La valle delle donne lupo - Laura Pariani
>> venerdì 29 marzo 2013
Il libro che il Circolo Lettori ha discusso ieri sera ha incontrato un apprezzamento unanime. Il romanzo trae ispirazione dai racconti tramandati oralmente dagli anziani delle alte valli piemontesi registrati dall'autrice su nastro nel corso degli anni. La scrittura è molto particolare perchè unisce l'italiano al dialetto italianizzato. La storia della protagonista, ormai anziana, emerge poco per volta nell'intervista che questa concede ad una giornalista con la quale ripercorre, dall'adolescenza ai giorni nostri, le sue vicende e quelle della sua famiglia e delle persone del piccolo paese in cui vive. Lo sfondo è quello epico e leggendario delle valli ma l'umanità che le abita non ha nulla di bucolico e idiliaco, anzi. Sin dalle prime pagine si delinea il ritratto di una società rude, opprimente, fortemente maschilista. Il ruolo della donna è quello della serva silente su cui sfogare ogni genere di impulso. Peggior sorte è destinata alle "balenghe", quelle che uniscono alla sventura di essere nate donne un comportamento fuori dagli standard che si può manifestare con la testa un po' per aria o con un timido desiderio di emancipazione. Nel migliore dei casi queste sono mandate al riformatorio, nel peggiore all'ospedale psichiatrico o trucidate. Molto bella a riguardo la storia di Anna che riporto integralmente di seguito.
Il pessimismo è assoluto e tutto il romanzo è permeato da dolore, freddo, violenza e solitudine. L'uomo è più cattivo del più cattivo degli animali che per antonomasia è il lupo e che viene a sua volta riabilitato da un originale processo di straniamento che lo accomuna alle balenghe e al loro tragico destino.
Il pessimismo è assoluto e tutto il romanzo è permeato da dolore, freddo, violenza e solitudine. L'uomo è più cattivo del più cattivo degli animali che per antonomasia è il lupo e che viene a sua volta riabilitato da un originale processo di straniamento che lo accomuna alle balenghe e al loro tragico destino.
Nel maggio successivo alla morte della Tilde, la Grisa scappa per la prima volta. Il cancello dell’orto è rimasto socchiuso: un vecchio sportellino cigolante che non serra bene. La bambina – che va per i tre anni – si inoltra a passettini incerti nel prato deserto, puntando poi dritto verso il bosco. Chi lo sa cosa l’attrae? Forse il canto di un uccello, un battere d’ala di farfalla, il muschio verde e cedevole, il balenio di una pietra sotto un raggio di sole che filtra tra i rami, una pigna che cade pesante per terra; o magari l’ombra della Tildina che le è sembrato vedere muoversi tra i rovi... Un passo dietro l’altro, sempre piú nel folto.
La sera, quando il Biâs e la Terésia chiamano per la cena, della piccolina non c’è traccia. Frugano tutti gli angoli della casa, sotto i letti, negli armadi, nel grotto che funge da cantina. Madonna Santa, non c’è. Le voci scannarozzate echeggiano per la valle, con angoscia crescente:
«Grisa, dove sei?»
Di corsa i quattro becchini si portano di casolare in casolare, fino al Paese Piccolo. Niente di niente. Tornano indietro col fiatone. In coro, con la paura del peggio in fondo al cuore, spolmonandosi:
«Griiisa! Griiisaaaa!»
I richiami si perdono tra i burroni scoscesi della riàle, da balma a balma. Nessuna risposta. Solo il lamento dei primi uccelli notturni e la voce bassa dell’acqua che corre nel buio dei prati. Piú tardi, con alcune lanterne, si addentrano nel bosco. Il bagliore rosso dei lumini rischiara il volto chiuso dei tronchi, il groviglio minaccioso delle rame, le erbe gravi di rugiada. Una civetta piange: uccello che porta male. Quella notte si sente l’ululato di un lupo, vicino vicino. Il Biâs rabbrividisce, la Terésia caragna.
Qualche mese dopo, il miracolo: dei cacciatori trovano sotto una balma, nei pressi della cascata, l’ingresso di una caverna nascosto da un macchione di lamponi. Con una torcia fanno lume e vedono un paio di lupacchini che mostrano i denti e spalancano degli occhi verdegialli al raggio di luce e alle grida di sorpresa. Gli uomini li tirano fuori: uno è proprio un lupatto, l’altro è la Grisa. Deve essersi amicata alla caverna e alla nuova famiglia lupa, perché fa un verso che non è umano:
«Uuuuuuuuh».
In paese è festa grande. La piccola sta bene, sana e robusta piú di prima, tranne per il fatto che non parla, neanche quelle brevi frasi ingarbugliate come tutti i piccinàja della sua età, che prima di scomparire sapeva pronunciare. Quando ci si rivolge a lei, si limita a scuotere la testa bionda in segno di no. A niente valgono implorazioni carezze bomboni; menochemài le botte. Guarda sopà e somà come le fossero estranei. In casa striscia le mani lungo le pareti, quasi cercasse una sensazione di fresco, oppure sta cucciata vicino alla porta; raccoglie ossi dal cesto della spazzatura, li nasconde sotto il letto, quando nessuno la guarda se li rigira tra le mani, si direbbe che li stia contando. Poi, appena le danno il permesso di uscire, corre al gabbiotto dove hanno rinchiuso il lupatto catturato insieme a lei, infila le mani nei buchi della rete e il suo antico compagno di caverna le lecca le dita, quasi con tenerezza, fissandola con le iridi giallastre. Se poi qualcuno la stacca di lí a viva forza, apre la bocca in uno strano verso di denti digrignati, i capelli le si rizzano per il nervoso, le braccia si irrigidiscono e diventano gelide. Però la notte, ogni volta che il lupatto rinchiuso prende a ululare, la Grisa balza a sedere sul letto, le orecchie tese; allora una specie di sorriso le rischiara il viso attento e ulula di rimando:
«Uuuuuuuuh».
Naturalmente viene chiamato il medico che scuote la testa senza sapere che fare. Si chiede il parere della biszía Ginòria, una carampàna lamentosa che non esce di casa da piú di quarant’anni, ovverossía da quando il sò Lipèt scomparve in una battuta di caccia al lupo, lasciandola in patema a occhieggiare invano il suo ritorno. La vecchia sospirosa dà il suo parere invocando a testimone la santa Verità: che si tratta di opera del diavolo Tartàifel; che non c’è niente come i lupi per trasmettere alle persone la loro dannazione bestiale; che i lupi portan tríboli a crepacuore, come ben dimostra la scomparsa del pòer Lipèt.
