Destinazione Inferno - Lee Child
>> mercoledì 20 aprile 2011
Secondo romanzo di Lee Child che fa seguito a Zona Pericolosa. Il protagonista è il medesimo ma a differenza del primo episodio che è narrato in soggettiva, qui il racconto è in terza persona. La storia perde in immediatezza ma non è questo il vero problema del libro. Il racconto è di credibilità pari a zero. Già nel precedente il protagonista era più che iperbolico, ora supera ogni confine di decenza. La stessa trama, che ruota attorno ad una piccola comunità del montana che dichiara la propria indipendenza dal mondo, è demenziale. Child comunque scrive bene. Due sono le parti che più mi sono piaciute del libro: la gara di tiro a segno per l'uso sapiente dei dettagli tecnici nel descrivere le difficoltà di colpire il bersaglio; il percorso nei cuniculi sottoterra in cui sembra di soffocare assieme al protagonista e si vive il senso di angoscia di chi non riesce a trovare una via d'uscita.
«Un colpo a segno», annunciò. Abbassò il fucile e guardò Reacher. «Ora tocca a te », disse. «E una questione di vita o di morte. » Jack annuì. Fowler gli porse il caricatore e lui, col pollice, controllò l'efficienza della molla. Premette il primo proiettile del caricatore verso il basso e notò la morbida risposta della molla che si rilasciava. I proiettili brillavano: erano stati lucidati a mano, ed erano da tiratore scelto. Reacher si chinò e sollevò il pesante fucile; tenendolo verticale, inserì il caricatore. Non lo premette con forza come aveva fatto Borken, ma lo spinse gentilmente in sede col palmo della mano. Aprì il treppiede, una gamba alla volta, bloccandolo con gli appositi fermi. Sollevò lo sguardo verso il poligono e posò il fucile sulla stuoia. Si accovacciò accanto a esso e quindi si stese, il tutto con un movimento fluido. Pareva morto, le braccia sul fucile. Avrebbe voluto restare in quella posizione a lungo: era stanco, stanco morto. Eppure si mosse: appoggiò delicatamente la guancia al calcio e avvicinò a questo la spalla destra. Con la sinistra afferrò la canna, le dita sotto il mirino, quindi portò la mano destra al grilletto. Accostò l'occhio destro al cannocchiale ed espirò. Per sparare con un fucile da tiratore scelto a una distanza elevata, è necessario possedere varie conoscenze: di chimica, d'ingegneria mecçanica, di ottica, di geofisica e di meteorologia. E, soprattutto, di biologia umana. L'esplosione è una questione chimica. La polvere contenuta nel bossolo dietro il proiettile deve esplodere in modo corretto, prevedibile, efficace, immediato. Deve proiettare la pallottola nella canna alla massima velocità possibile. Il proiettile da mezzo pollice nella camera del Barrett pesa poco più di cinquanta grammi. Un minuto prima è fermo, un minuto dopo viaggia a una velocità di quasi tremila chilometri orari. Quindi la polvere deve esplodere presto, completamente ed efficacemente. Si tratta di un processo chimico complesso e l'esplosione deve per forza essere la migliore del mondo. L'ingegneria meccanica ha un ruolo lievemente meno importante. Il proiettile deve essere perfetto, costruito con cura come ogni altro manufatto, fuso meglio di qualsiasi gioiello, del tutto uniforme per quanto concerne dimensioni e peso, nonché dotato di un diametro assolutamente circolare e aerodinamico. Deve inoltre poter sopportare la tremenda rotazione imposta dalle rigature all'interno della canna, e ruotare nell'aria, sibilando, senza oscillazioni, senza deviazioni. La canna deve essere dritta e a tenuta perfetta. Se uno sparo precedente l'ha surriscaldata e alterata, sorgono problemi. La canna deve essere una struttura metallica a regola d'arte, abbastanza pesante da rimanere inerte e da assorbire lievi vibrazioni dell'otturatore, del grilletto e del percussore.
