Topi - Gordon Reece

>> lunedì 26 dicembre 2011

Thriller originale per la tematica affrontata e il suo sviluppo. I topi del titolo sono le persone che subiscono soprusi e per tutta una serie di motivi continuano a subire senza avere la forza di ribellarsi. Questo fino a che la misura è colma. La metamorfosi in questo caso trasforma le due protagoniste, mamma e figlia, in spietate assassine. E' narrato dal punto di vista della ragazza adolescente che ha subito una serie di feroci e gratuiti atti di bullismo da tre delle sue migliori amiche. Molto interessanti i momenti di riflessioni sulle origini della sua condizione e di quella della madre, anche lei vittima di prevaricazioni (del marito che l'ha abbandonata, dei datori di lavoro che la sfruttano, ...).  Non si riesce a stare dalla parte delle due donne nella loro condizione di topi, così remissive da  suggerire che quasi meritino ciò che gli capita. Nel momento in cui tirano fuori gli artigli, invece, si rimane invischiati nel loro punto di vista e ci si ritrova ad augurarsi che la facciano franca. E' bravo l'autore a giocare su un aspetto psicologico fondamentale: quando le ingiustizie sono così tante ed evidenti, nelle persone perbene irrompe un disgusto viscerale e una voglia spropositata di mettere le cose a posto che può avere effetti imprevedibili.


Visto quant’erano diversi e com’è finito il matrimonio, mi sono domandata spesso perché papà l’avesse scelta e perché lei si fosse lasciata scegliere da lui. Non c’è dubbio che fosse attratto dalla mamma - le fotografie del matrimonio mostrano quant’era bella, con quei capelli scuri e il sorriso timido. Ma sono sicura che per lui fosse anche una sfida conquistare il cuore di quella ragazza impacciata e ritrosa, con una laurea a pieni voti e una reputazione professionale di tutto rispetto. Forse, dopo le esperienze londinesi (le avevano rubato in casa, le avevano scippato la borsetta in pieno giorno), la mamma voleva una presenza forte come papà che la proteggesse. Forse credeva che sarebbe stata contagiata magicamente dalla sua forza. O forse si lasciò conquistare solo dal suo aspetto e dal suo fascino discreto. Papà era sempre gentile e, fin da piccola, ero gelosamente consapevole dell’effetto che il suo sorriso affabile aveva sulle altre donne.
Quando nacqui, quattro anni dopo, papà insisté perché la mamma stesse a casa dal lavoro per occuparsi di me a tempo pieno. Non voleva che sua figlia passasse di tata in tata come una specie di pacco. Non voleva che sua figlia tornasse da scuola e trovasse una casa vuota perché i genitori erano al lavoro. Era convinto che il suo stipendio fosse più che sufficiente a mantenerci e che non c’era bisogno che lavorassero entrambi. La sua insistenza non aveva niente a che vedere (ovviamente) con il fatto che anche la mamma stava per essere promossa socia dello studio. Non aveva niente a che vedere (ovviamente) con il fatto che era considerata da tutti il miglior avvocato dello studio e che la sua intelligenza brillante lo faceva sentire spesso stupido e inadeguato.
La mamma accettò ubbidientemente la sua richiesta. Lui sapeva cos’era meglio dopotutto. Era più grande di lei, era un compagno, era un uomo. Come avrebbe potuto opporsi, anche volendo? Come può un topo opporsi a un gatto? Così rinunciò a quel lavoro che amava e per i quattordici anni successivi si dedicò a prendersi cura di me e della casa - cucinare, fare la spesa, lavare, stirare - mentre mio padre continuava a fare carriera da Everson.
Quando la piantò, la mamma aveva quarantasei anni. Le sue competenze professionali erano irrimediabilmente datate - avvizzite come frutta lasciata a marcire su un albero. 
[...]
