La collina del vento - Carmine Abate
>> venerdì 15 marzo 2013
Stasera il Gruppo Lettori si è riunito per discutere dell'ultimo libro di Abate, vincitore del Campiello 2012. Tre quarti dei presenti ha apprezzato il libro: molto scorrevole, poetico, capace con le sue descrizioni di far vivere sensazioni fisiche al lettore come il rumore del vento, il profumo della terra, il caldo del sole... Sono piaciuti anche i personaggi e la storia che sembra sia stata tratta dalla memoria diretta dell'autore. Io faccio parte dell'ala meno entusiasta. Personalmente l'ho trovato statico, a tratti noioso e con personaggi che non si staccano dalla carta. Mi ha un po' ricordato Canale Mussolini ma senza averne la verve, la grandiosità nella ricostruzione storica, la caratterizzazione dei personaggi. Comunque alla fine ci siamo chiesti: ma è questo un libro da premio? E mestamente abbiamo condiviso che le logiche che ci sono dietro l'assegnazione di un premio sono forse più legate alle relazioni tra le case editrici che al valore per i lettori.
A causa della guerra e dell'emigrazione, al paese le ragazze in età da marito erano almeno il quintuplo dei giovani che cercavano moglie. Perciò Arturo Arcuri se la prese comoda, scartando a priori un frettoloso matrimonio di combinazione, come a quei tempi era in uso. Ogni domenica andava in chiesa ad ammirare le ragazze. Le passava in rassegna nei minimi dettagli, soprattutto mentre gli scorrevano accanto, prima di prendere l'ostia sacra. Le voci sulle doti più o meno ricche di alcune di loro lo lasciavano indifferente. Concentrava invece l'attenzione sulle più belle e sanizze. Erano una meraviglia: avevano le spalle dritte, il petto ben tornito, gli occhi pieni di scintille, i denti bianchissimi, le labbra da baciare. Il suo paese era famoso nel circondario per la bellezza delle donne. Arturo non aveva che l'imbarazzo della scelta.
«L'hai trovata quella giusta?» gli chiedevano gli amici.
«Io sì. Ma ora lei deve scegliere me, altrimenti non c'è gusto, la stadera pende tutta dalla mia parte. E questo non mi piace proprio.»
«Cioè?»
«Cioè, se manca il desiderio, se tu non le fai sangue come lei fa a te, il matrimonio è come un innesto che non prende, si secca, e la vita diventa stufùsa.»
«Ma che stai contando? E chi sarebbe questa lei?»
«Be', allora non capite una minchia!» Lei era una qualsiasi delle quattro ragazze rimaste in lizza nella sua personale selezione. Come potevano capire gli altri? Che tipo, Arturo. Agli amici pareva che la guerra gli avesse scardinato il cervello. Certe volte si comportava da forestiero che non conosceva nulla delle usanze del paese.
«Vedrai che nessuna ti degnerà di un sorriso» gli dicevano, «le ragazze del nostro paese non sono teatriste né zoccole!»
Si sbagliavano: ben tre delle prescelte gli sorridevano e gli facevano gli occhi dolci.
Arturo era un bel giovanotto alto e robusto, con lo sguardo vivace e la parlantina simpatica. Alle ragazze piaceva molto. E inoltre, essendo morti i fratelli in guerra, salute a noi, avrebbe ereditato tutto il Rossarco, dunque era un ottimo partito, un gran faticatore, insomma uno da maritare di corsa. Ma con un limite, o un pregio, che lo rendeva imprevedibile: ragionava a modo suo, ragionava all'incontrario. Infatti scelse la ragazza che nessuno si aspettava, quella che non gli dava retta, non uno sguardo ricambiato, non un mezzo sorriso. «Lina…» la chiamava lui, infischiandosene delle altre. Lei faceva finta di non sentire, non si voltava mai.