Un mattino d’inverno trovano il lupatto morto, rattrappito in un
cantone. Il Biâs lo estrae dal gabbiotto e lo getta sul letamaio. Quando
la Grisa ne scopre il corpo freddo e rigido, si siede vicino a lui e lo
struca forte a sé, quasi per trasmettergli un poco del sò calore,
grattandogli insistentemente la testa tra gli orecchi e mugolando di
tenerezza. Poi, stupita e spaventata del silenzio dell’amico e del fatto
che non le faccia festa, corre dai grandi, gli occhi gonfi di lagrime,
Uuuuuuuuh, li trascina fino al luogo dove la bestia giace immobile.
E sopà:
«È morto, non toccarlo. Appena ho tempo, lo scuoierò e poi tomà ti farà un bel paio di pantofoline».
Ma la Grisa, desolata, continua a ululare. La sgridano. Va a
rannicchiarsi in un angolo, sconcertata. Tira fuori da un nascondiglio
che nessuno conosceva una grande quantità di ossi e si mette a lisciarli
carezzandoli uno per uno. Pare che la cosa la quieti, anzi si
addormenta stringendo al petto il suo tesoretto. Si sveglia che è quasi
buio, si dirige a passetti verso il letamaio, ma la bestia non c’è piú.
La cerca ovunque senza trovarla, urla con voce spezzata:
«Uuuuuuuuh».
Naturalmente il Biâs va su tutte le furie:
«Múccala di far versi, era solo una bestia, un lupo... Deograzie
che è morto, e tu sei ’na cristiana. Piantala di comportarti come
un’insensata!»
La trascina nella stanza da letto e, patàf patàfa, la batte con
rabbia per farla smettere. La debole lampadina sul comodino illumina il
viso paonazzo della piccola, la bocca urlante. D’un tratto la Fenísia
che, rintanata in un cantone, ha seguito la scena tremando, fa un
fischio per richiamare l’attenzione della cuginetta. Le strizza l’occhio
con complicità, poi alza le mani: le basta un semplice movimento delle
dita, ed ecco che l’ombra disegna sul soffitto la testa di un lupo che
muove le orecchie aprendo e chiudendo la bocca. A quella magia la
piccola Grisa smette di gridare, si infila il pollice in bocca e si
lascia mettere a letto senza ulteriori proteste. Succhiandosi il dito,
lo sguardo fisso al soffitto dove la testa del lupo continua a
ingrandirsi e rimpicciolirsi, si addormenta.
La Terésia partorisce un’altra bambina a cui viene dato il nome di
Tilde: vive solo poche ore. Il trambusto che ne deriva sembra calmare
per un attimo la Grisa: diviene piuttosto taciturna, neanche una parola o
un piccolo guizzo di riso. Un paio di settimane piú tardi cerca
nuovamente di scappare e prendere la strada del bosco, finché sopà la
lega con una catena al cancello del cimitero, perché non si perda
un’altra volta. Quando il Biâs fa scattare la serratura del lucchetto,
la Terésia scoppia a caragnare. Ma lui la zittisce:
«Quando non c’è rimedio, la carezza fa piú male che bene».
Parole che ripete continuamente, quasi voglia convincere
soprattutto se stesso; come se temesse che un cedimento di fronte alle
lagrime della moglie possa portare altri guai e dolori.
In genere la piccola se ne sta ingrugnita dove le si dice di
mettersi, e con torpidi movimenti delle dita rigira il sò mucchietto di
ossi, studiandoli e odorandoli. Alla Fenísia la cosa sembra divertente:
le piacerebbe tanto imitare la cugina, ma ha paura di finire alla catena
pure lei; tanto piú che in casa tutti insistono:
«Mi raccomando, da’ il buon esempio alla Grisa! Non scalciare, non
gridare, non fare la pazza come lei! Vedi bene che fastidi ci dà quella
là con il suo brutto vizio di urlare come una lupa. Invece tu sei una
brava fiòla, ormai quasi una donnina...»
Eccosí, anche se a lingua legata, la Fenísia impara a rispondere
sí: che ubbidirà prontamente, che non si butterà per terra a sguignire
di dolore, che sarà composta, che non avrà «brutti vizi».
[...]
Un mattino di marzo, la Fenísia viene mandata in busca della Grisa,
perché non la trovano da nessuna parte. La ragazza cerca la cugina nel
cimitero tra le lapidi. La scorge nell’orto, imbambolata a fissare un
folto di alberi di mele. Chiama, ma l’altra non risponde. La Fenísia si
avvicina indispettita. Solo allora si accorge che il melo piú vecchio ha
un ramo innaturalmente piegato, e non è per il peso della fioritura.
C’è una figura bianca che pende dal ramo. Una donna con un lungo
camicione: i piedi nudi sono leggermente sollevati da terra, come fosse
una fata capace di levitare.
Le ci vuole un po’ a capire che è la Terésia che si è impiccata.
Il curato ha parole tremende contro la Terésia. La ribellione di
una sposa, anche nel caso di una convivenza trista, è per lui
inammissibile. Pazienza e mansuetudine sono virtú che sbandiera
crudamente nella predica della domenica successiva:
«C’era un uomo che aveva l’indole e l’aspetto di una fiera
selvaggia: una malattia che pativa da gran tempo lo metteva in uno stato
perenne di furore. Vero cuore di ferro che respingeva con ferocia la
moglie che gli si faceva dappresso per portargli del conforto o una
vivanda delicata. Invasato da furia, afferrava i piatti che la moglie
gli porgeva e glieli sbatteva in faccia villanamente. A ogni atto
brutale, la donna chinava il capo e si ritirava offrendo la sua pena a
Domineddio... Questa è la vera sposa cristiana: paziente, sottomessa,
lavoriera, che si lascia mansuetamente mettere in croce. Guai alla donna
che si fa prendere dalla collera, che getta fiamme dagli occhi! Il
barometro del suo cuore segna cattivo tempo, la disobbedienza coniugale
discende sempre piú in basso e l’ultimo grado di abbassamento è la
tempesta: perdita di ogni divozione, ferali proponimenti... Non c’è
bisogno che l’indetti io: sapete tutti che non si potrà darle sepoltura
al cimitero».