Ecco perché il Barrett costava quanto una berlina economica, e perché Reacher teneva la mano sulla parte superiore dell'arma: per attutire eventuali vibrazioni residue. L'ottica ha invece una funzione di primo piano. L'occhio di Jack si trovava a quasi tre centimetri da un cannocchiale di puntamento Leupold & Stevens, uno strumento decisasamente sofisticato. Il bersaglio appariva piccolo dietro le sottili tacche di riferimento incise sul vetro. Reacher lo fissò, concentrato, poi abbassò il calcio e lo vide svanire, mentre al suo posto appariva il cielo. Espirò di nuovo e osservò l'aria.
La geofisica è determinante. La luce segue una traiettoria rettilinea, ma è l'unico elemento a farlo. I proiettili sono diversi: sono corpi fisici e, come tali, obbediscono alle leggi della natura, che seguono la curvatura della terra. Ottocento metri rappresentano un bel tratto di tale curvatura. Il proiettile fuoriesce dalla canna e dapprima supera la linea visiva poi l'attraversa e infine si abbassa sotto di essa, seguendo una curvatura perfetta, come quella terrestre. A dire la verità non è proprio perfetta, perché dal primo millisecondo del suo tragitto la gravità lo attira verso il suolo come una piccola mano insistente. E il proiettile non può ignorarla: pesa cinquantacinque grammi, è costituito da piombo rivestito di rame e viaggia a una velocità di quasi tremila chilometri orari, ma la gravità ha la meglio. Non subito, ma quando interviene il suo migliore alleato, l'attrito. Dal primo millisecondo del suo tragitto l'attrito dell'aria rallenta il proiettile e fa sì che la gravità abbia buon gioco. Attrito e gravità cooperano, in sostanza, per deviare il proiettile verso il basso. Perciò bisogna mirare molto in alto, anche tre metri sopra il bersaglio, perché ottocento metri dopo la curvatura della terra e la forza di gravità dirigano il proiettile là dove deve andare. A dire la verità non bisogna mirare proprio sopra il bersaglio perché, in tal caso, s'ignorerebbe la meteorologia. I proiettili si muovono nell' aria, e l'aria si sposta. E difficile trovare una giornata senza vento: l'aria si muove sempre, in un modo o nell' altro, a destra o a sinistra, verso 1'alto o verso il basso, o secondo un'infinità di altre combinazioni. Reacher osservò le foglie degli alberi e notò una leggera brezza che soffiava da nord: aria secca, che si muoveva lentamente da destra verso sinistra, attraverso la sua linea visiva. Pertanto prese la mira circa due metri e quaranta verso destra, e tre metri al di sopra del suo bersaglio. Avrebbe sparato il colpo lasciando che la natura lo deviasse verso sinistra e verso il basso. La biologia umana resta, tuttavia, il fattore più importante di tutti. I tiratori scelti sono esseri umani, e gli esseri umani sono masse tremanti, pulsanti, fatte di carne e muscoli. Il cuore batte come una pompa gigante e i polmoni immettono ed espellono grandi volumi d'aria; ogni nervo ogni muscolo vibrano di energia impercettibile. Nessun essere umano è mai veramente immobile: anche la persona più calma trema palesemente. Supponiamo che tra il percussore e l'estremità della canna vi sia poco meno di un metro: se quest'ultima si muove di un millimetro, a ottocento metri di distanza il proiettile mancherà il bersaglio di ottocento millimetri. L'effetto del movimento, cioè, si moltiplica. Se la vibrazione di chi spara sposta solo lievemente la canna, la pallottola non colpirà il bersaglio, finendo anche a venti centimetri di distanza, una distanza equivalente alla larghezza di una testa umana. La tecnica di Reacher era attendere, osservare il campo visivo finché la respirazione non fosse stata regolare e il battito del cuore non fosse diminuito. Poi avrebbe posizionato il dito sul grilletto, lentamente, e aspettato ' ancora un po', contando i battiti. Uno, due, tre, quattro. Avrebbe aspettato finché la frequenza non si fosse ridotta, e avrebbe sparato tra un battito e l'altro, in un momento in cui la vibrazione del corpo sarebbe stata minima. Attese, compiendo espirazioni lunghe e lente. Il suo cuore batté una, due volte. Sparò. Il calcio rimbalzò contro la spalla e la sua vista venne offuscata dalla nube di polvere sollevata dalla stuoia sottostante. Il rumore sordo dello sparo echeggiò contro le montagne e tornò alle sue orecchie insieme col mormorio della folla. Aveva mancato il bersaglio. La sagoma con la scritta FBI, che raffigurava un agente chino; in atteggiamento di corsa, era integra. Jack lasciò che la polvere si depositasse e controllò gli alberi. Il vento era costante. Espirò e lasciò che il battito cardiaco rallentasse. Tirò ancora. Il grande fucile rinculò e sparò. Si sollevò un' altra nube di polvere e la folla stette a guardare, mormorando: un altro colpo andato a vuoto. Due colpi andati a vuoto. Reacher respirava costantemente. Poi, tirò di nuovo. Un altro insuccesso. Sparò per la quarta volta. Ancora niente. Fece una pausa, riprese il ritmo e tirò il quinto colpo, che andò a vuoto. La folla era inquieta.
