Stabat Mater - Tiziano Scarpa

>> giovedì 10 marzo 2011

Diario intimistico di una ragazza adolescente ambientato in un orfanotrofio di Venezia all'epoca di Vivaldi. Abbandonata dai genitori in tenera età, la protagonista inizia a dialogare con se stessa e con una madre che non conosce nè incontrerà mai. Dalle sue riflessioni si capirà la sua maturazione e il suo riscatto che avverrà con l'aiuto della musica e di un mentore, l'autore delle Quattro Stagioni, che la spingerà a portare novità e immaginazione nella sua vita. La costruzione dell'opera e l'uso delle parole è efficace nel far sentire al lettore sentimenti forti quali isolamento, claustrofobia, angoscia, disgusto, esaltazione. Ma tirando le somme mi èsembrato un puro esercizio di stile perchè, in un finale molto affrettato che non rende merito a quanto fino a quel punto costruito, non si riesce a decifrare il comportamento ambiguo del Maestro nè il percorso che porta lei alla scelta finale.


Signora Madre, è notte fonda, mi sono alzata e sono venuta qui a scrivervi. Tanto per cambiare, anche questa notte l'angoscia mi ha presa d'assalto. Ormai è una bestia che conosco bene, so come devo fare per non soccombere. Sono diventata un'esperta della mia disperazione.
Io sono la mia malattia e la mia cura.
Una marea di pensieri amari sale e mi prende alla gola. L'importante è riconoscerla subito e reagire, senza lasciarle il tempo di impadronirsi di tutta la mia mente. L'onda cresce rapida e ricopre tutto quanto. È un liquido nero, velenoso. I pesci moribondi salgono in superficie, con le bocche spalancate, annaspano. Eccone un altro, viene su boccheggiando, muore. Quel pesce sono io.
Mi vedo morire, mi guardo dalla riva, ho i piedi già bagnati di quel liquido nero e velenoso.
Arriva in superficie un altro pesce agonizzante, è il pensiero del mio fallimento, sono ancora io quella, sto morendo un'altra volta.
Perché venire a galla? Meglio morire sott'acqua. Vengo tirata giù. Mi sento sprofondare. È tutto buio.
Poi sono di nuovo sulla riva, in piedi, ancora io, ancora viva, guardo il mare velenoso, nero fino all'orizzonte, i pesci morti pullulano, con le bocche spalancate. Sono io, siamo io, mille volte, mille pesci in agonia, mille pensieri di distruzione, sono morta mille volte, continuo a morire senza smettere di agonizzare. Il mare si gonfia, sale, è velenoso, nero.
Sono il pesce con gli occhi velati, salito in superficie per morire. Guardo in alto, sopra la mia testa. C'è un orizzonte livido, le nuvole sono scure, come un mare capovolto, il cielo nuvoloso è fatto di onde immobili, sfuocate.
Vedo la riva di un'isola minuscola, là in fondo c'è una ragazza che si guarda intorno. Mi guarda mentre muoio, non può fare niente per me, quella ragazza sono io.
Fai qualcosa per me, ragazza sulla riva, fai qualcosa per te stessa. Non lasciarti amareggiare da ciò che senti dentro di te. Dovunque ti volti vedi la tua disfatta. La marea nera sale, è piena di pesci morti. Reagisci, non soccombere.
Bisogna fare in fretta, prima che io sia completamente sopraffatta, finché c'è un angolino della mia mente che riesce a vedere che cosa le sta succedendo. Bisogna trascinarsi lì con tutte le forze, ritirarsi in quel cantuccio ancora capace di prendere decisioni, e dire: io.
Io non sono questo sfacelo, io ce la posso ancora fare, io sono forte, io non voglio lasciarmi sciogliere dentro questo veleno nero, io non sono tutta questa morte che vedo, io non voglio inghiottire questo mare, io non lascerò che tutto questo buio entri dentro di me e mi cancelli.
[...]
C'è sempre un po' di luce che rimane da qualche parte, di notte. Ma non si addensa mai negli angoli, non è come un batuffolo di polvere, è una sostanza più sottile dell'aria. È un sottofondo.
Il buio è solo un'apparenza, il vero sottofondo è la luce.
[...]