La pazienza è una virtú che non è mai abbondata in casa della
Fenísia, ma adesso il Biâs col suo viso legnoso, fermo in una smorfia di
disgusto, fa veramente paura. Sulla fronte la cicatrice della lontana
ferita di guerra gli diventa viola quando va in furia, proprio lí, dove
sotto non ha piú l’osso ma una placca di metallo, che gli hanno messo i
dottori. Si impizza per una malòmbra, a volte per dargli fastidio basta
un colpo d’unghia sull’orlo di un bicchiere.
Una sera la Grisa, stanca dei maltratti che dopo la morte della
Terésia si sono moltiplicati, riprova a scappare da casa. Sopà la
riacciuffa sulla strada che scende in città: la agguanta per i capelli
in cima alla testa e la trascina indietro. La ragazzina si dibatte,
digrigna i denti dalla rabbia.
Il Biâs perde la sintèresi:
«Ah sí? Vuoi mordermi? Tu con me non ce ne puoi. Non ti rendi conto
che ti posso piegare come voglio, ché sono io quello che comanda!»
Fa pena la Grisa tenuta per i capelli. La Malvina – che da quando
la Terésia è morta viene spesso al cimitero a dare una mano nei lavori –
implora il Biâs:
«Per l’amor di Dio, lasciatela stare, non è cosí che si fa con una creatura...»
E lui:
«Macché creatura. Questa l’è una lupa. E coi lupi di carezze e zuccherini non c’è di bisogno».
Sostiene che occorre levarle il brutto vizio di ribellarsi, che lui
alla fine saprà farla rigare dritto. I padri comandano e i bocia devono
obbedire. Il padre insegna. Il figlio impara.
[...]
Al filo della mezzanotte di San Giovanni, come tutte le nubili della
valle, la Fenísia riempie una scodella d’acqua e la lascia fino all’alba
sul davanzale, dopo averci versato dentro una chiara d’uovo, perché si
rapprenda con la rugiada. Il pronostico sembra buono. I benís vengono
dunque distribuiti. Lei prepara il buché, la velettina blu, il vestito
da festa col collo abbottonato alto; lui compra gli ori. Allo sposalizio
le parole di don Adolfo la inquietano – «Prometti di onorare tuo
marito...» – ché quella parola «onorare» è uguale a quella che il
parroco precedente tirava fuori per reclamare l’obbedienza a un padre
che picchia senza amore.
Finita la funzione, si dà il via a una pacciatòria memorabile,
tanto che alla fine della soarè le comari raccontano ridendo l’antica
favola degli sposi che passarono la prima notte a fare una tale
spropter-màgnam di confetti, che dovettero tornare a casa dai parenti a
farsi curare con una purga l’infesciatura dei sò visceri.
Il Billio compra un casale fuori dal Paese Piccolo: con tutte le
comodità, dal bagno alla televisione. Il luogo è piuttosto isolato ma va
ben cosí, sostiene il barba «Didòn»: ché la Fenísia non è remissiva né
di primo pelo, epperciò la convivenza con la cognata Dolinda avrebbe
portato complicazioni: chi vuol viver e stare sano, dai parenti stia
lontano. Eppoi il casale è in un’ottima posizione: nonostante la valle
sia stretta e piuttosto buia, lassòpra batte il sole per parecchie ore;
in piú non c’è vento, la casa è protetta da una balma; senza contare che
si gode la vista della riàle d’acqua schiumosa e gagliarda che scompare
in forre nere, per poi riapparire trasparente tra colonnate di larici.
Da vecchia la Fenísia tornerà spesso col pensiero alle speranze di
quei mesi. Ché la vita spillícchia le carte poco a poco, per cui spesso è
impossibile vedere il marcio all’inizio: ogni rapporto nelle prime fasi
ha un aspetto attraente, quando il pomo offre la sua buccia di bei
colori, addormentando i presentimenti, finché una poracrista si brusca
il proprio pelo.
I proverbi dicono che per conoscere un uomo, bisogna mangiarci
insieme uno staio di sale; e, d’altra parte, che il male non vien mai
tanto tardi, che non sia troppo presto... La Fenísia è spaventata dalla
meschinità del Billio e dalle sue insistenze a farsi intestare la dote
di lei; ma soprattutto dalla grossolana brutalità dei suoi rapporti
sessuali e dalla volgarità con cui la prende in giro per la sua ritrosia
a letto: lui sí che ha visto il mondo, ché le donne in Germania sono
vere femmine babiloniche e mica fanno storie a calarsi le mutande per
lasciarsi speronare, eppoi la danno cosí cosà... Questi modi suscitano
nella Fenísia una progressiva ripugnanza nei confronti del marito. È una
lenta guerra che si va manmano inasprendo, perché lei rifiuta di
fingere quell’espressione di grata beatitudine a cui il maschio nella sò
boria quasi sempre crede, anche se è malrecitata. Di rimbalzo, lui
passa sempre piú tempo fuori: la casa sembra gli serva solo per il
rifocillo quando la sera torna dal lavoro eppoi via, al bar a giocare a
soldi, purtroppo senza la protezione di san Macario. Lei resta sola in
casa davanti al televisore: per compagnia, le inchieste del commissario
Maigret e le sventure di David Copperfield.
La Fenísia si spaventa trovando in un cassetto del Billio un
pacchetto di polvere bianca. Bicarbonato, sostiene lui. Ma, all’odore,
lei sospetta ben altro. Per precauzione rispolvera i contravveleni della
nonna e sta in campana.
Perché l’ha sposato? Per cercare di avere una vita diversa, col
desiderio di non svegliarsi piú nel cuore della notte con la voce della
Ghitín che le sussurra nell’orecchio: «Questo è un segreto da non dire a
nessuno»; con la voce della Grisa che le singhiozza nell’orecchio:
«Questo è un segreto da non dire a nessuno»; con la voce del parroco che
le tuona all’orecchio: «Bisogna onorare il padre»; come se onorare
fosse importante, la sola salvezza, come se la vita diventasse meno
triste per il fatto di onorare. Lei che per tutta l’infanzia avrebbe
avuto voglia di chiedere al curato: «Perché onorare chi batte la propria
figlia?...» Somà e sonònna non le avevano mai chiesto di onorarla.
In paese si mormora che il «Pal-de-fèr» ronzi da mesi intorno alla
Cít, che ha ventun anni; lui dimostra una cera da galletto, la voglia
visibilmente in punta. Una volta che la Fenísia scende dal tabacchino
per compere, la Centina la prende da parte e, facendo finta di
spurinarla – «poverina qui», «poverina là» – ma bagnandosi il savoiardo
nelle disgrazie dell’altra, le spiattella la schifenza dell’adulterio
senza usare lunghi giri di perifrasi. La Fenísia si sente mancare il
fiato: gambe di pezza, nebbia in testa. Cerca comunque di dominare il
tremito mordendosi le labbra.