Borken gli si awicinò pesantemente. «Ti giochi tutto con l'ultimo tiro », commentò con un sogghigno.
Jack non rispose. Non poteva assolutamente permettersi di parlare: avrebbe alterato il ritmo respiratorio e contratto la muscolatura di gola e polmoni, il che gli sarebbe stato fatale. Attese. Il suo cuore batté una, due volte. Sparò il sesto colpo. A vuoto. Si scostò dal mirino e guardò la sagoma: era intatta.
[...]
Perse il senso dell'orientamento. Sperava di dirigersi approssimativamente verso ovest, ma non poteva dirlo con sicurezza. La volta si abbassò fino a sessanta centimetri. Stava strisciando attraverso una vecchia fenditura nella roccia, scavata tempo addietro per il suo minerale. Il cunicolo diventò sempre più basso, fino a misurare quarantacinque centimetri. Faceva freddo. Il cunicolo si restringeva ancora. Jack teneva le braccia protese in avanti; il passaggio si era fatto tanto stretto che non poteva più tirarle indietro. Stava strisciando lungo uno stretto tubo di roccia; sopra la testa aveva un miliardo di tonnellate di pietra e non sapeva dove stesse andando; la torcia si stava spegnendo: le pile erano quasi scariche, e la sua luce si affievoliva, assumendo un color arancione sempre più cupo.
Respirava affannosamente e tremava, non per lo sforzo ma per la paura, per il terrore. Non era questo ciò che si aspettava: si era immaginato un percorso in un'ampia galleria abbandonata, non una stretta fenditura nella roccia. Si stava gettando a capofitto nel suo peggiore incubo infantile. Era un uomo sopravvissuto a molti pericoli, che raramente provava paura, ma fin da adolescente sapeva di avere il terrore di rimanere intrappolato al buio in uno spazio troppo piccolo per la sua grossa corporatura. In tutti i suoi incubi infantili, da cui si svegliava madido di sudore, si ritrovava chiuso in spazi angusti. Adesso giaceva prono, gli occhi ben chiusi; ansi-mava, respirava a fatica, cacciando l'aria dentro e fuori della gola stretta. Stava avanzando, centimetro dopo centimetro, nel suo incubo.
La torcia alla fine si spense, a un centinaio di metri dall'imbocco del tunnel. L'oscurità era totale, e il cunicolo si stava restringendo. Gli schiacciava le spalle verso il basso. Jack si stava spingendo in uno spazio troppo piccolo per lui ed era costretto a tenere la testa voltata di lato; lottò per mantenere la calma. Si ricordò di ciò che aveva detto a Borken: la gente prima era più piccola. Piccoli individui snodati, che migravano a ovest cercando fortuna nel ventre delle montagne, uomini grandi la metà di Reacher che, stesi sulla schiena, si spingevano avanti nei cunicoli, estraendo i luccicanti minerali dalla roccia.
Jack usava la torcia scarica come un cieco usa il suo bastone bianco. Improvvisamente questa si ruppe contro un corpo solido, sessanta centimetri davanti a lui. Tra un rantolo e l'altro, Reacher udì il vetro frantumarsi. Fece uno sforzo per avanzare e tastò con le mani. C'era una parete solida: il tunnel finiva. Cercò di tornare indietro, ma non riusciva a spostarsi di un millimetro; per spingersi indietro con le mani doveva sollevare il torace e far leva, ma la volta del cunicolo era troppo bassa per poterlo fare. Aveva le spalle pigiate contro di esso: non riusciva a far leva. E i piedi potevano spingerlo in avanti, ma non indietro. S'irrigidì, in preda al panico, e sentì la gola chiudersi. Col capo toccava la volta del tunnel e con la guancia il pavimento ghiaioso. Represse un urlo, aumentando la respirazione.
