San Isidro Futból - Pino Cacucci
>> martedì 15 marzo 2011
Ambientato in un immaginario paesino messicano, narra la storia farsesca dei suoi abitanti alle prese con un misterioso carico precipitato con un aereo. Trattasi di "polvere bianca" che viene scambiata per concime. Racconto leggero e a tratti divertente. La parte a mio avviso più esilarante è quella della strampalata partita di calcio che riporto di seguito.
Il sacco di concime bianco era bastato a malapena, e il tracciamento dei confini era avvenuto sotto lo sguardo sofferto di Alvaro Cristóbal, che da almeno quattro ore masticava una litania d’imprecazioni ininterrotte. La partita iniziò alle dieci e mezza secondo l’arbitro, le undici e cinque secondo l’orologio di don Cayetano. Comunque, il sole era alto. E le gambe di Quintino una massa di gelatina disossata. Pepe Gongora non ci mise granché ad accorgersi che il suo unico fuoriclasse era ridotto peggio di lui, che per la “cruda” conseguente alla bevuta della sera prima, faticava persino a insultarlo. Quintino era la sola speranza di strappare la palla agli avversari, visto che El Zopilote non teneva le braccia spalancate ma strette sulla pancia dolorante, e in dieci minuti gli avevano infilato sei reti. Quelli della Pizpireta, poi, sembravano tutti sul punto di schiattare d’apoplessia per il gran ridere. Il figlio del padrone si era addirittura fatto male, cascando dal tetto della jeep durante una contorsione azzardata, e adesso continuava a sghignazzare premendosi un fazzoletto sull’occhio. Un disastro. Pepe Gongora, con un sospiro così profondo da provocargli una fitta alle tempie per l’eccesso di ossigeno, decise che Quintino se ne andasse in porta e al suo posto entrasse Luisito, il figlio di Chepe Chamaco, il quale per quanto tozzo e sgraziato, avrebbe se non altro rallentato a spallate e testate quella corsa verso il baratro.
Pepe alzò le braccia per segnalare il cambio, ma gli arrivò una scorza di cocomero sulla nuca lanciata dal maniscalco del rancho, e nel voltarsi di scatto scivolò finendo sulle ginocchia di Alvaro Cristóbal, che per reazione istintiva gli vibrò una bastonata sulla schiena. Proprio in quel momento, Quintino ricevette una spinta da un avversario che lo fece volare di faccia nel fango. Tutto intorno esplose l’inferno. Urla, pernacchie lunghissime, pesanti allusioni sulle abitudini sessuali degli abitanti maschi di San Isidro, affermazioni irripetibili sullo stesso argomento ma che avevano per oggetto le galline, e così via. Don Cayetano balzò in piedi fremendo di rabbia. E quando gli piovve addosso una manciata di tostaditas adobadas, che lo imbrattarono di peperoncino e olio rifritto, l’alcalde di San Isidro don Cayetano Altamirano estrasse dalla cintura la vecchia ma fida Colt Frontier Quarantaquattroquaranta, e sparò tre colpi in aria.
Ci fu un discreto silenzio, subito dopo. Nessuno replicò, anche perché la tifoseria della Pizpireta poteva contare al momento solo su qualche machete e una cinquantina di coltelli, e per andare a prendere i fucili dalle case bisognava perdere un buon quarto d’ora.
Intanto, Quintino stava fortunatamente pensando che del futból non gliene importava poi molto, e non lo sfiorava neppure lontanamente l’idea di pentirsi per quanto aveva lasciato succedere la notte precedente; però, con la faccia sul terreno, sentiva egualmente una sensazione di dolore morale per aver deluso a quel modo i compaesani di San Isidro. Rassegnato a farsi sostituire, tirò su la faccia e vide il pandemonio acquietarsi. Solo a quel punto collegò il rumore appena sentito al grosso revolver che stringeva in pugno don Cayetano. E per la vergogna di aver trascinato il suo alcalde in una simile situazione, riabbassò il viso, sfiorando il fertilizzante bianco di Alvaro Cristóbal. Infatti era caduto proprio sul limite del campo, e in un singhiozzo di rabbia si riempì il naso di quella polvere bruciante.