Alla luce di ciò che successe in seguito, ho riflettuto spesso su come il loro aspetto cambiò quasi di pari passo con il loro atteggiamento nei miei confronti. E mi sono chiesta spesso se c’era qualche collegamento fra le due cose. Il nostro aspetto esteriore influenza la nostra personalità? O è la nostra personalità a influenzare il nostro aspetto? Sono i colori di guerra a trasformare il membro di una tribù in un feroce guerriero, oppure un guerriero si dipinge con i colori di guerra per sbandierare la sua ferocia? Un gatto ha sempre un aspetto da gatto? Un topo ha sempre un aspetto da topo? Qualunque sia la verità, resta il fatto che io non cambiai. Mi davo ancora da fare in classe, sgobbavo per i test e coloravo le cartine. Ero ancora la più brava in inglese e arte, ma spesso primeggiavo anche in storia, francese e geografia. Mi veniva ancora la pelle d’oca se un insegnante alzava la voce in classe.
Avevo lo stesso taglio di quando avevo nove anni: capelli dritti fino alle spalle e con la frangia. Mi alzai leggermente ma non persi la mia “ciccia” infantile. Avevo ancora i rotolini sulla pancia e le mie cosce sfregavano l’una contro l’altra quando camminavo. Non mi truccavo per andare a scuola come facevano loro, perché la mamma diceva che non mi faceva bene alla pelle. Quando mi venivano i brufoli non li toccavo (la mamma diceva che se li strizzavo mi sarebbero rimaste le cicatrici), mentre le altre se li toglievano con le loro taglienti unghie smaltate, coprendosi le piccole ferite con il fondotinta.
Non portavo orecchini, collane, braccialetti e anelli perché ero allergica a tutto ciò che non era oro puro, e in fondo non mi piacevano i gioielli - mi sembravano solo d’impiccio e avevo paura di perderli. A scuola indossavo le stesse camicette, maglioni e gonne semplici di sempre, accompagnate dalle stesse scarpe pesanti con le fibbie laterali (Teresa le chiamava le mie “scarpe ortopediche”), mentre le altre erano sempre più ossessionate dai vestiti e dal loro aspetto fisico.
Notai che non sembravano più così contente di vedermi quando le raggiungevo nel cortile della scuola o in mensa. Adesso quando eravamo insieme c’era un’atmosfera diversa, come se si divertissero con i loro giochetti dai quali ero esclusa. Sentivo che mi guardavano con un vago senso di disgusto e per la prima volta nella mia vita cominciai a sentirmi a disagio per il mio aspetto, per il grasso molliccio che mi sporgeva fuori dall’elastico della gonna, per la mia frangia da bambina, per la colonia di brufoletti che avevo sul mento.
Fu vedendo il modo in cui mi guardavano e le espressioni severe sui loro volti che cominciai a intuire - sebbene ancora non riuscissi a crederci - che le mie migliori amiche mi trovavano ripugnante.
Non giocavamo più insieme durante l’intervallo, anche se avrei voluto, perché consideravano quei giochi “infantili”. Piuttosto, preferivano stravaccarsi dietro una delle aule dove i professori non potevano vederle e giocare con i loro cellulari, sempre più sdegnose del fatto che io non ne avessi uno (la mamma non poteva permetterselo nemmeno per sé, figuriamoci se le avrei chiesto di comprarmelo). Quando non giocavano con i cellulari, parlavano quasi esclusivamente di cose che non m’interessavano: musica pop, vestiti, gioielli, trucchi. E, sempre più spesso, parlavano di ragazzi.
Ero l’unica a non avere un ragazzo. Avevo quattordici anni, quasi quindici, ma ancora non capivo bene cosa fosse l’attrazione. La maggior parte dei ragazzi della mia scuola erano tipi rozzi e grossolani. Giocavano a calcio ossessivamente e facevano a botte nei corridoi; bestemmiavano a ripetizione nel tentativo disperato di sembrare dei duri e cercavano di mettere in imbarazzo le ragazze con le loro allusioni spinte e volgari. Per anni avevamo snobbato i ragazzi e ci eravamo tenute alla larga da loro. Adesso Teresa, Emma e Jane avevano tutte il ragazzo e non smettevano mai di parlarne. Parlavano del loro lavoro, dei loro tatuaggi, delle auto che truccavano, delle ferite che si erano procurati .azzuffandosi o facendo sport. Ma il loro argomento preferito in assoluto erano i programmi per il fine settimana: che film avrebbero visto insieme ai loro ragazzi, in quale club avrebbero cercato di entrare, come si sarebbero acconciate i capelli, che borsetta avrebbero comprato da abbinare ai jeans che stavano per acquistare. Alla fine di certe pause pranzo, mi accorgevo di non aver detto nemmeno una parola in tutta l’ora che avevamo passato insieme.