Doveva tornare indietro. Puntò le dita dei piedi, girò le mani verso il basso e conficcò i pollici nella ghiaia; poi tirò con le dita dei piedi e spinse con i pollici. Riuscì a spostarsi di pochi centimetri, ma poco dopo la roccia lo strinse forte ai fianchi. Per consentirgli di arretrare, i muscoli delle spalle erano compressi contro la roccia. Jack rilassò le braccia; dopodiché si tirò con le dita dei piedi, che però scivolarono inutilmente nella ghiaia. Si aiutò allora con i pollici, e le spalle vennero ancora una volta premute contro la parete. A scatti Reacher spostò le anche, sfruttando i pochi centimetri che aveva a disposizione. Affondò con forza le mani nella ghiaia e fece leva all'indietro. Il suo corpo era bloccato, come un cuneo in una porta. S'inclinò da una parte e urtò con la guancia sulla volta del tunnel, fece uno scatto per girarsi di schiena e batté l'altra guancia per terra. La roccia gli stava comprimendo le costole. Questa volta non poteva reprimere l'urlo, doveva lasciarlo uscire: aprì la bocca ed emise un gemito di terrore. L'aria nei polmoni gli schiacciò il torace per terra e la schiena contro la volta.
Non sapeva se i suoi occhi fossero aperti o chiusi. Si spinse in avanti con i piedi, tornando dov'era; allungò le braccia e tastò davanti a sé. Le sue spalle erano talmente compresse contro la parete che non riusciva a compiere ampi movimenti con le mani. Stese le dita e tastò a destra, a sinistra, sopra e sotto. Davanti c'era solo roccia: non aveva modo di proseguire e neppure di retrocedere.
Sarebbe morto intrappolato nella montagna. Lo sapeva, e lo sapevano anche i ratti che stavano annusando l'aria dietro di lui e si stavano avvicinando. Li sentiva, vicino ai piedi. Calciò all'indietro e li cacciò via. Ma essi tornarono: ne sentiva il peso sulle gambe, stavano buttandosi su di lui. S'infilavano tra le sue spalle e la roccia, scivolavano sotto le sue ascelle. Reacher sentì il pelo freddo e untuoso sulla faccia e i colpi delle loro code mentre si gettavano in avanti e tentavano di oltrepassarlo.
«Un colpo a segno», annunciò. Abbassò il fucile e guardò Reacher. «Ora tocca a te », disse. «E una questione di vita o di morte. » Jack annuì. Fowler gli porse il caricatore e lui, col pollice, controllò l'efficienza della molla. Premette il primo proiettile del caricatore verso il basso e notò la morbida risposta della molla che si rilasciava. I proiettili brillavano: erano stati lucidati a mano, ed erano da tiratore scelto. Reacher si chinò e sollevò il pesante fucile; tenendolo verticale, inserì il caricatore. Non lo premette con forza come aveva fatto Borken, ma lo spinse gentilmente in sede col palmo della mano. Aprì il treppiede, una gamba alla volta, bloccandolo con gli appositi fermi. Sollevò lo sguardo verso il poligono e posò il fucile sulla stuoia. Si accovacciò accanto a esso e quindi si stese, il tutto con un movimento fluido. Pareva morto, le braccia sul fucile. Avrebbe voluto restare in quella posizione a lungo: era stanco, stanco morto. Eppure si mosse: appoggiò delicatamente la guancia al calcio e avvicinò a questo la spalla destra. Con la sinistra afferrò la canna, le dita sotto il mirino, quindi portò la mano destra al grilletto. Accostò l'occhio destro al cannocchiale ed espirò. Per sparare con un fucile da tiratore scelto a una distanza elevata, è necessario possedere varie conoscenze: di chimica, d'ingegneria mecçanica, di ottica, di geofisica e di meteorologia. E, soprattutto, di biologia umana. L'esplosione è una questione chimica. La polvere contenuta nel bossolo dietro il proiettile deve esplodere in modo corretto, prevedibile, efficace, immediato. Deve proiettare la pallottola nella canna alla massima velocità possibile. Il proiettile da mezzo pollice nella camera del Barrett pesa poco più di cinquanta grammi. Un minuto prima è fermo, un minuto dopo viaggia a una velocità di quasi tremila chilometri orari. Quindi la polvere deve esplodere presto, completamente