Qualche giorno fa sono entrata in cucina di pomeriggio e ho rubato un pezzetto di cuore di maiale. L'ho avvolto in una piccola pezza, l'ho nascosto sotto la ringhiera, fra il metallo e i gradini, l'ho lasciato lì a marcire. Oggi l'ho messo in seno. Anche attraverso la camicia e l'abito si sentiva la puzza. Le mie compagne arricciavano il naso, mi guardavano spaventate, altre ridevano. Suor Teresa mi ha preso da parte, mi ha fatto una ramanzina sulla pulizia personale, che «è la prima cosa», ha detto.
Qual è la prima cosa? Essere oneste? Restare vergini e intatte? Amare la propria sporcizia? Portare in seno i propri sbagli? Non abbandonare i figli? Qual è la prima cosa, la cosa più importante?
[...]
Davanti a me vedevo una figura nera, una sagoma che si contorceva per un crampo all'intestino. Ero scesa fino a laggiù in fondo per stare a guardare una mia compagna che faceva i suoi bisogni! Che beffa. E che schifo. Dal fondo di quel corpo usciva una massa fetida, la ragazza annaspava, stringeva i denti, l'ho sentita invocare la Madre di Dio. Era disgustoso, stavo per andare via, ma quella cosa non finiva di uscire dalle sue viscere.
Non mi biasimate, Signora Madre, in vita mia non ero mai rimasta a spiare un essere umano mentre faceva i suoi bisogni, e di certo quella scena non mi attraeva, eppure sono rimasta lì ancora per un po', c'era qualcosa che mi tratteneva laggiù, non avevo mai visto un escremento simile in vita mia, né che si potesse soffrire così tanto per liberarsene.
Poi è successo qualcosa di assolutamente senza senso, qualcosa di mostruoso e comico allo stesso tempo. L'escremento ha iniziato a piangere.
[...]
Dal corpo della ragazza accucciata nella latrina era uscito anche un serpente che era rimasto attaccato all'escremento. La coda del serpente era ancora intrappolata nelle viscere della ragazza, mentre la testa azzannava sulla pancia il corpicino appena nato. La ragazza ha sollevato il piccolo corpo e gli ha strappato il serpente dalla pancia con un morso. Il serpente giaceva arrotolato a terra, floscio e senza forze, spenzolando ancora dalle viscere della ragazza.
[...]
— Nessuna di voi ha visto la primavera in campagna?
— No.
— Neanche una volta?
— Siamo cresciute qui dentro. Abbiamo fatto gite in barca fra le isole, ma non abbiamo mai attraversato le campagne.
— Vi piacerebbe vedere la terra che fiorisce?
— Sì!
— Bene, preparatevi.
Ci ha illuse. Ci ha fatto credere che stesse organizzando un'escursione per noi, in posti che non avevamo mai visto, dove non eravamo mai state, e tutto questo non come premio, ma per studio, come preparazione al lavoro, per farci sentire i suoni della terra e del cielo e farci suonare meglio, e invece ci ha truffate.
— Benissimo, care. Ora faremo il giro del mondo e del tempo. Con l'immaginazione. Diventerete tutto. La gentilezza e la furia. Avete ogni cosa dentro di voi. Ne avete anche il coraggio? Siete pronte?
Ha scritto un pasticcio di suoni che imitano i rumori delle stagioni. Ha copiato l'idea che avevo avuto in classe con le bambine.
[...]
Oggi don Antonio ci ha portato un altro concerto nuovo. Ci siamo accalcate attorno allo spartito, lo sfogliavamo avidamente, piene di curiosità, pregustando la nuova avventura che stavamo per attraversare. In pochi minuti, sui nostri volti si è affacciata la delusione.
— Ma... è uguale a quello della settimana scorsa...
— Sembra uguale, ragazze.
— La linea melodica è praticamente la stessa. E anche il ritmo...
— Ma gli strumenti sono diversi. La distribuzione delle parti è diversa.
— Come mai?
— Ho voluto vedere che cosa succedeva se invece di affidare questa melodia al violino la facevo fare a un oboe — . Prima di continuare il suo discorso, don Antonio mi ha guardata negli occhi. — È ancora la stessa idea, se la suoniamo così? Non bisogna lasciare che le cose accadano soltanto dentro di noi. Dobbiamo aiutarle a venire al mondo meglio che possiamo, ripensarle, riscriverle, suonarle diversamente.

0 commenti:

Lettura di Sciascia in biblioteca

5 Marzo ore 20,30, Biblioteca Castiglione delle Stiviere

  © Blogger templates Shiny by Ourblogtemplates.com 2008

Back to TOP