Il mio secondo racconto breve
>> martedì 31 maggio 2011
Secondo appuntamento ieri del corso di scrittura autogestito dal Gruppo Lettori della Biblioteca di Castiglione delle Stiviere. Come esercizio ognuno di noi aveva il compito di scrivere un racconto breve su un fatto di cronaca realmente accaduto. Abbiamo scelto di concentrarci sullo sbarco di profughi a Lampedusa. Dopo aver letto i racconti ci siamo confrontati su come migliorarli.
Questo il mio contributo:
L'approdo
La luna è ancora luminosa nel cielo e tinge di riflessi bluastri il mare nero. La terra si vede in lontananza tra gli spruzzi dell'acqua che si sollevano davanti al barcone. Samir alza lo sguardo verso le nuvole che stanno diventando sempre più chiare in quell'ora indefinita che il giorno strappa alla notte. Un mezzo sorriso taglia il suo viso ispido di barba e secco del vento e della salsedine che ha sopportato in dieci ore di viaggio. Sono in duecento in quella carretta che puzza di ruggine. Tutti stretti uno accanto all'altro con solo lo spazio per respirare.
Guarda in basso sul ponte. C'è una donna seduta con un pancione enorme. Sono riusciti a farle spazio attorno. Ansima e si lamenta. Le viene in mente il parto del suo terzo figlio quando stringeva le mani di sua moglie che sudata urlava perchè il bambino non veniva fuori. L'ostetrica le era balzata addosso per spingere sul ventre con il braccio ad angolo retto e aveva così risolto la situazione.
Distoglie lo sguardo attirato da masse scure che si avvicinano velocemente. Improvvisamente un rumore fortissimo sotto la chiglia in basso a destra. La barca si impenna e rimbalza verso sinistra. Sente il rumore dell'urto nello stomaco e i piedi staccarsi da terra. Sospeso in aria per un tempo indefinito piomba nell'acqua gelida ad una velocità che lo lascia senza fiato. E' sott'acqua. Beve salato in quel nero denso che lo avvolge. Si dimena, riesce a tirare la testa fuori. Sputa. Tossisce. Sente l'acqua dal naso che gli cola in gola. La nave si è incagliata sugli scogli e le onde la scuotono come quei giocattolini con cui i bambini si divertono quando fanno il bagnetto. Il rumore stridente dello scafo che graffia la roccia lo fa rabbrividire come il gesso che striscia sulla lavagna. Con gli occhi socchiusi che gli bruciano riesce ad individuare altre persone che come lui si muovono scomposte nell'acqua e cercano aiuto con voci gutturali smorzate dai gorgoglii. Un’onda lo sommerge. Annaspa. Sulla destra le mani sfiorano qualcosa di viscido e duro. Scogli. Si aggrappa con le dita che sembrano artigli. Scivola ancora. I vestiti pesanti lo tirano giù. Scalcia con le gambe e riesce ad aggrapparsi di nuovo. Ma non ce la fa a tirarsi su, non ha più le forze. Lo sovrasta un'altra onda. E' la fine.
Un ronzio leggero attutisce tutti i rumori. Molla la presa e mentre lo fa sente uno strattone alla mano e qualcosa che lo tira verso l'alto. Due braccia poderose lo stanno afferrando dietro i gomiti e issando su.
Prima di addormentarsi nell'ambulanza che lo sta portando via, ha il tempo di vedere, distesa su una barella accanto alla sua, la donna con il pancione che accarezza un fagottino bianco che ha tra le braccia.
Contributo di Franca Martinetti
L'Isola
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La luna è ancora luminosa nel cielo e tinge di riflessi bluastri il mare nero. La terra si vede in lontananza tra gli spruzzi dell'acqua che si sollevano davanti al barcone. Samir alza lo sguardo verso le nuvole che stanno diventando sempre più chiare in quell'ora indefinita che il giorno strappa alla notte. Un mezzo sorriso taglia il suo viso ispido di barba e secco del vento e della salsedine che ha sopportato in dieci ore di viaggio. Sono in duecento in quella carretta che puzza di ruggine. Tutti stretti uno accanto all'altro con solo lo spazio per respirare.
