ebreo. «L’unico problema è il tempo. Se il budello diventa troppo secco, si sfalda e potrebbe rompersi. Questo fenomeno si verifica più o meno a distanza di un giorno.»
«Allora dovremo portarci dietro un certo numero di topi.»
«Lo credo anch’io», disse l’Ebreo. «Comunque, c’è un’altra sorpresa: una cosa che voi non avevate richiesto. Magari non saprete che cosa farvene, ma a me pare ugualmente uno strumento assai apprezzabile.» Si interruppe per un istante. «Avete mai sentito parlare di quell’ordigno che i francesi chiamano grenade?»
«No.» Hunter scosse la testa. «Che cos’è? Un frutto avvelenato?» Grenade, in francese, indicava la melagrana, e gli avvelenamenti, a quei tempi, erano all’ordine del giorno alla corte di re Luigi. «In un certo senso...» ammise l’Ebreo con un vago sorriso. «Il nome deriva dal fatto che l’ordigno contiene “semi” come la melagrana. Sapevo dell’esistenza di armi del genere, ma sapevo anche che la loro fabbricazione era  estremamente pericolosa. Io, però, sono riuscito a produrla senza danni. Il segreto sta nella proporzione del
salnitro. Guardate.» L’Ebreo sollevò un bottiglia di vetro dal collo corto in cui versò una manciata di pallini da caccia e alcuni frammenti di metallo. Mentre era così occupato, precisò: «Non voglio che pensiate male di me. Avete mai sentito parlare della Complicidad Grande?».
«Solo vagamente.»
«Tutto ebbe inizio con mio figlio», iniziò a raccontare l’Ebreo con una smorfia, continuando a preparare la granata. «Nell’agosto dell’anno 1639 mio figlio aveva da molto tempo abbandonato la fede ebraica. Viveva a Lima, in Perù, Nuova Spagna. La sua famiglia prosperava, e lui si fece diversi nemici. «Fu arrestato l’11 di agosto», proseguì l’Ebreo infilando altri pallini nel recipiente di vetro, «e accusato di praticare la religione ebraica in segreto. Dicevano che non apriva mai il suo negozio di sabato e che non mangiava pancetta a colazione. Fu marchiato come giudaizzatore e torturato. Gli chiusero i piedi nudi in scarpe di ferro incandescente e gli bruciarono le carni. Finì per confessare.» Ormai la bottiglia era piena di polvere da sparo e l’Ebreo la sigillò facendo sgocciolare della cera sull’imboccatura. «Rimase in prigione per sei settimane», riprese. «Poco dopo undici uomini furono messi al rogo. Sette erano ancora vivi. Tra questi ultimi c’era anche mio figlio. Il comandante della guarnigione era Cazalla, e fu lui a sovrintendere all’esecuzione dell’autodafé. Le proprietà di mio figlio furono requisite. Sua moglie e i bambini... scomparvero.» L’Ebreo rivolse una fugace occhiata a Hunter e si asciugò le lacrime. «Non cerco compassione», disse, «forse il mio racconto vi aiuterà a comprendere meglio questa mia idea.» Sollevò la granata e vi innestò una miccia corta.
[...]
Le colubrine pesavano più di due tonnellate ciascuna. Con gli affusti fuori uso, quei cannoni sarebbero risultati inservibili, perché diventava impossibile puntarli e far fuoco. E se anche nella fortezza ci fossero stati altri affusti di scorta, sarebbero servite decine di uomini e molte ore di lavoro per sostituire quelli distrutti e rimettere in funzione l’artiglieria. «Prima di tutto, però», disse don Diego sorridendo compiaciuto, «ci occuperemo delle culatte.» Hunter non ci aveva pensato, ma si rese subito conto dell’astuzia di quella mossa.