Si ritrova poco dopo a camminare verso casa, come lottando con
un’aria che si è fatta cosí spessa da mozzarle il respiro. La gola le
brucia, la lingua impastata. Un po’ d’acqua, per carità. I piedi la
portano automaticamente verso un fontanino, ma quest’estate è secco, ne
sgorga solo un filino d’acqua, i sassi quasi asciutti. Nessun sollievo.
Perfino il pianto non viene, neanche una lagrima da bere.
Chi sa come ritrova l’uscio di casa. Si siede in cucina. Le solite
vocine: «Non urlare! Non scalciare! Fa’ la brava...» Le ci vuole un po’
per sciogliersi in uno squasso di pianto. Negli occhi gli oggetti della
cucina spallidiscono, tremano. Piangere, urlare, scalciare: oh, come le
fa bene sta caragnata. S’è alzato il vento, alle finestre le tende
prendono a muoversi debolmente: un piccolo sollievo dopo la gran sudata
del ritorno a casa. La Fenísia sospirando si impone di affrontare con
durezza il marito, appena rientrerà: gli chiederà conto. Si sdraia
sull’alto lettone matrimoniale, rigida, a occhi sbarrati.
Le marcolfe linguacciute hanno di nuovo su che ricamare finezze da
trobàr cortés: il Billio è scappato con la Cít. Carezzandosi gli orecchi
con grande mormorazione di lingua e dardeggiando sguardate d’intesa, la
Centina «Portapía» sentenzia:
«Si vede che lui per la Fenísia non provava piú niente, ché l’amore
all’inizio fa passare il tempo e poi il tempo fa passare l’amore. Eh,
verità verissima, certi uomini di donne non ne hanno mai a basta: piú di
Maometto hanno bisogno di averne. Mica come il pòer Dionigi che la
femmina non gli tira la sò maschilità, e lo posso ben dire io perché
all’ora di scegliere un pasticcino dal cabarè sul bancone del bar,
slunga la mano solo per la dolcería a forma tubolare».
Le sorelle Ferretto rivangano maliziosamente la storia scabrosa con
la Grisa e la triste nomea di settespiriti che grava sulla malarazza
della Malvina:
«C’era da aspettarselo: di pelo rosso non è buono neanche il
capretto, figurarsi una donna; tanto piú con quegli anni tra i barabítt
che ha alle spalle. Lui alla fine ha afferrato l’antifona e se l’è
squagliata».
E, visto che nessuno vede la Fenísia piangere, la Dolinda «Senzatètt» commenta:
«Ha il cuore di pietra. L’avevo detto io che pelo rosso, cattiva lana».
Vero, la Fenísia non piange, chiusa com’è in un
pensiero fisso: che basta un niente, e le sicurezze che una persona si
costruisce faticosamente si sgretolano come farina che si perde da un
sacco bucato. Alle linguesporche non risponde. Per non fare il loro
gioco, l’unica linea di condotta possibile le pare il continuare nel
solito atteggiamento cortese, come se nulla fosse accaduto. Ché le
comari gongolerebbero a vederla ferita.
Le viene la notte una penosa sensazione allo sterno, stretto come
in una morsa. Rabbrividisce perché comincia a vedersi doppia, un’altra
con la sua stessa voce. La sera, spente le luci, rimane a parlare tra
sé. Ma non è piú il gioco della Fenísia bambina, quella prima del
«collegio», che aveva vicino la Grisa che l’ascoltava. Non è neppure la
Fenísia tornata al paese dopo la reclusione, sempre all’erta sul
chi-va-là. Adesso c’è un’altra Fenísia ancora, che si osserva dal di
fuori, come se nella stanza ci fossero veramente due persone: una
sbandata in lunghi conversari verso l’altralèi invisibile che ascolta.
Sta per caso diventando matta come sò cugina? A volte si chiede se è
cosí che la morte fa luce nella testa della gente.
Il pensiero della fine solitaria della Ghitín le spírita nella
mente. Madre... Non riesce a ricostruirne l’immagine, non la vede, non
sa cercarla, non ha mai imparato a cercarla. Si sente i piedi impigliati
nelle radici del sò sangue in lutto, ma non conosce la strada per
andare avanti. Se somà venisse a illuminarla...
Durante uno dei suoi vagabondaggi inquieti si ritrova in un prato
fiorito di aconito blu. «Cappucci di monaco» li chiamano qui in valle.
La Malvina raccomandava di tenersene lontani: è una specie di arsenico
vegetale; se si viene a contatto con la pianta, bisogna lavarsi
accuratamente le mani prima di toccare qualsiasi cibo. La Fenísia quasi
senza pensarci affonda le dita nella terra, ne carezza la radice
grumosa, quasi tastasse l’uovo a una gallina. Basterebbe metterla in
bocca, masticarla: tempo un minuto e la sarebbe finita.
Spesso si ferma alla cappelletta che sta ai margini del prato delle
Balenghe: ché se tutti hanno dimenticato le donne senza nome che stanno
sepolte quassòpra, non cosí la Madonna, che femmina era pure lei e di
incomprensioni ne sapeva qualcosa. Chissà chi eresse la cappellina
proprio qui? quale mano pietosa, quale sfantasía di pincisanti ambulante
concepí questa rozza immagine? Ha la testa un po’ piegata su una
spalla, sta Madre Santa, una spada infilzata nel cuore, la bocca severa
su cui si intravede la compassione: col volto solido delle donne di
questa valle, che lavorano duro cominciando la sò giornata al barlume
della stella boàra.
Alla mente della Fenísia riaffiora la preghiera accoracuore che per tutta l’infanzia ha sentito ripetere da sonònna Malvina:
«Per quel dolore amarissimo che quasi vi ridusse alle agonie, o
Inconsolabile, quando doveste rendere a Nicodemo l’unico oggetto dei
vostri amori...»
[...]
«Fenísia, non le fa impressione avere sulla porta di casa l’immagine del Giorno del Giudizio?»
No, non le ha mai dato fastidio sto affresco. Qui
lei è sempre stata nel suo naturale. Eppoi ha mai pensato che il mondo
dei morti fosse cosí. Per lei, morte significa ossa bianche, polvere,
vialetti ordinati, il cipresso che vigila. È il mondo dei vivi che è
terribile. Comunque di questo lavoro hanno campato tutti i suoi, per
generazioni. E lei lo stesso, finché è durato il Paese Piccolo.
