La ragazza che giocava con il fuoco - Stieg Larsson

>> martedì 26 aprile 2011


Secondo episodio della trilogia di romanzi dello scrittore svedese morto prematuramente. Interessante la critica strisciante ad una Svezia decadente, oscura, piena di contraddizioni e di violenza che si cela sotto un'apparenza levigata e perfetta. Qui la coppia di estemporanei investigatori Lisbeth-Mikael deve risolvere un caso che vede la stessa protagonista femminile dalla parte degli indagati.  Non ha la stessa forza del precedente "Uomini che odiano le donne"che ha il merito di introdurre due personaggi indimenticabili e di costruire una trama investigativa che non perde colpi. Inoltre vi sono una serie di situazioni e personaggi poco credibili, per quanto possa essere una storia di finzione: la stessa sequenza di eventi attorno all'omicidio al centro della vicenda ha notevoli forzature nei tempi e nei modi per non parlare di chi colpito da tre pallottole, di cui una alla testa, e sepolto vivo, riesce subito a risorgere e avere ragione dei cattivi. Fortunatamente la qualità della scrittura e il ritmo fa passare inosservate le sbavature e le oltre settecento pagine del volume. Riporto due parti che mi sono piaciute particolarmente. Una è il benservito che il consiglio di amministrazione dà al suo socio Harriet:  il finale a sorpresa è una situazione lavorativa in cui presumo tutti vorrebbero trovarsi. E l'altra è l'incontro di boxe tra il gigante biondo e Paolo Roberto: è avvincente come quello raccontato da James Ellroy in Dalia Nera, e dimostra come con due approcci totalmente diversi (più tecnico quello di Ellroy) si può essere ugualmente efficaci nel far sentire il lettore accanto ai due contendenti.