Solo adesso, ripensandoci, mi rendo conto che avrei dovuto smettere di frequentare quelle tre molto prima, e cercare di farmi nuovi amici. Avrei dovuto accettare il fatto che ci eravamo allontanate.
Ma allora le cose non erano così chiare. Anche se sapevo che stavano cambiando e avvertivo una crescente ostilità nei miei confronti, non capivo ancora quanto la faccenda fosse seria - dopotutto, in passato avevamo avuto qualche scaramuccia, che poi si era sgonfiata in fretta. E poi mi era impossibile immaginare la scuola senza di loro. Non avevo altri amici, non avevo mai avuto bisogno di farmi nuovi amici. Avevo sempre avuto Teresa, Emma e Jane. Eravamo migliori amiche dall’età di nove anni. Ci eravamo volute bene come sorelle. Eravamo le jets. Non avevo idea di quanto fossero diventati velenosi i loro sentimenti nei miei confronti. E non avevo idea di quanto fossi in pericolo.
[...]
Non potevo dirlo ai professori perché ero certa che a lungo andare avrebbe solo peggiorato le cose. Non volevo dare alle mie aguzzine un pretesto per aumentare le loro violenze - non sapevo ancora che i cattivi non hanno bisogno di pretesti per le loro azioni. Avevo anche una fastidiosa sfiducia nella capacità della scuola di proteggermi. Avevo notato che i professori, anche la signorina Briggs, chiudevano spesso un occhio sul comportamento di Teresa, Emma e Jane, fingendo di non aver sentito la parolaccia, di non aver visto il dito alzato - tutto a favore del quieto vivere.
Avrei dovuto dirlo alla mamma - ora me ne rendo conto ma mi vergognavo. Mi vergognavo a dirle che avevano scelto proprio me per quel trattamento, come se mi portassi addosso un marchio che mi bollava diversa da tutti gli altri. A peggiorare le cose c’era il fatto che la mamma conosceva queste ragazze: aveva preparato loro la merenda, le aveva accompagnate a casa in macchina, pensava che fossero le mie migliori amiche. Non sopportavo che venisse a sapere quanto mi odiavano. E avevo il terrore delle inevitabili domande: Cos’hai fatto? Le hai fatte rimanere male in qualche modo?Nel profondo, non riuscivo a liberarmi dalla sensazione che in un certo senso fosse colpa mia, che in un certo senso me la fossi cercata. Inoltre, informare la mamma o la scuola avrebbe significato dover fronteggiare le mie aguzzine, cosa di cui ero del tutto incapace. Semplicemente, non faceva parte di me. Non avevo un carattere di quel tipo. Ero un topo, non dimenticatevelo.
Mi veniva più naturale non dire niente, soffrire in silenzio, stare immobile nella speranza di non essere vista, sgattaiolare via lungo il battiscopa cercando un posto sicuro dove nascondermi.
L’unica persona a cui pensai seriamente di dirlo fu mio padre. Prima che entrasse in scena Zoe era sempre stato protettivo nei miei confronti. Aveva anche cercato di «temprarmi» così diceva - perché imparassi a difendermi: mi portava a correre con lui, cercava di convincermi a fare judo. Tutto questo, per compensare o sovracompensare quella che vedeva come la “cattiva influenza” della mamma. Adesso mi perdevo in fantasie nelle quali papà veniva a difendermi e mi salvava come un supereroe dei fumetti.