Se non le pare insolito questo lavoro per una donna? Chi lo sa.
Tutti i mestieri dan da mangiare. La vita è fatta di tante cose che non
si scelgono. Il padre, la madre, uno se li sceglie? Il posto dove uno
nasce? Eccosí succede per il mestiere. Mica uno può cambiare. Sarebbe
bella che il destino fosse come un paio di braghe che, se ti van corte o
strette, ne puoi mettere delle altre. Comunque lei trova che il lavoro
del becchino sia molto vario: si tratta mica solo di scavare le fosse o
di curare le tombe; prima i morti vanno ripuliti e vestiti. Quella è la
parte piú delicata del lavoro. La Fenísia si è abituata a seguire sopà
nelle case in lutto. Mal sottile, cancrene, infarti, piaghe non hanno
avuto segreti per lei. Ha imparato osservando sopà nella preparazione
dei corpi da chiudere nella bara. L’anticamera del nulla le è diventato
familiare.
Nella lavatura dei cadaveri, che ha eseguito per anni, lei non ha
mai provato schifo, anche quando si macchiava le sottane nere coi loro
umori putridi: macchie grasse, come i succhi marci della frutta quando
casca a terra per la sò maduranza. Sopà le raccomandava continuamente di
non dimenticare di lavarsi le mani quando aveva finito, soprattutto se i
parenti del morto le offrivano da mangiare, come si usava da queste
parti.
Cosa provava? Cosa vuole che provasse? Quante domande curiose fa
sta sciura milanese. Chiaro che certe cose la Fenísia non può contarle
per filo e per segno. Come si fa a spiegare quel che si sente lavando i
cadaveri e preparandoli per la cassa? Come si fa a raccontare quel
momento in cui il corpo già rigido pare tremare sotto le dita, come se
avesse un ultimo soprassalto di vita?... L’importante comunque è, mentre
si compone il corpo nella cassa, continuare a ripetere il nome del
morto. È l’usanza. Primo, perché i non-piú-vivi non devono aver
l’impressione di traversare la grande frontiera da soli; secondo, perché
il morto se lo ricordi eternamente, nel caso che qualcuno dall’altra
parte glielo domandi. Eggià. La sola cosa che l’ha sempre inquietata era
lo sguardo vuoto dei cadaveri: quell’enormità di nulla che vi
intravedeva a dispetto dei ricami di parole – la resurrezione di Lazzaro
e il destino di luce che ci attende – distillati dal curato durante i
funerali. Quella consolazione promessa che invita alla pazienza, perché
verrà il giorno che le lagrime si asciugheranno: ball de Pèder gall...
Comunque sopà le ha insegnato a non tirarsi mai indietro, ché pulire i
morti l’è la carità piú granda. Lui si disperava solo del fatto di non
aver potuto accomodare nella bara il sò povero fratello, il Martino.
Disperso in guerra, nell’inferno gelato della ritirata di Russia, tra
genti che lo consideravano un nemico e di sicuro non hanno provato
nessuna pietà. Una morte senza funerali, senza lagrime, senza preghiere.
Perché Domineddio non ha previsto neanche un briciolo di compassione
per chi muore da nemico. Lasciato a marcire senza neppure una pietra che
gridi al mondo il sò nome. Ché dopo la guerra sono venuti al paese a
mettere un cippo a tutti i poveri pistapàuta caduti. E c’eran dei
politiconi, di quelli che si vedeva che paciottavano alla benbene. E
nella spatafiàda che han propinato alla gente, patapín e patapàn, uno ha
detto che quelli come il Martino avevano dato la propria vita in
sacrificio contro la barbarie russa. Ma si capiva, tutti i presenti
capivano, che la barbarie erano loro, con le loro mani guantate, i loro
visi ben sbarbati, la boria delle scarpe belle lustre. Ah, la Fenísia
proprio ne ha piònda di quella gentaglia lí...
Purtroppo cosí va il mondo: chi le fa piú sporche, è bravo. Ci sono
tombe ingiustamente dimenticate e tombe ingiustamente onorate. Lei si
ricorda che tutti gli anni, nell’anniversario della morte di un gran
malamènti, un porco carognone, la sua lapide si copriva di fiori. Che
vergogna. E lei non parla soltanto di quelli della valle: tutto il mondo
è paese e, in materia di forca, tanto strozza la seta che la canapa.
Mascalzoni, intrallazzisti, sautabànchi capaci di ogni tipo di discorso a
trucco, rimangono nel ricordo della gente; e nessuno se ne sdegna.
Invece per i poveretti, nisba: neanche un fiore, un cero. Esiste forse
la tomba dell’inventore del pane? Quella dell’uomo che ha costruito la
prima sedia o il catino? Eppure sarebbero da riverire, ché son loro i
veri benefattori del mondo.
«...»
Il destino taglia i fili quando vuole. Un cacciatore
risparmia le bestie piccole, il pescatore ributta in acqua il pesce che
non ha ancora compiuto il suo ciclo. Ma quel che trova nella sua rete,
il destino se lo tiene senza misericordia. Ma il tremendo è che a volte
gioca al gatto col topo. La sciura ha mai visto un gatto quando ha a
portata di zampa la sò preda e sa che non può sfuggirgli? I baffi gli
vibrano di soddisfazione, come se pregustasse già il sapore della
plücca, di quel bomboncino di carne fresca, senza ancora sfoderare le
unghiette dallo sciampíno di velluto, ma con i nervi e muscoli ben tesi,
la coda che cerca il punto di appoggio perché tutto il corpo prenda lo
slancio e salti... Cosí fa il destino.
«Fa una certa impressione sentirla parlare in questo modo, Fenísia. Come se non ci fossero consolazione o giustizia possibili».
Uno prende la purga e l’altro va di corpo: questa è
la prima regola della vita. Quanti vanno alla forca che non ne han né
mal né colpa. Cosí va il mondo. Si fa per la meglio; alla peggio ci
siamo. Si vive da ottenebrati. Quel che i tuoi occhi non stanno vedendo
oggi può darsi che dovrai soffrirlo come colpa posdomani. Per non
sbagliare non bisognava nascere.
[...]
L’estate è smeraldo: boschi, lucertole, perfino le pietre sono verdi.
Anche la casa sembra invasa da una luminosità di quel colore: sarà per
il profumo della menta e della camomilla appese in fasci alle travi.