Quando in chiesa chiudeva gli occhi, forse per pregare, il suo volto si illuminava di una luce estatica. Arturo le fissava le labbra imbronciate che lei apriva e chiudeva lentamente, a tratti mordicchiandole inquieta. A lui sembravano piccoli segni da decifrare come un sì d'incoraggiamento, se non addirittura un sì d'amore. Non fosse stato un sacrilegio scandaloso, l'avrebbe acquietata con un bacio rubato sotto gli occhi di tutti i santi e del paese intero. Ne era capace.
«Arturì, scommettiamo che questa non ti caca proprio?» lo stuzzicavano gli amici, uscendo dalla chiesa.
Lui sorrideva sicuro di sé: «Non c'è bisogno di scommettere: lei mi ha già detto sì».
Da quel momento cominciò un corteggiamento estenuante. Ogni giorno, al ritorno dal Rossarco, mangiava, si lavava, si radeva la sua barbaccia dura e andava a piazzarsi sul muretto di fronte alla casa di Lina. Era impossibile non notarlo.
Gli amici gli rinfacciavano maligni che lui si comportava da galletto sfrontato perché la ragazza era figlia unica, con il padre nella lontana Merica. Arturo ribatteva spavaldo, innamorato: «Per Lina non mi scanterei né davanti a un padre né a tre fratelli mascoli, pronti a scannarmi vivo».
Alla madre di lei quella sfacciataggine non dispiaceva, viste le intenzioni serie del giovane, ormai note a tutto il paese. E aspettava che facesse quei cinque passi dal muretto a casa loro per chiedere la mano della figlia, accompagnato dal padre Alberto.
Lina pareva non accorgersi dell'attenzione mielosa che la circondava, continuava a sbrigare le faccende domestiche senza mai fermarsi; agli sguardi insistenti di lui alzava una barriera di vetro, si lasciava ammirare, indifferente, e a volte osservava di sottecchi. Non era spocchiosa, però, né ciòta, cioè dura come un ciottolo di fiume, stupida. Aveva diciassette anni, dagli altri era ritenuta più che matura per il matrimonio, molte sue coetanee avevano già figli.
«Ch'aspetti a raprìre le braccia a quel bravo giovine seduto sul muretto?» le chiedevano le vicine di casa, sobillate dalla madre.
«Al momento non mi interessa nessuno» rispondeva scocciata. Semplicemente non si sentiva pronta per quel salto in un mondo che l'attraeva e la respingeva a un tempo. Non erano felici le donne maritate, lei lo intuiva, erano piuttosto serve che sorridevano e si sottomettevano ai mariti per dovere. A sua madre si leggeva negli occhi l'insoddisfazione rancorosa, il rimpianto della giovinezza spensierata, e non c'era giorno in cui non malediceva il marito, chiamandolo con disprezzo "chjachjèllu", cioè loffio spregevole, che aveva buttato a mare la fede nuziale per una zoccola mericana e non si era fatto più vivo né con una lettera né con un dollaro bucato.
Arturo non si arrendeva. Ogni sabato notte, ogni vigilia di festa, le dedicava una lunga serenata: per ore, sotto il balcone di Lina, cantava e suonava la chitarra battente, accompagnato da un amico con la fisarmonica e uno con la lira. Era bravo soprattutto a suonare, stringeva al petto il fondo bombato della chitarra con la bramosia di un amante e liberava un arpeggio ritmato dai tocchi percussivi dei polpastrelli sul piano armonico; la sua voce, pur tra qualche stonatura, vibrava di tensione amorosa, lanciava messaggi che planavano sul letto di lei come petali di rose lasciati cadere da una rondine amica, la «rìndina echi va lu maru maru», mentre il suo bene «è sutta na friscura / echi sta durmennu / Ohi riturnella / è sutta na friscura / echi sta durmennu…».
Un giorno d'autunno cominciò a piovere dopo che Arturo si era seduto sul muretto del vicolo. Invano si coprì la testa con la giacca per ripararsi un poco, la pioggia continuava a cadere a scrosci implacabili, gli annebbiava la vista, lo obbligava a stringersi nelle spalle dai brividi, rendeva vana la sua presenza innamorata di fronte alla porta e alle finestre chiuse. Ma lui non si mosse di un centimetro, aspettava che spiovesse, aspettava il miracolo.