Immediatamente dopo la conclusione dell'assemblea annuale, Erika Berger convocò una riunione extra dei soci. Questo comportò che lei, Mikael, Christer e Harriet si fermarono, mentre gli altri lasciarono la sala riunioni. Non appena la porta si richiuse dietro le loro spalle, Erika dichiarò aperta la riunione.
«Abbiamo un unico punto all'ordine del giorno. Harriet, in base all'accordo che abbiamo stipulato con Henrik Vanger, la quota sarebbe stata vostra per due anni. Ora siamo giunti alla scadenza del contratto. Dobbiamo dunque decidere cosa ne sarà di questa quota.» Harriet annuì. «Sappiamo tutti che la decisione di Henrik fu dettata da un impulso nato da una situazione molto speciale» disse Harriet. «Quella situazione non esiste più. Cosa proponete voi?». Christer Malm era infastidito. Era l'unico nella stanza a non sapere in cosa consistesse quella situazione speciale. Sapeva che Mikael ed Erika gli nascondevano qualcosa, ma Erika gli aveva spiegato che si trattava di una faccenda molto personale che riguardava Mikael e che lui non voleva per nessun motivo discutere. Christer non era tanto stupido da non avere capito che il silenzio di Mikael aveva qualcosa a che fare con Hedestad e Harriet Vanger. Si rendeva comunque conto che non gli occorreva sapere per prendere una decisione in linea di principio, e aveva abbastanza rispetto per Mikael da non dare troppa importanza alla cosa. «Noi tre abbiamo discusso la faccenda e siamo giunti a una decisione comune» disse Erika. «Ma prima di dire come la pensiamo vogliamo sapere come la pensi tu.»
Harriet guardò a uno a uno Erika, Mikael e Christer. Il suo sguardo si soffermò un momento su Mikael, ma non riuscì a leggere nulla sui loro volti. «Se volete liquidare la mia parte, vi costerà circa tre milioni di corone più gli interessi, il che corrisponde a quanto la famiglia Vanger ha investito in Millennium. Potete permettervelo?» domandò in tono pacato. «Sì, possiamo» disse Mikael, e sorrise. Aveva ricevuto cinque milioni di corone da Henrik Vanger per il lavoro che aveva svolto. Di questo lavoro faceva parte, ironia della sorte, anche il ritrovamento della scomparsa Harriet Vanger. «In tal caso la decisione è nelle vostre mani» disse Harriet. «Il contratto dice che potete liberarvi della quota Vanger a partire da oggi. Anche se personalmente io non lo avrei stipulato così, come invece ha fatto Henrik.» «Siamo in grado di liquidarti, se necessario» disse Erika. «La questione è dunque cosa vuoi fare tu. Sei alla guida di un gruppo industriale, anzi di due. L'intero nostro budget annuo corrisponde a quanto voi realizzate nel tempo in cui bevete un caffè. Che interesse hai a sprecare il tuo tempo in qualcosa di tanto marginale come Millennium? Teniamo un consiglio d'amministrazione una volta al trimestre e tu hai partecipato puntualmente a ogni riunione fin da quando sei entrata in sostituzione di Henrik.» Harriet Vanger fissò il suo presidente con sguardo benigno. Rimase in silenzio un lungo momento. Poi guardò Mikael e rispose. «Sono stata proprietaria di qualcosa dal giorno in cui sono nata. E passo le mie giornate a guidare un gruppo in cui ci sono più intrighi che in un romanzo d'amore di quattrocento pagine. La prima volta che entrai a far parte di un consiglio d'amministrazione fu per adempiere a doveri cui non mi potevo sottrarre. Ma sapete una cosa? Ho scoperto che mi trovo meglio in questo che in tutti gli altri messi insieme.» Mikael annuì meditabondo. Harriet spostò lo sguardo su Christer.
«Qui i problemi sono pochi e comprensibili. La società naturalmente vuole ottenere profitti e guadagnare denaro, questo è un presupposto. Ma voi date all'attività tutt'altro scopo, voi volete realizzare qualcosa.»
Bevve un sorso dal bicchiere di acqua minerale e puntò lo sguardo su Erika.
«Cosa sia esattamente questo qualcosa non è molto chiaro. Voi non siete un partito politico o una società d'affari. Non avete la necessità di essere leali verso nessuno tranne che voi stessi. Ma mettete in luce le deficienze della società e attaccate volentieri personaggi pubblici che non vi piacciono. Spesso tentate di cambiare qualcosa. Anche se voi tutti fingete di essere cinici e nichilisti, è solo la vostra morale a indirizzare il giornale e io ho sperimentato in svariate occasioni che si tratta di una morale piuttosto speciale. Non so come lo si possa esprimere, ma Millennium ha un'anima. Questo è l'unico consiglio d'amministrazione del quale in effetti sono fiera di far parte.» Harriet aveva finito, e rimase in silenzio così a lungo che Erika scoppiò in una risata. «Bene. Però non hai ancora risposto alla mia domanda.» «Con voi mi trovo bene e far parte di questo consiglio d'amministrazione mi ha giovato moltissimo. È una delle cose più matte che mi sia capitato di fare. Se voi volete che rimanga, ebbene rimango volentieri.» «Okay» disse Christer. «Abbiamo discusso in lungo e in largo e siamo tutti d'accordo. Risolviamo il contratto e ti liquidiamo.» Gli occhi di Harriet si dilatarono leggermente. «Volete liberarvi di me?»
«Quando abbiamo sottoscritto il contratto eravamo con il collo sul ceppo del boia, in attesa che calasse la mannaia. Non avevamo scelta. Ma abbiamo cominciato già allora a contare i giorni che ci separavano dal momento in cui avremmo potuto liquidare Henrik Vanger.» Erika aprì una cartelletta e mise sul tavolo delle carte che spinse verso Harriet insieme a un assegno dell'importo esatto da lei menzionato. Harriet diede una scorsa al contratto. Senza una parola prese una penna dal tavolo e firmò. «Bene» disse Erika. «È stato indolore. Desidero ringraziare Henrik Vanger per ciò che è stato e per tutto quello che ha fatto per Millennium. Spero che tu glielo dica da parte nostra.» «Lo farò» rispose Harriet in tono neutro. Non dava minimamente mostra di ciò che provava, ma si sentiva ferita e profondamente delusa perché le avevano lasciato dire che desiderava continuare a far parte del consiglio d'amministrazione per poi sbatterla fuori come se niente fosse. Non era proprio necessario. «E al tempo stesso vorrei cercare di interessarti a un contratto del tutto diverso» disse Erika. Tirò fuori una nuova serie di carte che passò a Harriet attraverso il tavolo.
«Ci chiediamo se non avresti voglia di diventare socio di Millennium. La cifra è la stessa che hai appena ricevuto. La differenza nel contratto è che non ci sono limiti temporali o clausole di esclusione. Tu entreresti come socio effettivo, con la nostra stessa responsabilità e i nostri stessi doveri.» Harriet inarcò le sopracciglia.