Le colubrine, come tutti i cannoni, venivano caricate dal davanti. Per prima cosa gli artiglieri infilavano nella bocca del cannone un sacchetto di polvere da sparo e subito dopo il proietto, la palla. Quindi introducevano nel focone situato nella culatta un oggetto sottile e appuntito, per lacerare il sacchetto contenente la polvere da sparo, e poi una miccia accesa. La miccia si consumava all’interno del focone e raggiungeva la polvere da sparo che, esplodendo, scagliava lontano il proietto. Questo metodo risultava efficace finché il focone aveva dimensioni limitate. Dopo molti spari, però, la miccia infuocata e le esplosioni finivano per corroderlo e allargarlo, trasformandolo in una valvola di sfogo per i gas in espansione. In tali condizioni, la gittata del cannone si riduceva notevolmente e talvolta il colpo non partiva neppure, mettendo in serio pericolo l’incolumità degli artiglieri. Per rimediare a questo inevitabile deterioramento, i costruttori di cannoni avevano
dotato le culatte di un pezzo metallico intercambiabile e rastremato, al centro del quale veniva praticato un sottile forellino. Il pezzo veniva inserito dalla bocca del cannone, in modo che l’espansione dei gas dovuta all’esplosione finisse per spingerlo al suo posto - sempre di più e meglio - dopo ogni nuovo sparo. Quando il focone, cioè il forellino centrale, diventava troppo largo, bastava rimuovere il pezzo e sostituirlo con uno nuovo. A volte, però, quell’inserto metallico veniva sparato fuori tutto intero, all’indietro, provocando un grosso buco nella culatta del cannone. A questo alludeva don Diego: voleva rendere inutilizzabili quei cannoni almeno finché qualcuno non avesse sostituito il pezzo e fatto le necessarie riparazioni, procedure che avrebbero richiesto molte ore di lavoro.
[...]
«Signora», riprese Hunter, «in questa comunità...»
«Comunità? É questa», lo interruppe lei, facendo un ampio gesto a indicare la nave e gli uomini addormentati sul ponte, «voi la chiamate “comunità”?» «Certo! Ovunque vi siano uomini riuniti, ci sono regole da seguire. Questi individui seguono leggi diverse da quelle vigenti alla corte di re Carlo e di re Luigi o anche solo nella colonia del Massachusetts, dove io sono nato. Eppure, anche qui ci sono regole da rispettare, e pene per chi le trasgredisce.»
«Ma voi siete un filosofo!» La voce di lady Sarah suonò sarcastica nel buio. «Parlo per esperienza. Alla corte di re Carlo che cosa vi accadrebbe se mancaste di inchinarvi al cospetto del monarca?» Lei sbuffò, rendendosi conto di dove quell’argomento andasse a parare. «Lo stesso vale anche qui», continuò Hunter. «Questi uomini sono orgogliosi e violenti. Se spetta a me governarli, pretendo che mi obbediscano. E l’obbedienza comporta anche il rispetto, oltre al riconoscimento della mia autorità, che è assoluta.»
«Voi parlate come un re.»
«Un capitano è il re del suo equipaggio.»
[...]
Hunter attese per un altro istante. Quindi cominciò a contare ad alta voce. «Tre», gridò, mentre il mirino inquadrava il cielo. Poi la nave cominciò la fase discendente, e per un istante il suo profilo comparve nello strumento dell’Ebreo. «Due», gridò, con il mirino che mostrava il mare ribollente. Ci fu una breve esitazione nel movimento. Hunter attese. «Uno!» urlò, quando ricominciò il movimento ascendente. «Fuoco!»
Il Trinidad fu scosso da un rollio impressionante e sbandò bruscamente, nel momento in cui tutti e trenta i cannoni esplosero la prima salva. Hunter fu scaraventato all’indietro contro l’albero maestro con una violenza che lo lasciò senza fiato. Eppure, ci badò a malapena. Era in attesa, infatti, della fase discendente dell’oscillazione, ansioso di vedere che cosa fosse accaduto al nemico. «L’avete colpita!» gridò Lazue.