Lei aprì la porta, finalmente, si sporse appena per non bagnarsi i lunghi capelli neri e gridò per sovrastare il rumore della pioggia: «Dai, ciòto. Entra che sennò t'ammali». Il suo sorriso sfavillava, radioso come il sole, tra gli interstizi della pioggia battente. A pensarci bene, valeva più dell'invito, quel sorriso venato di stupore, almeno quanto il primo bacio, valeva. Arturo non li avrebbe mai scordati, il sorriso e il primo bacio.
Dentro casa non c'era nessuno. Fuori continuava a diluviare.
Lina e Arturo, i miei nonni, si sposarono il 26 luglio del 1920. La cerimonia in chiesa si svolse in un'atmosfera a tratti malinconica e svagata, mentre la successiva festa a casa della sposa ristagnò in un'allegria contenuta, ma del tutto priva di autentico mordente nuziale. Troppo fresche erano le ferite della guerra, tant'è che dopo la celebrazione del matrimonio i genitori di Arturo non si fermarono a festeggiare con gli sposi, i parenti e gli amici. Avevano fatto il loro dovere spogliandosi del lutto per una mattinata, di più non si poteva pretendere da una madre e un padre che portavano stampata nei visi scavati una sofferenza indicibile.
Nessuno si offese e la gente ebbe parole di conforto e solidarietà nei riguardi degli Arcuri, così segnati dalle disgrazie, così sfortunati nella fortuna. Niente ipocrisia, le parole erano sincere, si è sempre affettuosi con chi soffre le pene dell'inferno, anche se quella stessa gente, prima della guerra, aveva invidiato la famiglia Arcuri, augurandole chissà quali e quante malanove.
Era una domenica torrida. Gli invitati bevevano acqua, vino mescolato con acqua, infine vino schietto, quello corposo del Rossarco. «Fa un caldo bestiale, il vino asciuga i sudori» si giustificavano in coro. Solo più tardi, quando molti furono brilli, i giovani si scatenarono in una tarantella mozzafiato.
Quella notte il compare d'anello e una compagnia allegra di musicisti di talento imbastirono una serenata interminabile perché lo sposo non si degnava di uscire, come era tradizione, con il cesto stracolmo di bottiglie di vino e di liquore, pane e taralli, salciccia, soppressata, capicollo, panzaia, prosciutto, sardella, 'nduja, provola. Cantavano e suonavano tutto il loro repertorio di canzoni napoletane e calabresi, ma lo sposo ancora non si decideva ad aprire la porta, forse si era addormentato, forse si prendeva gioco di loro, forse non udiva le loro voci, e allora strillavano più forte, rischiando di stonare a ogni acuto.
In effetti Arturo non sentiva le canzoni, ma solo i mugolìi e le grida di piacere della giovane moglie. Che lo implorava di non. smettere di succhiarle i capezzoli e di continuare a muoversi con quei colpi lenti e forti che le facevano male e bene, che le riempivano il corpo di un calore mai provato, un fuoco inatteso, il paradiso in terra.
Lina si era aperta a lui con una fiducia che non poteva andare delusa. Arturo non aveva grande esperienza in amore, lo aveva fatto due volte a pagamento, cinque o sei minuti in tutto, il tempo di vedere com'era una femmina dall'ombelico in giù. Ma di fronte a una moglie desiderosa di lasciarsi amare, che si era spogliata senza imbarazzo e gli aveva offerto i seni e la bocca con gioiosa avidità, l'esperienza era cresciuta di bacio in bacio, bruciando tutte le tappe in poco tempo.
Arturo si stupiva in cuor suo di quanto fosse semplice e bello fare l'amore, mentre lei lo pregava di non fermarsi mai. E lui ubbidiva volentieri, i peli del petto e i capelli bagnati, il corpo che grondava di sudore bollente.
Dopo la prima volta si erano asciugati con fazzoletti di lino, le mani tremanti di desiderio.
E avevano ricominciato.
Verso le quattro del mattino, accolto dai fischi e da qualche applauso di scherno degli amici esausti e affamati, Arturo consegnò finalmente il cesto al compare d'anello.
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