«Perché questo procedimento complicato?» «Perché prima o poi andava fatto» disse Christer. «Avremmo potuto rin-novare il vecchio contratto di anno in anno fino al primo grosso scontro nel consiglio d'amministrazione in occasione del quale ti avremmo buttata fuori. Ma era comunque un contratto che andava risolto.» Harriet si appoggiò sui gomiti e lo scrutò con occhio indagatore. Spostò lo sguardo su Mikael e quindi su Erika. «Il punto è che stipulammo il contratto con Henrik per motivi economici» disse Erika. «Con te invece lo faremmo perché lo vogliamo. E a differenza di prima non sarebbe più tanto facile darti il benservito in futuro.» «Per noi fa un'enorme differenza» disse Mikael a bassa voce. Fu il suo unico contributo alla discussione. «Succede semplicemente che pensiamo che tu significhi qualcosa per Millennium oltre alle garanzie economiche che il nome Vanger comporta» disse Erika. «Sei saggia e intelligente e proponi sempre soluzioni costruttive. Finora hai mantenuto un basso profilo, più o meno come un ospite in visita. Ma tu dai a questo consiglio d'amministrazione una stabilità e una direzione che non abbiamo mai avuto prima. Tu gli affari li conosci. Una volta hai chiesto se potevi fidarti di me e io mi sono chiesta grossomodo la stessa cosa di te. A questo punto, tutte e due conosciamo la risposta. Mi piaci e ho fiducia in te, e questo vale per noi tutti. Non vogliamo averti sulla base di una condizione eccezionale e di una costruzione assurda. Ti vogliamo come socia a pieno titolo.» Harriet tirò verso di sé il contratto e lo lesse attentamente riga per riga per cinque minuti. Alla fine alzò gli occhi. «E su questo siete tutti e tre d'accordo?» domandò. Tre teste annuirono. Harriet prese la penna e firmò. Rispedì l'assegno al mittente attraverso il tavolo. Mikael lo stracciò.
[...]
«Dov'è Lisbeth Salander?» «Non lo so» mormorò Miriam.
«Risposta sbagliata. Ti darò ancora una possibilità prima di mettere in funzione questa.» Si sedette sui talloni e diede una pacca alla sega. «Dove si nasconde Lisbeth Salander?» Miriam Wu scosse la testa.
Paolo Roberto esitava. Ma quando il gigante biondo allungò la mano per prendere la sega entrò a passi decisi nel locale e gli sferrò un destro potente contro i reni. Paolo Roberto non era diventato un pugile di fama mondiale comportandosi da vigliacco sul ring. Nella sua carriera da professionista aveva disputato trentatré match vincendone ventotto. Quando colpiva si aspettava una reazione. Ad esempio che l'oggetto delle sue attenzioni si accasciasse e avesse male da qualche parte. Paolo Roberto ebbe la sensazione di avere sbattuto il pugno a tutta forza contro un muro di cemento. Non aveva mai provato niente di simile in tutti gli anni in cui aveva tirato di boxe. Guardò esterrefatto il colosso che aveva davanti. Il gigante biondo si voltò e guardò il pugile con altrettanto stupore. «Che ne diresti di prendertela con qualcuno della tua categoria?» disse Paolo Roberto. Gli tirò una serie di destro-sinistro-destro contro il diaframma gonfiando i muscoli. Erano colpi pesanti. Ma gli pareva di martellare contro un muro. L'unico effetto fu che il gigante arretrò di mezzo passo, più per lo stupore che per effetto dei pugni. Tutto d'un tratto sorrise. «Ma tu sei Paolo Roberto» disse.
Paolo Roberto si fermò sconcertato. Aveva appena messo a segno quattro colpi che da manuale avrebbero dovuto stendere il gigante biondo permettendo a lui di tornare nel suo angolo e all'arbitro di cominciare il conto alla rovescia. Invece non uno dei suoi pugni pareva avere sortito il benché minimo effetto. Santo Iddio. Questa cosa non è normale. Poi, quasi al rallentatore, vide il gancio destro del biondino arrivare attraverso l'aria. Il gigante era lento e segnalava il colpo in anticipo. Paolo Roberto si scansò e parò parzialmente con la spalla sinistra. Ebbe la sensazione di essere stato colpito da un tubo di ferro. Fece due passi indietro, pieno di rispetto per il suo avversario. C'è qualcosa che non va. Nessuno può colpire così duro. Parò automaticamente un gancio sinistro con l'avambraccio e avvertì subito un intenso dolore. Non fece in tempo a parare il gancio destro che arrivò dal nulla e gli si abbatté sulla fronte. Paolo Roberto volò come un guanto all'indietro attraverso la porta. Atterrò con un gran baccano contro una pila di sgabelli di legno e scosse la testa. Sentì subito il sangue che gli colava sul viso. Mi ha spaccato il sopracciglio. Bisognerà ricucirlo. Di nuovo. Il gigante rientrò nel suo campo visivo e Paolo Roberto istintivamente rotolò di lato. Per un pelo riuscì a evitare i suoi enormi pugni. Arretrò rapidamente di tre quattro passi e alzò le braccia in posizione di difesa. Era scosso. Il gigante biondo lo guardò con espressione incuriosita e quasi divertita. Poi assunse la stessa posizione di difesa. Questo è un pugile. Cominciarono lentamente a girare in cerchio. I centottanta secondi che seguirono furono il match più bizzarro che Paolo Roberto avesse mai disputato. Mancavano corde e guantoni. Secondi e arbitro non esistevano. Non c'era nessun gong a mandare le parti ognuna nel proprio angolo del ring per qualche secondo di pausa con acqua e sali e un asciugamano con cui togliere il sangue dagli occhi. Paolo Roberto si rese conto d'improvviso che stava lottando per la vita. Tutti quegli anni di allenamento, di pugni contro il sacco di sabbia, di sparring e l'esperienza accumulata nei match si radunarono nell'energia che riuscì a sviluppare quando l'adrenalina cominciò a pompare con un'intensità che non aveva mai sperimentato prima. Adesso non misurava più i colpi. Volavano in un'alternanza nella quale Paolo Roberto metteva tutta la sua forza. Sinistro, destro, sinistro, sinistro di nuovo e un martellare con il destro contro la faccia, schivare il gancio sinistro, arretrare di un passo, attaccare con il destro. Ogni colpo che sferrava andava a segno. Stava combattendo l'incontro più importante della sua vita. Lottava con il cervello e con i pugni, e riusciva a schivare o parare ogni colpo che il gigante gli indirizzava contro. Mise a segno un gancio destro perfetto contro una mascella che gli diede l'impressione di essersi rotto un osso della mano. Avrebbe dovuto far afflosciare a terra l'avversario in un mucchio. Diede un'occhiata alle sue nocche e vide che erano insanguinate. Notò arrossamenti e gonfiori sul viso del gigante biondo, che però non sembrava nemmeno accorgersi dei suoi pugni. Paolo Roberto arretrò e fece una pausa di valutazione. Non è un pugile. Si muove come un pugile, ma non è capace di tirare di boxe. Finge soltanto. Non sa parare. Segnala i colpi. Ed è lento come una lumaca. Un attimo dopo il gigante mandò a segno un gancio sinistro contro il suo torace. Era la seconda volta che colpiva davvero. Paolo Roberto sentì il dolore invadergli il corpo quando le costole scricchiolarono. Cercò di arretrare ma inciampò e cadde sulla schiena. Per un secondo vide il gigante torreggiare sopra di lui ma riuscì a rotolare di lato e si rimise in piedi barcollando. Indietreggiò e cercò di radunare le forze. Il gigante gli era nuovamente addosso e lui si trovava sulla difensiva. Schivò, schivò di nuovo e si scansò. Avvertiva una fitta ogni volta che parava un colpo con la spalla. Poi arrivò l'attimo che ogni pugile almeno una volta ha sperimentato con terrore. La sensazione che può comparire dal nulla nel bel mezzo di un incontro. La sensazione di non farcela. Dannazione, sto per perdere. È l'attimo decisivo di quasi tutti gli incontri di boxe. È l'attimo in cui le forze improvvisamente ti abbandonano e l'adrenalina pompa così intensamente da diventare paralizzante, e una capitolazione rassegnata fa capolino come uno spettro sul ring.