L’acqua bevuta dalla secchia col mestolo di ferro lega gradevolmente i
denti e sa di radici profonde.
Seduta sulla panca addossata al muretto del cimitero, la Grisa ascolta la Fenísia che chiacchiera rivangando la comune infanzia:
«Perché i padri picchiano le figlie e si giustificano che è per il
loro bene, per punire il loro “brutto vizio”, e che da grandi le figlie
intenderanno? Ma intendere cosa?... Perché le botte e le cinghiate? E
alla fin fine cos’era sto brutto vizio?»
Il fischio di un uccello chiama la pioggia. La Fenísia continua dandosi da sé una risposta:
«Era semplicemente che, quand’una nasce, la famiglia è già pronta
con uno stampino, come quello delle torte. Ma evidentemente qualche
bambina ha una forma che non si adatta allo stampo. Per questo la
pestano cosí tanto: perché non si rassegna, non si arrende».
[...]
La Fenísia ha già coperto il mucchio di ricci con la sabbia: cosí le
castagne resteranno fresche fino a primavera. Ora sta preparando la
riserva di legna per l’inverno: da dietro casa si alza il rumore secco
del mazzuolo quando viene battuto sul cuneo.
Lavora da sola, perché la Grisa ha da fare nel capanno degli
attrezzi, affianco alla legnaia, dove ha installato una specie di
laboratorio. È sempre stata brava a riparare un contatto elettrico
saltato dopo un cortocircuito, con l’aiuto di un temperino sa rimettere
in moto un meccanismo che si è fermato; ma adesso l’impegno che le
prende quasi interamente la giornata è la costruzione di strani
apparati. Si tratta di «macchine» – cosí le chiama la Grisa –
dall’utilità fantastica. C’è presèmpio, la macchina «per far passare la
paura»: un’armatura di plastica e legno, a cui sono legati vari fili
elettrici, con due fori per le mani a cui sono applicati i meccanismi di
un paio di macinini a manovella. Oppure quella «per non far volar via
le parole e i pensieri»: una specie di passamontagna di lamiera da
infilarsi intorno al capo. Ché la Grisa è molto preoccupata della
possibilità che qualcuno le entri nella testa e la derubi dei propri
pensieri; sostiene che le parole scendono dal cervello fin giú nella
bocca ma che, nel momento in cui arrivano alla lingua, un non meglio
specificato «nemico» le prosciuga. La sua speranza è di riuscire a
fabbricarsi una testa nuova.
Adesso, infagottata in una vecchia tuta maschile da lavoro con
ampie tasche laterali gonfie di attrezzi, la Grisa è tutta intenta alla
costruzione di un grosso cubo in legno di ciliegio a cui vuole applicare
un motorino: l’ha chiamato la macchina «per fabbricare tempeste».
Alla Fenísia gli apparati della cugina fanno una strana
impressione: tra l’addobbo di un albero di Natale e un’armatura degna
dell’armata Brancaleone. Comunque non le spiace che la Grisa quasi non
l’aiuti nei lavori di casa, anzi la asseconda: è convinta che se una ha
passato piú di trent’anni all’inferno ha ben diritto di tornare bambina.
Certe sere, quando la chiama per la cena, la vede venir fuori dal
capanno degli attrezzi, con la faccia arrossata, tutta un sudore.
La Fenísia borbotta inquieta:
«Perché affannarsi cosí tanto? Che fretta c’è?»
L’altra ride e scuote la testa. La Fenísia corre a prepararle una maglia asciutta e una tazza di latte caldo.
Nel laboratorio il notes della Grisa si va riempiendo della sua
magra grafia: per lo piú sono progetti di «macchine», tracciati con
inchiostro blu, un po’ sbavato; ma soprattutto schegge di pensieri o
ricordi. Pagine di frasi misteriose:
«Un’altra volta è entrato nonsoché nel dito. La Cosa può
nascondersi anche in una roba piccolissima. Nella gola, nel petto, nella
pancia».
«Quando non ci sono morti sul soffitto, si può fare il giro della stanza».
«Se le parole non scappano dalla bocca, la Cosa non le può mangiare».
Prima di dormire, davanti alla stufa accesa, una tazza fumante di
decotto. Il profumo del genepí si spande per la stanza: scalda forte e
fa bene.
La Fenísia ha preso l’abitudine di leggere alla cugina qualche
pagina a voce alta. Dei pochi libri che stanno in casa, il preferito è
la Bibbia: un vecchio volume con severe illustrazioni: Caino il
peccatore, che si guarda alle spalle; l’arca di Noè carica di animali;
la moglie di Lot trasformata in statua di sale; la caduta delle mura di
Gerico al suono delle trombe; la bellissima Ester in ginocchio davanti
al re; la magica scritta «Mane, Tekel, Fares» sul muro del palazzo del
re ingiusto; Giuditta nella tenda di Oloferne... La Grisa ha preso la
solita pastiglia e ha un’aria rilassata, ché via via che la medicina fa
effetto, il diavolío di pensieri dolorosi che spesso la prendono alla
sera si attenua: come alle fiere di paese quando, dopo un giro vorticoso
di manovella, la ruota della fortuna coi bigliettini dei premi prende a
rallentare. Nella testa le immagini traballano e frenano la corsa, il
soffitto si fa sempre piú lontano, l’aria si addensa.
La Fenísia alza gli occhi dal libro. La luna piena imbianca il cimitero. I fiori di ghiaccio brillano sui vetri. Dice:
«Che luce, là fuori. Non sembra neppure notte».
Poi zittisce, accorgendosi che l’altra si è addormentata sul divano
in un sonno tranquillo, il braccio destro piegato sotto la nuca.
Sul notes la Grisa stasera ha scritto:
«Gesú stava nel cortile del Tempio. Vennero gli scribi farisei a
portargli una donna. Dissero: Guarda, Figlio dell’Uomo, questa è una
pazza. La Legge dice che quelle come lei vanno rapate.
E lui si mette a scrivere con un dito nella polvere.
Allora quelli dàgli a insistere: Cosa fai di bello, Figlio dell’Uomo, cosa ci dici di bello?
Amen».
[...]
«Allora torniamo a quel prato delle Balenghe».
Per lei è un luogo di storie. Non sue, sia chiaro.