Guarda in basso sul ponte. C'è una donna seduta con un pancione enorme. Sono riusciti a farle spazio attorno. Ansima e si lamenta. Le viene in mente il parto del suo terzo figlio quando stringeva le mani di sua moglie che sudata urlava perchè il bambino non veniva fuori. L'ostetrica le era balzata addosso per spingere sul ventre con il braccio ad angolo retto e aveva così risolto la situazione.
Distoglie lo sguardo attirato da masse scure che si avvicinano velocemente. Improvvisamente un rumore fortissimo sotto la chiglia in basso a destra. La barca si impenna e rimbalza verso sinistra. Sente il rumore dell'urto nello stomaco e i piedi staccarsi da terra. Sospeso in aria per un tempo indefinito piomba nell'acqua gelida ad una velocità che lo lascia senza fiato. E' sott'acqua. Beve salato in quel nero denso che lo avvolge. Si dimena, riesce a tirare la testa fuori. Sputa. Tossisce. Sente l'acqua dal naso che gli cola in gola. La nave si è incagliata sugli scogli e le onde la scuotono come quei giocattolini con cui i bambini si divertono quando fanno il bagnetto. Il rumore stridente dello scafo che graffia la roccia lo fa rabbrividire come il gesso che striscia sulla lavagna. Con gli occhi socchiusi che gli bruciano riesce ad individuare altre persone che come lui si muovono scomposte nell'acqua e cercano aiuto con voci gutturali smorzate dai gorgoglii. Un’onda lo sommerge. Annaspa. Sulla destra le mani sfiorano qualcosa di viscido e duro. Scogli. Si aggrappa con le dita che sembrano artigli. Scivola ancora. I vestiti pesanti lo tirano giù. Scalcia con le gambe e riesce ad aggrapparsi di nuovo. Ma non ce la fa a tirarsi su, non ha più le forze. Lo sovrasta un'altra onda. E' la fine.
Un ronzio leggero attutisce tutti i rumori. Molla la presa e mentre lo fa sente uno strattone alla mano e qualcosa che lo tira verso l'alto. Due braccia poderose lo stanno afferrando dietro i gomiti e issando su.
Prima di addormentarsi nell'ambulanza che lo sta portando via, ha il tempo di vedere, distesa su una barella accanto alla sua, la donna con il pancione che accarezza un fagottino bianco che ha tra le braccia.
Contributo di Franca Martinetti
L'Isola
Era la dodicesima volta che si tuffava quel tenente della Finanza. Anche al buio lo aveva riconosciuto. Si chiamava Davide, non era di qui, forse pugliese, si diceva, sempre in prima fila, sempre a soccorrere quei miserabili puzzolenti il cui fetore aveva impestato tutta l’isola.
Il trambusto, le urla, i motori delle motovedette lo avevano svegliato. “Ci risiamo” Non bastassero il fastidio e i rumori ci si era messa pure Armida. “ Un altro barcone incagliato, qui vicino, come puoi dormire?”.
Non c’era verso di discutere con lei, bisognava soccorrerli questi clandestini, stranieri, forse anche pezzi di galera, ma comunque uomini. Lo rincorse persino, portandogli la sua tuta di sommozzatore, “non c’è bisogno” le urlò.
Tutti di corsa verso l’ansa rocciosa di Cavallo Bianco, dove dieci minuti prima si era incagliato l’ennesimo barcone. Un buio pesto, un mare nero come la notte, urla, voci confuse dei soccorritori, lampade e pile ad illuminare quell’ormai consueto scenario.
Non aveva voglia di tuffarsi: troppa gente in quel tratto di mare, gli sembravano più numerosi i soccorritori dei naufraghi, si mise persino a ghignare, quando vide la solita giornalista sempre lì in agguato a intervistare tutti, lasciar perdere il suo taccuino e gettarsi pure lei.
E poi quel Davide, su e giù dagli scogli, le aveva contate le dodici volte. E poi quei musi scuri e torbidi che emergevano dal nerume di quel mare. Non bastassero quegli altri già arrivati ad invaderli a togliere anche il respiro agli isolani di quell’isola maledetta in mezzo al “mare nostrum”.
Che il Mediterraneo fosse “mare nostrum” lui ci aveva sempre creduto, anche a scuola glielo avevano insegnato, ma ora cominciava a dubitarne fortemente.