Ma sapevo benissimo che papà non era un supereroe. Ricordavo com’era diventato cafone e arrogante negli ultimi tempi e, di nascosto, anche volgare (una volta avevo trovato una copia di Hot Sluts nascosta nella sua valigetta). Ero sicura che Zoe l’avrebbe messo contro di me (Shelley è una ragazzina lagnosa e sdolcinata, attaccata alle sottane della mamma). E perché non avrebbe dovuto? Non voleva dividere i soldi di papà con me. E sapevo che papà non l’avrebbe delusa. Non poteva certo rischiare di perdere quella bocca provocante, quelle tette da pornostar. Avevo un numero dove potevo chiamarlo in Spagna e fui a un passo dal farlo - ma il pensiero di Zoe che rispondeva al telefono mi dava il voltastomaco. Papà non faceva più parte della mia vita.
[...]
Sembrava che non ci fossero vie d’uscita dalla situazione penosa in cui mi trovavo. O meglio, sembrava ce ne fosse solo una.
Pianificai ogni cosa nel dettaglio, seduta alla mia scrivania come se si trattasse di fare i compiti. Decisi che avrei agito due giorni dopo, sabato, quando la mamma andava a fare la grossa spesa settimanale al supermercato appena fuori città. Di solito andavo con lei, ma questa volta avrei finto un mal di testa.
Dopo un’attenta riflessione, decisi qual era il modo migliore per farlo (la trave in garage alla quale papà appendeva il suo sacco; la robusta cintura della mia vestaglia di spugna) e strappai una pagina di quaderno per scrivere un messaggio di addio alla mamma.
Ma anche se rimasi là seduta per più di mezz’ora, non mi venivano le parole. Non trovavo ancora il coraggio di dirle delle molestie, nemmeno su un biglietto, un biglietto che non avrebbe letto se non dopo la mia morte. Non capivo proprio perché non riuscissi a confidarmi con la mamma, eppure eravamo così vicine.
Potei solo pensare che, indipendentemente da quanto siamo vicini a qualcuno, ci sono dei limiti, dei confini invalicabili tra di noi, delle cose che ci toccano così in profondità che non possono essere condivise con nessuno. Forse, pensai, è quello che non possiamo condividere con gli altri che definisce chi siamo davvero.
Mentre rigiravo quelle inutili frasi nella mente, avevo scarabocchiato qualcosa sul foglio e, abbassando gli occhi, non potei trattenere un sorriso amaro nel vedere cos’era. Un topo. E attorno al collo aveva uno spesso cappio da impiccato. Sapevo di essere timida; sapevo di avere la tendenza a piangere con facilità, a tremare e perdere la voce al minimo rimprovero o segno di aggressività. Ma ci erano voluti mesi di molestie per capire che in fondo non ero che questo: un topo, un topo umano. E allo stesso tempo, capii che quel disegno era il messaggio più eloquente che potevo lasciare. Piegai il foglio, ci scrissi sopra Mamma e lo misi dentro al primo cassetto della scrivania, dove sarebbe stato facile da trovare. Ed era così che la mia vita sarebbe finita, come la vita di molti altri deboli topi prima di me - appesa a un cappio rudimentale, con i piedi che descrivevano cerchi sempre più piccoli, le mani che si contraevano spasmodicamente - se le mie aguzzine non mi avessero teso la loro trappola più crudele proprio il giorno seguente. Quell’attacco feroce, ironia della sorte, mi salvò la vita.
[...]
Gli occhi mi si aprirono di scatto e in un attimo fui completamente sveglia. Anche se ero sprofondata in un sonno abissale, l’inconfondibile scricchiolio del quarto scalino aveva raggiunto quella zona del cervello che non dorme mai. Non avevo dubbi su quel che avevo sentito, e non avevo dubbi su ciò che significava: c’era qualcuno in casa.
Lo schermo fluorescente della sveglia sul comodino segnava le 3,33. Sentivo il cuore battermi nel petto come se fosse dotato di vita propria, come un coniglio che si dimena e si contorce in un laccio che si stringe sempre più con l’aumentare dello sforzo.