Narrazioni che lei ha sentito da bambina nelle stalle, quando le vecchie
filavano in circolo. Storie di fatica, di patate da cavare con le mani
sgrabelate, di lupe che urlano di fame, di figli ingrati, di gente
capace di accoltellarsi per una fascina di legna. Lei ne ha sentite
tante, ma proprio tante. Eh, il sangue di una vecchia la sa lunga.
Perché il prato si chiama cosí? Ste Balenghe chi erano? Donne che
vivevano da sole. Donne che, secondo la comunità, avevano qualcosa di
strano: albine, presèmpio, o gobbe o strabiche o mancine... Insomma, che
avevano caratteristiche fuori dal comune oppure che soffrivano del
morbo della malinconia. Ognuna balenga per il sò particolare motivo. La
sciura vuole sentirne una?
C’era l’Anna. Balenga, le dicevano tutti: balenga, perché non
sapeva neppure dire quante paia fanno tre mosche. Innocente, forse cosí
l’avrebbero chiamata se fosse vissuta in un altro posto. Ma qui in valle
la gente è di legno. Nuca dura e mano quadra. Lo scherno come regola.
Ché, a contarla intera, la pecca dell’Anna era semplicemente il fatto
che fin dalla nascita non parlava né sentiva. Viveva in un mondo tutto
suo, vuoto di suoni: ci volavano le nuvole, i falchi, le foglie portate
dal vento; scendeva a valle la riàle, verdeggiavano i prati a ogni
primavera, veniva la tormenta di neve alla sò stagione; ma tutto per lei
succedeva in silenzio.
Innocente: non aveva conosciuto l’uomo, non doveva niente a uno
sposo, come le altre femmine; mai la cannetta della schiena le si era
piegata in una riverenza davanti a un maschio per cui spazzare, cucire,
fare ordine, dare conforto. Ma non offendeva nessuno, anzi sorrideva
sempre. Per tutta risposta, la gente le faceva intorto prendendola in
giro: ché gli asini non conoscono i confetti. Per i giovanotti poi era
uno spasso: le gridavano dietro le frasi piú sconce. Perfino i bambini
usavano canzonarla. Ma lei sempre a rispondere solo con gli occhi di un
verde sabbioso che non sapeva il rancore; la bocca infantile, con una
piega agli angoli, che pareva tremare di continuo, non si capiva se di
riso o di pianto.
L’unica parente era una zia che abitava in un villaggetto all’altro
capo della valle. Una brava donna di nome Gnetta. L’Anna saliva a
trovarla una volta al mese, a portarle i suoi sospiri; restava là un
paio di giorni, poi tornava giú a riprendere il suo lavoro di
canestraia. Chi le voleva bene veramente era un canlupo nero che la
seguiva dovunque andasse.
Si combatteva a quel tempo là. Ché di guerre ce n’è sempre una, con
un prete pronto a benedire le bandiere: non fu mai altrimenti né mai
sarà. Con i montagnini che non ce ne possono: ché, vinca l’uno o
l’altro, sempre di padroni si tratta, che ci fan da giudice, ci guardano
come fossimo ladri e non ci lascian altro che grattarci con comodo i
maroni, con rispetto parlando. Insomma era una di quelle guerre che
venivano da lontano, di là dalle montagne. La valle era, come adesso, di
difficile accesso, ma delle soldataglie erano riuscite comunque a
arrivarci. Lungo il sentiero che da un paesino all’altro procede lungo
la scarpata, si snodavano in fila, con vociare e grida, il cacafuoco
sottobraccio, lo staffile al fianco. Lo sa Dio cosa cercavano: ché tra
le nostre montagne non c’è niente che possa far gola, qui è un posto di
vita accontentata, mica come a Milano dove anche i moroni fanno uva.
Gli invasori guardavano con aria superba le donne e i vecchi
inginocchiati nella polvere. Avevano lineamenti differenti dai nostri,
una voce sprezzosa: entravano nei villaggi, facevano suonare le campane e
pretendevano ruote di pane, brente di vino, rosticciana d’agnello. Chi
non donava veniva ammazzato, stalle e ovili bruciati: la vita dei
paesani valeva quanto una foglia che si può accartocciare tra le dita.
Le donne, che in un colpo solo perdevano la roba i mariti e l’onore, si
rotolavano per terra dalla disperazione, mordendosi le mani. La paura
prendeva tutti alle busecche appena sentivano avvicinarsi un drappello
di quei plúfferi. Tutti meno l’Anna, ché il silenzio in cui viveva la
chiudeva come in una fortezza. Era la sua fortuna: ché se c’è anche un
Signúr dei ciucchi, ci sarà bene anche quello dei lucchi.
Era novembre. Già fioccava a pelo di gatto. Una coltre di neve
soffice copriva il sentiero, mentre lei saliva a trovare la zia. Un
silenzio piú vasto del solito. Le faceva piacere camminare nella
caligine del mattino. In un varco di nebbia ogni tanto occhieggiava il
lumino lontano dell’ultimo villaggio della valle. Il canlupo sempre
dietro a lei.
Dapprima vide il campanile, alto sopra i boschi. Poi la casa, un
po’ discosta dalle altre. Salí i gradini della scaletta di pietra,
bussò. Le aprí una donna sconosciuta che le spiattellò in faccia:
«Tua zia l’è morta e sepolta da due settimane».
La ragazza però non intese; anzi, cominciò a far la riverenza, come
per ringraziare. Finché si ritrovò seduta sui gradini, con le braccia
intorno al collo del canlupo. La porta chiusa sprangata; di fianco a lei
stava una cassetta di sbarlafusi appartenuta alla vecchia Gnetta: tutta
la sua eredità. Quando finalmente intese, scese stranita gli scalini
insieme alla bestia.
Corse col canlupo attraverso la neve profonda. Solo quando fu in
mezzo al bosco, si acquietò. In pace, mentre il suo silenzio interno si
fondeva col bianco della neve. Il canlupo le leccò le mani per
compatirla. Camminò in fretta, la bestia sempre trotterellando al suo
fianco e ficcando il naso tra i cespugli carichi di neve. Il pomeriggio
intorno a lei era tranquillo.
Giunse in vista del Paese Piccolo, il cammino le aveva messo una
gran fame. Incrociò un ragazzo che, aggrottando le sopracciglia, le
gridò qualcosa che però lei non capí. Avanti, avanti, un passo dietro
l’altro, affondando nella neve. Sul motto che dominava il gruppo di case
che si stringevano intorno alla chiesa, si fermò presa da un’insolita
paura. In basso, vicino ai fienili del Rosualdo, dove fin dai tempi di
Adamo si tenevano le riunioni, si affollava la gente: pugni rabbiosi si
sollevavano sopra le teste e gli stivali dei pastori calpestavano un
picia-pucia di neve e fango; il vapore denso delle respirazioni
aleggiava sulla folla. Dal lato opposto stava un gruppo di soldati
stranieri; due di loro tenevano per le braccia l’Emiliona, la locandiera
del paese.