ed efficacemente. Si tratta di un processo chimico complesso e l'esplosione deve per forza essere la migliore del mondo. L'ingegneria meccanica ha un ruolo lievemente meno importante. Il proiettile deve essere perfetto, costruito con cura come ogni altro manufatto, fuso meglio di qualsiasi gioiello, del tutto uniforme per quanto concerne dimensioni e peso, nonché dotato di un diametro assolutamente circolare e aerodinamico. Deve inoltre poter sopportare la tremenda rotazione imposta dalle rigature all'interno della canna, e ruotare nell'aria, sibilando, senza oscillazioni, senza deviazioni. La canna deve essere dritta e a tenuta perfetta. Se uno sparo precedente l'ha surriscaldata e alterata, sorgono problemi. La canna deve essere una struttura metallica a regola d'arte, abbastanza pesante da rimanere inerte e da assorbire lievi vibrazioni dell'otturatore, del grilletto e del percussore.
Ecco perché il Barrett costava quanto una berlina economica, e perché Reacher teneva la mano sulla parte superiore dell'arma: per attutire eventuali vibrazioni residue. L'ottica ha invece una funzione di primo piano. L'occhio di Jack si trovava a quasi tre centimetri da un cannocchiale di puntamento Leupold & Stevens, uno strumento decisasamente sofisticato. Il bersaglio appariva piccolo dietro le sottili tacche di riferimento incise sul vetro. Reacher lo fissò, concentrato, poi abbassò il calcio e lo vide svanire, mentre al suo posto appariva il cielo. Espirò di nuovo e osservò l'aria.
La geofisica è determinante. La luce segue una traiettoria rettilinea, ma è l'unico elemento a farlo. I proiettili sono diversi: sono corpi fisici e, come tali, obbediscono alle leggi della natura, che seguono la curvatura della terra. Ottocento metri rappresentano un bel tratto di tale curvatura. Il proiettile fuoriesce dalla canna e dapprima supera la linea visiva poi l'attraversa e infine si abbassa sotto di essa, seguendo una curvatura perfetta, come quella terrestre. A dire la verità non è proprio perfetta, perché dal primo millisecondo del suo tragitto la gravità lo attira verso il suolo come una piccola mano insistente. E il proiettile non può ignorarla: pesa cinquantacinque grammi, è costituito da piombo rivestito di rame e viaggia a una velocità di quasi tremila chilometri orari, ma la gravità ha la meglio. Non subito, ma quando interviene il suo migliore alleato, l'attrito. Dal primo millisecondo del suo tragitto l'attrito dell'aria rallenta il proiettile e fa sì che la gravità abbia buon gioco. Attrito e gravità cooperano, in sostanza, per deviare il proiettile verso il basso. Perciò bisogna mirare molto in alto, anche tre metri sopra il bersaglio, perché ottocento metri dopo la curvatura della terra e la forza di gravità dirigano il proiettile là dove deve andare. A dire la verità non bisogna mirare proprio sopra il bersaglio perché, in tal caso, s'ignorerebbe la meteorologia. I proiettili si muovono nell' aria, e l'aria si sposta. E difficile trovare una giornata senza vento: l'aria si muove sempre, in un modo o nell' altro, a destra o a sinistra, verso 1'alto o verso il basso, o secondo un'infinità di altre combinazioni. Reacher osservò le foglie degli alberi e notò una leggera brezza che soffiava da nord: aria secca, che si muoveva lentamente da destra verso sinistra, attraverso la sua linea visiva. Pertanto prese la mira circa due metri e quaranta verso destra, e tre metri al di sopra del suo bersaglio. Avrebbe sparato il colpo lasciando che la natura lo deviasse verso sinistra e verso il basso. La biologia umana resta, tuttavia, il fattore più importante di tutti. I tiratori scelti sono esseri umani, e gli esseri umani sono masse tremanti, pulsanti, fatte di carne e muscoli. Il cuore batte come una pompa gigante e i polmoni immettono ed espellono grandi volumi d'aria; ogni nervo ogni muscolo vibrano di energia impercettibile. Nessun essere umano è mai veramente immobile: anche la persona più calma trema