Il primo impulso fu di soffiare forte per farla uscire, ma gliene era entrata abbastanza da finirgli anche in gola. Si alzò, cercando di togliere il “concime” dalla faccia, ma non ebbe neppure il tempo di starnutire che Pepe Gongora, riavutosi dalla bastonata di Alvaro Cristóbal, avanzò verso di lui brandendo una sedia. Quintino, più per sfuggirgli che per altro, si lanciò di corsa nella mischia, dove finì sulla palla e quasi senza rendersene conto prese a schivare avversari come un invasato, a menare calci negli stinchi e gomitate fra le gambe, e intanto correva, correva, attraversando il campo da una parte all’altra, e si ritrovò davanti El Zopilote e per poco non gli tirò in porta, e pochi secondi dopo era davanti a quella opposta, dove sparò un tiro che mandò il pallone a trapassare la rete e la sua stessa scarpa nello stomaco del portiere. Rimessala al piede, tre minuti dopo segnava ancora, e quando l’arbitro riappoggiò la palla al centro, non diede agli altri neppure il tempo di capire da dove era sbucato, che già tutta San Isidro esultava per il terzo gol. Al termine del primo tempo, Quintino pareggiava sei a sei. Pepe Gongora piangeva abbracciato ad Alvaro Cristóbal, che si limitava a battergli la mano sulla testa borbottando commosso, e tutti saltavano e restituivano gesti osceni a quelli della Pizpireta, mentre don Cayetano sostituiva le tre cartucce usate nel tamburo della Colt, sorridendo beffardo sotto i lunghi baffi a manubrio, che con gli anni erano diventati bianchissimi e spioventi. Quintino aveva occhi solo per Antonia, che lo fissava con orgoglio e lampi di promesse facilmente decifrabili. Però, quando dovette rialzarsi dalla panca per tornare in campo, ebbe la sensazione che la stanchezza di due giorni gli piombasse di colpo nei polpacci. Era stato un errore sedersi.
Provò a sgambettare per liberarsi da quei ceppi invisibili, ma l’energia inspiegabile che lo aveva posseduto poco prima sembrava volatilizzata. Iniziò il secondo tempo, e lui ce la metteva tutta per correre dietro a quel pallone diventato di nuovo troppo veloce e scivoloso per i suoi piedi pesantissimi. L’entusiasmo dei compaesani s’incrinò al settimo gol della Pizpireta. E quando segnarono l’ottavo e il nono, don Cayetano tornò a pensare, come più di mezzo secolo prima, che sei colpi sono pochi per una pistola. Ripresero a piovere insulti e cibarie sugli attoniti abitanti di San Isidro. Quintino adesso era più spompato che all’inizio. Correva a bocca aperta e le braccia ciondoloni, col fiato che sembrava fermarsi in gola e non voler scendere fino ai polmoni. Allora, essendo molto superstizioso e attento ai gesti rituali, decise di ripetere in ogni dettaglio la sequenza che aveva preceduto il miracolo inspiegabile.
Fingendo di scivolare, andò a cadere con la faccia nel medesimo punto, affondando il naso nella polvere bianca che marcava i limiti del campo. Respirò profondamente, si rialzò, e in pochi secondi le gambe tornarono leggere e sibilanti come la brezza tra i chilamates della Sierra.
Quando l’arbitro si portò le quattro dita alla bocca per fischiare la fine, Quintino neppure se ne accorse. Più tardi, gli dissero che il quindicesimo gol non era valido, e lui ci restò malissimo.
Il sacco di concime bianco era bastato a malapena, e il tracciamento dei confini era avvenuto sotto lo sguardo sofferto di Alvaro Cristóbal, che da almeno quattro ore masticava una litania d’imprecazioni ininterrotte. La partita iniziò alle dieci e mezza secondo l’arbitro, le undici e cinque secondo l’orologio di don Cayetano. Comunque, il sole era alto. E le gambe di Quintino una massa di gelatina disossata. Pepe Gongora non ci mise granché ad accorgersi che il suo unico fuoriclasse era ridotto peggio di lui, che per la “cruda” conseguente alla bevuta della sera prima, faticava persino a insultarlo. Quintino era la sola speranza di strappare la palla agli avversari, visto che El Zopilote non teneva le braccia spalancate ma strette sulla pancia dolorante, e in dieci minuti gli avevano infilato sei reti. Quelli della Pizpireta, poi, sembravano tutti sul punto di schiattare d’apoplessia per il gran ridere. Il figlio del padrone si era addirittura fatto male, cascando dal tetto della jeep durante una contorsione azzardata, e adesso continuava a sghignazzare premendosi un fazzoletto sull’occhio. Un disastro. Pepe Gongora, con un sospiro così profondo da provocargli una fitta alle tempie per l’eccesso di ossigeno, decise che Quintino se ne andasse in porta e al suo posto entrasse Luisito, il figlio di Chepe Chamaco, il quale per quanto tozzo e sgraziato, avrebbe se non altro rallentato a spallate e testate quella corsa verso il baratro.
Pepe alzò le braccia per segnalare il cambio, ma gli arrivò una scorza di cocomero sulla nuca lanciata dal maniscalco del rancho, e nel voltarsi di scatto scivolò finendo sulle ginocchia di Alvaro Cristóbal, che per reazione istintiva gli vibrò una bastonata sulla schiena. Proprio in quel momento, Quintino ricevette una spinta da un avversario che lo fece volare di faccia nel fango. Tutto intorno esplose l’inferno. Urla, pernacchie lunghissime, pesanti allusioni sulle abitudini sessuali degli abitanti maschi di San Isidro, affermazioni irripetibili sullo stesso argomento ma che avevano per oggetto le galline, e così via. Don Cayetano balzò in piedi fremendo di rabbia. E quando gli piovve addosso una manciata di tostaditas adobadas, che lo imbrattarono di peperoncino e olio rifritto, l’alcalde di San Isidro don Cayetano Altamirano estrasse dalla cintura la vecchia ma fida Colt Frontier Quarantaquattroquaranta, e sparò tre colpi in aria.