La bellezza dell’isola vista nei depliants turistici, il villaggio favoloso in cui aveva incontrato la sua maga, gli stavano avvelenando la vita. E oltre tutto rovinato, sì rovinato: nessuna prenotazione turistica per la prossima stagione, lui e Armida, con le pive nel sacco, sarebbero tornati in Toscana a gestire il residence dei genitori che continuava ad andare , quello sì, a gonfie vele. Finita la stagione dei sogni, delle isole sperdute belle ed arcane solo nell’illusorio patinato delle riviste turistiche. Anche i villaggi turistici, tra non molto, avrebbero dovuto ospitare quella sordida negritudine. E allora via prima di sentire anche a casa propria quell’orrendo fetore.
A vedere quel tratto di mare ora così affollato da volontari infiammati dai gesti eroici della solidarietà e da isolani improvvisamente calati nel ruolo di salvatori, gli veniva quasi da vomitare.
Improvviso e incontrollabile giunse quell’istante che fece precipitare anche lui in mare.
Nuotava verso un fagotto, appena gettato dal barcone incagliato, sembrava un grumo di stracci, ma lui nel buio, a malapena e per una frazione di secondo, l’aveva vista quella manina alzata…….
Contributo di Enrica Remelli
Contributo di Enrica Remelli
IL SALVATORE
“Attento, attento” “Vanno a sbattere, vanno a sbattere” “Non riusciamo a controllare la prua, c’è troppa gente, stanno trascinando la barca troppo in là”, “Vanno a sbattere contro lo scoglio della Medusa”, “Buttate delle funi, cercate di bloccare il barcone” , “Si stanno buttando, di là si stanno buttando”, “Sono tutti sul fianco e chi riesce a riprenderli adesso”,”Bloccateli, bloccateli”.
Il tonfo arriva, tremendo, come un tuono senza lampi
Sono in acqua, la sento, nera intorno e non so come ci sono finito sto andando sotto non sono uomo di mare io so solo di terre riarse e di sabbia torrida e di periferie cittadine fredde e nebbiose non so niente di mare di come ci si tiene a galla, sto andando sotto annaspo perché è l’unica cosa che mi viene di fare e perché non mi voglio arrendere ma sono sotto rialzo la testa e all’improvviso lo sento “Come here, come here” lo sento gridare: deve essere vicino lo sento, capisco cosa dice cerco di girarmi nel buio totale e con l’acqua che mi entra in gola non riesco a parlare ma lo vedo annaspo ancora verso di lui mi aggrappo alla sua spalla, vorrei abbandonarmi e lasciarmi andare ma penso che non ce la possa fare da solo, da solo per tutti e due e così sbatto il braccio che ho libero e le gambe: se solo non fossero intorpidite da giorni di posizioni impossibili, se solo si muovessero come gli ordino. Annaspo sbatto le gambe, sono troppo pesante non ce la faremo mai. Sono bloccato dai vestiti bagnati, dai muscoli diventati d’acciaio… non ce la faremo mai… non ce la faremo mai … ma forse non manca molto, mi sforzo, uno sforzo ancora e ancora; adesso le gambe sembrano muoversi e il braccio si muove in sincrono… sì forse ce la faremo adesso comincio a crederci, una luce accecante fende il buio assoluto di acqua e cielo… forse siamo vicini alla spiaggia, sento qualcosa sotto la pancia, sì sì mio Dio … terra ! terra! Siamo a riva.. sono esausto ma ce l’ho fatta ce l’abbiamo fatta mi giro per guardarlo per vedere la faccia del mio salvatore per dirgli grazie .. mi giro sul fianco ma non vedo nessuno sento solo delle voci in lontananza gente che corre verso di me ma qui accanto a me non c’è nessuno alzo gli occhi al cielo e per la prima volta stanotte vedo che è talmente pieno di stelle da sembrare chiaro anche in questa notte così buia e un pensiero mi attraversa come una stilettata: stanotte è il 2 maggio e questo cielo è così uguale a quello che guardavo la stessa notte di dieci anni fa.
Avevamo appena seppellito il mio fratellino e io sarei partito all’alba per tentare di raggiungere l’Europa, lo stesso posto di stanotte e adesso so chi è il mio sconosciuto salvatore.