palesemente. Supponiamo che tra il percussore e l'estremità della canna vi sia poco meno di un metro: se quest'ultima si muove di un millimetro, a ottocento metri di distanza il proiettile mancherà il bersaglio di ottocento millimetri. L'effetto del movimento, cioè, si moltiplica. Se la vibrazione di chi spara sposta solo lievemente la canna, la pallottola non colpirà il bersaglio, finendo anche a venti centimetri di distanza, una distanza equivalente alla larghezza di una testa umana. La tecnica di Reacher era attendere, osservare il campo visivo finché la respirazione non fosse stata regolare e il battito del cuore non fosse diminuito. Poi avrebbe posizionato il dito sul grilletto, lentamente, e aspettato ' ancora un po', contando i battiti. Uno, due, tre, quattro. Avrebbe aspettato finché la frequenza non si fosse ridotta, e avrebbe sparato tra un battito e l'altro, in un momento in cui la vibrazione del corpo sarebbe stata minima. Attese, compiendo espirazioni lunghe e lente. Il suo cuore batté una, due volte. Sparò. Il calcio rimbalzò contro la spalla e la sua vista venne offuscata dalla nube di polvere sollevata dalla stuoia sottostante. Il rumore sordo dello sparo echeggiò contro le montagne e tornò alle sue orecchie insieme col mormorio della folla. Aveva mancato il bersaglio. La sagoma con la scritta FBI, che raffigurava un agente chino; in atteggiamento di corsa, era integra. Jack lasciò che la polvere si depositasse e controllò gli alberi. Il vento era costante. Espirò e lasciò che il battito cardiaco rallentasse. Tirò ancora. Il grande fucile rinculò e sparò. Si sollevò un' altra nube di polvere e la folla stette a guardare, mormorando: un altro colpo andato a vuoto. Due colpi andati a vuoto. Reacher respirava costantemente. Poi, tirò di nuovo. Un altro insuccesso. Sparò per la quarta volta. Ancora niente. Fece una pausa, riprese il ritmo e tirò il quinto colpo, che andò a vuoto. La folla era inquieta.
Borken gli si awicinò pesantemente. «Ti giochi tutto con l'ultimo tiro », commentò con un sogghigno.
Jack non rispose. Non poteva assolutamente permettersi di parlare: avrebbe alterato il ritmo respiratorio e contratto la muscolatura di gola e polmoni, il che gli sarebbe stato fatale. Attese. Il suo cuore batté una, due volte. Sparò il sesto colpo. A vuoto. Si scostò dal mirino e guardò la sagoma: era intatta.
[...]
Perse il senso dell'orientamento. Sperava di dirigersi approssimativamente verso ovest, ma non poteva dirlo con sicurezza. La volta si abbassò fino a sessanta centimetri. Stava strisciando attraverso una vecchia fenditura nella roccia, scavata tempo addietro per il suo minerale. Il cunicolo diventò sempre più basso, fino a misurare quarantacinque centimetri. Faceva freddo. Il cunicolo si restringeva ancora. Jack teneva le braccia protese in avanti; il passaggio si era fatto tanto stretto che non poteva più tirarle indietro. Stava strisciando lungo uno stretto tubo di roccia; sopra la testa aveva un miliardo di tonnellate di pietra e non sapeva dove stesse andando; la torcia si stava spegnendo: le pile erano quasi scariche, e la sua luce si affievoliva, assumendo un color arancione sempre più cupo.
Respirava affannosamente e tremava, non per lo sforzo ma per la paura, per il terrore. Non era questo ciò che si aspettava: si era immaginato un percorso in un'ampia galleria abbandonata, non una stretta fenditura nella roccia. Si stava gettando a capofitto nel suo peggiore incubo infantile. Era un uomo sopravvissuto a molti pericoli, che raramente provava paura, ma fin da adolescente sapeva di avere il terrore di rimanere intrappolato al buio in uno spazio troppo piccolo per la sua grossa corporatura. In tutti i suoi incubi infantili, da cui si svegliava madido di sudore, si ritrovava chiuso in spazi angusti. Adesso giaceva prono, gli occhi ben chiusi; ansi-mava, respirava a fatica, cacciando l'aria dentro e fuori della gola stretta. Stava avanzando, centimetro dopo centimetro, nel suo incubo.