È l'attimo che distingue dilettanti da professionisti e vincitori da perdenti. Pochi pugili sull'orlo di quel baratro hanno la forza di capovolgere il match e trasformare una sconfitta annunciata in una vittoria.
Paolo Roberto fu colpito da quella sensazione. Sentiva un ronzio in testa che lo stordiva e per un momento gli parve di osservare la scena da fuori, come se stesse guardando il gigante biondo attraverso l'obiettivo di una macchina fotografica. Si trattava di vincere o sparire. Arretrò descrivendo un ampio semicerchio per recuperare le forze e guadagnare tempo. Il gigante lo seguiva determinato ma lento, come se sapesse che il match era già deciso ma volesse prolungare il round. Sa chi sono. È un dilettante. Ma ha una forza quasi inconcepibile e sembra del tutto indifferente a qualsiasi colpo. I pensieri vorticavano tumultuosi nella sua testa mentre cercava di valutare la situazione e decidere cosa fare. Stava rivivendo quella notte di due anni prima a Mariehamn. La sua carriera di pugile professionista era finita nella maniera più brutale quando aveva incontrato l'argentino Sebastián Luján o, per essere più esatti, quando aveva incontrato il diretto di Sebastián Luján. Aveva sperimentato il primo knockout della sua vita ed era rimasto privo di sensi per quindici secondi.
Aveva spesso pensato a cosa mai fosse andato storto. Era in ottima forma. Era concentrato. Sebastián Luján non era meglio di lui. Ma l'argentino aveva mandato a segno un colpo perfetto e tutto d'un tratto il round si era trasformato in una tempesta oceanica. Più tardi aveva rivisto in video se stesso barcollare indifeso sul ring come una specie di Paperino. Il knockout era arrivato ventitré secondi dopo. Sebastián Luján non era più bravo o più in forma di lui. I margini erano così ristretti che il match avrebbe potuto concludersi anche nella maniera opposta. L'unica differenza che in seguito era riuscito a individuare era che Luján era più affamato di lui. Quando Paolo Roberto era salito sul ring a Mariehamn era pronto a vincere ma non aveva una vera voglia di battersi. Non era più questione di vita o di morte. Una sconfitta non sarebbe stata una catastrofe. Due anni più tardi era ancora un boxeur. Non era più un professionista e disputava solo incontri amichevoli. Ma continuava ad allenarsi, e non aveva messo su né peso né pancia. Naturalmente non era più uno strumento così bene accordato come lo era stato in vista dei match per il titolo mondiale, ma era Paolo Roberto e ancora non perdeva colpi. E a differenza di quello di Mariehamn, il match nel deposito a sud di Nykvarn significava letteralmente o vita o morte.
Paolo Roberto prese una decisione. Si fermò di botto e lasciò avvicinare il gigante. Fece una finta col sinistro e puntò tutto su un gancio destro. Ci mise tutta la forza di cui disponeva e fece partire un tiro fulmineo che colpì l'avversario sulla bocca e sul naso. Il suo attacco arrivò del tutto inatteso. Finalmente sentì che qualcosa stava cedendo. Continuò con un sinistro-destro-sinistro, sempre puntando al viso. Il gigante biondo rispose al rallentatore con un destro. Paolo Roberto lo vide segnalare il tiro con molto anticipo e schivò il pugno enorme. Vide l'altro spostare il peso e capì che aveva intenzione di dare seguito con il sinistro. Invece di parare, si piegò all'indietro e lasciò che il gancio gli passasse davanti al naso. Rispose con un colpo potente subito sotto le costole. Quando il gigante si girò per fronteggiare l'attacco, lui lasciò partire verso l'alto un gancio sinistro e lo colpì di nuovo sul naso. Finalmente sentiva che quello che stava facendo era giusto e che aveva lui il controllo del match. Il nemico arretrava. Sanguinava dal naso. E non sorrideva più. Poi il gigante biondo tirò un calcio. Il suo piede scattò cogliendo totalmente di sorpresa Paolo Roberto. Era abituato alle regole della boxe e non si aspettava un calcio. Gli sembrò di essere stato colpito nella parte bassa della coscia destra, subito sopra il ginocchio. Un dolore acuto gli si diffuse per tutta la gamba. No. Fece un passo indietro, e di nuovo inciampò. Il gigante abbassò lo sguardo su di lui. Per un breve attimo i loro sguardi si incrociarono. Il messaggio non poteva essere frainteso. Il match era finito. Gli occhi del gigante si dilatarono quando Miriam Wu lo colpì da dietro con un calcio in mezzo alle gambe. Ogni singolo muscolo nel corpo di Miriam urlava di dolore, ma in qualche modo era riuscita a far passare le mani ammanettate sotto il sedere così da portarle davanti. Nelle sue condizioni era stata una prestazione acrobatica. Le dolevano le costole, il collo, la schiena e i lombi e aveva difficoltà a mettersi in piedi. Alla fine aveva raggiunto barcollando la porta e aveva vi-sto Paolo Roberto - da dove diavolo era spuntato? - colpire il gigante biondo con un gancio destro e una serie di pugni al viso prima di essere abbattuto da un calcio. Miriam si rese conto che non le importava un fico secco di sapere come e perché Paolo Roberto fosse arrivato lì. Lui era un good guy. Per la prima volta in vita sua provava un desiderio assassino di fare del male a un'altra persona. Fece qualche rapido passo in avanti e mobilitò ogni grammo di energia e tutti i muscoli validi che aveva. Arrivò vicino al gigante da dietro e gli stampò il calcio in mezzo alle gambe. Non era una mossa elegante, ma ebbe l'effetto desiderato.
Mimmi annuì saggiamente fra sé. Gli uomini possono anche essere grandi e grossi come case e fatti di granito ma hanno sempre le palle allo stesso posto. E il calcio era stato così perfetto che avrebbe meritato una citazione nel Guinness dei primati. Per la prima volta il gigante biondo sembrò scosso. Emise un gemito e si afferrò il basso ventre scivolando in ginocchio. Miriam rimase lì indecisa per qualche secondo prima di rendersi conto del fatto che doveva dare un seguito a quell'azione e cercare di andare a una conclusione. Stava per tirargli un calcio in faccia, ma con sua sorpresa lui alzò un braccio. Avrebbe dovuto essergli impossibile riprendersi così in fretta. Ma l'impressione fu quella di colpire il tronco di un albero. Lui le prese il piede, la fece cadere e cominciò a tirare. Lei lo vide alzare un pugno e scalciò disperatamente con la gamba libera. Lo colpì sopra l'orecchio nell'attimo stesso in cui il pugno di lui si abbatteva sulla sua tempia. Miriam Wu ebbe l'impressione di avere picchiato a tutta forza la testa contro un muro. La vista le si oscurò mentre al tempo stesso vedeva dei lampi. Il gigante biondo cominciò a rimettersi in piedi. Fu allora che Paolo Roberto lo colpì sulla nuca con l'asse nella quale era inciampato. Il gigante biondo cadde in avanti atterrando con un tonfo.