Tesi l’orecchio per superare il rimbombo martellante nelle tempie. Le mie orecchie sondarono lo spazio fuori dalla porta della stanza - il pianerottolo, le scale - come invisibili cani da guardia, rimandandomi continue informazioni: silenzio, silenzio, silenzio, c’è solo silenzio, non troviamo niente. Possibile che mi fossi sbagliata? No, impossibile. Avevo sentito il quarto scalino cigolare sotto il peso di una persona. E difatti, dopo un’attesa che mi sembrò eterna, sentii lo scricchiolio di un altro scalino più su: c’era qualcuno in casa.
Ero paralizzata dalla paura. Da quando avevo aperto gli occhi non avevo mosso un muscolo. Era come se un istinto primordiale, l’istinto di rimanere completamente immobili e non mandare alcun suono finché il pericolo non era passato, si fosse impossessato di me. Anche il mio respiro si era fatto così lento e leggero da essere quasi impercettibile e da non sollevare la trapunta nemmeno di un millimetro. Pensai alla mazza da baseball che tenevo sotto al letto “contro i ladri”, ma non riuscivo ad abbassare la mano per prenderla. Qualcosa di più forte mi teneva inchiodata e immobile. Stai ferma, mi ordinava, non fare alcun rumore finché il pericolo non è passato. I passi procedevano per le scale, più forti, come se l’intruso avesse rinunciato al tentativo di muoversi in silenzio. Sentii un corpo sbattere con forza contro il mobiletto del pianerottolo (ubriaco?) e una voce che imprecava (un uomo). Lo sentii aprire la porta della camera della mamma. Capii che aveva acceso la luce, perché la fitta oscurità nella mia stanza si rischiarò in misura infinitesimale. Sentii la voce della mamma. Assonnata. Confusa. Spaventata. Poi la voce dell’uomo, un fiume di grugniti aggressivi e gutturali che sembravano più animali che umani. «Aspetta» udii chiaramente la voce della mamma. «La mia vestaglia.» Poi li sentii venire entrambi verso camera mia. La porta si aprì frusciando contro la spessa superficie del tappeto e la luce esplose in un chiarore bianco e accecante. Non mi mossi, anche se erano tutti e due nella mia stanza (stai ferma, non fare alcun rumore finché il pericolo non è passato). Rimasi distesa, immobile e impotente, come se mi avessero spezzato il collo. La mamma disse il mio nome per svegliarmi, ma non riuscii a rispondere. Lo ripetè a voce più alta, avvicinandosi al letto.
Alla fine comparve nel mio campo visivo. Il suo volto pallido era ancora stravolto dal sonno, i capelli spettinati in un modo che sarebbe sembrato buffo in altre circostanze, la vestaglia infilata frettolosamente, con la cintura penzolante. Capì che ero sveglia da tempo e che sapevo benissimo cosa stava succedendo.
«Shelley, cara» disse. «Non avere paura. Vuole solo dei soldi. Se facciamo come dice, se ne andrà e ci lascerà in pace.» Non le credevo e capii dalle mani tremanti e dalla voce strozzata che non ci credeva nemmeno lei. Quando un gatto entra nella tana di un topo, non se ne va senza avergli fatto del male.
[...]
La realtà non aveva niente a che fare con i romanzi o le poesie, non aveva niente a che fare con i paesaggi a olio o con i quadrati rossi e gialli dei dipinti astratti. Non aveva niente a che fare con l’organizzazione dei suoni nell’apparente armonia della musica. La realtà era l’esatto opposto dell’ordine e della bellezza. Era caos e sofferenza, crudeltà e orrore. Era ritrovarsi con i capelli incendiati quando non avevi fatto del male a nessuno; era saltare in aria per un attentato terroristico mentre accompagnavi i tuoi figli a scuola o mangiavi seduto al tuo ristorante preferito; era essere ammazzati a calci in un vicolo per la magra pensione che eri appena andato a ritirare; era essere violentati da un branco di sconosciuti ubriachi; era farsi tagliare la gola da un tossico che si era intrufolato in casa tua in cerca di soldi. La realtà era un quotidiano massacro degli
innocenti. Era un mattatoio, una macelleria tappezzata dei cadaveri di innumerevoli vittime-topi...