E il colpo era stato durissimo. L’impatto aveva fatto ruotare la nave spagnola, che ora si trovava con la poppa verso il mare aperto. Il profilo del castello di poppa era ridotto a una linea frastagliata, e l’albero di mezzana stava cadendo nell’acqua con un movimento rallentato, trascinandosi dietro vele e sartie. Nello stesso istante, però, Hunter si rese conto di aver colpito un po’ troppo vicino alla prua: di certo il timone e il timoniere non avevano subito danni. La nave spagnola, quindi, era ancora in condizioni di navigare. «Ricaricate e spingete fuori i cannoni!» gridò. A bordo del vascello nemico c’era molta confusione. Hunter era cosciente di aver guadagnato tempo. Non era certo, però, di poter contare su tutto il tempo necessario per preparare una seconda salva. Sulla nave nera, a poppa, l’equipaggio si affannava ad abbattere definitivamente l’albero di mezzana e liberarsene. Per un attimo si ebbe l’impressione che, cadendo in acqua con l’attrezzatura, potesse andare a impigliarsi nel timone, ma alla fine quell’eventualità sfumò. Hunter sentì giungere dal ponte di batteria del Trinidad il frastuono dei cannoni che, dopo essere stati ricaricati, venivano nuovamente sospinti fuori dai portelli. La nave da guerra spagnola era più vicina, a quel punto - meno di quattrocento metri a sinistra - ma da quell’angolazione non poteva sparare bordate. Passò un minuto; poi ne passò un altro... Il vascello nemico fu rimesso in sesto, mentre l’albero di mezzana con le sue vele si allontanava alla deriva nella sua scia. La prua della nave nera cambiò rotta. Gli spagnoli stavano virando per muovere contro l’indifeso lato destro del Trinidad. «Maledizione!» urlò Enders. «Lo sapevo che quel Bosquet era un astuto bastardo!» Il vascello agli ordini del francese si allineò per sferrare la bordata, e un attimo dopo la carica arrivò a segno con una precisione micidiale. Altri pennoni e sartie varie ricaddero sul ponte tutt’intorno a Hunter. «Non siamo in grado di reggere altri colpi», disse Lazue con un filo di voce. Hunter stava pensando esattamente la stessa cosa. «Quanti sono i cannoni già in posizione?» gridò. Don Diego fece un rapido calcolo. «Sedici!»
«Li faremo bastare», disse Hunter. L’ennesima bordata spagnola li investì con effetti catastrofici. Il Trinidad stava andando in pezzi sotto i piedi di Hunter. «Signor Enders!» strillò il capitano. «Preparatevi a virare!»
L’artista del mare guardò Hunter con espressione incredula. Un cambiamento di rotta, in quel momento, avrebbe portato il Trinidad davanti alla prua della nave da guerra... e molto più vicino a essa. «Preparatevi alla virata!» ripetè Hunter. «Pronti a virare!» gridò Enders. I marinai sbalorditi corsero alle cime, lavorando
freneticamente per sbrogliarle. La nave da guerra era sempre più vicina. «Trecentocinquanta iarde», avvertì Lazue. Hunter la udì a malapena. Non gli interessava più la distanza. Stava scrutando attraverso il mirino la sagoma della nave spagnola offuscata dal fumo. Gli bruciavano gli occhi, aveva la vista annebbiata. Sbatté le palpebre per mettere a fuoco l’immagine e si concentrò su un punto non visibile della nave spagnola. In basso,
appena sotto la linea di galleggiamento. «Pronti! Timone sottovento!» gridò Enders. «Pronti a far fuoco!» urlò Hunter. Enders era sbalordito. Hunter se ne rendeva conto anche senza guardarlo in faccia. Aveva, infatti, l’occhio puntato dentro il mirino e stava per sparare mentre la nave era ancora in fase di manovra. Era una cosa inaudita, una vera follia. «Tre!» gridò Hunter. Nel mirino, vide il Trinidad che cambiava orientamento come per puntare verso la nave spagnola...«Due!» Il galeone di Hunter si muoveva con lentezza, ora: il capitano vedeva la sagoma del vascello nemico passare ai margini dell’inquadratura. Sfilarono i portelli dei cannoni e a quel punto c’era solo legno...«Uno!» Il mirino continuava a muoversi lungo il bersaglio, sempre più avanti, ma era troppo alto. Aspettò il movimento discendente della propria nave, tenendo conto che contemporaneamente quella spagnola si sarebbe un po’ sollevata, esponendo il fianco. Aspettò. Non osava respirare. Non aveva neppure il coraggio di sperare. Il Trinidad risalì a fatica e...«Fuoco!» Di nuovo il galeone fu scosso dalla violenza degli spari simultanei. Ne uscì una salva un po’ irregolare; Hunter se ne rese conto con l’udito e con l’istinto, perché i suoi occhi non riuscivano a vedere nulla. Attese che il fumo si diradasse, e che il Trinidad si riassestasse. A quel punto potè finalmente vedere i risultati. «Madre di Dio», sospirò Lazue.
La nave spagnola non dava segno di essere stata colpita. Hunter l’aveva completamente mancata. «Che mi pigli il demonio!» imprecò Hunter, rendendosi conto della strana preveggenza contenuta in quelle sue parole. Erano tutti destinati all’inferno: la successiva bordata degli spagnoli sarebbe stata il colpo di grazia. «È stato un nobile tentativo, condotto con freddezza e audacia», disse don Diego. Lazue scosse la testa e andò a dargli un bacio su una guancia. «Che i santi ci proteggano», disse. Una lacrima le scivolò sulla guancia. Hunter si sentiva schiacciato dalla disperazione. Aveva sprecato la loro ultima possibilità: li aveva delusi tutti. Non c’era altro da fare che alzare bandiera bianca e arrendersi. «Signor Enders», ordinò, «fate sventolare la bandiera...»