Read more...

I nomi fanno il mondo - Gianluca Favetto

>> venerdì 22 aprile 2011

Audiolibro che raccoglie quaranta racconti brevissimi letti dello stesso autore. La confezione del cd è dotata di una serie di pagine che riportano  anche il testo scritto. Il racconto breve è una vera arte che ho scoperto seguendo un seminario tenuto da Andrea Valente. Ogni parola è selezionata in maniera accurata: si gioca su assonanze, doppi sensi, onomatopee, piccole modifiche ortografiche che creano nuovi termini e nuovi concetti.
I racconti di Favetto, a differenza di quelli di Valente, sono per adulti. Molti sono costruiti sui nomi opportunamente scelti dei protagonisti. Edificanti, grotteschi, crudeli, surreali, non sempre colpiscono nel segno e a volte sembrano un esercizio di stile fine a se stesso. In diversi casi alla fine dell'ascolto un "mah!" si è stampato sulle mie labbra. Ne trascrivo di seguito due che mi sono sembrati particolarmente riusciti.

LA FABBRICA
Gunter Volk lavorava in una fabbrica di birra. All'ufficio del personale. Non sapeva un granché di birra. La beveva. A litri. Un giorno si accorse che per produrre un litro di birra si consumano dieci, quindici litri d'acqua - si buttano via. A Gunter Volk non piaceva buttare via le cose. Non buttava via nulla. Conservava i giocattoli, i quaderni della scuola, le magliette. Anche i ricordi non buttava via.
Ricordava la prima volta che aveva ricevuto un bacio, la prima volta di uno schiaffo, la prima sbronza ... se è per questo, ricordava anche le seconde, le terze, le quarte volte ...Un giorno s'industriò. Scoprì che l'acqua buttata via è mista a polpa d'orzo fermentato, ricca di proteine, con la quale si fanno crescere i funghi; cresciuti i funghi, rimane un ottimo terriccio per allevare i lombrichi; i lombrichi concimano i campi e piacciono ai polli; gli escrementi dei polli possono produrre metano e il metano alimenta le caldaie della birreria.
Il primo effetto di queste scoperte fu il suo licenziamento. Allora Gunter s'industriò di nuovo e partì per una terra dove l'acqua è preziosa. Oggi in Namibia esiste una strana fabbrica di birra che vende al Giappone funghi neri, agli agricoltori lombrichi, ai mercati locali polli. La fabbrica funziona a pannelli solari. E a sogni, che diventano bisogni, trisogni, quater, cinque, sei, dieci, quindici litri di sogni.

LA MANO
Ibn-al-Sadal si tagliò all'altezza del polso con un coltello infuocato. Un taglio netto. Il sangue subito nero, aggrumato. La carne e le ossa bruciate. Impugnò, non senza coraggio, il suo arto sinistro e lo lanciò dall'altra parte del muro. Non crediate abbia voluto farsi uno sconto: Ibn-al-Sadal, come suo padre, come il padre
di suo padre, era mancino. La sensibilità della sua mano sinistra era famosa e celebrata in tutto il territorio che dalla valle della Bekaa si estende vasto fino al deserto di Kavir - conosciuta come da noi la mano preziosa di Eric Clapton, come da noi la mano velluto di Ilie Nastase o la mano implacabile di Michael Jordan.
Aveva sacrificato la mano del cuore. Il muro era altissimo. Il primo tentativo fallì. Riprese quel pezzo ormai perduto di sé, si allontanò di qualche passo e provò un nuovo lancio: una parabola perfetta aiutata dal vento.
La donna che attendeva dall'altra parte la raccolse e la strinse al petto. Finalmente Ibn-al-Sadal potè toccare con mano il suo amore, la pelle morbida ambrata di Sherina Ajanìa, figlia di Baruk Haradei, signore di Ecbatabal, suo nemico mortale.

Read more...

Destinazione Inferno - Lee Child

>> mercoledì 20 aprile 2011

Secondo romanzo di Lee Child che fa seguito a Zona Pericolosa. Il protagonista è il medesimo ma a differenza del primo episodio che è narrato in soggettiva, qui il racconto è in terza persona. La storia perde in immediatezza ma non è questo il vero problema del libro. Il racconto è di credibilità pari a zero. Già nel precedente il protagonista era più che iperbolico, ora supera ogni confine di decenza. La stessa trama, che ruota attorno ad una piccola comunità del montana che dichiara la propria indipendenza dal mondo, è demenziale. Child comunque scrive bene. Due sono le parti che più mi sono piaciute del libro: la gara di tiro a segno per l'uso sapiente dei dettagli tecnici nel descrivere le difficoltà di colpire il bersaglio; il percorso nei cuniculi sottoterra in cui sembra di soffocare assieme al protagonista e si vive il senso di angoscia di chi non riesce a trovare una via d'uscita.