Ci fu un discreto silenzio, subito dopo. Nessuno replicò, anche perché la tifoseria della Pizpireta poteva contare al momento solo su qualche machete e una cinquantina di coltelli, e per andare a prendere i fucili dalle case bisognava perdere un buon quarto d’ora.
Intanto, Quintino stava fortunatamente pensando che del futból non gliene importava poi molto, e non lo sfiorava neppure lontanamente l’idea di pentirsi per quanto aveva lasciato succedere la notte precedente; però, con la faccia sul terreno, sentiva egualmente una sensazione di dolore morale per aver deluso a quel modo i compaesani di San Isidro. Rassegnato a farsi sostituire, tirò su la faccia e vide il pandemonio acquietarsi. Solo a quel punto collegò il rumore appena sentito al grosso revolver che stringeva in pugno don Cayetano. E per la vergogna di aver trascinato il suo alcalde in una simile situazione, riabbassò il viso, sfiorando il fertilizzante bianco di Alvaro Cristóbal. Infatti era caduto proprio sul limite del campo, e in un singhiozzo di rabbia si riempì il naso di quella polvere bruciante.
Il primo impulso fu di soffiare forte per farla uscire, ma gliene era entrata abbastanza da finirgli anche in gola. Si alzò, cercando di togliere il “concime” dalla faccia, ma non ebbe neppure il tempo di starnutire che Pepe Gongora, riavutosi dalla bastonata di Alvaro Cristóbal, avanzò verso di lui brandendo una sedia. Quintino, più per sfuggirgli che per altro, si lanciò di corsa nella mischia, dove finì sulla palla e quasi senza rendersene conto prese a schivare avversari come un invasato, a menare calci negli stinchi e gomitate fra le gambe, e intanto correva, correva, attraversando il campo da una parte all’altra, e si ritrovò davanti El Zopilote e per poco non gli tirò in porta, e pochi secondi dopo era davanti a quella opposta, dove sparò un tiro che mandò il pallone a trapassare la rete e la sua stessa scarpa nello stomaco del portiere. Rimessala al piede, tre minuti dopo segnava ancora, e quando l’arbitro riappoggiò la palla al centro, non diede agli altri neppure il tempo di capire da dove era sbucato, che già tutta San Isidro esultava per il terzo gol. Al termine del primo tempo, Quintino pareggiava sei a sei. Pepe Gongora piangeva abbracciato ad Alvaro Cristóbal, che si limitava a battergli la mano sulla testa borbottando commosso, e tutti saltavano e restituivano gesti osceni a quelli della Pizpireta, mentre don Cayetano sostituiva le tre cartucce usate nel tamburo della Colt, sorridendo beffardo sotto i lunghi baffi a manubrio, che con gli anni erano diventati bianchissimi e spioventi. Quintino aveva occhi solo per Antonia, che lo fissava con orgoglio e lampi di promesse facilmente decifrabili. Però, quando dovette rialzarsi dalla panca per tornare in campo, ebbe la sensazione che la stanchezza di due giorni gli piombasse di colpo nei polpacci. Era stato un errore sedersi.
Provò a sgambettare per liberarsi da quei ceppi invisibili, ma l’energia inspiegabile che lo aveva posseduto poco prima sembrava volatilizzata. Iniziò il secondo tempo, e lui ce la metteva tutta per correre dietro a quel pallone diventato di nuovo troppo veloce e scivoloso per i suoi piedi pesantissimi. L’entusiasmo dei compaesani s’incrinò al settimo gol della Pizpireta. E quando segnarono l’ottavo e il nono, don Cayetano tornò a pensare, come più di mezzo secolo prima, che sei colpi sono pochi per una pistola. Ripresero a piovere insulti e cibarie sugli attoniti abitanti di San Isidro. Quintino adesso era più spompato che all’inizio. Correva a bocca aperta e le braccia ciondoloni, col fiato che sembrava fermarsi in gola e non voler scendere fino ai polmoni. Allora, essendo molto superstizioso e attento ai gesti rituali, decise di ripetere in ogni dettaglio la sequenza che aveva preceduto il miracolo inspiegabile.
Fingendo di scivolare, andò a cadere con la faccia nel medesimo punto, affondando il naso nella polvere bianca che marcava i limiti del campo. Respirò profondamente, si rialzò, e in pochi secondi le gambe tornarono leggere e sibilanti come la brezza tra i chilamates della Sierra.
Quando l’arbitro si portò le quattro dita alla bocca per fischiare la fine, Quintino neppure se ne accorse. Più tardi, gli dissero che il quindicesimo gol non era valido, e lui ci restò malissimo.
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