La torcia alla fine si spense, a un centinaio di metri dall'imbocco del tunnel. L'oscurità era totale, e il cunicolo si stava restringendo. Gli schiacciava le spalle verso il basso. Jack si stava spingendo in uno spazio troppo piccolo per lui ed era costretto a tenere la testa voltata di lato; lottò per mantenere la calma. Si ricordò di ciò che aveva detto a Borken: la gente prima era più piccola. Piccoli individui snodati, che migravano a ovest cercando fortuna nel ventre delle montagne, uomini grandi la metà di Reacher che, stesi sulla schiena, si spingevano avanti nei cunicoli, estraendo i luccicanti minerali dalla roccia.
Jack usava la torcia scarica come un cieco usa il suo bastone bianco. Improvvisamente questa si ruppe contro un corpo solido, sessanta centimetri davanti a lui. Tra un rantolo e l'altro, Reacher udì il vetro frantumarsi. Fece uno sforzo per avanzare e tastò con le mani. C'era una parete solida: il tunnel finiva. Cercò di tornare indietro, ma non riusciva a spostarsi di un millimetro; per spingersi indietro con le mani doveva sollevare il torace e far leva, ma la volta del cunicolo era troppo bassa per poterlo fare. Aveva le spalle pigiate contro di esso: non riusciva a far leva. E i piedi potevano spingerlo in avanti, ma non indietro. S'irrigidì, in preda al panico, e sentì la gola chiudersi. Col capo toccava la volta del tunnel e con la guancia il pavimento ghiaioso. Represse un urlo, aumentando la respirazione.
Doveva tornare indietro. Puntò le dita dei piedi, girò le mani verso il basso e conficcò i pollici nella ghiaia; poi tirò con le dita dei piedi e spinse con i pollici. Riuscì a spostarsi di pochi centimetri, ma poco dopo la roccia lo strinse forte ai fianchi. Per consentirgli di arretrare, i muscoli delle spalle erano compressi contro la roccia. Jack rilassò le braccia; dopodiché si tirò con le dita dei piedi, che però scivolarono inutilmente nella ghiaia. Si aiutò allora con i pollici, e le spalle vennero ancora una volta premute contro la parete. A scatti Reacher spostò le anche, sfruttando i pochi centimetri che aveva a disposizione. Affondò con forza le mani nella ghiaia e fece leva all'indietro. Il suo corpo era bloccato, come un cuneo in una porta. S'inclinò da una parte e urtò con la guancia sulla volta del tunnel, fece uno scatto per girarsi di schiena e batté l'altra guancia per terra. La roccia gli stava comprimendo le costole. Questa volta non poteva reprimere l'urlo, doveva lasciarlo uscire: aprì la bocca ed emise un gemito di terrore. L'aria nei polmoni gli schiacciò il torace per terra e la schiena contro la volta.
Non sapeva se i suoi occhi fossero aperti o chiusi. Si spinse in avanti con i piedi, tornando dov'era; allungò le braccia e tastò davanti a sé. Le sue spalle erano talmente compresse contro la parete che non riusciva a compiere ampi movimenti con le mani. Stese le dita e tastò a destra, a sinistra, sopra e sotto. Davanti c'era solo roccia: non aveva modo di proseguire e neppure di retrocedere.
Sarebbe morto intrappolato nella montagna. Lo sapeva, e lo sapevano anche i ratti che stavano annusando l'aria dietro di lui e si stavano avvicinando. Li sentiva, vicino ai piedi. Calciò all'indietro e li cacciò via. Ma essi tornarono: ne sentiva il peso sulle gambe, stavano buttandosi su di lui. S'infilavano tra le sue spalle e la roccia, scivolavano sotto le sue ascelle. Reacher sentì il pelo freddo e untuoso sulla faccia e i colpi delle loro code mentre si gettavano in avanti e tentavano di oltrepassarlo.
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