E tutta questa “cultura”, tutta questa “arte” non erano che un trucco. Ci consentivano di credere che gli esseri umani fossero creature nobili e intelligenti, che si erano lasciate alle spalle il loro passato animale per evolvere in qualcosa di più raffinato, di più puro; che poiché sapevano dipingere e scrivere come angeli, fossero realmente degli angeli. Ma questa “arte” era solo uno schermo per nascondere l’atroce verità, e cioè che non eravamo affatto cambiati, eravamo ancora le stesse creature che squarciavano il ventre caldo di animali ammazzati con pietre affilate e che sfogavano la loro rabbia sui deboli con i colpi violenti di una clava. I bei quadri e le poesie intelligenti non cambiavano di una virgola la nostra natura. No, l’arte, la musica e la poesia non rispecchiavano assolutamente la realtà. Erano solo un rifugio per codardi, un’illusione per chi era troppo debole per affrontare la verità. Nel tentativo di assorbire questa “cultura” non avevo fatto altro che diventare debole, debole e impotente, incapace di difendermi contro le bestie umane che popolavano questa
giungla del ventunesimo secolo.
«Ci ucciderà, mamma. Ne sono sicura.»
«Shelley, devi stare calma. Devi solo fare come ti dice.»
«Non capisci che pericolo stiamo correndo! È drogato! Ci ucciderà!»
Che razza di giustizia era questa? Quale Dio poteva permettere una cosa simile? Io e la mamma non avevamo sofferto abbastanza? Papà ci aveva abbandonate, lasciandoci a faticare mentre lui si crogiolava al sole della Spagna con la sua puttanella di ventiquattro anni. Avevo subito delle violenze così feroci da essere costretta a lasciare la scuola e prendere lezioni private.
Avevo la faccia sfregiata dai segni del rancore altrui. E adesso, con tutte le case in cui poteva infilarsi questa bomba a orologeria su due piedi, si era intrufolata proprio nella nostra. Proprio quando stavamo cominciando a ricostruirci una vita insieme. Proprio quando le cose stavano ricominciando a sorriderci.
Cos’altro dovevamo subire? Violenze? Torture? Quale crimine avevamo commesso, a parte quello di essere deboli, il crimine di essere topi?. Cos’avevamo fatto di male per meritarci una punizione così spietata? Perché tutto questo non succedeva a Teresa Watson ed Emma Townley? Perché non succedeva alle ragazze che mi avevano molestato con tanta ferocia da farmi venire voglia di uccidermi? Perché non succedeva a mio padre e a Zoe? Perché succedeva a noi? Perché ancora a noi? Non avevamo sofferto abbastanza?
[...]
Se ne stava andando, portandosi via il mio regalo di compleanno stretto contro il giubbino puzzolente.
Il regalo che la mamma aveva incartato con cura, decorato con un bel fiocco rosso e lasciato sul tavolo della cucina prima di andare a letto, in modo che lo trovassi la mattina per colazione. Una bellissima sorpresa di compleanno. Il portatile che, con il suo intuito di madre, aveva capito che desideravo. Il portatile che non si poteva permettere ma che aveva deciso che dovevo avere, indipendentemente da ciò di cui si sarebbe dovuta privare.
Il ragazzo se ne stava andando, lasciandosi dietro un brutto sfregio sulla guancia della mamma causato dal suo grosso anello con sigillo, e un livido bluastro che le inghiottiva l’occhio destro.
Se ne stava andando, lasciandosi dietro due donne indifese che aveva sistematicamente umiliato, tormentato e maltrattato come se fosse nell’ordine naturale delle cose, come se fosse un suo diritto.
Ancora oggi non so esattamente cosa mi spinse a fare quello che feci in seguito. Forse fu vedere quel pallido, crudele delinquente che si portava via il mio regalo di compleanno, il simbolo di tutte le mie ambizioni future; forse fu la rabbia per quello che aveva fatto alla mamma; forse fu perché mi aveva detto che ero brutta; forse la verità è che tutti abbiamo un limite oltre il quale non possiamo più sopportare - anche i topi - e che quando quel limite viene superato, qualcosa si spezza. Forse fu solo il modo in cui il bellissimo fiocco rosso della mamma era caduto lentamente, miseramente sul pavimento...