«Un colpo a segno», annunciò. Abbassò il fucile e guardò Reacher. «Ora tocca a te », disse. «E una questione di vita o di morte. » Jack annuì. Fowler gli porse il caricatore e lui, col pollice, controllò l'efficienza della molla. Premette il primo proiettile del caricatore verso il basso e notò la morbida risposta della molla che si rilasciava. I proiettili brillavano: erano stati lucidati a mano, ed erano da tiratore scelto. Reacher si chinò e sollevò il pesante fucile; tenendolo verticale, inserì il caricatore. Non lo premette con forza come aveva fatto Borken, ma lo spinse gentilmente in sede col palmo della mano. Aprì il treppiede, una gamba alla volta, bloccandolo con gli appositi fermi. Sollevò lo sguardo verso il poligono e posò il fucile sulla stuoia. Si accovacciò accanto a esso e quindi si stese, il tutto con un movimento fluido. Pareva morto, le braccia sul fucile. Avrebbe voluto restare in quella posizione a lungo: era stanco, stanco morto. Eppure si mosse: appoggiò delicatamente la guancia al calcio e avvicinò a questo la spalla destra. Con la sinistra afferrò la canna, le dita sotto il mirino, quindi portò la mano destra al grilletto. Accostò l'occhio destro al cannocchiale ed espirò. Per sparare con un fucile da tiratore scelto a una distanza elevata, è necessario possedere varie conoscenze: di chimica, d'ingegneria mecçanica, di ottica, di geofisica e di meteorologia. E, soprattutto, di biologia umana. L'esplosione è una questione chimica. La polvere contenuta nel bossolo dietro il proiettile deve esplodere in modo corretto, prevedibile, efficace, immediato. Deve proiettare la pallottola nella canna alla massima velocità possibile. Il proiettile da mezzo pollice nella camera del Barrett pesa poco più di cinquanta grammi. Un minuto prima è fermo, un minuto dopo viaggia a una velocità di quasi tremila chilometri orari. Quindi la polvere deve esplodere presto, completamente ed efficacemente. Si tratta di un processo chimico complesso e l'esplosione deve per forza essere la migliore del mondo. L'ingegneria meccanica ha un ruolo lievemente meno importante. Il proiettile deve essere perfetto, costruito con cura come ogni altro manufatto, fuso meglio di qualsiasi gioiello, del tutto uniforme per quanto concerne dimensioni e peso, nonché dotato di un diametro assolutamente circolare e aerodinamico. Deve inoltre poter sopportare la tremenda rotazione imposta dalle rigature all'interno della canna, e ruotare nell'aria, sibilando, senza oscillazioni, senza deviazioni. La canna deve essere dritta e a tenuta perfetta. Se uno sparo precedente l'ha surriscaldata e alterata, sorgono problemi. La canna deve essere una struttura metallica a regola d'arte, abbastanza pesante da rimanere inerte e da assorbire lievi vibrazioni dell'otturatore, del grilletto e del percussore.
Ecco perché il Barrett costava quanto una berlina economica, e perché Reacher teneva la mano sulla parte superiore dell'arma: per attutire eventuali vibrazioni residue. L'ottica ha invece una funzione di primo piano. L'occhio di Jack si trovava a quasi tre centimetri da un cannocchiale di puntamento Leupold & Stevens, uno strumento decisasamente sofisticato. Il bersaglio appariva piccolo dietro le sottili tacche di riferimento incise sul vetro. Reacher lo fissò, concentrato, poi abbassò il calcio e lo vide svanire, mentre al suo posto appariva il cielo. Espirò di nuovo e osservò l'aria.
La geofisica è determinante. La luce segue una traiettoria rettilinea, ma è l'unico elemento a farlo. I proiettili sono diversi: sono corpi fisici e, come tali, obbediscono alle leggi della natura, che seguono la curvatura della terra. Ottocento metri rappresentano un bel tratto di tale curvatura. Il proiettile fuoriesce dalla canna e dapprima supera la linea visiva poi l'attraversa e infine si abbassa sotto di essa, seguendo una curvatura perfetta, come quella terrestre. A dire la verità non è proprio perfetta, perché dal primo millisecondo del suo tragitto la gravità lo attira verso il suolo come una piccola mano insistente. E il proiettile non può ignorarla: pesa cinquantacinque grammi, è costituito da piombo rivestito di rame e viaggia a una velocità di quasi tremila chilometri orari, ma la gravità ha la meglio. Non subito, ma quando interviene il suo migliore alleato, l'attrito. Dal primo millisecondo del suo tragitto l'attrito dell'aria rallenta il proiettile e fa sì che la gravità abbia buon gioco. Attrito e gravità cooperano, in sostanza, per deviare il proiettile verso il basso. Perciò bisogna mirare molto in alto, anche tre metri sopra il bersaglio, perché ottocento metri dopo la curvatura della terra e la forza di gravità dirigano il proiettile là dove deve andare. A dire la verità non bisogna mirare proprio sopra il bersaglio perché, in tal caso, s'ignorerebbe la meteorologia. I proiettili si muovono nell' aria, e l'aria si sposta. E difficile trovare una giornata senza vento: l'aria si muove sempre, in un modo o nell' altro, a destra o a sinistra, verso 1'alto o verso il basso, o secondo un'infinità di altre combinazioni. Reacher osservò le foglie degli alberi e notò una leggera brezza che soffiava da nord: aria secca, che si muoveva lentamente da destra verso sinistra, attraverso la sua linea visiva. Pertanto prese la mira circa due metri e quaranta verso destra, e tre metri al di sopra del suo bersaglio. Avrebbe sparato il colpo lasciando che la natura lo deviasse verso sinistra e verso il basso. La biologia umana resta, tuttavia, il fattore più importante di tutti. I tiratori scelti sono esseri umani, e gli esseri umani sono masse tremanti, pulsanti, fatte di carne e muscoli. Il cuore batte come una pompa gigante e i polmoni immettono ed espellono grandi volumi d'aria; ogni nervo ogni muscolo vibrano di energia impercettibile. Nessun essere umano è mai veramente immobile: anche la persona più calma trema palesemente. Supponiamo che tra il percussore e l'estremità della canna vi sia poco meno di un metro: se quest'ultima si muove di un millimetro, a ottocento metri di distanza il proiettile mancherà il bersaglio di ottocento millimetri. L'effetto del movimento, cioè, si moltiplica. Se la vibrazione di chi spara sposta solo lievemente la canna, la pallottola non colpirà il bersaglio, finendo anche a venti centimetri di distanza, una distanza equivalente alla larghezza di una testa umana. La tecnica di Reacher era attendere, osservare il campo visivo finché la respirazione non fosse stata regolare e il battito del cuore non fosse diminuito. Poi avrebbe posizionato il dito sul grilletto, lentamente, e aspettato ' ancora un po', contando i battiti. Uno, due, tre, quattro. Avrebbe aspettato finché la