Era successo che un soldato l’aveva accusata di avergli ripulito le tasche. La gente gridava:
«Confessa, troia! Sempre hai venduto la micca scrocca, ma derubare un soldato è davvero troppo!»
L’Emiliona confessò cupamente che sí era colpevole, sputando sulla neve il sangue delle bastonate ricevute.
«Ammazzarla, ci vuole, quella figlia di cagna», urlavano le donne,
che ce l’avevano con lei perché oltre al vino l’Emiliona vendeva ai loro
mariti anche altri favori di porcheria di cui la decenza è solita
tacere.
Comparve il Rosualdo. Era il capo della comunità: ché, siccome
avareggiava alla grande, possedeva le stalle e gli ovili di mezza valle.
Tagliò il frastuono con la mano orizzontale e tutti si tacitarono di
colpo. Alto una testa piú degli altri e forte come un toro; ma piú che
altro tutti lo temevano per la lingua tagliente e il cuore di sasso. Un
uomo senza angelo custode: gli altri, come acqua li beveva, come erba li
calpestava; ché chi fa e guasta diventa maestro. Disse:
«Ammazzarla non se ne parla nemmeno. Primo, perché penso che
l’Emiliona abbia imparato l’antifona e non ripeterà piú quello che ha
fatto; secondo, non ci conviene consegnarla a questi soldati: in fondo
qui in valle fa il suo bel servizio».
Poi, infilando tre volte l’indice destro nella sinistra chiusa a
pugno, fece un gesto sconcio. Quindi riprese fiato guardando verso il
motto da dove in quel momento l’Anna scendeva verso il villaggio. La
seguí per un attimo a occhi socchiusi, mentre sul viso gli si disegnava
una smorfia volpina; poi continuò:
«Comunque son d’accordo con voi che non si può lasciare passare
liscia una faccenda simile: ogni delitto va punito severamente e, per
distogliere la gente cattiva dall’idea di ripetere un furto, non c’è che
la morte. Il peccato si uccide insieme al peccatore: come esempio e
perpetuo timore di chi ci voglia riprovare».
Tutti intorno a lui assentirono con la testa, nella maggiore sospensione.
«Tanto piú che bisogna dare soddisfazione agli offesi»,
aggiunse il Rosualdo, accennando ai soldati foresti che formavano un cerchio intorno a loro. Poi proseguí:
«C’è però da considerare un altro lato della questione: di puttane
ne abbiamo una sola, mentre di pecoraie o canestraie ne abbiamo tante. È
piú facile per questo scopo rinunziare a una di loro piuttosto che
all’Emiliona».
Nel dire questo additò l’Anna che aveva ormai raggiunto il gruppo. E rise:
«Batt i pàgn, fœra la stría...»
Lo pensarono tutti: era orfana, disgraziata, buona soltanto da fà
la zuppa. Nessuno l’avrebbe pianta. Non ci voleva la zingara per
indovinarle la sorte.
Detto fatto, tutti si adeguarono al parere del Rosualdo. A nessuno
venne in mente di discutere la sua proposta: era la colpevole che ci
voleva, perché la comunità aveva bisogno della sua colpa.
Giusto in quel momento l’Anna era arrivata allo spiazzo davanti ai
fienili, dove la gente stava radunata. La ragazza si accorse che tutti
la guardavano truci. Sorrise voltandosi a dritta e a manca, ma i visi di
tutti continuarono a fissarla allo stesso modo.
Il Rosualdo le puntò l’indice contro:
«Rassègnati, tanto non puoi farci niente lo stesso».
E tutti fecero coro.
Però lei non sentiva. Si meravigliò delle braccia tese da tutte le
parti a brancicarla per le vesti. Cercò di serrarsi nel suo scialletto,
ma glielo strapparono via. Si agitò senza comprendere, mentre la folla
la trascinava fuori dal villaggio. Il canlupo abbaiava, rizzando il
pelo; lo presero a pedate.
L’Anna vedeva le bocche che si aprivano in smorfie paurose e
orrende; si lasciava trascinare con impaccio. Camminarono nella neve
intatta dell’ultimo prato prima del burrone. Davanti i bambini curiosi,
dietro i vecchi zoppicando sul bastone. I soldati foresti seguivano a
breve distanza il gruppo di paesani vocianti e osservavano la scena,
impassibili.
La spinsero sotto il noce. Siccome il canlupo le girava intorno
spaventato, lei si chinò a carezzargli il capo. Era l’ultimo prato prima
dell’orrido. Veniva sera, il cielo fiammeggiava rosso. L’Anna aspirò
l’aria fredda, sentí la neve bruciarle le caviglie ché nel camminare, a
furia di spintoni, aveva perduto le zoccole. Sentiva l’odore dei fiati
intorno a lei, acidi di vino rabbia e paura. Il sorriso le si spense in
bocca quando incontrò lo sguardo del Rosualdo. Chi sa se comprese il suo
destino. Giunse le mani, intorno a lei il silenzio era totale, puro
come il bianco della valle.
I paesani la circondavano con il braccio alzato, una pietra in
ciascun pugno. A lei parve un cerchio di mostri. Il primo sasso la colpí
alla spalla e ruzzolò pesantemente ai suoi piedi. Volse gli occhi
increduli a chi aveva tirato. Si accorse che il canlupo aveva il pelo
ritto, slungò il braccio per raggiungerlo. Poi non guardò piú. Cadde.
Morse la neve, ci affondò il viso. Il sangue si raffreddò in fretta
sull’erba gelata. Presto ci fu un cumulo di pietre sopra il cadavere. Un
grande mucchio, quasi che tutta la comunità volesse assicurarsi che il
suo corpo non potesse scapparsene via e svanire nel crepuscolo del
mondo.
Il cielo si scuriva; si accesero le torce. Una vecchia appese a un
ramo del noce lo scialletto nero che aveva strappato alla ragazza. Dal
bosco, dove il canlupo era fuggito quando la sassaiola era cominciata,
si levò un ululato minaccioso, che fece rizzare i capelli a tutti. Le
donne si segnarono, una vecchia disse:
«Il sangue chiama il cielo».
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