Strappai i pochi brandelli di corda che ancora mi legavano le gambe, presi il coltello dal tavolo della sala da pranzo e uscii in giardino, correndogli dietro.
Aveva raggiunto solo il punto in cui la veranda incontrava l’erba del prato, ancora all’interno dello specchio di luce proiettato dalla cucina. Sentendomi arrivare, lanciò un’occhiata dietro a una spalla e continuò tranquillo per la sua strada come se non avesse visto altro che un gatto occupato nelle sue faccende feline e non una ragazza urlante con un coltello in mano.
Gli piantai il coltello in mezzo alle scapole con tutta la forza che avevo. Aveva una schiena incredibilmente dura, come pugnalare un tronco d’albero - la lama si fermò a due centimetri dal manico e mi ci volle uno sforzo enorme per estrarla di nuovo. Colpito, il ragazzo mandò un lungo rantolo e lasciò cadere il computer e la borsa rossa. Si piegò in avanti come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco e, girandosi, mi guardò con un’espressione di innocenza tradita sul volto. «Perché l’hai fatto?» gemette, come se gli avessi giocato uno scherzo di cattivo gusto. Lo colpii di nuovo, più e più volte, socchiudendo gli occhi per non vedere le ferite inferte dal coltello, per non vedere il sangue. Ancora piegato in due come un soldato sotto il fuoco dei cecchini, il ragazzo si diresse nuovamente verso la cucina, il braccio sinistro alzato per cercare di arginare i colpi peggiori. Pensai: Bene! Ti voglio di nuovo in casa! Non voglio che mi scappi! Entrò in cucina e cercò di chiudermi in faccia la porta sul retro, ma non fece in tempo e infilai dentro una spalla. Barcollò verso la dispensa e cercò di nascondersi dietro al tavolo di pino, ma anche allora fu troppo lento. Gli piombai addosso di lato, pugnalandolo senza tregua, tormentandolo come un picador che conficca la sua lancia nei fianchi grondanti di un toro. Lui continuò a girare attorno al tavolo mentre io lo seguivo, pugnalando, pugnalando, pugnalando...
«Adesso giochiamo al gioco delle sedie!» gridavo. «Adesso giochiamo al gioco delle sedie!» L’avevo colpito così tante volte che ormai avevo perso il conto. Il ragazzo sembrò perdere le forze, finché non si accasciò sul lavello, rovesciando lo scolapiatti di plastica pieno di stoviglie della sera prima, che si fracassarono sul pavimento. Appena cercò di riprendere l’equilibrio, uno dei miei colpi si conficcò su un lato del collo e il sangue cominciò a zampillare come acqua da una tubatura rotta. Si portò le mani sulla ferita e s’incurvò nell’angolo vicino al portapane, dandomi la schiena. Volevo solo vederlo a terra, volevo che la smettesse di muoversi, che la smettesse di essere una minaccia per me e la mamma. Studiai il retro del suo giubbino lacero e insanguinato, cercando d’individuare la posizione del cuore. In quel preciso istante, si torse  bruscamente. Il coltello colpì la spessa placca ossea della sua scapola con così tanta forza da sfuggirmi di mano e slittare sul pavimento.