frequenza non si fosse ridotta, e avrebbe sparato tra un battito e l'altro, in un momento in cui la vibrazione del corpo sarebbe stata minima. Attese, compiendo espirazioni lunghe e lente. Il suo cuore batté una, due volte. Sparò. Il calcio rimbalzò contro la spalla e la sua vista venne offuscata dalla nube di polvere sollevata dalla stuoia sottostante. Il rumore sordo dello sparo echeggiò contro le montagne e tornò alle sue orecchie insieme col mormorio della folla. Aveva mancato il bersaglio. La sagoma con la scritta FBI, che raffigurava un agente chino; in atteggiamento di corsa, era integra. Jack lasciò che la polvere si depositasse e controllò gli alberi. Il vento era costante. Espirò e lasciò che il battito cardiaco rallentasse. Tirò ancora. Il grande fucile rinculò e sparò. Si sollevò un' altra nube di polvere e la folla stette a guardare, mormorando: un altro colpo andato a vuoto. Due colpi andati a vuoto. Reacher respirava costantemente. Poi, tirò di nuovo. Un altro insuccesso. Sparò per la quarta volta. Ancora niente. Fece una pausa, riprese il ritmo e tirò il quinto colpo, che andò a vuoto. La folla era inquieta.
Borken gli si awicinò pesantemente. «Ti giochi tutto con l'ultimo tiro », commentò con un sogghigno.
Jack non rispose. Non poteva assolutamente permettersi di parlare: avrebbe alterato il ritmo respiratorio e contratto la muscolatura di gola e polmoni, il che gli sarebbe stato fatale. Attese. Il suo cuore batté una, due volte. Sparò il sesto colpo. A vuoto. Si scostò dal mirino e guardò la sagoma: era intatta.
[...]
Perse il senso dell'orientamento. Sperava di dirigersi approssimativamente verso ovest, ma non poteva dirlo con sicurezza. La volta si abbassò fino a sessanta centimetri. Stava strisciando attraverso una vecchia fenditura nella roccia, scavata tempo addietro per il suo minerale. Il cunicolo diventò sempre più basso, fino a misurare quarantacinque centimetri. Faceva freddo. Il cunicolo si restringeva ancora. Jack teneva le braccia protese in avanti; il passaggio si era fatto tanto stretto che non poteva più tirarle indietro. Stava strisciando lungo uno stretto tubo di roccia; sopra la testa aveva un miliardo di tonnellate di pietra e non sapeva dove stesse andando; la torcia si stava spegnendo: le pile erano quasi scariche, e la sua luce si affievoliva, assumendo un color arancione sempre più cupo.
Respirava affannosamente e tremava, non per lo sforzo ma per la paura, per il terrore. Non era questo ciò che si aspettava: si era immaginato un percorso in un'ampia galleria abbandonata, non una stretta fenditura nella roccia. Si stava gettando a capofitto nel suo peggiore incubo infantile. Era un uomo sopravvissuto a molti pericoli, che raramente provava paura, ma fin da adolescente sapeva di avere il terrore di rimanere intrappolato al buio in uno spazio troppo piccolo per la sua grossa corporatura. In tutti i suoi incubi infantili, da cui si svegliava madido di sudore, si ritrovava chiuso in spazi angusti. Adesso giaceva prono, gli occhi ben chiusi; ansi-mava, respirava a fatica, cacciando l'aria dentro e fuori della gola stretta. Stava avanzando, centimetro dopo centimetro, nel suo incubo.
La torcia alla fine si spense, a un centinaio di metri dall'imbocco del tunnel. L'oscurità era totale, e il cunicolo si stava restringendo. Gli schiacciava le spalle verso il basso. Jack si stava spingendo in uno spazio troppo piccolo per lui ed era costretto a tenere la testa voltata di lato; lottò per mantenere la calma. Si ricordò di ciò che aveva detto a Borken: la gente prima era più piccola. Piccoli individui snodati, che migravano a ovest cercando fortuna nel ventre delle montagne, uomini grandi la metà di Reacher che, stesi sulla schiena, si spingevano avanti nei cunicoli, estraendo i luccicanti minerali dalla roccia.
Jack usava la torcia scarica come un cieco usa il suo bastone bianco. Improvvisamente questa si ruppe contro un corpo solido, sessanta centimetri davanti a lui. Tra un rantolo e l'altro, Reacher udì il vetro frantumarsi. Fece uno sforzo per avanzare e tastò con le mani. C'era una parete solida: il tunnel finiva. Cercò di tornare indietro, ma non riusciva a spostarsi di un millimetro; per spingersi indietro con le mani doveva sollevare il torace e far leva, ma la volta del cunicolo era troppo bassa per poterlo fare. Aveva le spalle pigiate contro di esso: non riusciva a far leva. E i piedi potevano spingerlo in avanti, ma non indietro. S'irrigidì, in preda al panico, e sentì la gola chiudersi. Col capo toccava la volta del tunnel e con la guancia il pavimento ghiaioso. Represse un urlo, aumentando la respirazione.
Doveva tornare indietro. Puntò le dita dei piedi, girò le mani verso il basso e conficcò i pollici nella ghiaia; poi tirò con le dita dei piedi e spinse con i pollici. Riuscì a spostarsi di pochi centimetri, ma poco dopo la roccia lo strinse forte ai fianchi. Per consentirgli di arretrare, i muscoli delle spalle erano compressi contro la roccia. Jack rilassò le braccia; dopodiché si tirò con le dita dei piedi, che però scivolarono inutilmente nella ghiaia. Si aiutò allora con i pollici, e le spalle vennero ancora una volta premute contro la parete. A scatti Reacher spostò le anche, sfruttando i pochi centimetri che aveva a disposizione. Affondò con forza le mani nella ghiaia e fece leva all'indietro. Il suo corpo era bloccato, come un cuneo in una porta. S'inclinò da una parte e urtò con la guancia sulla volta del tunnel, fece uno scatto per girarsi di schiena e batté l'altra guancia per terra. La roccia gli stava comprimendo le costole. Questa volta non poteva reprimere l'urlo, doveva lasciarlo uscire: aprì la bocca ed emise un gemito di terrore. L'aria nei polmoni gli schiacciò il torace per terra e la schiena contro la volta.
Non sapeva se i suoi occhi fossero aperti o chiusi. Si spinse in avanti con i piedi, tornando dov'era; allungò le braccia e tastò davanti a sé. Le sue spalle erano talmente compresse contro la parete che non riusciva a compiere ampi movimenti con le mani. Stese le dita e tastò a destra, a sinistra, sopra e sotto. Davanti c'era solo roccia: non aveva modo di proseguire e neppure di retrocedere.
Sarebbe morto intrappolato nella montagna. Lo sapeva, e lo sapevano anche i ratti che stavano annusando l'aria dietro di lui e si stavano avvicinando. Li sentiva, vicino ai piedi. Calciò all'indietro e li cacciò via. Ma essi tornarono: ne sentiva il peso sulle gambe, stavano buttandosi su di lui. S'infilavano tra le sue spalle e la roccia, scivolavano sotto le sue ascelle. Reacher sentì il pelo freddo e untuoso sulla faccia e i colpi delle loro code mentre si gettavano in avanti e tentavano di oltrepassarlo.