Non terminò la frase, perché Enders stava ballando dietro il timone, dandosi delle violente pacche su una coscia, in preda a un clamoroso accesso di ilarità. A quel punto dal ponte di batteria si levò un boato di giubilo. Erano tutti impazziti? Accanto a lui, Lazue lanciò un gridolino estasiato e cominciò a ridere sguaiatamente come Enders. Hunter si voltò verso la nave spagnola. Vide la prua sollevarsi dall’acqua e a quel punto comparve l’enorme buco nello scafo, largo quasi tre metri, sotto la linea di galleggiamento. Subito dopo la prua tornò a immergersi, nascondendo il danno sott’acqua. Non ebbe quasi il tempo di rendersi conto del significato di quel fatto, perché nuvole di fumo si sprigionarono dal castello di prua del vascello nemico, gonfiandosi con sorprendente rapidità. Un attimo dopo, un’esplosione rimbombò sulla superficie del mare. La nave spagnola scomparve in una gigantesca sfera di fiamme, tra esplosioni che si susseguivano, perché le polveri immagazzinate nella stiva avevano preso fuoco. Si udì una nuova detonazione, così potente che anche il Trinidad risentì dell’onda d’urto. Poi un’altra, e un’altra ancora, e nel giro di poco il vascello di Bosquet venne inghiottito dal mare. Hunter non riusciva a scorgere altro che frammentarie immagini di devastazione: gli alberi che crollavano, i cannoni scaraventati in aria da mani invisibili, l’intera struttura della nave che si accartocciava su sé stessa, per poi esplodere verso l’esterno. Qualcosa urtò l’albero maestro poco sopra la testa di Hunter e gli scivolò giù sui capelli e sulle spalle, per poi cadere sul ponte. D’acchito pensò che potesse trattarsi di un uccello, ma guardando meglio vide che era una mano umana recisa all’altezza del polso. C’era un anello infilato su un dito. «Santo Dio!» bisbigliò. Quando rialzò lo sguardo verso la nave spagnola fu testimone di un’altra scena sconvolgente. La nave nera era sparita. Letteralmente svanita, e un attimo prima era lì. Certo, divorata dal fuoco e dalle nubi incandescenti delle esplosioni, ma c’era. A quel  punto, invece, non si vedeva più: solo frammenti, relitti infuocati, vele e pennoni che galleggiavano nell’acqua
accanto ai cadaveri dei marinai. E si sentivano le grida lancinanti dei sopravvissuti. La nave nera non esisteva più. Tutt’intorno a lui, l’equipaggio esultava. Hunter non riusciva a staccare gli occhi dal punto in cui fino a poco prima veleggiava la nave nemica. Tra i resti ancora in fiamme, il suo sguardo si posò su un corpo che galleggiava a faccia in giù tra le onde. Era il cadavere di un ufficiale spagnolo: lo si capiva dalla giubba blu che aveva ancora addosso. Chissà come, i pantaloni di quell’uomo erano stati lacerati sul didietro dalle esplosioni, sicché le sue natiche nude affioravano dall’acqua. Hunter osservò la parte esposta del corpo di quell’uomo, incapace di spiegarsi come mai la casacca, a differenza dei calzoni, fosse intatta. C’era qualcosa di osceno nella casualità, nella stranezza di quella morte. Poi, quando il cadavere fu fatto sobbalzare da un’onda, Hunter vide che era senza testa. Avvertì d’istinto che, a bordo della propria nave, l’equipaggio aveva smesso di gioire. Erano tutti ammutoliti e lo stavano guardando. Lui guardò a sua volta le loro facce, sfinite, sporche di fuliggine e sangue, gli occhi stravolti e spenti per la fatica, eppure stranamente pieni di speranza. Lo stavano guardando, in attesa che lui facesse qualcosa. Per un attimo, non riuscì a capire che cosa mai volessero da lui. Poi, però, sentì qualcosa su una guancia e comprese all’istante. Pioggia.

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Lettura di Sciascia in biblioteca

5 Marzo ore 20,30, Biblioteca Castiglione delle Stiviere

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