Vidi l’espressione sul suo volto mutare da vile sottomissione a un beffardo, sanguinario trionfo. Il gioco era cambiato a suo favore e, prima ancora che potessi guardare dov’era finito il coltello, il ragazzo mi fu addosso. Mi cedettero le ginocchia e, schiacciata sotto il suo peso, caddi pesantemente all’indietro sul pavimento. Atterrai su qualcosa di duro e tagliente che mi raschiò il coccige, e gridai per il dolore accecante. Capii subito cos’era. Ero finita sul coltello! Il ragazzo si dimenava sul mio petto, mi saliva sopra, cercava di alzarmi il mento con l’avambraccio per scoprirmi la gola. Il sangue gli sgorgava dalla ferita sul collo come
vino da una bottiglia rovesciata. M’inondava il volto come un fiume senza fine, scorrendomi addosso, riempiendomi la bocca e costringendomi a sputare e boccheggiare come se stessi annegando. Mi faceva bruciare gli occhi come sapone, accecandomi completamente. Il suo volto adesso era premuto contro il mio. Le nostre labbra si sfioravano come nell’orribile parodia di un bacio tra amanti. Stava cercando di mettermi le mani al collo, ma io le allontanavo freneticamente, graffiandogli furiosamente il volto. Ogni volta che cercava di immobilizzarmi le mani sul pavimento, mi liberavo dalla sua presa e gli infilavo le unghie negli occhi. Urlavo e mi dimenavo, cercando disperatamente di spostare quel peso soffocante e afferrare il coltello intrappolato sotto la mia schiena. Se fossi riuscita a scrollarmelo di dosso anche solo per un secondo e prendere il coltello, sarei tornata in vantaggio. Se solo fossi riuscita ad allungare una mano verso il coltello...
Ma era troppo forte. Nonostante le ferite che aveva subito e il sangue che gli usciva a fiotti dal collo, era ancora troppo forte per me, e alla fine riuscì a mettermi le mani attorno alla gola.
Sentii una stretta improvvisa bloccarmi il respiro. Minuscoli puntini di luce bianca esplosero nell’oscurità dietro le mie palpebre e capii con assoluta certezza che sarei morta se non respiravo entro pochi secondi. Riuscii ad aprire leggermente gli occhi brucianti e vidi il suo volto distorto in un disgustoso primo piano. Aveva le pupille enormemente dilatate per l’eccitazione adrenalinica, digrignava i denti gialli nello sforzo di soffocarmi e un sottile filo di bava rosa gli penzolava dal labbro inferiore.
E pensai: Questa sarà l’ultima cosa che vedo. Qualcosa cominciò a cedermi in mezzo al collo; qualcosa si stava per spezzare. Ero riuscita a sfiorare il coltello con i polpastrelli, ma le forze mi stavano abbandonando. Le braccia mi caddero pesantemente lungo i fianchi. Non respiravo da troppo tempo. I puntini di luce bianca si fecero sempre più grossi, finché ci fu solo luce bianca. Allora ecco com’è morire, pensai, ecco com’è... è questa la luce bianca di cui parlano... Smisi di resistere, anche mentalmente, e chiusi gli occhi, mi arresi, aspettando la morte, aspettando il momento cruciale.
[...]
Se non fosse stata così debole, forse io non sarei stata un topo, forse sarei riuscita a difendermi dalle ragazze interessate e non ci saremmo mai ritrovate in questa situazione!
L’ondata di rabbia che provavo per la mamma portava con sé anche l’amara consapevolezza che, nonostante avessi già sedici anni, mi aspettavo ancora che si comportasse da madre e mi proteggesse. Mi aspettavo che, come una madre, allontanasse miracolosamente quel pericolo, che cacciasse via il lupo che si aggirava intorno a casa nostra. E mi sentii tradita quando capii che quel giorno non ci sarebbe stato nessun miracolo materno, nessuna magia - solo la luce abbagliante e il silenzio, rotto occasionalmente dal fruscio di soffici corpi piumati sui cornicioni.
[...]
In quegli ultimi secondi prima di essergli addosso, mentre correvo scalza sul vialetto con la vestaglia aperta che mi svolazzava sul corpo, provai qualcosa che non avevo mai provato in vita mia. Era un’emozione completamente nuova, una dolcezza gioiosa e liberatoria che mi scorreva nelle vene come una droga. Era come se tutto quello che c’era di artificiale nella mia vita fosse scomparso all’improvviso, come entrare fuggevolmente in contatto con una verità primordiale, una realtà più antica della vita stessa. E mi sentivo come un gigante, come un dio!

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Lettura di Sciascia in biblioteca

5 Marzo ore 20,30, Biblioteca Castiglione delle Stiviere

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