Read more...

L'Amore del Bandito - Massimo Carlotto

>> lunedì 18 aprile 2011

E' il primo romanzo che leggo di Carlotto e probabilmente resterà l'unico. E' deludente la trama e la caratterizzazione dei personaggi. Non so se l'autore abbia dato per scontato che il pubblico conoscesse l'"alligatore" e i suoi amici dai lavori precedenti ma io non ho capito chi sono, cosa li motiva e perchè sono rilevanti per il lettore. La cosa più interessante mi sembra la disincantata analisi della decadenza del Nordest che riporto di seguito ma che non si capisce cosa centri con la storia.

Poco dopo apparve una ronda di baldi cittadini a caccia di malviventi. Erano scortati da un paio di guardie giurate, per difendersi dai ragazzi dei centri sociali che, li prendevano a calci nel sedere ogni volta che li incontravano. Mi videro da lontano e puntarono su di me. Quando si avvicinarono notarono il colore della mia pelle e i miei vestiti eleganti e tirarono dritto. Quello che doveva essere il capo mi salutò sottovoce e mi rivolse un'occhiata, speranzoso di ricevere un cenno di riconoscimento o di gratitudine. Finsi di armeggiare col telefonino. Ci mancavano solo loro. Padova era attraversata in lungo e in largo da pattuglie e "pattuglioni", come li chiamavano i giornali, e le divise si sprecavano. Con la scusa di liberare i quartieri da spacciatori e puttane, in realta le ronde erano utili soltanto a fini elettorali e perchè preparavano il terreno per quella caccia al clandestino che si sarebbe aperta ufficialmente con l' approvazione del pacchetto sicurezza. I più grandi sostenitori di questa legge erano ovviamente i mafiosi di ogni nazionalità. Finalmente avrebbero fatto pulizia della concorrenza indipendente della microcriminalità, così fastidiosa da finire troppo spesso sui giornali disturbando gli affari. Nel frattempo i bravi cittadini del Nordest continuavano ad affidare i parenti anziani a badanti clandestine e a farsi pulire le case da colf senza documenti. Laboratori, fabbriche, cantieri edili, stradali e navali erano pieni di extracomunitari che avevano attraversato il confine chiusi nei container o erano arrivati via mare rischiando la pelle. Manodopera sottopagata e ricattata che si poteva cacciare quando si voleva senza nemmeno agitare lo spettro della crisi. E gli stessi bravi cittadini continuavano a fottersi troie nigeriane e viados brasiliani, giovani donne e ragazzini minorenni di ogni paese dell'Est europeo.
Bastava fare due conti per capire che più di qualcuno razzolava male, da un lato chiedendo a gran voce ordine e pulizia, dall'altro approfittando spudoratamente della situazione. Nel Nordest, d'altronde,  spadroneggiavano i furboni. Più di prima. Molto pili di prima. Padroni di fabbrichette e commercianti con macchine, ville, investimenti milionari all'estero che non avevano mai pagato un euro di imposte in vita loro. Riciclatori di rifiuti che esportavano in Cina migliaia di tonnellate di plastica tossica, poi riutilizzata nella fabbricazione di giocattoli per i bambini di tutto il mondo. Altri mecenati dello stesso settore obbligavano donne extracomunitarie a dividere la spazzatura usando solo le mani. Per non parlare dei call center nei quali decine di donne italiane lavoravano in nero, non percepivano lo stipendio per mesi e mesi e stavano zitte perchè, con figli e mariti disoccupati da mantenere, un posto di lavoro anche se di merda è pur sempre un posto di lavoro. O degli imprenditori che gestivano siti internet dove venivano pubblicizzate giovani escort, e che si premuravano di acquistare le case dove le donne intrattenevano i clienti, perchè il mattone è il miglior investimento possibile anche in tempi di crisi.O dei politici e amministratori che continuavano a incassare tangenti come un tempo, solo che ora le camuffavano con parcelle e consulenze e quando venivano beccati si affrettavano a dichiarare che era stata "la prima volta" ...
La verità è che l'illegalità che ormai caratterizzava ogni settore dell'operoso Nordest era diventata il terreno ideale per l'insediamento delle organizzazioni mafiose. Avevano addentato il boccone e lo avrebbero masticato per bene. E il riciclaggio era diventato il punto d'incontro tra furboni e mafiosi. Solo i politici, e con loro la stampa e le televisioni locali, fingevano di ignorare che quella era la parte d'Italia con la maggior concentrazione di organizzazioni criminali. E non fingevano solo per motivi di opportunità politica, perche se c'è una cosa che le mafie hanno capito da un pezzo è che gli affari veri si fanno se hai buoni rapporti con tutti. I bravi cittadini elettori si accontentavano della testa dei clandestini perchè il resto, il peggio, tutto sommato andava bene. I soldi delle mafie facevano girare gli affari creando una positiva sinergia con le attività economiche legali. Ma più delle passeggiate notturne di quei signori con la pettorina fosforescente erano efficaci i presidi dei vigili urbani di fronte agli ambulatori che curavano "anche" i clandestini. Accadeva in diversi paesi della provincia e la paura aveva iniziato a serpeggiare tra le fila dell' esercito dei disperati.

Read more...

Lettura di Sciascia in biblioteca

5 Marzo ore 20,30, Biblioteca Castiglione delle Stiviere

  © Blogger templates Shiny by Ourblogtemplates.com 2008

Back to TOP